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Anno I - N° 1 - Gennaio 2001

L'articolo del maestro




L’uso di un oggetto *

Donald W. Winnicott



In questo articolo mi propongo di offrire alla discussione l’idea dell’uso di un oggetto. Mi sembra che l’argomento connesso, del mettersi in relazione con oggetti, abbia riscosso tutta la nostra attenzione. Invece l’idea dell’uso di un oggetto non è stata presa altrettanto in esame e forse non è stata nemmeno specificatamente studiata.
Questo lavoro nasce dalla mia esperienza clinica e rientra nella mia particolare linea di sviluppo. Naturalmente non posso affermare che il modo in cui le mie idee si sono sviluppate sia stato seguito da altri, ma vorrei sottolineare che si è trattato di una sequenza e che l’ordine che può esserci stato nella sequenza fa parte dell’evoluzione del mio lavoro.
Il mio lavoro sugli oggetti e sui fenomeni transizionali, che seguì in modo naturale a “L’osservazione di bambini in una situazione prestabilita” è ben noto. Ovviamente l’idea dell’uso di un oggetto è imparentata con la capacità di giocare. Di recente mi sono concentrato sull’argomento del gioco creativo (Winnicott, 1968a), che è contiguo al mio tema di oggi. E poi c’è un naturale sviluppo dal mio punto di vista lungo il filo dei concetti dell’holding ambientale in quanto modo di facilitare la scoperta del sé da parte dell’individuo. L’intero tema dello sviluppo di disturbi del carattere, associati all’instaurarsi di vari tipi di falso sé si sprigiona dal fallimento nell’area dell’ambiente facilitante, poiché i disturbi ora detti rappresentano altrettanti fallimenti dell’instaurarsi del sé e della sua scoperta. Tutto ciò, secondo me, dà un senso alla particolare centralità che il mio lavoro ha riservato a quelli che ho chiamati fenomeni transizionali e allo studio dei minuti particolari che si offrono al clinico e che illustrano la graduale costruzione della capacità di giocare e di trovare e poi usare il mondo “esterno” con l’indipendenza e l’autonomia che gli è propria.
Quello che ho da dire in questo articolo è estremamente semplice. Sebbene sgorghi dalla mia esperienza psicoanalitica non direi che avrebbe potuto sgorgare dalla mia esperienza analitica di due decadi fa, perché allora non avevo la tecnica necessaria a rendere possibili i moti di transfert che desidero descrivere. Per esempio è solo negli ultimi anni che sono diventato capace di aspettare abbastanza a lungo l’evoluzione naturale del transfert che è prodotto dalla crescente fiducia del paziente nella tecnica e nel setting psicoanalitici, e di non interrompere questo processo naturale con il fare interpretazioni. Si sarà notato che sto parlando del fare interpretazioni e non delle interpretazioni come tali. Mi spavento se penso a quanti cambiamenti profondi ho impedito o ritardato in pazienti di una certa categoria diagnostica a causa del mio personale bisogno d’interpretare. Se solo si riesce ad aspettare, il paziente arriva alla comprensione in modo creativo e con immensa gioia, e ora mi godo questa gioia più di quanto allora mi godessi l’impressione di essere stato intelligente. Secondo me, io interpreto principalmente affinché il paziente possa rendersi conto dei limiti del mio comprendere. Il concetto è che è il paziente e solo il paziente a conoscere le risposte. Noi possiamo tutt’al più metterlo in condizione di raggruppare ciò che si è capito, di rendersene conto e di accettarlo.
Al polo opposto c’è il lavoro interpretativo che l’analista deve fare e che distingue l’analisi dall’autoanalisi. Questi tipo d’interpretazione, per avere effetto, deve tener conto della capacità del paziente di collocare l’analista fuori dell’area dei fenomeni soggettivi.
In tal caso ciò che entra in gioco è la capacità del paziente di usare l’analista, che è appunto il tema di questo articolo. Nell’insegnare, così come nel nutrire un bambino, la capacità di usare gli oggetti è data per scontata, ma nel nostro lavoro è necessario prestare attenzione allo sviluppo e all’acquisizione della capacità di usare gli oggetti e, quando è il caso, riconoscere l’incapacità di farlo.
E’ nell’analisi del caso borderline che si ha la possibilità di osservare quei minuti fenomeni che fungono da indicatori nella comprensione degli stati schizofrenici veri e propri. Con il termine “caso borderline” io intendo il tipo di caso in cui il nucleo del disturbo è psicotico, però il paziente ha un’organizzazione psiconevrotica sufficiente a permettergli di mostrare una psiconevrosi o un disturbo psicosomatico, mentre l’angoscia psicotica centrale minaccia di irrompere in forma grossolana. In questi casi lo psicoanalista può colludere per anni con il bisogno del paziente di essere psiconevrotico (inteso come l’opposto di matto) e di essere trattato come psiconevrotico. L’analisi procede bene e tutti sono contenti. L’unico inconveniente è che l’analisi non finisce mai. Si può concluderla e il paziente può perfino assumere un falso sé psiconevrotico allo scopo di concludere ed esprimere gratitudine. Ma in realtà egli sa che non c’è stato nessun cambiamento nel livello (psicotico) sottostante e che analista e paziente hanno colluso nel produrre un fallimento. Persino questo può aver valore se entrambi, analista e paziente, lo riconoscono come fallimento. Il paziente ha più anni di prima e le occasioni di morte per incidente o per malattia sono aumentate, cosicché un suicidio vero e proprio può essere evitato. Per di più è stato divertente finché è durato. Se la psicoanalisi potesse essere un modo di vivere si potrebbe pensare che un trattamento del genere abbia dato quello che ci si poteva aspettare. Però la psicoanalisi non è affatto un modo di vivere. Noi tutti speriamo che i nostri pazienti concludano il loro rapporto con noi, ci dimentichino e trovino che la terapia che ha veramente un senso è la vita in sé. Anche se scriviamo lavori su questi casi borderline, dentro di noi ci sentiamo a disagio sapendo che la follia resta lì, misconosciuta e non affrontata. Ho cercato di sostenerlo più estesamente in un articolo sulla classificazione (Winnicott, 1959-64).
Forse è necessario temporeggiare ancora un po’ per far capire quale differenza io vedo tra il mettersi in relazione con un oggetto e l’uso dell’oggetto. Nel mettersi in relazione il soggetto permette che nel sé avvengano certi cambiamenti del tipo di quelli che ci hanno indotti ad inventare il termine catessi (carica, investimento). L’oggetto è diventato significativo. I meccanismi proiettivi e le identificazioni si sono messi in moto e il soggetto si è scaricato in misura tale per cui qualcosa del soggetto si può trovare nell’oggetto, ma arricchito dal sentimento. Questi cambiamenti sono accompagnati da un certo grado di coinvolgimento fisico (per quanto lieve) verso l’eccitamento, in direzione del crescendo funzionale di un orgasmo. (In questo contesto ometterò intenzionalmente un aspetto molto importante del mettersi in relazione, e cioè che si tratta di un esercizio di identificazioni crociate. L’ometterò perché rientra in una fase di sviluppo successiva e non precedente a quella di cui voglio occuparmi in questo articolo, e cioè il passaggio dal potersi contenere e mettersi in relazione con gli oggetti soggettivi, fino ad entrare nel regno dell’uso dell’oggetto). (Winnicott, 1968b).
Il mettersi in relazione con gli oggetti è un’esperienza del soggetto che può essere descritta intendendo il soggetto come isolato (Winnicott, 1958, 1963). Però quando parlo dell’uso di un oggetto, do per acquisito il mettersi in relazione e aggiungo caratteristiche nuove che includono la natura e il comportamento dell’oggetto. Per esempio l’oggetto, per poter essere usato, deve necessariamente essere reale, nel senso di far parte della realtà condivisa e non essere un fascio di proiezioni. Secondo me questo fa l’enorme differenza che esiste tra il mettersi in relazione e l’usare.
Se è così, ne consegue che (per gli analisti) discutere il tema del mettersi in relazione è molto più facile che discutere l’uso, perché il mettersi in relazione può essere preso in esame come fenomeno del soggetto, e la psicoanalisi preferisce sempre scartare tutti i fattori che fanno parte dell’ambiente, a meno che l’ambiente possa essere pensato in termini di meccanismi proiettivi. Invece se si prende in esame l’uso, non c’è scampo: l’analista deve tener conto della natura dell’oggetto, non come una proiezione ma come una cosa in sé.
Mi si conceda per il momento di metterla così: il mettersi in relazione può essere descritto nei termini del soggetto individuale e l’uso non può essere descritto se non in termini di accettazione dell’esistenza indipendente dell’oggetto, cioè della sua proprietà di essere presente in ogni momento. Vedrete che questi problemi sono proprio quelli che ci riguardano quando ci rivolgiamo verso l’area sulla quale ho cercato di attirare l’attenzione lavorando a ciò che ho chiamato fenomeni transizionali.
Però questo cambiamento non si verifica automaticamente, soltanto grazie a un processo maturativo. E’ proprio su questo punto che mi sto concentrando.
In termini clinici: due bambini vengono allattati al seno; uno si sta nutrendo del sé in forma di proiezioni, l’altro si sta nutrendo di (sta usando) latte dal seno di una donna. Le madri, come gli analisti, possono essere sufficientemente buone oppure no; alcune sono capaci, altre no di far passare il bambino dalla relazione all’uso.
A questo punto vorrei ricordare che, stando alla descrizione che ne ho fatta, la caratteristica principale del concetto di oggetti e fenomeni transizionali è il paradosso e l’accettazione del paradosso: il bambino crea l’oggetto ma l’oggetto stava già là, aspettando di essere creato e di diventare oggetto d’investimento. Ho cercato di attirare l’attenzione su questo aspetto dei fenomeni transizionali con l’affermare che, quanto alle regole del gioco, sappiamo tutti che non potremo mai pretendere che il bambino dia una risposta alla domanda: questo lo hai creato o lo hai trovato?
Ora sono pronto ad affermare la mia tesi. Sembra che io abbia paura di arrivarci, come se temessi che, una volta enunciatala, lo scopo della mia comunicazione finisca lì, per quanto è semplice.
Per usare un oggetto, il soggetto deve aver sviluppato una capacità di usare oggetti. Ciò fa parte del passaggio al principio di realtà.
Non si può dire che questa capacità sia innata, né che il suo sviluppo in un individuo si possa dare per scontato. Lo sviluppo della capacità di usare un oggetto è un altro esempio del processo maturativo come qualcosa che dipende da un ambiente facilitante.
Si può dire che in successione prima viene il mettersi in relazione e che alla fine compare l’uso dell’oggetto. In mezzo, però, c’è la cosa forse più difficile in tutto lo sviluppo umano, o meglio il più cocente di tutti gli insuccessi precoci che chiedono riparazione. Questa cosa che sta in mezzo, fra relazione e uso, è la capacità del soggetto di collocare l’oggetto fuori dell’area del controllo onnipotente, cioè di percepire l’oggetto come un fenomeno esterno e non come un’entità proiettiva, insomma di riconoscerlo come un’entità di diritto.
Questo passaggio (dalla relazione all’uso) significa che il soggetto distrugge l’oggetto. Un filosofo in cattedra potrebbe obiettare che quindi in pratica una cosa come l’uso di un oggetto non può esistere, se, quando l’oggetto è esterno, è distrutto dal soggetto. Però se il filosofo scendesse dalla cattedra e si sedesse a terra, accanto al paziente, troverebbe che c’è una posizione intermedia. In altre parole egli troverà che dopo “il soggetto si mette in relazione con l’oggetto” viene “il soggetto distrugge l’oggetto” (quando l’oggetto diventa esterno) e poi può seguire “l’oggetto sopravvive alla distruzione da parte del soggetto”. Però la sopravvivenza può esserci o non esserci. Insomma nella teoria del mettersi in relazione con l’oggetto subentra un nuovo aspetto. Il soggetto dice all’oggetto: “Ti ho distrutto” e l’oggetto sta lì a ricevere il messaggio. Da quel momento in poi il soggetto dice: “Ciao, oggetto!” “Ti ho distrutto.” “Ti amo.” “Per me sei importante perché sei sopravvissuto dopo che ti ho distrutto.” “Mentre ti amo ti distruggo nella fantasia (inconscia)”. Per l’individuo la fantasia nasce in questo punto. Ora il soggetto può usare l’oggetto che è sopravvissuto. E’ importante notare che non solo il soggetto distrugge l’oggetto perché l’oggetto è uscito dall’area del controllo onnipotente: è altrettanto importante affermare la stessa cosa all’inverso, cioè dire che è la distruzione dell’oggetto che lo colloca fuori dell’area del controllo onnipotente da parte del soggetto. In questo modo l’oggetto assume autonomia e vita proprie e (se sopravvive) dà il suo contributo al soggetto, secondo le proprie caratteristiche.
In altre parole, grazie alla sopravvivenza dell’oggetto il soggetto può ora cominciare a vivere una vita nel mondo degli oggetti e continuare ad avvantaggiarsene enormemente, ma c’è un prezzo da pagare sotto forma dell’accettazione della contemporanea distruzione (nella fantasia inconscia) connessa al mettersi in relazione con l’oggetto.
Lasciatemelo ripetere. Questa posizione può essere raggiunta solo dall’individuo nelle fasi precoci della crescita emozionale attraverso la sopravvivenza reale degli oggetti investiti che in quel momento sono sul punto di diventare distrutti perché reali, e di diventare reali perché distrutti (essendo distruttibili e usabili).
Da quel momento in poi, essendo stato raggiunto questo livello, i meccanismi proiettivi aiutano ad accorgersi di cosa c’è, ma non sono loro la ragione del perché c’è l’oggetto.
Secondo me questa è una deviazione rispetto alla teoria psicoanalitica ortodossa, che tende a pensare la realtà esterna solo nei termini dei meccanismi proiettivi dell’individuo.

Ho quasi finito di enunciare la mia tesi, ma non proprio fino in fondo. Infatti per me è impossibile accettare come ovvio il fatto che nella relazione del soggetto con l’oggetto (non soggettivo, ma oggettivamente percepito) il primo impulso sia distruttivo.
Il postulato centrale della mia tesi è che mentre il soggetto non distrugge l’oggetto soggettivo (che è materiale di proiezione), la distruzione interviene e diventa una caratteristica centrale nella misura in cui l’oggetto è oggettivamente percepito, autonomo e fa parte della realtà “condivisa”. Questa è la parte difficile della tesi, almeno per me.
Di solito s’intende che il principio di realtà comporta per l’individuo collera e distruttività reattiva, ma la mia tesi è che la distruttività gioca un ruolo nel creare la realtà, collocando l’oggetto fuori dal sé. Perché questo possa avvenire ci vogliono condizioni favorevoli.
E’ soltanto questione di esaminare il principio di realtà a forte ingrandimento. Per come la vedo io, noi siamo assuefatti al cambiamento per mezzo del quale i meccanismi proiettivi consentono al soggetto di prendere cognizione dell’oggetto, senza che i meccanismi proiettivi siano la ragione dell’esistenza dell’oggetto. Nel punto dello sviluppo che stiamo prendendo in esame il soggetto sta creando l’oggetto nel senso di trovare l’esternità vera e propria, e si deve aggiungere che questa esperienza dipende dal fatto che l’oggetto sia capace di sopravvivere. (E’ importante che ciò significa “non fare rappresaglie”. Se queste faccende si stanno svolgendo in un’analisi, l’analista, la tecnica analitica e il setting analitico tutti insieme intervengono come sopravvissuti o non sopravvissuti agli attacchi distruttivi del paziente. Questa attività distruttiva è il tentativo del paziente di collocare l’analista fuori dell’area del controllo onnipotente e cioè fuori nel mondo. Senza l’esperienza della massima distruttività (oggetto non protetto) il soggetto non estrometterà mai l’analista e quindi non potrà fare niente di più che sperimentare una specie di autoanalisi, usando l’analista come una parte del sé. In termini di nutrizione il paziente può nutrirsi solo del sé e non può usare il seno per prendere peso. Il paziente può persino godersi l’esperienza analitica, ma non farà cambiamenti sostanziali.
E se l’analista è un fenomeno soggettivo, cosa dire del rapporto spreco/disponibilità? E’ necessaria un’altra affermazione in termini di rendimento (output).

Nella pratica psicoanalitica i cambiamenti che accadono in quest’area possono essere profondi. Essi non dipendono dal lavoro interpretativo. Dipendono proprio dal sopravvivere dell’analista agli attacchi, e ciò comporta l’idea dell’assenza assoluta di passaggio alla rappresaglia. Per l’analista questi attacchi sono molto duri da sopportare, specialmente quando si esprimono in termini di delirio o attraverso manipolazioni che fanno compiere di fatto all’analista cose tecnicamente cattive. (Mi riferisco a cose come l’inaffidabilità in quei momenti in cui l’affidabilità è tutto ciò che conta, o come il sopravvivere in termini di restare vivi e immuni dal ricorso alla rappresaglia).
L’analista si sente d’interpretare, ma questo può guastare il processo e può dare al paziente l’impressione di una autodifesa, come se l’analista stesse parando l’attacco del paziente. E’ meglio aspettare che quella fase sia passata e poi discutere con il paziente cosa sta succedendo. Questo è sicuramente legittimo, perché come analista ciascuno ha i propri diritti. Però a quel punto l’interpretazione verbale non è la risorsa essenziale e porta con sé altri danni. La risorsa essenziale è la sopravvivenza dell’analista e la preservazione della tecnica psicoanalitica. Immaginate quanto possa essere traumatica la morte reale dell’analista quando è in corso questo genere di lavoro, sebbene nemmeno la sua morte reale sia così nociva come lo svilupparsi in lui di un passaggio alla rappresaglia. Il paziente non può sottrarsi a questi rischi. Di solito l’analista riesce a superare queste fasi di movimento nel transfert e dopo ogni fase arriva un tornaconto in termini di amore, reso più saliente dallo sfondo di distruzione inconscia.
A me sembra che l’idea di una fase di sviluppo che includa la sopravvivenza dell’oggetto riguarda in pieno la teoria delle origini dell’aggressività. Dire che un bambino di pochi giorni invidia il seno non è gradevole. Invece è legittimo dire che, qualunque sia l’età in cui il bambino comincia a concedere al seno una posizione esterna (fuori dell’area della proiezione), ciò equivale a dire che la distruzione del seno è diventata una proprietà. Intendo l’impulso a distruggere realmente. Una parte importante della condotta della madre è quella di essere la prima persona a prendere il bambino in questa prima versione delle tante che si succederanno, cioè quella di un attacco al quale si può sopravvivere. Considerando la relativa debolezza del bambino, questo è proprio il momento giusto del suo sviluppo, cosicché è molto facile sopravvivere a quella distruzione. Comunque è una situazione molto ingannevole: per una madre è molto facile reagire moralisticamente quando il suo bambino la morde o la colpisce. (Infatti lo sviluppo del bambino è enormemente complicato se accade che alla nascita sia già spuntato un dentino, perché in tal modo la madre non può sperimentare l’attacco al seno mediante le gengive).
Ma questo linguaggio che concerne il seno è un gergo incomprensibile. Al di là dell’aspetto, pure importante, della relazione con il seno l’intera area dello sviluppo e dell’accudimento è coinvolta, e con essa l’adattamento, a sua volta connesso alla dipendenza.
Si sarà notato che, sebbene io stia usando il termine “distruzione”, l’effettiva distruzione riguarda l’incapacità di sopravvivere dell’oggetto. Senza questa incapacità la distruzione resta potenziale. Il termine “distruzione” è reso necessario non dall’impulso a distruggere del bambino, ma dalla disposizione dell’oggetto a non sopravvivere.
Il punto di vista da me espresso in questo lavoro consente un nuovo approccio all’intera questione delle origini dell’aggressività. Per esempio non è necessario concedere all’aggressività congenita più di quanto le spetta se la consideriamo accompagnata da tante altre cose non congenite. Indubbiamente l’aggressività congenita può variare quantitativamente, così come tutto ciò che è ereditario varia da un individuo all’altro. Le variazioni dell’aggressività congenita sono lievi se paragonate all’eredità complessiva di tutto ciò che può portare all’aggressività. Viceversa sono forti le variazioni relative alla diversità delle esperienze di ciascun neonato, a seconda che sia osservato oppure no nel corso di questa fase molto difficile. Tali variazioni nel campo dell’esperienza sono enormi. Inoltre i bambini che sono stati visti attraversare bene questa fase tendono ad essere clinicamente più aggressivi di quelli che non sembrano averla attraversata bene. Per questi ultimi l’aggressività è qualcosa che non può essere assunta (diventare egosintonica) oppure può essere assunta solo come disposizione ad essere l’oggetto dell’attacco.
Ciò comporta una revisione della teoria delle origini dell’aggressione, dal momento che la maggior parte di ciò che è stato scritto dagli analisti è stato formulato senza tener conto di quanto sto discutendo in questo articolo. Nella teoria ortodossa si continua a sostenere che l’aggressività è reattiva all’incontro con il principio di realtà, mentre qui si sostiene che l’impulso distruttivo serva a creare la qualità dell’esternità.
Lasciatemi guardare per un attimo al posto esatto che questo attacco-sopravvivenza ha nella gerarchia delle relazioni. L’annichilimento è la più primitiva ed è completamente diverso. Esso significa “nessuna speranza”; l’investimento si estingue perché nessun risultato completa il riflesso fino a produrre condizionamento. L’attacco collerico relativo all’incontro con il principio di realtà è un concetto più sofisticato, che sposta avanti nel tempo la distruttività che ho appena postulato. Nella distruzione dell’oggetto a cui io mi sono riferito non c’è collera. Si può anzi dire che ci sia gioia di fronte alla sopravvivenza dell’oggetto. Da quel momento in poi, o meglio all’uscita da questa fase, l’oggetto è sempre distrutto in fantasia. Questa qualità dell’ “essere sempre distrutto” permette di sentire l’effettiva realtà dell’oggetto che sopravvive, rafforza il tono del sentire e contribuisce alla costanza dell’oggetto. Ora sì che l’oggetto può essere usato.
Desidero concludere con una nota sull’usare e l’uso. Per “uso” io non intendo “sfruttamento”. Come analisti sappiamo che cos’è l’essere usati, vuol dire poter vedere la fine del trattamento, fosse pure a distanza di vari anni. Molti dei nostri pazienti quando arrivano a noi hanno già risolto questo problema: possono usare gli oggetti, possono usare noi e usare l’analisi proprio come hanno usato i loro genitori, i loro fratelli o le loro case. Però ci sono molti altri pazienti che hanno bisogno della nostra capacità di dar loro la capacità di usarci. Per andare incontro al bisogno di questi pazienti avremo bisogno di sapere ciò che sto dicendo qui circa il nostro sopravvivere alla loro distruttività. La scena si svolge davanti a uno sfondo di distruzione inconscia dell’analista e noi sopravviviamo alla distruzione oppure saremo coinvolti una volta di più in un’analisi interminabile.


Bibliografia

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Winnicott, D. W. (1968b). La interrelaciòn en términos de identificationes cruzadas. Rev. Psicoanal. 25.



* Tradotto da The use of an object, International Journal of Psycho-Analysis (1969), 50:, 711-716. Nuova traduzione di A. Novelletto.




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