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A e P --> HOME PAGE --> N° 2 - Maggio 2002




Anno II - N° 2 -Maggio 2002


Seminari romani di F. Ladame e M. Perret-Catipovic




Il setting con l’adolescente

SEMINARI ROMANI DI FRANÇOIS LADAME E MAJA PERRET-CATIPOVIC

Seminario n° 2 Sabato 15 Aprile 2000

Associazione Romana per la Psicoterapia dell’Adolescenza



Ladame
Desidero porre come preambolo ciò che mi sembra una caratteristica principale del lavoro psicoanalitico con l’adolescente a confronto con lo stesso lavoro con l’adulto. Il lavoro psicoanalitico con adulti è reso possibile dal conflitto psichico; al contrario, per gli adolescenti che vengono ai nostri servizi pubblici, la conflittualità psichica non è assolutamente un punto di partenza, ma una conquista. Allora perché negli istituti psicoanalitici si continuano ad insegnare tecniche che forse non sono abbastanza realistiche? Accade a Ginevra così come in altri posti. Mi riferisco ad una supervisione che sto dando ad un’allieva su un paziente di 26 anni in terapia psicoanalitica. L’allieva si trova in grosse difficoltà perché non ha esperienza di adolescenti e questo paziente da parte sua non ha ancora raggiunto una conflittualità psichica. Secondo la mia esperienza nel pubblico, gli adolescenti vengono a consultazione sotto l’effetto di un trauma in senso psicoanalitico, cioè sono adolescenti nei quali l’irruzione del “pubertario” ha avuto un effetto traumatico. Il loro apparato psichico non ha avuto la capacità di fare legami necessari per arrivare ad una economia psichica funzionale. Ci troviamo quindi di fronte ad una situazione di eccesso. Si tratta di considerazioni generali, comunque estremamente importanti per l’impatto che hanno con la pratica del lavoro psicoanalitico con adolescenti. Guardando al passato, i colleghi che ci hanno preceduto nel lavoro psicoanalitico con adolescenti, anche se non possedevano il concetto di trauma, avevano una sorta di consapevolezza intuitiva che li spingeva ad adottare soluzioni un po’ arbitrarie. Per questo motivo ci sono state conseguenze piuttosto dannose per certi adolescenti, a tal punto da spingere la stessa Anna Freud a considerare gli adolescenti non trattabili con il metodo psicoanalitico. Questo può essere vero se, come nell’esempio dell’allieva menzionata, si lavora con un paziente di 26 anni con il presupposto che la conflittualità psichica sia già stabile. Non è vero, invece, se ci accostiamo al nostro lavoro partendo dall’idea che è il trauma quello che organizza. Maja ed io ci accingiamo oggi ad approfondire le caratteristiche del lavoro psichico con gli adolescenti, e a vedere quali sono gli assi di riferimento del nostro operare.

Perret-Catipovic
Il nostro proposito nel seminario di oggi è sopra tutto quello di vedere gli aspetti tecnici relativi al lavoro con gli adolescenti. Il lavoro psicoanalitico in adolescenza ha le seguenti particolarità o assi di riferimento:
1. Costruire un contenitore
2. Favorire gli spostamenti
3. Risalire dal più attuale al più antico
4. Gestire il transfert psicotico
L’adolescente che viene da noi per effetto di un trauma psichico ha bisogno di essere trattato proprio per il trauma. In una situazione di trauma la prima caratteristica è che non c’è più un’organizzazione topica funzionale. Partiamo dal concetto di trauma in termini psicoanalitici. Freud definisce trauma quella situazione psichica in cui l’Io è sopraffatto nella sua capacità di gestire l’eccitazione, che può aver origine sia all’interno sia all’esterno di sé. In adolescenza, anche se non ci sono minacce esterne pericolose, vi può sempre essere la minaccia di una sovraeccitazione interna. Questo sovraccarico mette l’Io in difficoltà, per cui non è più nelle condizioni di poter assicurare una difesa. Per questo motivo la doppia censura tra preconscio e inconscio e tra preconscio e conscio vengono meno. Ladame faceva riferimento al concetto di pubertario di Gutton, il quale dice che gli adolescenti soffrono di “scene” pubertarie. L’adolescente è invaso da scene fantastiche che avrebbero dovuto rimanere inconsce, ma, per effetto di un crollo parziale dell’Io, improvvisamente affiorano alla coscienza. Quando ci troviamo di fronte a un adolescente con questa situazione di disorganizzazione topica, prima ancora di porci il problema dei contenuti dobbiamo porre le basi perché ci sia un contenitore. Sembra ovvio, eppure sfortunatamente capita molto spesso che non si tenga conto di questo. C’è la tentazione, anche per noi psicoanalisti, di ricorrere ad un’interpretazione selvaggia. Sopra tutto i colleghi più giovani e inesperti, di fronte all’esplicitazione così chiara, da parte dell’adolescente, dei suoi scenari interni fantasmatici, sono indotti ad interpretare. Le interpretazioni precoci possono avere conseguenze gravi, come ad esempio quella che il paziente non torni più. Un adolescente, proprio per effetto dello stato traumatico, non si trova più nelle condizioni di pensarsi e proprio per questa incapacità di pensarsi non sopporta di essere pensato dall’altro, perché vive ciò come un’intrusione insopportabile. Ci troviamo quindi di fronte alla necessità di costruire un contenitore psichico comune secondo la teoria bioniana e winnicottiana, un contenitore che appartiene ad entrambi, paziente e analista, appartiene all’uno e all’altro e a nessuno dei due. Quando non c’è questo contenitore psichico comune bisogna evitare di interpretare i vari contenuti. Mi avvarrò di un flash clinico per illustrare questi concetti. Ricordo una adolescente che aveva 15 anni al primo incontro. Esprimeva una sofferenza notevole, però diceva che era molto contenta di essere prossima ad avere relazioni sessuali, perché così poteva avvicinarsi al suo papà. Ciò che sarebbe capitato dopo anni di analisi con un adulto, quest’adolescente me lo offre di getto. Certo, avere rapporti sessuali significa prima di tutto avere relazioni sessuali con il padre, perché è lui che inizia alla vita. Non si tratta di un caso psicotico, però si tratta comunque di una storia particolare in quanto il padre, antropologo, aveva detto alla figlia che nelle società primitive l’uomo che inizia la figlia alla sessualità è suo padre. In una prima seduta di fronte a questo materiale non si fa nulla, per non contribuire ad acuire il trauma già presente, rendendo ancora più conscio questo fantasma. Come si costruisce il contenitore? Il contenitore si costruisce grazie al setting, attraverso la costanza e la solidità del setting.
Passiamo al secondo punto, cioè favorire gli spostamenti. Secondo modalità psicoanalitiche classiche gli spostamenti vanno interpretati. Freud all’inizio della sua attività proibiva ai suoi pazienti di prendere decisioni importanti (sposarsi, avere figli...) durante il trattamento, proprio per evitare gli spostamenti, per evitare investimenti transferali laterali, per meglio analizzare il transfert nella situazione analitica. Con gli adolescenti facciamo spesso il contrario. Quando ci troviamo di fronte a situazioni traumatiche in cui l’altro è diventato così importante da prendere tutto il posto, il nostro lavoro è anche quello di favorire gli spostamenti per rendere gli investimenti sopportabili. Riferendomi all’adolescente di poc’anzi, che diceva che avere rapporti sessuali significava avere relazioni sessuali con il padre, due anni dopo nel corso della terapia abbiamo incontrato una sequenza particolare. Aveva avuto molti contatti sessuali con ragazzi, ma soffriva del fatto che non era riuscita a stabilire relazioni intime. Questa ragazza aveva sempre sperato che un certo ragazzo si interessasse a lei. Una sera riceve una telefonata proprio da lui, ma non si trattiene a parlarci, perché aspetta una telefonata del padre, che si trova fuori. Qui si potrebbe procedere secondo due obiettivi opposti: scegliere di sottolineare l’attaccamento edipico oppure mettere in valore l’aspetto difensivo, cioè l’attaccamento di tipo infantile. Quest’ultima soluzione è quella che ho preferito. L’amico della ragazza non è tanto oggetto di spostamento edipico, quindi ho sottolineato che il suo attaccamento infantile al padre era come un suo bisogno difensivo rispetto alla paura di un altro tipo di rapporto, che prendesse in considerazione anche le differenze. Ci troviamo quindi di fronte a due possibilità: o portiamo tutto all’infantile oppure facciamo un lavoro di apertura mentale, favorendo gli spostamenti e l’allargamento delle possibilità di investire, favorendo quindi l’inserimento dell’adolescente in un mondo che non sia soltanto incestuoso. Mi trovo a fare questo tipo di lavoro con ragazzi che hanno subito un trauma, per esempio traumi di guerra recenti in Bosnia. In questo contesto esiste unicamente il trauma, non c’è nulla da interpretare perché tutto è molto cosciente, per esempio come nel caso di figli che hanno assistito allo stupro collettivo della propria madre. Allora il lavoro consiste nel far funzionare di nuovo gli investimenti, favorendo gli spostamenti.
Il terzo punto, cioè risalire dal più attuale al più antico, richiede moltissimo tempo, contrariamente a ciò che viene classicamente insegnato. Quando ci troviamo di fronte ad un soggetto vorremmo conoscere la sua storia, fare l’anamnesi del paziente. Invece con l’adolescente dobbiamo spesso accettare di non conoscere nulla della sua anamnesi. Gli adulti si aspettano che si facciano loro domande sulla loro storia; gli adolescenti non aspettano altro che il momento di prenderci in contropiede, cioè a dire che nel momento in cui si cerca di fare l’anamnesi, se ne vanno. Gli adolescenti si mostrano particolarmente arrabbiati quando si parla della loro infanzia. Questo è un aspetto della tecnica su cui ho cominciato a riflettere partendo dall’esperienza dei primi incontri con adolescenti che avevano tentato il suicidio, con i quali si tratta di incontrare il paziente in ospedale per poi proporgli di fare un lavoro dinamico successivamente. Alcuni colleghi non riuscivano a far tornare gli adolescenti, mentre altri spesso ci riuscivano, perciò mi sono soffermata a cogliere le differenze nel modo di porsi con l’adolescente. I colleghi che si erano interessati all’infanzia dell’adolescente avevano fallito, dal momento che l’adolescente non si era sentito oggetto di interesse per se stesso, non investito come un oggetto attuale. Invece quelli che non avevano chiesto nulla della storia avevano avuto la possibilità di intraprendere un trattamento con gli adolescenti incontrati. Questa è la differenza fondamentale: o si tratta l’adolescente nel primo incontro focalizzando il trauma o lo si considera come un adulto che fa una richiesta di analisi e quindi ci si interessa alla sua storia. Mi capita di vedere adolescenti che hanno interrotto terapie con colleghi e una delle risposte circa i motivi dell’interruzione da parte loro è per esempio “perché si parlava della nonna? che centra la nonna? Io ci sono andato perché avevo problemi in matematica”. C’è una difficoltà particolare con gli adolescenti nel momento in cui ci interessiamo alla loro infanzia: l’investimento nell’infanzia, come per l’adulto, può avere un valore difensivo rispetto alle paure dell’attualità e quindi ci si rifugia nell’infanzia. Per l’adolescente, in maniera specifica, quest’invito a tornare all’infanzia rappresenta una minaccia in quanto è un invito alla regressione. La regressione di per sé non è affatto pericolosa, ma gli adolescenti, per il fatto che ci consultano in situazioni di impasse, non possono assolutamente regredire. Una cosa banale come il chiedere notizie anamnestiche, quindi, può ferire l’adolescente in quanto attacca la sua difesa. Sono dunque dell’avviso che con gli adolescenti bisogna lasciar perdere gli aspetti anamnestici e lavorare sull’attuale, focalizzandosi su quello che dicono e pian piano ricamarci intorno, costruire insieme qualcosa che si espande gradualmente, un po’ alla volta, proprio come si lavora con pazienti traumatizzati, con i quali si lavora sul trauma, perché appena si esce dal trauma c’è una cesura. Come si può fare a lavorare sul trauma, sempre nell’hic et nunc, mantenendo un assetto psicoanalitico? Forse la questione è come capire, piuttosto che sapere cosa sia successo. Nel caso di adolescenti ricoverati per tentativi di suicidio è naturale avere interesse per la loro infanzia, le loro esperienze di vita, ma è anche legittimo pensare che l’adolescente si aspetti di capire soltanto quel momento particolare in cui ha perso il controllo. Questa è la differenza tra chi ha un approccio comportamentale e chi ha un approccio psicoanalitico. La tecnica comportamentale è focalizzata sul “cosa è successo”, mentre il mio approccio è “come comprendere ciò che è successo”. E’ difficile capire ciò che l’adolescente ha fatto, quindi ciò che si può fare è cercare di trovare insieme il senso restando nell’hic et nunc, consentendoci di lavorare sul traumatico e conservando la nostra identità psicoanalitica. Nei casi in cui l’adolescente è abbastanza interessato a comprendere cosa gli è successo e cosa gli succede dentro, ci sono difficoltà inerenti al trattamento che non sono evitabili, bisogna perciò trovare degli accorgimenti tecnici per sormontarle. Una di queste difficoltà è la comparsa di un transfert psicotico. Una volta superate le prime difficoltà, cioè quando abbiamo stabilito una relazione con l’adolescente, ecco che si presentano difficoltà ben maggiori, ed è allora che molti affermano che è impossibile lavorare con gli adolescenti. Il transfert psicotico si verifica quando il terzo scompare, quando cioè il terapeuta non rappresenta uno dei due genitori, ma diventa il genitore (una paziente mi diceva “non è come se, ma è”). Improvvisamente il terapeuta diventa l’oggetto primario. La gestione del transfert psicotico richiede accorgimenti tecnici particolari, come la fiducia che ha l’analista di mantenere il riferimento ad un terzo, anche se il terzo è escluso dalla relazione con l’adolescente.

Ladame
Il transfert psicotico è alla base di controversie e confusione soprattutto con i colleghi francesi. Io ritengo che il rischio di transfert psicotico sia inerente al lavoro con adolescenti. E perché questo rischio di transfert psicotico è maggiore nel lavoro con gli adolescenti rispetto al lavoro con gli adulti? La risposta si trova in quello di cui abbiamo parlato prima, mi riferisco in particolare allo stato traumatico e alla disorganizzazione topica dell’adolescente, il quale è messo in totale contatto con l’inconscio, senza possibilità di filtri o di mascheramenti. Il rischio di transfert psicotico non riguarda soltanto gli adolescenti malati, ma è inerente a tutto il lavoro psichico con l’adolescente, in questo vi rimando al flash clinico presentato da Maja.
Una delle più grandi difficoltà riguardanti lo sviluppo adolescenziale gira intorno al tema della differenza. Credo che ci sia un orrore della differenza, in quanto generatrice di angosce, che possono essere angosce traumatiche. Si può parlare di differenza tre sé e l’altro, tra soggetto e oggetto, ma gli adolescenti che incontriamo non sono i bambini della Mahler. Per quanto possano essere compromessi, si tratta di adolescenti che hanno 14, 16,18 anni di vita, per i quali l’orrore per la differenza è essenzialmente l’orrore per la differenza dei sessi. In virtù dell’effetto della regressione, bisogna distinguere dove è il trauma, se è l’orrore della differenza dei sessi che spinge alla regressione oppure se c’è alla base un problema di differenza tra sé e oggetto, quindi una fissazione. La posta in gioco in adolescenza è come superare l’orrore per la differenza dei sessi, ma questa differenza può poggiarsi sulla difficoltà ad accettare la differenza tra soggetto e oggetto. L’adolescente quindi richiede un monitoraggio molto fine per vedere “cosa sta al posto di”. Il rischio di transfert psicotico che corrisponde alla soppressione soggetto-oggetto è un rischio fondamentale e quindi il problema per chi lavora con gli adolescenti è come gestire tale rischio. L’emergere del transfert psicotico non sta ad indicare che il terapeuta o l’analista hanno lavorato male e che il trattamento sta fallendo. Le forme in cui si manifesta il transfert psicotico sono diverse da quelle indicate da Freud nel 1915, in quanto prendono una forma passionale. Spesso nella passione non solo non c’è il “tre” , ma spesso non c’è nemmeno il “due”, c’è l’“uno”. Il problema che dobbiamo porci è quello di vedere se il setting in cui è apparso questo transfert psicotico è sufficiente a contenerlo anche con sedute plurisettimanali o se bisogna introdurre altri strumenti, altri setting.

Carbone
Vorrei tornare sul primo punto, sulla costruzione del contenitore e vorrei che ci diceste qualcosa di più sul setting. Cosa pensate della frequenza delle sedute rispetto al tema della regressione? Un numero elevato di sedute a volte induce l’adolescente a verbalizzare di più e in qualche modo anche a sollecitare di più delle interpretazioni. E’ meglio contenere la frequenza?

Ladame
Questa domanda è difficile e non c’è una risposta che possa essere generalizzata. Penso che sia l’esperienza di ognuno di noi a poterci dare una risposta. Per costruire il contenitore c’è bisogno di un setting, di un setting stabile per avere un contenitore stabile. Invece più il contenitore è distrutto, più abbiamo la tendenza a proporre un setting più stabile, con una maggiore frequenza settimanale. Di questo sono assolutamente convinto, ma ecco che interviene l’asse della regressione. Sedute molto ravvicinate sono al servizio della regressione. Il problema è quindi come far quadrare il cerchio! La risposta a questa domanda non può essere che adeguata a quel dato paziente, a quella persona in particolare e ciò che ci potrà essere di guida nella scelta fa perno sulla nostra esperienza e sui criteri di valutazione. E’ sempre estremamente difficile sapere qual’è la condizione ottimale, è più facile dire cosa è il peggio: il peggio nella mia esperienza è quando il terapeuta ha paura e non vuole bagnarsi la camicia. La paura lo spingerà verso il minimalismo a titolo di difesa personale, per autoproteggersi e in questo caso non succederà nulla a nessuno. Sul versante dell’ottimale non dobbiamo pensare di chiuderci nell’onnipotenza terapeutica e illuderci che, proponendo una frequenza di cinque sedute a settimana, tutto andrà bene. Credo che sia importante fare “una cordata” con altri facendo un lavoro di supervisione, oppure proporre l’ospedalizzazione, lo psicodramma o altre tecniche.

Perret-Catipovic
Io distinguerei il setting che noi offriamo a seconda del modo in cui l’adolescente lo utilizza. Il servizio pubblico offre una possibilità che non si riscontra nel privato, cioè possiamo accettare che l’adolescente non utilizzi il setting a lungo. Può succedere, per esempio, che per mesi un adolescente con una frequenza trisettimanale si presenti solo sporadicamente.

Monniello
Vorrei rilanciare questa dimensione di aporia, che nel lavoro con l’adolescente è in primo piano, e lo faccio attraverso una riflessione sul non utilizzare l’anamnesi. Mi sembra che in alcuni casi, nei primi incontri, abbiamo l’impressione di trovarci all’inizio del rapporto dell’adolescente con l’altro. Un altro che può rivelarsi interessato al mondo interno dell’adolescente. Allora il fatto di poter segnalare all’adolescente che l’attenzione alla sua storia rappresenta un’attenzione particolare da parte del terapeuta forse può essere un modo di iniziare a costruire un lavoro comune. Nello stesso senso qualche volta succede di chiedere un ricordo d’infanzia o un sogno. Queste situazioni sembrano far intravvedere un altro modo di agganciarsi alla storia personale di qualcuno e questo può essere un modo per agganciare l’adolescente.

Perret-Catipovic
Certo è importante per l’adolescente che noi ci interessiamo a lui e alla sua comprensione del mondo, più che alla realtà. Se noi chiediamo un sogno o un ricordo d’infanzia, chiediamo qualcosa che è in lui in quel momento e quindi è un invito alla ricerca di un senso e non certo una ricerca di avvenimenti particolari.

Novelletto
Anche la mia domanda concerne il punto tre, cioè quello in cui si è parlato dell’anamnesi. L’anamnesi è un progetto paternalistico, in sostanza è un’esigenza primaria dei genitori dell’adolescente, quindi quasi inevitabilmente si è costretti a far l’anamnesi perché i genitori pensano che in questo modo si svolga una consultazione. Io mi chiedo quanto questa posizione anamnestica sia il terreno di cultura di un’interpretazione paternalistica, cioè di un’interpretazione immediata che tende sempre a riportare quello che accade nella realtà a quello che è accaduto durante l’infanzia, proprio come fanno abitualmente i genitori i quali, di fronte alle manifestazioni dell’adolescente, espongono le loro interpretazioni selvagge del tipo “hai preso tutto da tuo nonno” oppure “questo è successo perché quando avevi un anno non ti ho punito abbastanza”. Vorrei sapere la vostra posizione sul rapporto tra anamnesi e controtransfert.

Perret-Catipovic
Anamnesi e controtransfert? Lei ha ragione come sempre! Di fronte ad un adolescente che rischia di buttarci veleno, è confortante l’idea di assumere un atteggiamento paternalistico e rimettere l’adolescente nella sua storia, nel ruolo di bambino come “figlio di”. Una ricerca o una raccolta dell’anamnesi (anche involontaria dal momento che spesso ci troviamo di fronte a genitori che sono desiderosi di riferirci dati anamnestici anche telefonicamente) può nascondere la tendenza di allearci con i genitori. Questo è proprio ciò che gli adolescenti temono e che quindi bisogna evitare. Io invito ad un’enorme cautela in queste situazioni, perché l’adolescente è sempre pronto a spingerci dalla parte dei genitori. Per una questione di onestà e di etica professionale ritengo che, ogni volta che ci viene l’idea di chiedere un dato anamnestico, dovremmo sempre chiederci il perché lo stiamo chiedendo. Di che si tratta? E’ semplice curiosità? E’ un nostro atteggiamento difensivo? Del resto esiste un modo per far affiorare gli elementi anamnestici in modo naturale, consono anche alla psicoanalisi. Questo modo consiste nel dare atto all’adolescente che egli è il prodotto di quei genitori, ma allo stesso tempo dobbiamo cercare di non vittimizzarlo o di avere per lui un atteggiamento di commiserazione in quanto prodotto di quei genitori (“bene, lei è vissuto in questa situazione e non poteva porvi rimedio, le poteva capitare solo questo ”). Spesso gli adolescenti sollecitano questo tipo di atteggiamento vittimistico, ma la questione fondamentale è come l’adolescente può costruire la sua vita con la sua storia.

Novelletto
Non faccio altre domande ma ne preannuncio una per il prossimo incontro del dieci giugno. Quanto, in base al controtransfert, una formazione psicoanalitica per adolescenti sia più necessaria di quella per bambini.

Ladame
Vorrei aggiungere qualche parola, in quanto temo che ci possano essere dei malintesi rispetto al punto tre. Sia Monniello che Novelletto sono tornati sulla questione dell’anamnesi. Certo l’anamensi è alla base della formazione medica. Il punto tre ha un aspetto più generale e non riguarda solo la questione anamnestica, ma ha a che vedere con la tecnica interpretativa, quindi con il lavoro psicoanalitico. Una vera interpretazione in senso psicoanalitico è quell’interpretazione che lega il presente con il passato e con il transfert. Allora se esiste anche una sola vera interpretazione psicoanalitica in un’analisi di dieci anni possiamo essere contenti. Ora invece stiamo parlando piuttosto di interventi dello psicoanalista, che in un primo tempo devono riguardare ciò che fa soffrire in quel momento, nell’hic et nunc. Nel primo numero del 2000 della rivista francese Adolescence c’è un articolo del prof. Novelletto che indica chiaramente ciò di cui sto parlando. Si tratta di una persona che ha avuto un primo trattamento da bambino e fa un secondo trattamento da adolescente. Prima di cominciare la seconda terapia va a trovare l’analista dell’infanzia, cui chiede “dov’è la scatola dei giocattoli?”. All’analista dell’adolescenza dice invece “io ho difficoltà con la mia sessualità”. E’ proprio questo che è contenuto al punto tre.

A questo punto l’organizzazione del seminario prevede la presentazione di un caso clinico da parte della dr.ssa Angela Castellano, allieva dell’Arpad.

Castellano
Tiziana ha 14 anni quando la vedo per la prima volta. Il mese precedente ha effettuato alcuni colloqui in un consultorio pubblico, ma poi li ha interrotti perché, a suo dire, la terapeuta in fondo non era completamente disponibile: “Spostava gli orari degli appuntamenti, riceveva telefonate mentre parlava con me, l’ultima volta aveva con sé il suo cane, non ci sono più voluta andare”.
Siamo in ottobre. La ragazza, dalla fine delle vacanze, manifesta il suo disagio con modalità estreme: le sue crisi di rabbia e di opposizione sono violente ed esasperate e si alternano a momenti di disperazione e di pianto inconsolabile. Spesso lamenta teatralmente diversi sintomi somatici acuti che condizionano completamente lei e gli adulti che le sono vicini; viene ritenuta ingestibile.
Tiziana è stata in vacanza in Sicilia dove ha conosciuto Jerry, un ragazzo di 26 anni. Dal momento del rientro a Roma comincia in modo sempre più ripetitivo ed esclusivo a ricordare, ricostruire e fantasticare su di lui e sulle possibilità di una loro relazione. Evocare ed immaginare Jerry, opporsi ai rientri imposti dal padre e confrontarsi con la preoccupazione per una professoressa inflessibile ed esigente, che la fa sentire bloccata nella possibilità di studiare, sono i temi prevalenti dei nostri primi incontri, durante i quali emergono però, in maniera disorganica, notizie importanti sul suo passato.
La madre di Tiziana è morta improvvisamente sei anni prima. Il padre si è risposato quattro anni dopo, a conclusione di una relazione cominciata a pochi mesi dalla morte della moglie. I due fratelli maggiori sono andati a vivere per proprio conto e il padre ha deciso di trasferirsi con la seconda moglie e la figlia da una zona centrale di Roma in un paese del litorale. I rapporti di Tiziana con lui e la moglie si deteriorano rapidamente, tanto che quando la conosco, all’inizio del 4° ginnasio, lei passa di fatto la settimana “scolastica” a casa di un anziano zio, fratello della madre, sposato e senza figli.
E’ stata Tiziana a chiedere di iniziare una terapia, e si è fatta aiutare dalla zia, che in un primo momento ha preso completamente in mano l’iniziativa, presentandola poi come un dato di fatto al padre: “Questo lo devi fare per lei adesso, almeno questo ...”. Da parte sua il padre manterrà sempre la posizione di chi subisce passivamente le scelte della figlia, interpretate da lui come una punizione per le sue carenze di padre. Sua moglie è invece convinta che le difficoltà di Tiziana siano simulate e le sue richieste solo un modo per rendere difficile la vita della nuova coppia.
Inizio ad incontrare Tiziana una volta a settimana, unico setting accettabile in quel momento dalla sua famiglia.
Prima della 11° seduta, Tiziana mi fa telefonare dal padre, il quale mi chiede, a nome della figlia, di offrirle quindici minuti in più di seduta. Rispondo che nel nostro prossimo incontro parlerò con lei di questa richiesta. In seduta Tiziana mi spiega:
Tiziana - “Lo so che non cambia molto, volevo avere più tempo, essere sicura di riuscire a dirti tutte le cose che volevo ... una volta a settimana è troppo poco”.
Analista - “L’altra volta dicevamo che è difficile pensare che quando senti il bisogno o il desiderio di parlarmi di qualcosa devi invece aspettare, perché c’è solo quest’ora definita”.
T. - “Le distanze sono il mio destino - riprende Tiziana - come la casa di zia, la scuola, mio padre e Jerry in Sicilia ... io mi sento come sospesa, come nei sogni che faccio”
A. - “Cioè?”
T. - “Sogno di essere sui gradini di una scaletta, quelle che dondolano appese ad un aereo, oppure su uno di quei ponti fatti di corda ... ecco, questi due me li ricordo, ma poi nel sogno non si sa se cado ...”.
A. - “O se riesci comunque ad utilizzarli, perché la scaletta e il ponte sono traballanti ma sono comunque cose che servono per arrivare da qualche parte “
T. - “Come nelle avventure di Indiana Jones ... ho anche sognato che Jerry aveva una fidanzata, che era pure incinta e mi sembrava proprio vero, anche quando mi sono svegliata. Forse mi sembrava vero perché anche mio padre aveva fatto un sogno, che io stavo male, e poi mi aveva chiamato la mattina a casa di zia e io avevo davvero la febbre ... però queste sono cose che possono succedere solo con un padre ... cose che si sentono così ... con Jerry non può succedere la stessa cosa, e neppure con zia ...”.
A. - “Stai parlando delle cose che ti fa provare papà, diverse da Jerry, diverse da zia ...”
T. - “Se non ci fosse la moglie, staremmo benissimo ... o forse no, sarebbe uguale ...”
In questa fase Tiziana mi dà quasi sempre segnali di sé nei giorni tra una seduta e l’altra, telefonandomi direttamente oppure manifestando il suo disagio con modalità talmente eclatanti da indurre qualcuno della famiglia a cercarmi.
Nel fine settimana dopo la 14° seduta Tiziana vuole andare al cinema da sola per rivedere “Titanic” per la terza volta; la zia le nega il permesso, ma poi esce e Tiziana se ne va al cinema. Quando torna la zia è molto arrabbiata. Dopo una discussione accesa chiama il padre chiedendogli di venirsela a riprendere subito. Mentre il padre è in viaggio, Tiziana si chiude in bagno, apre diverse scatole di medicinali e a caso assume quello che trova. Poi fa alcune telefonate. Dopo più di un’ora passata al telefono (nel frattempo arrivato il padre) Tiziana comunica ai familiari ciò che ha fatto.
La situazione di emergenza che la ragazza, con la sua estrema drammatizzazione, ha attivato nell’ambiente familiare, pur sempre fragile e sfuggente, permette una nuova mobilitazione. Convoco il padre e la zia. Con loro e con Tiziana pongo come condizione che ci sia una ridefinizione condivisa del contratto terapeutico per una frequenza bisettimanale, e un accordo più esplicito e stabile della collocazione della ragazza a casa della zia. A tre mesi dal nostro primo incontro, il nuovo setting sembra allentare la tensione intorno al tema del distacco e della perdita. Diminuiscono i contatti agìti da Tiziana nell’intervallo tra le sedute. Si percepisce il sollievo iniziale di Tiziana, abbiamo più tempo e possiamo entrare in una dimensione più intima.
Nella 21° seduta mi racconta:
“Penso continuamente a Jerry. L’ho pure sognato. Ho sognato che mi avevano rapito, non so chi, non sembravano persone cattive, però ero prigioniera. Stavo in una stanza un po’ più piccola di questa ... ma non mi mancava niente, c’era tutto quello che mi serviva, per questo non ci stavo male, e mentre ero rapita, ricevevo anche un mazzo di fiori da Jerry. Non ero preoccupata perché sapevo che papà mi sarebbe venuto a liberare dopo tre giorni”.
- Una stanza molto piccola, commento, un po’ come questa, uno spazio, un luogo particolare -
- “Mi ricordo anche che non c’erano finestre, ma io potevo vedere tutto quello che succedeva fuori, mentre da fuori nessuno poteva vedere quello che succedeva dentro”

E’ ancora difficile per entrambe avvicinare il tema del lutto, le figure intorno a lei sono caduche e si sottraggono continuamente. Tiziana non può contare su di loro per condividere la sofferenza legata alla perdita, mentre io a tratti riconosco ancora la mia illusione che la presenza all’esterno di alleati affidabili renda possibile questa condivisone.
A sette mesi dall’inizio della terapia ricevo, di domenica mattina, una telefonata di Tiziana che mi chiede di recuperare a seduta mancata per la festività del 1° Maggio:
“Non voglio perdere la seduta, non resisto fino a venerdì ... zio mi ha toccato, ieri sera. Zia ci ha lasciati da soli a casa insieme, da una settimana. Stavamo guardando la televisione e mi ha messo la mano sotto la camicetta, non l’ho ancora detto a nessuno ...”.
Fisso un appuntamento per il giorno successivo. Intanto quello che è successo viene esplicitamente affrontato con gli zii. Nessuno tenta di negare, lo zio andrà a stare in albergo fino alla fine della scuola, poi sarà Tiziana a dover andare via. Dopo un paio di settimane Tiziana lo racconta anche al padre, che irrompe letteralmente nel mio studio, furioso perché non ne ho parlato subito con lui. Minaccia di vendicarsi duramente del cognato, ma poi non farà assolutamente nulla, se non chiedere continuamente a Tiziana di restare dalla zia, perché non sa proprio dove altro metterla.
Questi eventi mi colpiscono duramente per il modo in cui, nella vita di Tiziana, le figure di accudimento “si fanno fuori”: lo zio di Tiziana si era fatto carico di un particolare ruolo verso la nipote, fatto di attenzioni quotidiane che la ragazza ricollegava ad alcune funzioni materne che credeva perdute. Invece la forza della messa in scena edipica sembra prevalere: la zia se ne è andata lasciandola in balia dello zio; il padre o è incestuoso o l’abbandona. In breve tempo la preoccupazione prevalente di Tiziana diventa quella di dover andare a vivere con il padre. Mi chiede continuamente un’alternativa a questa prospettiva, se ne dispera.
Un mese dopo Tiziana inizia a parlarmi della madre:
“Ho trovato delle foto di mamma che non avevo mai viste prima. Mamma stava al mare con papà, era magra magra, con i capelli corti e neri. Le ho guardate un po’, poi le ho rimesse a posto per non farmi vedere da mio fratello ... Non parliamo mai di mamma né di quello che è successo”.
Tiziana riprenderà in seguito alcuni ricordi, anche quelli della notte in cui la madre è morta e quelli, in poche immagini, del funerale.
A settembre mi comunica:
“Voglio denunciare mio zio. Lui e zia devono continuare a soffrire, come faccio io, non possono cavarsela liberandosi di me ... e poi qualcuno deve dire a papà che è stato un cattivo padre e che mi ha abbandonato ...”.
Tiziana si rivolge all’assistente sociale di un servizio pubblico, inizia a parlare dello zio, ma poi l’incontro e quelli successivi si concentrano sul padre. Questo passo mette a rischio la continuazione della terapia: il padre si lamenta del costo, l’assistente sociale propone di trovare una terapeuta nel suo servizio e contemporaneamente cerca di sancire la necessità della convivenza di Tiziana con il padre. La ragazza pensa che non ci sia più niente da fare, vuole raggiungere il fratello a Londra.
T. “Non ho più niente da perdere” dichiara.
A. - Sì, la terapia. Io sono qui e non a Londra -
T. “Tanto papà mi fa smettere lo stesso ... so che forse potrei non trovarti più al mio ritorno, ma tu ci sei solo due ore a settimana, e io ho tutte le altre per stare sola ... le persone sembra che ci siano, ma poi improvvisamente non c’è più nessuno, e io non so più cosa devo aspettare ...”
A. (Provo un doloroso senso di vuoto, come se non ci fossi più) - Parli come di persone morte. Tu senti che ti voltano la faccia e sono come morte per te ... come mamma. C’era, poi improvvisamente non c’è più stata -
T. “Lei se n’è andata e io non voglio più aspettarmi niente da nessuno ... lasciatemi andare via ... E se oggi fosse la nostra ultima seduta? Papà potrebbe non farmi venire più già la prossima volta ...”.
A. - Eravamo d’accordo che avrei chiamato tuo padre e l’assistente sociale che in questi giorni mi avevano cercato, penso. Su questo possiamo dire la nostra per proteggere e mantenere la tua psicoterapia.
Sebbene tema esplicitamente che il nostro rapporto non possa reggere, Tiziana accetta anche una sorta di alleanza per difendere il nostro lavoro. Infatti comunica al padre e all’assistente sociale:
“Non cambierò mai terapeuta. Se mi imponete un’altra psicoterapia, vi prenderete la responsabilità di avermi lasciato senza aiuto”.
L’intensa condivisione nel nostro rapporto del vissuto di perdita ci permette di avvicinare anche i sentimenti relativi al sentire le oscillazioni dell’oggetto: l’esperienza di perdere e ritrovare l’oggetto, sia con me, attraverso il ritmo delle sedute, sia all’esterno, in particolare con un professore della nuova scuola, figura da cui da un lato si sente seduttivamente attratta, dall’altro accolta affettuosamente e benevolmente. Il lavoro di elaborazione del lutto ed alla possibilità che riusciamo a fare permette a Tiziana di meglio tollerare la presenza intermittente del padre. Prima di una seduta che rischiava di perdere per una difficoltà maggiore del solito (ora abita provvisoriamente presso un'altra zia), sogna che, arrivata all’indirizzo del mio studio, non trova il portone e lo cerca inutilmente per tutta l’ora. Le faccio notare che è riuscita a venire lo stesso, nonostante gli ostacoli preannunciati la volta precedente.
“Tieni al nostro rapporto - le dico - e ti dai da fare per arrivare. Però c’è anche il timore di non trovarmi più”
“L’ho fatto anche un’altra volta questo sogno, prima dell’estate ... però io qui sto bene. Che ne sanno papà e l’assistente sociale ... Il problema è un altro, è che non andrei più via, ci rimarrei pure la sera”.
Nel periodo di Natale del secondo anno di terapia il tema della morte entra in modo significativo nelle sedute. Tiziana si interroga sul destino di chi non c’è più, rimane turbata dal contatto con un uomo in coma da anni, si identifica con lui, si chiede cosa si prova mentre si sta morendo. Porta in seduta le foto della madre e arricchisce con me le immagini e i ricordi che ricompongono una possibile raffigurazione del suo rapporto con la madre. La sogna, prima da viva, poi malata e morta. In uno dei sogni la madre torna una notte, come in una visione, per salutarla, darle un ultimo abbraccio, e poi sparisce. Tiziana è vicina a riconoscere la rabbia di essere stata lasciata troppo presto dalla madre e consegnata al padre senza limiti né garanzie. Però contemporaneamente sente la colpa di tradire la madre se asseconda il proprio bisogno di colmare il vuoto, investendo un nuovo oggetto sostitutivo.
Alcune settimane dopo sogna di stare in un ospedale con il padre che è seduto su una sdraio, come accasciato, con un aspetto debole e stanco. Però non si trova lì per lui, è la mamma che sta male. Tiziana gli chiede di accompagnarla a trovare la madre, lui risponde che si sente troppo male, ha bisogno di riposare, la sollecita ad andarci da sola. Dunque il padre c’è, ma è troppo fragile perché Tiziana possa affrontare la morte della madre con lui. Si è dovuta rivolgere prima alle zie, che si sono tirate indietro ad una ad una, poi allo zio che si è rivelato un oggetto solo edipico, e ora di nuovo ritrova il padre.
Ancora una volta Tiziana rimette in moto una rumorosa mobilizzazione ambientale ed istituzionale, però stavolta con un’iniziativa completamente autonoma. Arriva a presentare da sola la sua situazione in Tribunale, davanti ad un giudice tutelare, che prende a cuore la sua situazione. Tiziana ha trovato un interlocutore credibile ed autorevole per il padre. Il giudice convoca a più riprese tutti i familiari e soprattutto richiama il padre alle sue funzioni. Questi incontri, per come Tiziana li riporta nelle sedute, sembrano una rappresentazione efficace del suo interrogarsi sulle possibilità del padre di darle di più, ma sanciscono anche ufficialmente i suoi limiti: Tiziana passerà il nuovo anno nella casa materna di Roma insieme al fratello, i week-end con il padre.
Nei mesi successivi Tiziana comincia a parlare del suo nascente e timoroso interesse per i coetanei, anche se inizialmente si sottrae spaventata. Condivide con me una nuova dimensione, sente di poter mettere in primo piano gli aspetti funzionanti di sé. E’ un momento positivo, la scuola sta andando bene, le vengono riconosciute capacità e doti anche dai compagni che la considerano studiosa ma generosa, verrà promossa con ottimi voti. I nuovi amici la cercano, la invitano, conosce altri ragazzi, iniziano i primi approcci e ai primi di luglio si lega ad un ragazzo della sua età.

Perret-Catipovic
Ci sarebbe tanto da discutere in questo caso, dato che il materiale è particolarmente abbondante. Potremmo seguire molteplici piste, e io comincerò con una, aspettando che altre vengano proposte da voi. Al di là degli eventi particolarmente drammatici nella vita di questa ragazza, mi sono chiesta qual è lo scopo del trattamento. Ovviamente si tratta di una terapia che funziona. Potremmo discutere di molte cose, del setting, del modo di intervenire, dell’evoluzione della terapia, ma io vorrei sottolineare l’importanza e il significato dell’assenza, la capacità di rappresentarsi l’assenza, assenza che può riguardare la madre, la terapeuta, il ragazzo. Per me è particolarmente difficile definire l’assenza. Mi avvalgo della definizione di A. Green, per il quale “l’assenza è una situazione intermedia tra la presenza fino all’intrusione e la perdita fino all’annullamento”. Per quanto riguarda la capacità di rappresentarsi l’assenza, con Tiziana (T.) ci troviamo sempre di fronte o a un troppo pieno o a un tutto distrutto. Questo vale sia relativamente al padre, il quale in alcuni momenti è troppo indispensabile e in altri è troppo latitante, sia nella relazione con la terapeuta, la quale assume una posizione troppo importante proprio per sottolineare la sua insufficienza. Perché costruire l’assenza e quali sono le condizioni per tale costruzione? L’assenza è una delle condizioni per poter pensare. La gestione del setting deve permettere un buon dosaggio dell’assenza del terapeuta. Nei casi favorevoli, durante l’assenza del terapeuta nell’intervallo tra una seduta e l’altra, il paziente rimane in contatto con lui, se lo rappresenta. Nei casi meno favorevoli, come questo di T., l’assenza reale del terapeuta non può essere rappresentata, perciò T. è indotta a verificarne la realtà concreta attraverso le telefonate, i messaggi e i tentativi di far intervenire la realtà esterna. Il pensiero è il pensiero dell’assenza: un oggetto che non è mai assente non può essere pensato, al contrario un oggetto inaccessibile non può mai essere introdotto in uno spazio personale. Sempre nel libro “La follia privata”, Green ci propone una pista. Cito testualmente: “tra questo gioco della rappresentazione e la nascita di un pensiero propriamente detto, deve installarsi una allucinazione negativa della rappresentazione dell’oggetto, perché possa formarsi non più una rappresentazione più o meno realistica, ma una rappresentazione delle relazioni, nell’ambito di una rappresentazione e tra diverse rappresentazioni”. Ho cominciato a parlare della necessità di una capacità di rappresentarsi l’assenza per poter pensare, dal momento che pensare è il pensiero dell’assenza, ma ciò verso cui bisogna tendere è la rappresentazione di relazioni. Finché l’oggetto è troppo presente o inaccessibile (che equivale comunque con l’intrusivo) si finisce per avere una relazione a due. Green con l’allucinazione negativa si riferisce al dover distanziare quella che è la rappresentazione dell’oggetto incestuoso per poter pensare. Sottolineo l’asse da cui sono partita, cioè il passaggio dalla capacità di rappresentarsi l’assenza alla capacità di rappresentarsi le relazioni, perché è questo che si svolge nel processo terapeutico, attraverso accorgimenti tecnici di gestione del setting, che non deve essere troppo presente né troppo assente. Mi riferisco anche alla capacità di rêverie del terapeuta per poter dare un senso agli avvenimenti della realtà. T. sembra aver continuamente attaccato la capacità di rêverie della terapeuta, anche attraverso avvenimenti che la preoccupano.

Ladame
Rimarrò nella stessa linea di pensiero di Maja per fare qualche precisazione sul setting. Chi ha esperienza psicoanalitica con adulti sa molto bene che la capacità di rappresentarsi l’assenza manca nei pazienti adulti borderline. Secondo il mio punto di vista questo è un esempio di come il lavoro con adolescenti è fondamentale per il lavoro con adulti, dal momento che c’è una reciproca possibilità di arricchimento. Più precisamente si tratta di quei trattamenti di pazienti adulti non nevrotici la cui conoscenza può contribuire ad arricchire il lavoro con adolescenti, e viceversa. Riprendendo la questione dell’assenza e della capacità di rappresentarsi l’assenza, vorrei esporre il paradosso in base al quale più un oggetto è assente, più è presente. In questo caso si vedono emergere nella realtà agìti che hanno la funzione di esorcizzare una presenza interna insopportabile. Ci ritroviamo ancora una volta di fronte al tema del transfert psicotico e di come affrontarlo. Vorrei sapere dalla dott.ssa Castellano se ha parlato con la paziente o se ha pensato da sé di essersi preoccupata molto, di essere stata troppo presente nei momenti di assenza. Il caso di T. ci permette di approcciare ciò che è difficile in queste terapie, cioè la capacità del terapeuta di avere un doppio pensiero, la capacità di sdoppiarsi. La dott.ssa Castellano è la più qualificata per darci delle informazioni e confermare un’impressione che ho colto tra le righe, cioè che forse lei si è fatta troppo portavoce del concetto di assenza come perdita. E’ difficile mantenere un doppio pensiero, di cui l’uno contraddice l’altro, vale a dire la terapeuta può essere per il paziente contemporaneamente troppo assente e troppo presente, tanto più troppo presente dal momento che manca.

Castellano
Mi ha colpito il fatto che la dott.ssa Catipovic abbia scelto tra i possibili temi quello dell’assenza-presenza, perché è stato nella relazione con T. l’aspetto più delicato. Ho sottolineato la mia tendenza a cercare nella vita esterna di T. altre figure che potessero garantirmi rispetto alla sensazione che io fossi l’unica presente per lei e, quindi, drammaticamente assente tutte le volte che non c’ero. Per me è stato molto faticoso e difficile assumermi questo doppio aspetto, cioè essere così importante, presente nella sua vita e così drammaticamente assente, come lei stessa dice in modo drammatico “tu ci sei solo due volte a settimana”. Mi sembra che, avendo io riconosciuto questa mia ricerca all’esterno, paradossalmente T. abbia potuto lavorare di più su ciò che accadeva tra me e lei nella relazione, sul nostro ritmo, vederci o non vederci, pensare ai nostri intervalli e alle pause estive. Questa è una situazione in cui abbiamo cominciato a fare forse non una rappresentazione, ma credo una prima figurazione dell’assenza- presenza. Ciò però attraverso la ricerca da parte mia di altre presenze, proprio per sottrarmi all’intensità di essere presente-assente così intensamente per lei in un modo che io ho sentito come un richiamo della paziente alla madre e non come un suo potermi identificare alla madre morta.

Monniello
Vorrei anch’io riprendere il tema dell’assenza perché, come è stato sottolineato, esso rimanda un po’ al modello del gioco del rocchetto di Freud. Siamo nella situazione del “fort- da”, nel quale si costruisce pian piano la rappresentazione dell’assenza. In questo caso si aggiunge l’aspetto reale della morte di un genitore, che implica un aumento esponenziale di questa condizione. Nella situazione terapeutica ciò comporta che in un modo o nell’altro la terapeuta è la madre morta, cosa che sul piano controtransferale apre interrogativi enormi sia dal punto di vista delle proprie aspettative di essere terapeuta per quella persona, sia di non potersi sottrarre a questa proiezione che per la paziente è necessaria allo sviluppo del trattamento. In questo senso vorrei coniugare questa situazione particolare con la necessità di gestire il setting, creando una condizione che pone il controtransfert in primo piano nella relazione.

Perret-Catipovic
Rispondo brevemente per lasciare spazio ad altri interventi. Certo ci si trova di fronte a un trabocchetto: se T. investe la terapeuta si allontana dalla madre, perciò non può fare altro che investire la terapeuta come una madre morta. Cosa c’è di più presente che una madre morta? Come ho detto, Green si riferisce alla necessità di una allucinazione negativa, cioè di un annullamento della rappresentazione dell’oggetto primario, per potersi poi rappresentare le relazioni, per poter pensare. Credo che per qualunque terapeuta sia insopportabile viversi al posto di una madre morta.

Novelletto
Con la mia domanda vorrei riportare la discussione del caso clinico alla valutazione della trattabilità: fino a che punto c’è particolarità strutturale dell’adolescente possono garantire ancora un intervento psicoanalitico individuale oppure necessitano di parametri. Sono partito dall’immagine fornita da T. dell’aereo con la scaletta pendente, che mi ha dato l’impressione non tanto di un legame interrotto, ma di un legame che si cerca in tutti modi di riacchiappare. Questo ci riporta al tema del rocchetto, ma applicandolo all’adolescenza io credo che il rocchetto non significhi soltanto presenza o assenza dell’oggetto (quindi costanza dell’oggetto) ma anche trovare o ritrovare l’oggetto. Mi chiedo allora quanto angosce abbandoniche infantili che abbiano ostacolato la possibilità di congiungersi con l’oggetto, di stabilire con l’oggetto una relazione stabile, possano avere conseguenze sulla strutturazione della personalità e in particolare sulla organizzazione topica, che noi mettiamo alla base dei criteri di analizzabilità. Mi è sembrato che nella considerazione che Ladame ha fatto alla dott.ssa Castellano fosse implicita la premessa che l’analista aveva il potere di intervenire nel modo giusto perché la ragazza potesse negoziare questo passaggio tra l’assenza-non perdita e la presenza-non intrusiva. Secondo me è da chiarire fino a che punto l’analista in un deficit strutturale (borderline) ha la possibilità oggettiva di colmare il deficit narcisistico. Questo ci riporta alla discussione dell’analizzabilità di un caso come questo, prima ancora di addossare all’analista la responsabilità che forse avrebbe potuto fare di più. Vorrei conoscere la vostra opinione sul momento in cui il limite del deficit narcisistico, della carenza di strutturazione della personalità finisce di essere una indicazione all’analisi e comincia ad essere un’indicazione per altri interventi, quali l’ospedale diurno e l’introduzione di altre figure di transfert laterale.

Ladame
L’intervento di Novelletto mi riporta alla questione che avrei voluto affrontare dopo aver avuto chiarimenti da parte della dott.ssa Castellano, vale a dire quale sia la forma del setting più appropriata in un caso come questo. Nelle terapie con pazienti nevrotici si parte da punti impliciti, quali il setting proposto dall’analista e l’oggetto del transfert. Si parte anche dal presupposto che esista una capacità, se pur minima, da parte del paziente di differenziare l’analista come oggetto di transfert dall’analista come oggetto reale che continua ad esistere al di là delle sedute ed ha una sua vita. Ciò che nel transfert psicotico è cancellato è proprio questa differenza, l’analista come oggetto di transfert viene confuso con l’analista che esiste al di fuori delle sedute. Noi cerchiamo di uscire da questa situazione se ci fidiamo del fatto che il setting in termini concreti (pareti, oggetti..) non è fonte di eccitazione. Nei casi sfavorevoli si verifica una situazione simile a quella di un tumore dilagante, per cui un aspetto qualunque si espande a macchia d’olio, lo stesso divano o altri oggetti concreti possono essere inclusi e diventare fonte di eccitazione. In questi casi condivido l’opinione di Novelletto, che vadano prese in considerazione altre possibilità di intervento (ospedalizzazione, psicodramma). Ma per quanto riguarda la questione della trattabilità mi chiedo che cosa per T. non sia fonte di eccitazione. Esistono momenti nella vita di questa ragazza in cui non si senta una pila elettrica alle prese con l’eccitazione? Penso in particolare a due situazioni emergenti: il tentativo di suicidio e la delicata situazione con lo zio.

Biondo
Mi chiedo se nella costruzione del setting in adolescenza si possa fare a meno di considerare il ruolo che ha l’ambiente, il ruolo che la rappresentazione dell’ambiente ha per l’adolescente, come percorso mentale, e il ruolo che ha l’agìto o l’azione. Tradizionalmente in passato l’agire era visto come una delle difficoltà principali per poter realizzare il setting con l’adolescente. Nel caso descritto, invece, è grazie all’azione intrapresa da T. che viene protetta la relazione terapeutica, quindi l’acting ha un altro ruolo, introduce la dimensione del terzo, di un padre che protegga dal transfert psicotico, del padre che ripristini la giusta distanza, che detti una regola, che non sia né troppo vicino come lo zio, né troppo lontano come il padre reale. La ragazza può intraprendere l’azione solo grazie al lavoro terapeutico, alla rappresentazione che la terapeuta ha dell’ambiente (non poteva da sola fare certe cose). E’solo grazie alla consapevolezza della terapeuta che T. può fare questa che è un’azione, non più un acting come nel tentativo di suicidio. L’acting è stato trasformato in azione. Stamattina ci chiedevamo come si costruisce il setting, cos'è il contenimento. Qui il contenimento viene fatto attraverso l’azione e la rappresentazione dell’ambiente di soccorso.

Ricciardi
La mia domanda invece riguarda l’ambiente, ma intrapsichico. Mi riferisco al sogno della paziente, in cui “non c’erano finestre ma io potevo vedere tutto quello che succedeva fuori, mentre da fuori nessuno poteva vedere quello che succedeva dentro”. Mi sembra che in termini di transfert l’attenzione si sposti da un setting che riguarda più l’esterno ad un setting che riguarda invece l’assetto mentale dell’analista e di conseguenza pone problemi delicati di come attivare in questa fase quegli elementi di funzionamento mentale assunti dal terapeuta, ma ormai presenti anche nella paziente, per poter facilitare non più l’azione verso l’esterno ma, sia pure gradualmente, una rivisitazione verso l’interno.

Perret-Catipovic
Certo, la questione principale è come rimanere analisti quando succedono tante cose nella realtà esterna. Però ci sono stati molti interventi e forse la dott.ssa Castellano è stata lasciata un po’ nell’ombra. Vorrei sapere proprio da lei quali aspetti preferisce approfondire e se desidera fare domande.

Castellano
In base all discussione ho percepito che la costruzione e l’uso del setting vengono intesi come l’elemento centrale. Nella descrizione del caso ho dato prevalenza ai momenti in cui il setting è stato maggiormente messo alla prova e anche per me è stato difficile valutare la posizione da tenere rispetto alla cornice generale del setting. Vorrei sottolineare che ciò ha fatto sì che nella presentazione fosse dedicato uno spazio piuttosto ampio ai fatti della realtà esterna. Mi rendo conto che poi nella lettura del caso questi eventi esterni sembrano assumere un ruolo preminente e forse resta poco spazio alle altre cose successe all’interno della relazione con T. In effetti penso che siano successe davvero tante cose nella vita di T. dalle quali non ho potuto prescindere. Vorrei avere da voi un contributo rispetto a quegli aspetti del funzionamento psichico che hanno a che fare sia con l’uso del terapeuta come oggetto da parte dell’adolescente sia con il modo in cui la realtà esterna dell’adolescente entra nel rapporto terapeutico. Questi sono elementi molto frequenti, secondo me, nei primo-adolescenti che arrivano in momenti di serie difficoltà. Ho anche il desiderio di sapere cosa pensate rispetto al ritmo delle sedute e al giusto dosaggio di presenza -assenza.

Perret-Catipovic
Per rispondere a queste domande comincio col porne un’altra: noi terapeuti abbiamo il diritto di avere nostre esigenze? Ad un certo momento del trattamento è emersa l’esigenza della terapeuta di una frequenza bisettimanale e mi sono chiesta se, come terapeuti, abbiamo il diritto di imporre delle esigenze rispetto al paziente. Il prof. Novelletto questa mattina ha posto queste domande: il setting a frequenza bisettimanale è il setting ideale per questa ragazza, corrisponde al suo livello di funzionamento psichico, oppure è il caso di accompagnare questa terapia con altri tipi di interventi, come l’ospedalizzazione? Questo ci riporta agli accorgimenti tecnici congeniali al lavoro con adolescenti. Questa mattina con un po’ di ironia mi riferivo alle esigenze di Freud di imporre alle pazienti di non sposarsi, di non avere figli durante il trattamento ecc. E’ inutile ricordare che allora un’analisi durava tre o quattro mesi ed era più facile imporre esigenze come quelle. C’è da porsi il problema se con gli adolescenti abbiamo il diritto di porre delle condizioni, che non sono soltanto condizioni esterne quali la frequenza settimanale e il pagamento. Non si tratta qui soltanto di onestà ma anche di umiltà. T. dice che in fondo si tratta soltanto di due ore a settimana e, anche se si trattasse di cinque ore settimanali, non sarebbe molto. Però dobbiamo avere una posizione chiara: è possibile fare questo lavoro di terapeuta solo a certe condizioni. Dicendo che la terapia esige di per sé tali condizioni, se queste condizioni in quel momento non sono consentite all’adolescente dobbiamo lavorare affinché siano rese possibili. Faccio l’esempio di un ragazzo, il quale chiedeva esplicitamente un trattamento di almeno tre volte a settimana. Io gli ho detto “va bene, ma soltanto a condizione che frequenti l’ospedale diurno”. Nel caso di T. le condizioni da porre all’adolescente sono quattro: accettare di incontrare un assistente sociale, accettare la frequenza all’ospedale diurno, accettare che i genitori vengano visti dall’assistente sociale e un eventuale trattamento farmacologico. E’ estremamente importante e onesto non lasciare all’adolescente l’illusione che la terapia o noi stessi siamo onnipotenti, dal momento che fantasie di questo genere le farà da sé. Dobbiamo quindi sottolineare che siamo noi ad aver bisogno di queste condizioni per poter lavorare. Nel caso del ragazzo di cui sopra ho posto queste condizioni per evitare che la terapia diventasse l’unica cosa importante nella sua vita e quindi un oggetto perverso. Sono d’accordo con la dott.ssa Castellano sul fatto che la realtà è importante, in effetti la realtà è importante allorché si valuti se si può instaurare il setting. Per esempio nel caso di rischio di tentativo di suicidio dobbiamo sapere se l’ambiente è capace di contenere le angosce sottostanti o se è preferibile l’ospedalizzazione. In fondo le procedure che qualificano un approccio prettamente psicoanalitico consistono nel lavoro che faremo insieme con l’adolescente per cercare un senso. Nel caso in cui l’adolescente attacca il setting e noi cerchiamo di difenderlo, non è affatto sufficiente rispondere “no, questo è fuori dal setting”, in quanto l’adolescente vivrà questa affermazione come un esercizio di potere da parte dell’adulto nei suoi confronti, come qualcosa di arbitrario e di ingiusto. Di fronte alle richieste di T. di un quarto d’ora in più o di restare anche la sera, non basta dire “no, il setting è il setting”. Dobbiamo fare attenzione sia al senso della richiesta fatta dall’adolescente sia al senso del setting, senza tuttavia perderci in spiegazioni pseudopedagogiche. Credo che il punto centrale consiste nel dare un senso a ciò che si fa. Finché noi rispondiamo alle domande dell’adolescente con un “no” o interpretiamo le richieste come un bisogno di intrusione, non centriamo il problema da affrontare. Credo che sia molto importante chiarirci il significato del setting e dei suoi limiti, ad esempio dire che l’assenza è anche un nostro bisogno, per avere un recupero ed essere di nuovo disponibili. Questa risposta prende in considerazione i bisogni del terapeuta senza metterci in una posizione di onnipotenza, che l’adolescente continuamente presume da parte nostra. In fondo ciò che l’adolescente attacca nel setting è proprio la supposta onnipotenza del terapeuta. Dobbiamo quindi scegliere se dare spiegazioni che inevitabilmente risultano inutili, barricarci in un rifiuto di cambiamento del setting oppure dare un senso a ciò che succede.
Un’altra questione sollevata mi sembra la seguente: che cosa fare quando la realtà esterna diventa così drammaticamente presente? E’ naturale che si tenga conto della realtà esterna, senza però entrarci direttamente. Non dimentichiamo che il rapporto è particolare. Come può un adolescente capire da solo perché l’analista ha un determinato comportamento, dal momento che a sua volta egli si aspetta di essere subito capito? Diventa particolarmente perturbante per l’adolescente il fatto che l’analista come adulto non sappia o non voglia dare consigli, quindi va dato un senso a questa nostra posizione di riserva. Mi viene in mente un’adolescente che piangeva a dirotto e chiedeva “perché non mi aiuta, io so benissimo che lei sa, ma non parla e non mi dice niente semplicemente per una sua esigenza di frustrarmi”. Allora io le ho raccontato la seguente storia: una persona sta morendo di fame, vede un pescatore passare, gli chiede di darle da mangiare, il pescatore le dà del pesce e lei l’indomani si ritrova nella stessa situazione. Allora un altro pescatore le offre di insegnarle a pescare. Avrà ancora fame per un certo periodo, ma dopo sarà autonoma. Mi capita di dire cose del genere per dare il senso a questa frustrazione, dal momento che il setting è inevitabilmente vissuto come frustrazione.

Ladame
Aggiungerò poche parole sempre nella stessa ottica. Mi soffermo sulla questione della costruzione del setting, dal momento che da ciò deriva la possibilità di una buona evoluzione di un trattamento, oppure il suo fallimento. Quando ci si trova di fronte ad un paziente gravemente malato, è logico diventare più meticolosi e dettagliati del solito. A proposito di T. vi ricorderete che, prima di consultare la dott.ssa Castellano, era stata da un’altra terapeuta. T. riferisce che questa terapeuta “non era completamente disponibile”. Ma cosa significa per T. la disponibilità completa di cui ci parla? Si tratta sempre di sedute di 45 minuti, che eccezionalmente si ripetono cinque volte a settimana, di solito solo due o tre volte. Allora nelle altre ore che cosa succede? Con pazienti gravemente disturbati, credo che sia molto importante nel costruire il setting non solo esplicitare ciò che si può offrire (per esempio con la metafora del pescatore) ma anche esplicitare ciò che non faremo. Certo così si raddoppia la frustrazione: non c’è soltanto la frustrazione del setting limitato al tempo della seduta, ma c’è anche l’altra frustrazione, legata a ciò che non faremo. Nel caso di adolescenti che hanno un tentativo di suicidio alle spalle o si trovano in una crisi di altra natura il problema è il seguente: sarò io che correrò a casa del paziente se lui sta male, o sarà la guardia medica a intervenire? Cosa farò circa le telefonate dei genitori? Tutti questi aspetti sarebbero secondari se avessimo a che fare con pazienti che hanno integrato una loro conflittualità psichica, ma diventano sostanziali con gli adolescenti. Io parto da considerazioni anche molto pratiche e concrete. E’ estremamente importante chiarire all’adolescente ciò che il setting è e ciò che non è, che non offre. Per esempio a proposito dell’ospedalizzazione dobbiamo far sapere all’adolescente che non possiamo garantire che non ci debba essere bisogno di un ricovero. Che nel caso che ci sia bisogno di una terapia farmacologica sarà il medico ospedaliero a gestirla. Tutto ciò serve a porre limiti all’onnipotenza del terapeuta. Ricordo che molti anni fa su questo problema un adolescente mi trasse in errore. Era un ragazzo che stava in un collegio, ma poi per i suoi studi passò all’università e lì si è completamente perso, non ha continuato a studiare né ha mai lavorato. A quel punto non ho potuto fare altro che arrabbiarmi con me stesso per aver sottovalutato la differenza tra il setting rigido di contenimento, propostogli attraverso il collegio e il setting dell’ambiente universitario, che non offriva lo stesso contenimento. Certo non siamo così ingenui da pensare che, per il fatto di averle dette, l’adolescente possa capire queste cose ad un livello sia conscio che inconscio. In effetti la cautela e i limiti di cui abbiamo parlato sono estremamente importanti nel momento in cui il setting rischia di cedere per una crisi. Per esempio nel caso di una crisi che richieda una ospedalizzazione, per il fatto che abbiamo ben specificato all’inizio possiamo mettere in tensione da una parte l’aspirazione dell’adolescente di vederci onnipresenti e onnipotenti e dall’altra la delusione che in effetti non è così. In altre parole possiamo lavorare sullo scarto che c’è tra le cose dette, recepite dall’adolescente ad un livello conscio, e altre aspirazioni che continuano ad essere nutrite nel suo inconscio, cioè le aspirazioni che il terapeuta sia onnipotente e onnisciente, ciò che suscita la fantasia che in un domani egli stesso possa diventare a sua volta onnipotente. Io ho preso l’abitudine di chiarire all’adolescente che posso offrirgli un trattamento di tipo psicoanalitico, ma che esistono altri tipi di interventi terapeutici, e questo nell’ottica di dare all’adolescente la possibilità di una scelta attiva, dal momento che i pazienti più compromessi spesso hanno bisogno della possibilità di scegliere, almeno parzialmente. Non c’è nulla di più ingannevole che iniziare una terapia sotto la prospettiva di una salvezza (“io ti salverò”), in quanto premesse del genere indirizzano facilmente la terapia verso la collusione e la seduzione narcisistica.

Perret-Catipovic
Che cosa succede veramente, se si considera che nove adolescenti su dieci non sanno chiedere un trattamento perché non sanno di cosa si tratta? In effetti gli adolescenti sono spesso indirizzati da altre persone oppure vengono con aspettative molto elevate, per cui si attendono che noi spieghiamo. Nell’approccio con l’adolescente la prima trappola è la seduzione vera e propria. L’adolescente sta male, si rivolge a noi e a quanti di noi sono convinti di poter fare qualcosa per lui. C’è il rischio che si finisca per proporre cose che non potranno mai essere dimostrate, cioè che siamo la persona giusta, che il trattamento proposto è una cosa giusta ecc. Poi, dopo un periodo iniziale di idealizzazione della terapia, arriva la frustrazione. Quindi se abbiamo cominciato la terapia con la seduzione, all’arrivo della frustrazione sarà fatale in qualche modo lasciarsi. Spesso gli adolescenti che hanno alle spalle trattamenti interrotti dicono che i terapeuti precedenti “non hanno mantenuto le loro promesse”. Lascio da parte altri rischi legati alla seduzione. Quando è presente questo bisogno di accogliere, di portare a sé l’adolescente verso il trattamento, sarà proprio questo bisogno ad allontanare l’adolescente. Una paziente diversi anni fa mi disse “non riesco a capire, lei fa esattamente tutto il possibile per scoraggiarmi ad iniziare un trattamento” ma oggi è in grado di dirmi “se lei non mi avesse resa attenta a tutte le difficoltà che avrei incontrato in questo percorso, sicuramente avrei interrotto dopo poco”. Questo mi sembra una cosa molto umana, siamo abituati a parlare di tecnica ma non dobbiamo dimenticare il buon senso.

Ladame
Riprendo la questione posta da Novelletto sulla trattabilità. Per quanto riguarda la trattabilità ciò che è importante nel costruire il setting è essere precisi e chiari. A seconda delle circostanze dobbiamo fare appello a dei punti di riferimento, a dei parametri, a degli elementi ausiliari per aiutarci e aiutare l’adolescente. A questo punto è molto importante perché attraverso messaggi espliciti passano altri tipi di messaggi impliciti ancora più importanti: che stiamo prendendo molto sul serio la patologia del paziente, che abbiamo l’esperienza per valutare la sua psicopatologia e la sua forza distruttiva, che non siamo terrorizzati quanto il paziente dalla forza distruttiva della sua patologia, che anticipiamo i mezzi di reazione e i rimedi possibili.

Perret-Catipovic
Vorrei tornare alle domande poste dal dott. Biondo, che erano due: una riguarda il ruolo dell’ambiente e l’importanza da dare all’ambiente nella costruzione del setting, l’altra riguarda il ruolo dell’acting e, in particolare nel caso di T., se gli acting possono avere lo scopo di proteggere la terapia facendo intervenire terzi. Sono d’accordo con questo punto di vista. E’ rarissimo che l’adolescente non faccia un acting nel corso di una terapia. Un acting del tipo tentativo di suicidio può essere facilmente vissuto come un fallimento della terapia e d’altra parte i nostri colleghi della medicina d’urgenza non mancano di ricordarci questo aspetto (“insomma è da tre anni che fa terapia per ottenere questo risultato”). Siamo spesso sollecitati a intraprendere una terapia farmacologica o di altro tipo. Secondo me la tendenza all’acting non costituisce una controindicazione rigida alla psicoterapia psicoanalitica, a condizione che se ne possa trovare un senso. C’è bisogno di trovare un significato insieme, altrimenti non potrei lavorare con adolescenti che utilizzano l’acting al posto del pensare. Invece non capisco perché se un adolescente che si è trovato a fare un acting in quanto in quel momento era sopraffatto, ma che chiede di capirne il senso, non potrebbe avvalersi di un trattamento psicoanalitico. Talvolta dei tentativi di suicidio che intervengono nell’ambito di un trattamento sono o possono essere un segnale di ripresa evolutiva. Ci possiamo trovare di fronte a situazioni di blocco prolungate nel tempo, per due o tre anni, poi improvvisamente c’è un tentativo di suicidio, e qualche volta questo tentativo di suicidio offre l’occasione di una ripresa evolutiva. E’ un argomento molto delicato in quanto c’è sempre il rischio che si assolutizzi il concetto, per cui qualsiasi tentativo di suicidio diventerebbe espressione di un miglioramento. Allo stesso modo uno scompenso psicotico che irrompe nel corso di una terapia può costituire un’ottima occasione. Voglio citare un flash clinico che riguarda la terapia di un’adolescente con la quale ho lavorato cinque anni solo sulla possibilità di poter lavorare. Aveva una problematica narcisistica tale da non potersi permettere di essere aiutata da un’altra persona. Per cinque anni non ha fatto nessun mutamento, un anno fa ha presentato uno scompenso psicotico che ha richiesto un ricovero ospedaliero di un anno e adesso possiamo dire di aver cominciato una vera psicoterapia. Quindi questi scompensi improvvisi o tentativi di suicidio non sono di per sé una controindicazione al trattamento psicoanalitico.

Gino
Vorrei tornare al problema del setting e ad una frase detta questa mattina, “l’orrore della differenza”. In fondo l’adolescente quando ci incontra per la prima volta si presenta con questo paradosso: ha l’orrore, l’angoscia della differenza ma non lo sa. Noi dobbiamo affrontare questo paradosso in modo che l’adolescente possa accettare pian piano uno spazio, un contenitore in una maniera più condivisa. Poi però mi è sembrato che il problema del setting venisse posto un po’ in maniera tradizionale freudiana: il setting viene stabilito dal terapeuta che ha l’autorità di porre le sue condizioni. A questo punto io mi chiedo se l’adolescente non venga posto di fronte al suo paradosso in maniera drammatica. Se invece cominciamo a pensare al setting come una psicoanalisi del setting noi possiamo cercare di vedere fin dall’inizio qual è il significato inconscio della nostra proposta per quell’adolescente in quel momento. In questo senso il setting può essere costruito insieme al paziente, non soltanto come contenitore, cioè come aspetto intermedio di pensabilità che il paziente non ha, ma anche come costruzione reale, perché il paziente ha un pensiero molto concreto, avendo una limitatissima attività del preconscio. A me spesso è stato utile costruire il setting anche in senso concreto non dando una proposta come definitiva o definitoria, ma cercando di capire insieme cosa significava per l’adolescente venire a parlare con me, quali erano le sue fantasie, idee e ipotesi. Da qui si passa a costruire gradualmente il setting giungendo sopra tutto a pensare l’assenza, perché sorge il problema non solo delle vacanze ma anche delle sedute mancate. Credo quindi che tutto il significato debba essere pensato dall’analista in funzione delle fantasie che il paziente porta nella relazione e del materiale attuale su che cosa per lui significhi quest’incontro con il terapeuta. Attraverso questo lavoro lo si aiuta ad acquisire quel minimo di alleanza necessario ad accettare certe regole che per noi sono ovvie, ma per l’adolescente non lo sono affatto. Nel caso di T. la dott. Castellano è passata da una a due sedute, ma per mantenere le due sedute ha dovuto proteggersi attraverso il terzo perché forse la frequenza bisettimanale era a rischio. Che cosa questo ha significato nella coppia? Forse faceva parte di quell’analisi dei significati del setting che è molto importante sia compiuta nella mente dell’analista prima di esplicitarla al paziente. Mi chiedo se questa ipotesi è corretta.

Ladame
Ringrazio la collega per l’intervento così ricco, che mi consente di aggiungere qualche punto. E’ vero che c’è una certa ambiguità intorno al concetto di setting come “ messo lì”. Il setting non è mai veramente acquisito una volta per tutte, è invece sempre di nuovo messo lì per essere rielaborato, riconquistato. E’ importante che l’analista, seduta dopo seduta, sia particolarmente attento non solo al senso che ha il setting per il paziente, ma anche all’evoluzione di questi significati, perché c’è spesso un’evoluzione. Per quanto riguarda il concetto del ruolo della differenza, ogni setting incarna in fondo questa differenza. Ricorderete la vignetta del caso clinico presentato nel primo seminario. Riguardava una ragazza accolta nell’ospedale diurno, la quale parlava del suo disagio, della sua psicoterapia con frequenza settimanale, ma era come se andasse dalla terapeuta a prendere una tazza di tè. Avevo consigliato alla terapeuta che l’ha seguita in quel periodo di concentrare il lavoro intorno a questo paradosso. Quella ragazza è rimasta tre settimane nell’ospedale diurno e nel corso degli incontri è emersa l’intolleranza che aveva nei confronti dell’asimmetria e della dipendenza. Riconoscere di essere malati, riconoscere in qualche modo l’asimmetria significava per lei diventare dipendente. Durante la permanenza nel diurno emerse anche un altro paradosso. Prima del ricovero c’era stata una lunga negoziazione tra lei e la terapeuta sulla frequenza delle sedute, durante il ricovero la madre si era attivata per passare a tre sedute. Per quanto poteva essere auspicabile questo passaggio, era qualcosa di inaccettabile per la paziente, perché questa proposta la metteva in una situazione intollerabile di identificazione al padre, affetto da psicosi maniaco-depressiva e seguito con frequenza plurisettimanale. Ecco perché sono d’accordo sul fatto che il setting non è affatto prestabilito, ma viene continuamente rimesso in discussione e costruito.

Castellano
Il tema delle due sedute è un tema che T. porta sin dai primi incontri, in quanto per lei una settimana di attesa era troppo. La ridefinizione del setting però diventa possibile dopo il tentativo di suicidio ed è stata da me posta come condizione per continuare a vedere T., in quanto suo padre non voleva che le sedute aumentassero.

Intervento non identificato
A proposito della costruzione e della riformulazione continua del setting credo che, perché ciò avvenga, la coppia terapeutica al lavoro debba avere una cornice di protezione. Nella situazione nevrotica dell’adulto è la funzione di pensiero. Spesso nell’adolescente questa funzione è precaria, quindi ricorriamo ad un’alleanza più o meno tacita con i genitori, cioè ci aspettiamo che i genitori, come alleati silenziosi, si mettano sullo sfondo per favorire che questo avvenga (pagano la terapia ecc.). Però spesso ciò non accade. Sarei curiosa di sapere come vi muovete in quest’area in cui c’è una carenza di questa cornice di riferimento che protegge il setting.

Perret-Catipovic
Questo intervento mi consente di affrontare la differenza che c’è tra il pubblico e il privato. In effetti talvolta, preoccupandoci della necessità di proteggere la psiche adolescenziale, ci dimentichiamo che l’adolescente è in una condizione di dipendenza dai genitori o dallo Stato. Spesso c’è qualcuno che è garante della possibilità di poter costruire un setting. L’adolescente, per quanto motivato a stabilire e mantenere il setting, non può assolutamente farsi garante per esso, anche per il solo motivo che non ha la possibilità di pagarsi le sedute. L’assenza delle sedute mancate è più facile elaborarla con i genitori che non con l’adolescente. Io non conosco le condizioni effettive in Italia, conosco le condizioni in cui ho potuto lavorare e che sono effettivamente favorevoli. Nella mia esperienza il servizio pubblico si rende garante del trattamento e quindi del setting. Questa garanzia da parte di un istituto pubblico è estremamente utile in tre tipi di situazioni con adolescenti. Il primo caso è quello dell’adolescente che chiede il trattamento ma i genitori lo rifiutano. L’istituzione si fa garante del trattamento.
Il secondo caso riguarda quegli adolescenti che sono talmente malati che non possono recarsi autonomamente dal terapeuta. Bisogna quindi distinguere la costruzione del setting dalla capacità dell’adolescente di utilizzarlo. Cosa facciamo nel caso in cui un adolescente è ospedalizzato e quindi non può recarsi alle sedute? Nel privato è più difficile mantenere queste sedute senza che l’adolescente venga, mentre nel servizio pubblico questo è possibile e si ottengono anche brillanti risultati. Mi riferisco ad una ragazza che ho conosciuto all’età di 15 anni, che continuamente veniva portata dalla polizia in stato di coma etilico. Questa ragazza al massimo poteva accettare che c’era qualcosa che non andava, ma era animata da un odio e una violenza tali che l’unico suo progetto era quello di diventare una terrorista. Ho proposto una psicoterapia a frequenza bisettimanale e in tre anni ha utilizzato la terapia al massimo dieci minuti a settimana: non veniva affatto o veniva gli ultimi dieci minuti oppure arrivava l’ultimo minuto per dire che non poteva venire. Ogni volta che avevo intenzione di ridurre una seduta (visto che la ragazza non veniva) il supervisore mi diceva che sbagliavo e avrei dovuto aumentare la frequenza a tre sedute. Ora sono dieci anni che lavoriamo insieme e ha potuto ripercorrere tutto quello che le era successo quando non veniva alle sedute. La fortuna che ho avuto di curare una paziente del genere mi ha consentito di capire quanto era giusto ciò che mi suggeriva il supervisore: non ero autorizzata a non conservare le sedute per il fatto che la paziente non veniva. E’ evidente che tutto ciò nel privato non è possibile, chi paga 10 minuti di seduta su 45 minuti?
La terza condizione in cui il pubblico è avvantaggiato rispetto al privato è quando il caso richiede una molteplicità di interventi contemporaneamente: trattamento psicoanalitico, farmacologico, familiare... Sono d’accordo che non è sufficiente moltiplicare i trattamenti, bisogna anche coordinarli, però questo lavoro di coordinazione dei trattamenti richiede molto tempo, non si tratta solo di coordinazione, ma anche di integrazione. Quando l’adolescente effettua diversi trattamenti, al di là della terapia individuale che proponiamo, dobbiamo avere anche il tempo di riflettere e spazi di discussione di gruppo con gli altri colleghi, discussioni che comprendono anche la dinamica del gruppo.





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