PSYCHOMEDIA --> HOME PAGE
A e P --> HOME PAGE --> Anno II - N° 2 - Maggio 2002




Anno II - N° 2 - Maggio 2002


L’articolo del maestro




L’alleanza terapeutica nella psicoterapia degli adolescenti (1)

John E. Meeks



Parte I - Adolescenti in psicoterapia ambulatoriale.

Circa sette anni fa (Meeks, 1971) uscì la prima edizione di La fragile alleanza. Essa conteneva un’ampia discussione della natura dell’alleanza terapeutica nella psicoterapia degli adolescenti, dei fattori tecnici implicati nella realizzazione dell’alleanza e dei problemi che minacciano l’alleanza nel corso della terapia. Da quando ho redatto quel testo ho trovato ben poco che potesse smentire i concetti fondamentali che vi avevo descritti. Poiché ogni lettore interessato può consultare quella trattazione esaustiva della questione, non mi sembra molto utile riportare il materiale dettagliatamente esposto in quell’occasione. Ripercorrerò invece brevemente i principi generali.
Però, dopo aver scritto il libro, ho avuto l’opportunità di interagire con molti adolescenti che forse non avrebbero esemplificato tutti quei criteri che avevo descritto ne La fragile alleanza a proposito della terapia ambulatoriale. Molti di loro erano stati trattati in un setting residenziale e continuavano ambulatoriamente la terapia come sviluppo dei loro programmi di cura. Altri non erano stati trattati da me nel corso di ricoveri, ma mi erano stati inviati in follow up ambulatoriale da colleghi che li avevano curati in internato. Tutti questi ragazzi comprendevano una vasta gamma di categorie diagnostiche, inclusa la schizofrenia, la psicopatologia borderline, disturbi narcisistici gravi e svariati disturbi caratteriali.
L’esperienza con questi giovani mi ha gradualmente portato ad ampliare il concetto di alleanza terapeutica. Mi è parso evidente che molti di loro sono incapaci di sviluppare quel livello di rapporto, implicito nel concetto di alleanza terapeutica, che ho presentato ne La fragile alleanza. Eppure, malgrado questo “deficit” molti di loro migliorano considerevolmente durante la psicoterapia. Sebbene molti problemi e molte questioni siano tuttora irrisolti, cercherò di formulare alcune osservazioni e conclusioni sull’alleanza di questo numeroso gruppo di pazienti adolescenti, sulla scorta di una breve rassegna del materiale raccolto.

Breve rassegna dell’alleanza terapeutica nella terapia ambulatoriale di adolescenti.

Ho già premesso che la psicoterapia ambulatoriale dovrebbe essere avviata solo dopo che alcune questioni diagnostiche importanti siano state risolte nel corso di una approfondita valutazione.
1) E’ l’adolescente autenticamente preoccupato da certi aspetti del suo funzionamento psichico? Questa domanda può essere quando l’adolescente ha paura di apparire vulnerabile o bisognoso di una relazione di dipendenza. Non ci si deve aspettare che ogni adolescente trattabile esprima apertamente e direttamente preoccupazione e desiderio di cambiare. E’ ancora meno verosimile che l’adolescente per primo affermi che la terapia sarà una fonte sicura di assistenza in ognuna delle aree di difficoltà che lo preoccupano. Ne consegue che molti ragazzi presentano una evidente negazione di problemi e rifiuto d’aiuto. Eppure lo psicoterapeuta esperto, sensibile e attento può distinguere con relativa facilità queste manovre ansiose, dirette a salvare la faccia, da una vera e propria accettazione della psicopatologia.
2) E’ l’adolescente capace di osservare il proprio funzionamento psichico e riferirlo al terapeuta con ragionevole accuratezza e sincerità? Ovviamente non ci si aspetta che l’adolescente abbia la capacità o la motivazione di comportarsi in tal modo durante una valutazione diagnostica o durante le fasi iniziali della psicoterapia. Però caute confrontazioni di assaggio rendono spesso evidente che il giovane questa capacità ce l’ha.
3) In quale misura la famiglia del paziente appoggerà la terapia? Questa domanda si riferisce al fatto che la psicoterapia individuale è spesso vissuta dai genitori come decisamente minacciosa. Ciò è vero sopra tutto quando la psicopatologia dell’adolescente è essenziale per mantenere una omeostasi patologica della famiglia. Accade pure nelle situazioni in cui i genitori per varie ragioni non riescono a permettere che l’adolescente si attacchi fortemente a qualcuno fuori dei confini famigliari. Indipendentemente dalle ragioni, in famiglie come queste è probabile che la psicoterapia individuale si interrompa prima della sua positiva conclusione, a meno che un trattamento famigliare iniziato fin da prima oppure una concomitante terapia dei genitori non siano inclusi nel progetto terapeutico. In senso molto reale bisogna che l’alleanza terapeutica ci sia con tutti i membri significativi della famiglia e non soltanto con il paziente designato.

Come stabilire l’alleanza

L’alleanza terapeutica si comincia a stabilire durante la fase di valutazione. In un certo senso decidere che un ragazzo è insoddisfatto di certi aspetti della sua personalità, ha la volontà e la capacità di osservarsi e descriversi e che la sua famiglia non ha un intento definito di interrompere la terapia, sono tutti elementi che implicano un iniziale riconoscimento che un’alleanza si sta sviluppando.
Cionondimeno quando la terapia inizia ufficialmente la resistenza spesso s’irrigidisce e il lavoro di stabilire un’alleanza terapeutica solida comincia sul serio.
Io credo che la chiave per raggiungere questo scopo stia nell’interpretazione accurata e sistematica degli stati affettivi appena essi compaiono nel processo terapeutico e in particolare quando riguardano la stessa situazione di colloquio. E’ particolarmente importante fare attenzione alle sottili distorsioni della relazione interpersonale così come essa si sviluppa nel “qui e ora” delle sedute. Queste distorsioni possono assumere molte forme ma rappresentano sforzi consci o inconsci dell’adolescente di negare il terapeuta come persona capace di aiutarlo oppure di sedurre il terapeuta coinvolgendolo in una interazione nevrotica piuttosto che in una terapeutica.
Può essere utile menzionare qualcuna delle forme più comuni di assaggio iniziale. L’adolescente può indurre il terapeuta ad assumere una posizione onnisciente e controllante, può provocare la riprovazione morale minacciando o implicando un comportamento antisociale, oppure può sfidare il terapeuta a competere oppure a dare una dimostrazione immediata dell’efficacia terapeutica.
Di solito queste manovre sono relativamente trasparenti se il terapeuta si sente a suo agio sia quanto all’efficacia che quanto ai limiti della psicoterapia. Se si è in grado d’insistere tranquillamente che l’unico scopo delle sedute è quello di fornire sia al paziente che al terapeuta una comprensione migliore dei veri sentimenti dell’adolescente, è relativamente facile capire e opporsi alle manipolazioni che mirano a distorcere il processo terapeutico.
Però molti fattori psicologici interferiscono con questa serena obiettività. Spesso il terapeuta incontra i pazienti adolescenti in una atmosfera di crisi in cui egli diventa il punto focale di angosce e preoccupazioni intense che provengono dai genitori, dalle autorità scolastiche, gruppi di riferimento e altri adulti significativi nella comunità. La pressione a “fare qualcosa” quando la situazione è caotica può interferire seriamente con la determinazione del terapeuta di affrontare il problema sistematicamente e logicamente.
Per di più, ci può essere qualcosa di vero nell’affermare che la maggior parte degli adulti, anche quelli che abbiano fatto una psicoanalisi, possono aver rimosso gli affetti connessi alla loro adolescenza. Il risultato è un falso senso di ricordare e capire l’esperienza personale del periodo adolescente dello sviluppo ed il suo impatto sul funzionamento adulto.
A causa di questo auto-inganno difensivo noi rimaniamo molto vulnerabili di fronte alle risposte irrazionali al comportamento adolescente, motivate dal controtransfert. In questo campo possiamo migliorare solo attraverso l’esperienza, l’autointrospezione e l’uso regolare della supervisione. La supervisione da parte di pari grado sembra particolarmente utile in questo caso perché la tendenza alla difensività è minore di quella prodotta dal risveglio dei conflitti adolescenziali nel processo di supevisione con un collega più anziano o più esperto. E’ anche molto utile ricorrere all’eccellente lavoro di Keith (1968) sulle “alleanze empie”. La sua chiara esposizione della comparsa di queste relazioni non terapeutiche nella terapia di bambini può essere agevolmente estesa al lavoro con gli adolescenti.
Sebbene ci siano alcune prove obiettive della presenza dell’alleanza terapeutica, è possibile riconoscerla immediatamente attraverso il tono generale delle sedute terapeutiche. Quando c’è un’alleanza, la psicoterapia assume il gradevole senso di un intento comune ma porta con sé anche una consapevolezza piuttosto sobria e sottintesa che il lavoro è serio e che ci sono in gioco questioni importanti. Molti terapeuti riferiscono di provare un senso soggettivo di leggera fatica insieme alla soddisfazione professionale quando si conclude un’ora di psicoterapia guidata da un’alleanza terapeutica autentica.
E’ anche importante ricordare che l’alleanza non è assolutamente statica. Il lavoro efficace che è reso possibile quando si sviluppa un’alleanza minaccia continuamente la stabilità dell’alleanza stessa, perché si riconoscono e si sfidano nuove difese, nuovi moti transferali si avvicinano alla coscienza e zone di conflitto e di vulnerabilità si rivelano all’esame terapeutico. In quei momenti vecchie e nuove resistenze tendono a caratterizzare le sedute e il lavoro di costruzione dell’alleanza deve essere ripetuto prima che si possa verificare un’ulteriore crescita genuina nella seduta. Di regola è meno difficile ottenere tutto ciò se è stato fatto per la prima volta quando la terapia ha avuto inizio, grazie alla residua fiducia nella benevolenza del terapeuta e alla ferma insistenza sull’atteggiamento di neutralità esplorante.
Queste avvertenze non dovrebbero essere intese come una raccomandazione ad adottare, con gli adolescenti disturbati, un approccio distaccato, anemotivo e totalmente cerebrale. Infatti, come Friedman (1969) ha suggerito in merito allo sviluppo dell’alleanza terapeutica nel lavoro analitico, probabilmente l’alleanza si può formare solo in ragione del desiderio del paziente di trovare una esperienza più sana di essere nutrito. Il lavoro di Friedman sostiene che c’è un paradosso intrinseco nell’affermare che la relazione cooperante e a fine inibito del paziente con il terapeuta può essere cementata da quegli stessi impulsi che la relazione cerca di portare alla luce e modificare.
Queste dinamiche sono ancora più marcate nel paziente adolescente, che tende a considerare molti adulti o come oggetti pericolosi, potenzialmente incestuosi degli impulsi proibiti, o, più frequentemente, come figure superegoiche disseccate che si oppongono ad ogni gratificazione piacevole. Quindi molti degli assaggi iniziali di cui parlavo prima esprimono gli sforzi dell’adolescente di assicurarsi di aver trovato qualcuno che lo aiuterà a crescere a suo modo e che non vuole né stimolare i suoi impulsi per procurarsi gratificazioni sostitutive, né contrastarli a causa d’inibizioni nevrotiche o d’invidia generazionale. Insomma il paziente è alla ricerca di una figura di genitore che gli offra l’opportunità di una maturazione interiore armoniosa. E’ dunque evidente che un terapeuta che appaia freddo, indifferente e distaccato difficilmente andrà incontro ai bisogni del paziente. Però il terapeuta che sembra avere idee predeterminate su cosa è meglio per il paziente o eccessivo bisogno di piacere al paziente o che appare eccessivamente simpatico o perfino sommerso dalla situazione del ragazzo è altrettanto inaccettabile.

Variazioni nel quadro dell’alleanza terapeutica

Nel mio libro La fragile alleanza ho scritto che quando le tendenze transferali onnipotenti dell’adolescente vengono sfidate “di solito l’adolescente reagisce con irritazione o addirittura con collera. Ciò accade perché il transfert ricopre il fantasma segreto dell’onnipotenza personale. Dopo tutto l’adolescente concede al terapeuta il suo potere! E’ l’adolescente che ne gode i vantaggi. Il terapeuta fa la parte del gonzo fungendo per conto dell’adolescente da difesa contro la paura di fronteggiare la realtà senza poteri magici”. Guardandola retrospettivamente questa visione della dinamica e della struttura dei transfert narcisistici è ingenua e semplicistica.
I contributi di Kohut (1971) e di altri hanno notevolmente ampliato la nostra comprensione della natura della psicopatologia narcisistica e delle sue espressioni nel contesto della relazione terapeutica. Molti adolescenti con disturbi significativi dello sviluppo narcisistico hanno bisogno di ingigantire il terapeuta (il transfert idealizzante) oppure di sollecitare continuamente l’ammirazione del terapeuta per loro (il transfert speculare). Tenendo conto del loro disperato bisogno di elaborare nella relazione terapeutica questi deficit di sviluppo non c’è da stupirsi se essi reagiscono rabbiosamente quando questi modi di entrare in relazione sono contestati o rifiutati. Se il terapeuta è in grado di accettare con neutralità questi sentimenti così come ogni altra distorsione della sua vera natura e funzione, il paziente lascerà gradualmente cadere le proprie irrealistiche idee.
Kohut ha descritto la graduale disillusione circa l’immagine genitoriale idealizzata, narcisisticamente investita, che caratterizza lo sviluppo normale. Questa disillusione si verifica senza alcuna sconfessione verbale, attraverso la naturale frustrazione delle aspettative onnipotenti del paziente. Secondo la mia esperienza, rinunciare a questa illusione è molto penoso ed è spesso accompagnato da periodi alterni di depressione e di rabbia diretta contro il terapeuta.
Come ha fatto notare Kernberg (1975) molti di questi giovani si servono di difese molto primitive, specialmente la scissione. Quando si sta accettando un transfert troppo positivo è necessario fare attenzione ai sentimenti di rabbia e di frustrazione che vengono espressi con altre persone, perché si può supporre che anche quelli finiranno per arrivare nel transfert. In altri casi i ragazzi di questo tipo possono cominciare la terapia con una dimostrazione del lato negativo della loro ambivalenza. Ciò è reso probabile dalla identificazione proiettiva, che porta il soggetto a temere che il terapeuta covi quegli impulsi e quelle azioni che in realtà vorrebbero esprimersi nella mente del soggetto stesso. Sebbene l’approccio tecnico classico dovrebbe includere qualche interpretazione del fatto che le preoccupazioni e i sentimenti in questione sono del paziente, ciò va fatto con una buona dose di tatto e di abilità, onde evitare un ritiro paranoide del soggetto dal setting terapeutico.
E’ probabile che ci sia ancora molto da apprendere sul miglior modo di trattare gli adolescenti affetti da un grave danno delle relazioni oggettuali precoci. Tuttavia sembra chiaro che dobbiamo prepararci ad una varietà di incontri terapeutici diversi dal modello dell’alleanza terapeutica intesa come estensione relativamente obiettiva e cooperativa dell’Io osservante dell’adolescente.
Un’altra varietà di relazione terapeutica che sembra costruttiva pur senza essere proprio all’altezza del modello tradizionale si può osservare con i giovani che hanno una patologia del Super-Io. Johnson (1965) nei suoi scritti sulle lacune del Super-Io, ha descritto un aspetto centrale della terapia con riferimento alla prestazione del terapeuta come modello incorruttibile. Altri hanno sottolineato lo stesso punto (Meeks, 1978). Per esempio nel trattare giovani con un disturbo del Super-Io il terapeuta deve stare molto attento agli inevitabili sforzi dei pazienti tesi a corrompere la sua coscienza. Con gradi diversi di sottigliezza il paziente cercherà di corrompere il terapeuta mediante piccole infrazioni delle regole che possono spesso sembrare innocue. Quando il terapeuta accetta questa manovra bonariamente e senza critiche ma insiste sul “giocare secondo le regole” il paziente fa spesso passi avanti nello sviluppo del Super-Io.
Altri giovani utilizzano il terapeuta sui modi che ricordano quelli descritti da Aichhorn (1935) adottate dai ragazzi per puntellare il loro zoppicante giudizio di realtà e i controlli superegoici. Un quindicenne con una storia di reati giovanili ripetuti andava dicendo che non gli fregava un cavolo di ciò che il terapeuta pensava del suo comportamento. Anzi quando era tentato di ficcarsi in imprese antisociali soleva sfidare il terapeuta a dire cosa avrebbe fatto in quella situazione per evitare di mettersi nei pasticci. Naturalmente il paziente si beffava del parere del terapeuta ma poi invariabilmente lo seguiva. Poi nella seduta successiva si lamentava che la soluzione non aveva funzionato. In realtà questo ragazzo mostrò una crescita e uno sviluppo progressivi, non solo nell’evitare problemi con la legge ma anche nel rendimento scolastico e nelle relazioni famigliari.
Un altro quindicenne violento con forti tendenze delinquenti presentò un miglioramento rapido e duraturo nel proprio funzionamento durante un trattamento residenziale. Quando un compagno gli chiese come mai aveva smesso di aggredire chiunque, spiegò: “Il mio dottore è un campione di pugilato! Non mi va di appiccicarmi con il ragazzo”. In realtà il terapeuta pesava cinque chili meno di lui e non tirava di box da venti anni. In questi casi il paziente si crea il terapeuta secondo l’immagine di cui ha bisogno per sentirsi protetto dalle proprie tendenze a perdere il controllo. E’ importante riconoscere che queste immagini feroci, severamente controllanti, sono richieste su una base di emergenza e per accettare le proiezioni di cui sopra. Esse possono essere gradualmente e utilmente modificate dimostrando, nella gestione diretta del paziente, uno stile controllo degli impulsi più caldo, meno primitivo eppure affidabile.
Ci troviamo dunque una volta di più sul terreno ma senza carta geografica. E’ difficile valutare fino in fondo tutte le implicazioni dell’accettare alleanze di questo genere. Il problema è che esse sono basate su una visione non realistica della personalità e del funzionamento del terapeuta e quindi non sono soggette ad una valutazione e ad una discussione sincere. Devono essere considerate come fasi temporanee del trattamento e, come diceva Airchhorn, può essere che il terapeuta che dà questo aiuto non potrà continuare il trattamento quando il paziente sarà pronto per un’esperienza terapeutica più intensiva e più dinamica. In certi casi, però, il paziente può dimostrarsi in grado di capire la natura della precedente relazione e il bisogno che aveva di una immagine distorta del terapeuta. In questi casi è possibile elaborare lo stile precedente di mettersi in relazione e quindi avviarsi verso un’alleanza più tradizionale.
A queste relazioni terapeutiche ci si può accostare con le stesse domende che gettano luce sulle situazioni di transfert di qualunque paziente: “Come desidera vedermi il paziente?” “Cosa vuole da me?” Che cosa ciò apporta al suo funzionamento psichico?”. Quando queste domande trovano una risposta abbastanza adeguata, ciò permette al terapeuta di considerare almeno una domanda ulteriore: “In quale misura è per me etico e accettabile svolgere questa funzione per il paziente adolescente?”. Giovacchini (1974) ha descritto un tipo di paziente che è molto difficile tollerare perché i suoi bisogni transferali sfidano l’identità fondamentale del terapeuta come persona che offre aiuto. Il suo eccellente articolo su “Il paziente adolescente difficile” dovrebbe essere attentamente riconsiderato. Ci dobbiamo porre una domanda definitiva: “E’ possibile che questo stile di relazione alla fine produca nel paziente adolescente un funzionamento psicologico più sano?”. Può accadere di assistere molti adolescenti senza che si raggiunga mai una genuina alleanza terapeutica. Forse ciò che accade in questi casi è che il paziente crea nella persona del terapeuta un’immagine adulta particolare che può essere internalizzata non come oggetto di transfert ma come “oggetto reale” (Adatto, 1966), cosicché la maturazione psicologica può continuare.

Note:
(1) Pubblicato su The Short Course in Adolescent Psychiatry, ed. by J. R. Novello, Brunner/Mazel New York, 1979, che qui si ringraziano.





PSYCHOMEDIA --> HOME PAGE
A e P --> HOME PAGE --> Anno II - N° 2 - Maggio 2002