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Stella Daniele

Neutralita' e acting-in nel trattamento dei pazienti borderline




Relazione tenuta al Corso Avanzato di Psicoterapia Psicoanalitica, Lecce 4 Ottobre - 29 Novembre 2008


Segui pure il detto antico e mio cugino, il serpente.
Un di', nonostante questa tua somiglianza con Dio, conoscerai certamente la paura.
Goethe, Faust

La psicoterapia psicoanalitica di pazienti borderline apre un campo complesso e affascinante che mette a dura prova l'abilita' e la competenza dell'analista. Le caratteristiche intrapsichiche che caratterizzano questo quadro clinico, come la diffusione di identita', la presenza di difese primitive, la fluttuazione dell'esame di realta', la preminenza di relazioni oggettuali caratteristiche, determinano situazioni di crisi e manifestazioni di acting in/out che segnano quasi immancabilmente l'evoluzione delle sedute. Tali circostanze, spesso evocano intensi livelli di ansia nel terapeuta "costringendolo" a partecipare all'agire di dinamiche primitive del paziente rinunciando alla neutralita' e l'astinenza. In realta', il dibattito riguardante la "neutralita'" e gli acting out, accompagna il pensiero psicoanalitico dalla sua origine e ha contribuito al nascere di nuovi modelli concettuali che hanno orientato la prassi terapeutica migliorando l'efficacia del trattamento.
Nel tempo, l'approccio psicoanalitico dei pazienti borderline si e' modificato, anche ad opera dei contributi delle neuroscienze e di nuove correnti teoriche, che hanno spostato l'accento dal modello intrapsichico a quello interpersonale/interattivo. Il cambiamento di paradigma e l'apertura verso nuovi concetti provenienti da altre discipline, diverse dalla psicoanalisi, ha evidenziato l'importanza della comunicazione tra gli inconsci della coppia terapeutica, che possono (entrambi) far ricorso a modalita' non simboliche, pre-verbali, motorie e somatiche.
Conseguentemente, anche il significato di alcuni strumenti quali l'astinenza e la neutralita', e la concettualizzazione del controtransfert e degli acting out come ostacolo al trattamento, hanno subito un ridimensionamento, modificando drasticamente la posizione ortodossa di fattori fondamentali nel processo analitico. L'analista "specchio" neutrale, osservatore oggettivo ed interprete dello stato psichico del paziente si e' eclissato a favore di una maggiore consapevolezza della sua responsabilita' nella determinazione e nella comprensione di quanto accade in quel contesto comunicativo e in quel campo terapeutico.

ACTING OUT
Nel trattamento dei pazienti borderline, l'acting out ha un peso notevole e talvolta decisivo sull'andamento del processo terapeutico, e' difficile da individuare e da maneggiare. La riduzione dei passaggi all'atto, e' uno scopo prioritario del trattamento (Kernberg, 2000). L'acting out e' l'espressione di un conflitto inconscio attraverso l'azione, piuttosto che nell'esperienza emotiva, nel ricordo e nella comunicazione verbale. La scarica della tensione, attraverso l'agito, determina un sollievo immediato. Gratificando rapidamente ed efficacemente un bisogno e' comprensibile che tenda a ripetersi. Vi sono varie forme di agiti nei pazienti borderline. Quelli fuori dalle sedute (acting out) che si manifestano attraverso forme impulsive e autodistruttive, come: danneggiarsi fisicamente, provocare aggressivita' negli altri, intraprendere relazioni amorose caotiche e disturbate.
Gli agiti all'interno delle sedute (acting in), comprendono, per citarne alcuni: il gridare, agitarsi camminando nella stanza, tirare oggetti, tirare calci alle pareti o prendere a pugni la porta, arrivare in ritardo o andarsene in anticipo, rifiutarsi di parlare. Talvolta, questi agiti irrompono improvvisamente nel corso della seduta, durando qualche minuto, o pochi attimi, lasciando il terapeuta spiazzato e paralizzato nella sua capacita' di comprendere e pensare.
L'analisi degli agiti fornisce importantissime informazioni circa il mondo interno ed i conflitti del paziente borderline caratterizzato da primitive ed intense relazioni oggettuali, che si manifestano per lo piu' attraverso intensi stati di tensione interna difficilmente contenibili e difficilmente verbalizzabili o non verbalizzabili, tra questi il "conosciuto non pensato" di Bion.
Le neuroscienze hanno fornito un valido supporto empirico a sostegno di alcune teorie che considerano, l'acting out, una delle modalita' "espressive" preminenti del paziente borderline.
Gli studi di Bateman e Fonagy (2006), sulla capacita' di mentalizzazione (noi diremmo di elaborazione simbolica) hanno evidenziato che tale funzione e' fortemente carente nei soggetti borderline, in particolare in situazioni di iperarousal. Per "mentalizzazione" si intende la capacita' implicita o esplicita di interpretare le azioni proprie o altrui come dotate di intenzionalita', mediate da stati mentali o processi psichici. In tali circostanze, l'iperarousal, aziona un interruttore neurochimico che induce una disconnessione a livello della corteccia prefrontale e innesca meccanismi di attacco-fuga e di freezing. Ne conseguono risposte di panico e comportamenti impulsivi, piuttosto che l'elaborazione mentale e il differimento attraverso il pensiero.
La psicoanalisi, avvalendosi degli apporti di altre discipline, si e' evoluta nel passaggio concettuale dal modello pulsionale a quello interpersonale/interattivo, attraverso la revisione di alcuni concetti fondamentali come l'acting out e altri ad esso strettamente collegati, quello di controtransfert, di identificazione proiettiva e enactment.
Nella teoria psicoanalitica classica, l'acting out, manifestazione della coazione a ripetere, e' espressione della resistenza al trattamento. Un ostacolo , dunque, da superare trasformando l'agire in ricordo e l'impulso all'azione in riflessione attraverso l'interpretazione.
Laplanche e Pontalis (1987) propongono questa definizione: "Termine usato dalla psicoanalisi per designare azioni che presentano per lo piu' un carattere impulsivo relativamente in rottura con i sistemi motivazionali abituali del soggetto, relativamente isolabile nel corso delle sue attivita', e che assumono una forma di auto etero aggressivita'. Nel sorgere dell'acting out lo psicoanalista vede il segno dell'emergenza del rimosso. Quando esso sopravviene nel corso di un'analisi (sia durante la seduta che al di fuori di essa), l'acting out va considerato nella sua comprensione con il transfert e spesso come un tentativo di ignorarlo completamente" (1987, p.3). Tuttavia, tra tutti i concetti che costituiscono i fondamenti del pensiero psicoanalitico, nessuno forse, e' stato piu' discusso, di quello di acting out.
Molte ambiguita' nascono a proposito dell'uso del verbo handeln (agire), usato da Freud in "Psicopatologia della vita quotidiana" (1901) e della sua sostituzione con agieren nel "Poscritto" del caso clinico di Dora (1901). Non conosciamo i motivi per cui Freud ha utilizzato i due termini, se intendesse differenziarli o se gli attribuiva lo stesso significato, tuttavia questa osservazione rimanda ad una questione importante e cioe' se egli differenziava l'acting out dagli atti nevrotici.
Dai suoi scritti si evince che gli atti mancati e le paraprassie sono espressione di un compromesso tra pulsione e difesa e hanno un significato psicologico che puo' essere scoperto grazie al metodo psicoanalitico. L'acting out, invece, e' una "ripetizione", in cui i contenuti rimossi emergono in un contesto in cui il paziente non si riconosce l'autore e ne ignora il significato.
Ne deriva che, se il paziente agisce i suoi conflitti fuori dalla cura, soddisfacendo i bisogni pulsionali rimossi, questi non sono accessibili all'analisi. Freud (1914) scrive: " Molto indesiderabile e' per noi che il paziente agisca al di fuori del transfert, invece di ricordare; il comportamento ideale per i nostri scopi sarebbe che egli al di fuori del trattamento si comportasse nel modo possibilmente piu' normale e che manifestasse le sue reazioni anormali soltanto nel transfert." La coazione a ripetere nella sua forma di agiti, diviene dunque, utile al trattamento quando "() la rendiamo innocua, o addirittura utile, quando le riconosciamo il diritto di fare quello che vuole entro un ambito definito: Le offriamo la translazione come palestra in cui le e' concesso di espandersi in una liberta' assoluta". Anche la relazione tra acting out e transfert e' stata oggetto di dibattito per lungo tempo. Entrambi compaiono sempre insieme nei lavori di Freud dal 1901 al 1938, talvolta differenziandosi altre volte confondendosi. Se consideriamo il transfert mosso dalla coazione a ripetere, dobbiamo considerarlo un agito ma, e' anche vero che esso ha lo scopo di ripetere per ricordare e comunicare; al contrario l'acting out ripete al posto di ricordare e non comunica. Il transfert va verso l'oggetto, l'acting out si allontana dall'oggetto. Ne deriva che se ogni acting out e' un transfert, non ogni transfert e' acting out. Sebbene geneticamente uguali, in quanto espressioni della coazione a ripetere, possono essere diversi nella struttura e nel significato. L'acting out puo' pertanto essere considerato come un particolare tipo di comportamento ripetitivo (Etchegoyen, 1990).
Sebbene Freud ritenesse che gli agiti dovessero essere interpretati, gli psicoanalisti notavano che, a differenza del comportamento nevrotico, l'acting in, rendeva spesso impossibile il lavoro dell'analista ponendolo in una situazione compromettente, attivando forti reazioni controtransferali che potavano il terapeuta a "fare altro" dall'interpretare.
Eissler, nel 1953, introdusse il concetto di "parametro" per sistematizzare questa pratica diffusa tra gli analisti, che emergeva con preminenza nella cura di pazienti gravi.
Contemporaneamente comincia ad evolversi anche il concetto di controtransfert, dapprima considerato un ostacolo al progresso della terapia e successivamente rivalutato come uno strumento fondamentale per comprendere il transfert del paziente.
La psicoanalisi comincia a muovere i primi passi nella direzione di un cambiamento che si manifesta nello spostamento d'accento dagli eventi infantili, all'hic et nunc della relazione tra paziente e terapeuta, propria della scuola inglese (Klein, Rosenfeld, Bion).
Melanie Klein, non si occupa in modo specifico degli agiti, li concepisce nei termini di una riattivazione nel transfert dei conflitti del paziente. Questi affondano le radici nella fase precoce dello sviluppo, e si attivano con gli stessi sistemi che ha utilizzato in passato. Nel tentativo di distaccarsi dall'analista, come dai suoi oggetti primari, devia alcuni suoi sentimenti e dei suoi atteggiamenti su altre persone della sua vita. Bion (1962), Greenacre (1962) e Zac (1968), invece, considerano l'angoscia di separazione alla base dell'acting out. Anche per Grinberg (1968) esperienze di separazione e perdita, che hanno prodotto dei lutti primari non elaborati vengono evacuati (acting out) nell'analista contenitore. L'identificazione proiettiva, costituisce il meccanismo di base dell'acting out, che consente di evacuare parti di se' che non possono essere contenute e tollerate.
A partire da Fenichel, altri autori come Bird (1957) e Rosenfeld (1964) hanno messo in rilievo la partecipazione dell'analista all'acting out. Grimberg sostiene che "le modalita' di funzionamento dell'identificazione proiettiva e della controidentificazione proiettiva configurano meccanismi essenziali nella dinamica del particolare tipo di relazione oggettuale che si stabilisce nei fenomeni di acting out" (1968 p.693).
E' evidente che, la constatazione della comunicazione e della interazione tra gli inconsci nella coppia terapeutica, ha spalancato le porte ad un nuovo modo di intendere il controtransfert e gli agiti compresi quelli del terapeuta nel rapporto terapeutico.
Gli apporti delle teorie cognitiviste e le nuove acquisizioni scientifiche sul funzionamento della memoria hanno avuto rilevanti ripercussioni sul concetto di inconscio e di interazione tra gli inconsci. La memoria si e' visto, e' costituita da sistemi multipli di elaborazione dell'informazione sviluppati in parallelo: il sistema della memoria implicita, che si colloca nella parte inconscia dell'Io (meccanismi di difesa, inconscio procedurale), e sistema della memoria esplicita, che corrisponde all'inconscio dinamico (recuperabile, superando la barriera della rimozione). L'organizzazione interattiva, circolare, sensibile al contesto della memoria, rende inevitabile la considerazione che la relazione analitica si configura come un sistema determinato dalle continue interazioni ed influenze reciproche.
Anche studi sulla relazione madre-bambino hanno evidenziato la possibilita' di ricostruire, nella relazione con il paziente una matrice interazionale d'attaccamento. E' proprio all'interno di una relazione di attaccamento sicuro (Bowlby,1988) e di contenimento, che puo' svilupparsi il processo di mentalizzazione del paziente. Attraverso il confronto con la mente del terapeuta nelle sue espressioni consapevoli, ma soprattutto inconsce il paziente. L'esperienza di essere compreso, genera un'esperienza di sicurezza che consente l'esplorazione mentale, inclusa l'esplorazione della mente dell'altro (il terapeuta) per cercare se stessi. Il terapeuta, avendo a che fare con il mondo psichico caotico e confusivo del paziente dovra' dare il nome agli stati d'animo ed elaborare i significati degli agiti in relazione al loro rapporto interpersonale in quel momento e in quel contesto. Il terapeuta si mette, dunque completamente in gioco.
A differenza di Kernberg, Bateman e Fonagy (2006) sostengono che il nucleo fondamentale della terapia con i borderline, debba insistere sul processo interpretativo piuttosto che sul contenuto delle interpretazioni o sugli aspetti supportivi e aspecifici del trattamento. Il contenuto esplicito di un intervento interpretativo o educativo e' solo il canale attraverso cui si veicola il processo implicito che ha valore terapeutico (2006, p.173).
Piu' che in altre relazioni terapeutiche i pazienti borderline ci coinvolgono in una "danza" inconsapevole di influenze reciproche che determinano l'andamento e l'esito della cura. Si attribuisce al paziente la capacita' interattiva di stimolare il terapeuta a reagire ai suoi messaggi inconsci fino ad indurlo ad agire nella relazione (enactment).
Nel 1989 McLaughling definisce enactment (mettere in scena) "tutti gli aspetti interattivi che coivolgono contemporaneamente in modo bidirezionale entrambi i membri della coppia analitica. In modo specifico l'interazione non verbale, e indica un atto il cui intento e' quello di influenzare e costringere l'altro a reagire con la forza dell'induzione reciproca" (1991, p. 595).
A differenza dell'acting out considerato espressione di un singolo membro della coppia terapeutica, l'enactment considera come una modalita' insita nello scambio relazionale della coppia terapeutica, quella di interagire e sollecitare vicendevolmente emozioni e reazioni personali attivate dall'incontro terapeutico. Il processo terapeutico diviene il luogo di incontro e di confronto tra due persone che interagiscono simultaneamente a piu' livelli influenzandosi reciprocamente. In tale contesto, l'agire assume la dignita' di metacomunicazione nelle situazioni regressive.
Questa nuova visione, ha inevitabilimente delle implicazioni sulla responsabilita' dell'apporto dell'analista al processo di cura sul concetto importante di "neutralita'" che andiamo a discutere.

LA NEUTRALITA'
L'intento di Freud nella formulazione del concetto di neutralita' era di liberare il paziente dall'influenza deliberata del terapeuta sul paziente, propria dei metodi suggestivi. Dai suoi lavori sulla tecnica psicoanalitica si evince che l'analista deve essere: "Neutro quanto ai valori religiosi, morali e sociali, cioe' non deve dirigere la cura in funzione di un qualsiasi ideale e deve astenersi da qualsiasi consiglio; neutro nei confronti delle manifestazioni transferali, il che viene espresso abitualmente con la formula non entrare nel gioco del paziente-; neutro infine quanto al discorso dell'analizzato, cioe' non deve definire a privilegiare a priori, in base a pregiudizi teorici, un certo frammento o un certo tipo di significato." (Laplanche Pontalis, 1987).
La neutralita' definiva l'atteggiamento fondamentale dell'analista, ma gia' ai primi psicoanalisti, sin da subito fu chiaro che era difficile, nella pratica clinica, l'aderirvi nei termini formalizzati teoricamente da Freud nel 1912: "Il medico dovrebbe essere impenetrabile per il malato e, come uno specchio, non dovrebbe rivelare al paziente altro che la sua stessa immagine". Nel suo ultimo lavoro (1938), Freud cosi' si esprime: "noi serviamo al paziente in diverse funzioni, come autorita', come sostituto dei genitori, come maestro o come educatore; tuttavia gli rendiamo il servizio migliore () in qualita' di analisti" (p. 608).
Freud e' rimasto indeciso tra una neutralita' asettica da "chirurgo" e un atteggiamento umanamente piu' partecipe. Anche Anna Freud (1936), mostra una certa ambiguita', affermando che l'analista deve assumere una equidistanza dall'Es, l'Io e il Super-Io, ad eccezione dei casi in cui "sia necessario aiutare il paziente a raggiungere il fine ultimo di comprendere ed integrare".
Nella nota inchiesta di Glover del 1938, tendente ad appurare cosa gli psicoanalisti effettivamente fanno durante il trattamento, riscontriamo che gran parte di questi, pur dichiarandosi favorevoli ad un atteggiamento neutrale e non attivo, tendono a ricorrere a strumenti diversi dall'interpretazione (la rassicurazione, il consiglio, la lettura di lettere etc.).
L'evidenza della necessita' di regolamentare il costante ricorso da parte degli analisti a modificazioni della tecnica, porto' Eissler (1953) a formulare il concetto di "parametro di tecnica" da introdurre nel trattamento quando la tecnica classica non e' sufficiente.
Nell'articolo "Effetto della struttura dell'Io sulla tecnica psicoanalitica" introduce il concetto di Basic Model Technique, per indicare il modello tecnico di base che si avvale solo dell'interpretazione (in accordo con la psicoanalisi ortodossa) applicabile esclusivamente a pazienti con un Io intatto. Tali soggetti sono in grado di tollerare la frustrazione indotta dalle componenti materiali del setting (orari, frequenza delle sedute, pagamento ecc.) e quelle riguardanti l'atteggiamento analitico (neutralita', astinenza ecc.) e riescono ad elaborare i significati trasmessi mediante l'interpretazione.
E' il grado di "forza dell'Io" che determina la possibilita' di interventi propriamente psicoanalitici (nei casi in cui si ricorre esclusivamente alla interpretazione e il terapeuta rimane neutrale) oppure psicoterapeutici nel caso in cui i parametri non vengano interpretati e costituiscano un elemento stabile del trattamento (dunque non sono piu' parametri, ma modificazioni della tecnica). L'introduzione del paramento, soddisfacendo un bisogno, puo' rappresentare un sollievo per il paziente, ma se non interpretato, impedisce l'insight sul significato del parametro impedendo eventuali modificazioni strutturali dell'Io.
Anche Glover (1955), nel tentativo di chiarire alcuni agiti dell'analista, il quale formulava con forza interventi attraverso cui bloccava gli acting dei pazienti piu' gravi, distinse l'astinenza come principio e regola dell'analista (diretta conseguenza della sua neutralita') dalle "misure attive", come le ingiunzioni e i divieti, attraverso i quali, l'analista chiede al paziente di mantenersi in stato di astinenza.
Tuttavia, i tentativi di applicazione della regola della neutralita' o della interpretazione a tutti i costi (anche dopo l'introduzione di un parametro), e la lettura degli acting in del terapeuta e del paziente come fattori ostacolanti il processo terapeutico, potevano certo evitare la "tempesta emotiva" che investiva la coppia terapeutica, sovvertendo improvvisamente l'andamento delle sedute.
Nel trattamento dei pazienti borderline, le numerose alterazioni del funzionamento dell'Io, inclusa l'incapacita' di programmare realisticamente, di difendersi contro impulsi primitivi e la predominanza dei processi di pensiero primario, intervengono massicciamente superando i confini terapeutici. Per fronteggiare le pesanti oscillazioni del transfert e le manifestazioni del processo primario, i terapeuti hanno tentato di comprendere quale atteggiamento del terapeuta risultava piu' utile al fine del conseguimento degli obiettivi terapeutici. Si deve, infatti, ricordare che, sul piano non solo storico, sia proprio la patologia grave che porta alle piu' svariate modifiche del setting nelle sue componenti materiali e nell'atteggiamento analitico, ed alle sue teorizzazioni (Bolko, Merini, 1988).
Gia' Kohut, in netta contrapposizione con la posizione psicoanalitica classica, asseriva che, con tali pazienti, il compito dell'analista non e' rimanere neutrale, bensi' quello di ricreare all'interno della situazione analitica una relazione in cui la partecipazione empatica del terapeuta risulta essenziale. Scopo del trattamento e' quello di offrire al paziente una nuova possibililita' di "internalizzazione trasmutante" attraverso l'instaurazione di un trasfert oggetto-se' di tipo speculare o idealizzante che possa ricostituire un nucleo del se' di natura compensatoria.
Kernberg, invece, propone una psicoterapia psicoanalitica a lungo termine che preveda l'introduzione di parametri, cercando strategie particolari atte a risolvere i loro disturbi specifici. Tra queste la particolare enfasi posta sulla realta' esterna attuale, allo scopo di prevenire scissioni tra realta' e setting del trattamento e gravi acting out come conseguenza di tali scissioni. Infine la possibilita' sempre presente di acting in e acting out impone spesso che il terapeuta ponga dei limiti , rinunciando alla neutralita' e all'astinenza, che deve essere poi ristabilita con l' interpretazione. Nella sua tecnica e' rilevante l'identificazione controtransferale inconscia del terapeuta con la rappresentazioni di se' e dell'oggetto del paziente rimossa, la cui analisi fornisce importanti informazioni per individuare la relazione oggettuale dominante primitiva attivata nel transfert.
Altri autori, sostengono che nel trattamento della patologia borderline si debba procedere a non interpretare, ma a creare un'atmosfera supportava di holding. Tali autori (Knight, 1953; Zetzel, 1956; Grinker, 1966), condividendo l'approccio di Winnicott sostengono che un "atteggiamento benevolo" (tutt'altro che neutrale) associato con consistenza e disponibilita' puo' essere di importanza maggiore per il paziente che le comunicazioni terapeutiche stesse. Questo e' vero soprattutto con pazienti gravi in cui l'impossibilita' a mentalizzare i vissuti interni determinano una comunicazione prevalentemente non verbale. In tali circostanze l'atteggiamento benevolo di contenimento e disponibilita' del terapeuta consente l'nteriorizzazione del setting. La regressione nel transfert e la sua costante interpretazione possono causare episodi psicotici, suicidio o altre forme di acting out. (Lis, Mazzeschi, Zennaro, 2002).
Tuttavia, nessuno di questi approcci puo' garantire, al terapeuta la sicurezza di muoversi correttamente nel trattamento poiche' sono tutti efficaci con alcuni pazienti e in alcune situazioni , ma non in altre. In passato si riteneva che fossero le tecniche e le azioni del terapeuta (atteggiamento analitico) a promuovere il cambiamento. I recenti contributi teorici e di ricerca hanno fornito le basi per nuovi modelli di prassi terapeutica che liberano il terapeuta da un ruolo rigido e predefinito e sostanzialmente falso della neutralita'. Tanto che attualmente "lo specchio neutrale " viene considerato una difesa dell'analista. Questa visione e' sostenuta dalla epistemologia contemporanea che non considera piu' la conoscenza come indipendente dal soggetto conoscente. Ogni osservazione e' autoreferenziale, riflette sempre se stessa, ovvero l'ordine percettivo su cui si basa, piuttosto che le caratteristiche intrinseche dell'oggetto percepito. La conoscenza individuale e' inseparabile dall'esperienza personale, anzi, talvolta terapeuta che tenti di essere completamente neutrale puo' risultare particolarmente nocivo nei casi in cui il paziente abbia necessita' di confrontarsi con una persona "reale". Si tratta dei pazienti come i bordeline piu' gravi che hanno bisogno di accedere all'esperienza di altre menti che riconoscano ed accolgano l'esperienza della sua mente (Bateman, Fonagy, 2006).
L'indagine relativa a quali sono i reali fattori di cambiamento nel processo terapeutico ha indicato tra i fattori determinanti per il processo psicoterapeutico l'interazione tra la coppia terapeutica. L'attenzione, dunque si sposta al processo terapeutico. Il rinnovato interesse per il ruolo del trauma e delle prime interazioni madre- bambino nell'etiologia dei problemi mentali ha portato a prestare maggiore attenzione al clima emotivo in cui avviene il trattamento. I modelli interpersonali-interattivi si basano su un punto di vista formalmente evolutivo in cui la relazione di caregiving genitore-bambino, sostituisce quella di medico-paziente. Questi modelli hanno costituito un'analogia del legame empatico tra terapeuta e paziente, a partire da quello genitore-bambino, sostenendo che aspetti non interpretati della interazione sono ugualmente, se non piu', mutativi di una conoscenza psicologica ottenuta solo attraverso il solo processo interpretativo.
Owen Renik, e' uno tra gli analisti contemporanei che piu' di altri ha messo in guardia contro i "pericoli della neutralita'" (1996), sostenendo con forza la self-disclosure (autodisvelamento) dell'analista. La sua posizione non solo contraddice direttamente il vecchio concetto di neutralita' analitica, ma anche l'idea piu' attuale che sia utile per l'analista essere "selettivo", mantenendo una relativa neutralita': "() l'unico modo per l'analista di essere neutrale e' quello di essere inattivo" e conseguentemente che "non sembra avere il minimo senso aspirare alla neutralita' in quanto obiettivo tecnico" (2001) . Sempre Renik nel 2007 afferma "E' impossibile che un analista seriamente impegnato nella cura non sia coinvolto emotivamente e che il suo coinvolgimento non sia percepito dal paziente. Tutto quello che accade quando l'analista aspira ad assumere la neutralita' analitica, e' che si sente in colpa per il suo coinvolgimento emotivo, e cerca di nasconderlo. Lo sforzo e la forzatura che, necessariamente, ne risultano, diventano un ostacolo al costituirsi di una relazione analitica autentica e produttiva" (p.72).
D'altra parte, indipendentemete dal nostro atteggiamento piu' o meno neutrale, e' poco probabile che la nostra personalita' con i suoi valori non intervenga nella relazione con il paziente come in qualsiasi altra relazione umana. Cantelmi (2008), cita un ampio numero di studi empirici che hanno evidenziato che i pazienti vengono sicuramente influenzati dai valori del terapeuta. Quelli di Houts, e Graham (1986) hanno confermato che i valori hanno un ruolo rilevante nel processo, nell'esito e nell'assessment della terapia. Altri studi hanno mostrato che la convergenza tra i valori del terapeuta e quelli del paziente si associa ad un miglioramento del paziente (Richards, Davison, 1989). Infine, la rewiew Kelly (1990) ha mostrato che la convergenza dei valori avviene durante la terapia, nel senso che il paziente gradualmente si avvicina ai valori del terapeuta.
L'importanza del terapeuta nel processo interattivo, e della sua attiva partecipazione (conscia ed inconscia) al processo di cura, ha spostato il fulcro dell'attenzione della socioanalisi contemporanea verso, il processo interpretativo piuttosto che il contenuto della interpretazione o gli aspetti supportavi e aspecifici del trattamento. In tale contesto, il contenuto esplicito di una interpretazione diviene il "canale" attraverso cui passa il processo implicito (interazione tra inconsci) che ha un forte impatto terapeutico. Consapevoli dei nostri sistema di valori e del modo in cui, piu' in generale, la nostra personalita' influenza il processo terapeutico, si rende maggiormente necessario insistere sulla formazione, sull'analisi personale e soprattutto, nel trattamento dei pazienti borderline, della supervisione, al fine di "maneggiare" con maggior destrezza e responsabilita' lo strumento terapeutico "analista".
Lontano da posizioni estreme come quella di Renik, che desidera contrapporre il suo coinvolgimento emotivo, il continuo disvelamento e la sua attenzione, ad un certo stile analitico basato sulla freddezza (neutralita' analitica) possiamo trovare un posizione intermedia nel pensiero Morris Eagle (2000, p.36), il quale afferma che "esiste una differenza fondamentale tra neutralita' dello stile e dei modi dell'analista (che possono essere scambiati per freddezza) e la neutralita' nel senso di non prendere posizione rispetto ai conflitti del paziente, cioe', di non dargli consigli diretti" e prosegue "si puo' senz'altro sostenere un'idea piu' saggia e flessibile di neutralita' analitica che non comporti la necessita' di equiparare questo concetto ad uno schermo bianco, ma che piuttosto sottolinei l'utilita' generale del fatto di evitare di essere troppo direttivi, e ancor piu' importante, di evitare di sostituire gli scopi del paziente con gli scopi personali dell'analista".
Abbandonata l'utopia della neutralita' e della oggettivita', non ci resta che metterci in gioco, con il rispetto per l'altro e responsabili della nostra influenza sui pazienti.

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