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C.P.A.T. --> HOME PAGE --> N. 38/2003

QUADERNI DI PSICOLOGIA,
ANALISI TRANSAZIONALE
E SCIENZE UMANE

Dal n° 38 - 2003


Alleanza terapeutica: rotture e riparazioni

Vittorio Lingiardi e Antonello Colli




1. La teoria
"Alleanza terapeutica" e "alleanza di lavoro" sono le formule più usate in letteratura per indicare una dimensione interattiva riferita alla capacità di paziente e terapeuta di sviluppare una relazione basata sulla fiducia, il rispetto e la collaborazione e finalizzata ad affrontare i problemi e le difficoltà del paziente.
L'espressione "alleanza terapeutica" è stata usata per la prima volta dalla psichiatra americana Clara Zetzel (1958) per descrivere la condivisione matura della realtà tra paziente e terapeuta nella situazione analitica. Qualche anno dopo, Ralph Greenson (1965) conia l'espressione "alleanza di lavoro", per definire quell'«insieme di atteggiamenti razionali e finalistici del paziente nei confronti dello psicoanalista [...] la capacità del paziente di lavorare nella situazione analitica [...] Lo si vede soprattutto quando un paziente, pur se in preda a un'intensa nevrosi di transfert, riesce a mantenere un efficiente rapporto operativo con l'analista» (Greenson, 1967-1972, p. 163).
Ricostruire in poche righe l'evoluzione del concetto di alleanza terapeutica non è semplice, e rischia di essere molto riduttivo. Per una trattazione più completa rimandiamo al volume L'alleanza terapeutica (Lingiardi, 2002a) e qui ci limitiamo a segnalare alcune tappe (Tabella 1), con la sola intenzione di delimitare delle aree storico-concettuali.


Tabella 1. Alcune tappe del processo di definizione del concetto di alleanza terapeutica (1)

Autore Anno Inquadramento teorico Strumento
di
valutazione
Sigmund Freud 1912 Transfert positivo irreprensibile
Traslazione: positiva vs negativa
Hermann Nunberg 1932 Contrapposizione tra gli scopi del P e del T
Distorsione degli aspetti reali della relazione terapeutica
Richard Sterba 1934 Alleanza dell’Io - Scissione dell’Io
(collaborante vs oppositiva)
Otto Fenichel 1941 Transfert razionale
Carl Rogers 1951 Terapia centrata sul cliente
Franz Alexander 1956 Esperienza emotiva correttiva
Elizabeth Zetzel 1958 AT come nucleo fondamentale della situazione analitica
Condivisione matura della realtà tra P e T
Phillis Greenacre 1959 Il transfert è l'intera relazione P-T
Leo Stone 1961 Transfert maturo
Ralph Greenson 1965 Transfert + Alleanza di lavoro + Relazione “reale”
Orlinsky & Howard 1972

1986

Attenzione al processo e all’outcome Therapeutic Bond Scale
(TBS)
Sandler, Dare & Holder 1973 Alleanza di trattamento
(Treatment Alliance)
Edward Bordin 1975 Modello “panteorico”
Goals, Tasks, Bond
Lester Luborsky 1976

1994

Helping Alliance
Tipo 1 “passivo”
Tipo 2 “consapevole”
Penn Helping Alliance Rating Scale
(P-HAS)
Brenner & Curtis 1979 Solo il transfert promuove il cambiamento
Critica al concetto di AT
Adam Horvath 1981

1991

2001

Modello “panteorico” di Bordin
Metanalisi 1991-2001
Working Alliance
Inventory
(WAI)
Hartley & Strupp 1983 Modelli di Greenson, Lubrosky, Bordin
Ricerche sullo sviluppo precoce dell’AT
Vanderbilt Therapeutic Alliance Scale
(VTAS)
Gaston & Marmar 1988

1991

Quattro dimensioni indipendenti di alleanza:
Capacità di lavoro del paziente, Impegno del paziente, Consenso sulla strategia di lavoro,
Comprensione e coinvolgimento del terapeuta
California Psychoth. Alliance Scale
(CALPAS)
William Meissner 1996 AT come dimensione essenziale indipendente
Safran & Muran 1995

2000

Negoziazione intersoggettiva
Rotture e ricomposizioni dell’AT
Ruptures
Resolution Scale (RRS)
Maria Ponsi 2000 Interazioni collaborative


In modo molto schematico potremmo distinguere due periodi. Il primo (1912-65) è compreso tra la pubblicazione della Dinamica della traslazione di Freud e l'articolo di Greenson Alleanza di lavoro e nevrosi di transfert. In questo periodo gli autori, quasi tutti psicoanalisti, che si sono occupati di alleanza terapeutica, si proponevano di trovare, a partire dalla valutazione di singoli casi clinici, una definizione soddisfacente e condivisa di alleanza. In particolare, si interrogavano sul rapporto tra il concetto di alleanza e dimensioni ad esso limitrofe, quali il transfert e la relazione reale.
Il secondo periodo va dai primi anni '70 ad oggi. Pur senza abbandonare il dibattito sulla definizione, questa seconda fase è caratterizzata dal proliferare di ricerche volte a dimostrare empiricamente l'esistenza del costrutto e soprattutto il suo peso come variabile fondamentale del processo terapeutico. L'alleanza terapeutica viene riconosciuta come il principale fattore aspecifico comune a tutte le forme di psicoterapia. Sono gli anni in cui vengono costruiti gli strumenti per valutare quantitativamente e qualitativamente l'alleanza terapeutica, spesso nelle tre versioni per paziente, terapeuta, e osservatore esterno. In Tabella 2 elenchiamo i cinque strumenti più citati in letteratura, più i due più recenti e ancora in fase di sperimentazione.


Tabella 2. Strumenti di valutazione dell'alleanza terapeutica

Autori Strumento Modello Costrutto
Luborsky e coll.
1983
Penn Helping
Alliance Scales (PHAS)
Psicodinamico Alleanza Tipo 1
Alleanza Tipo 2
Horvath, Greenberg
1981, 1982
Working
Alliance Inventory
(WAI)
Panteorico
(Bordin)
Tre dimensioni di
alleanza Terapeutica:
Legame (Bond)
Compiti (Task)
Obiettivi (Goal)
Marmar,
Gaston,
1988
California Psychotherapy
Alliance Scales
(CALPAS)
Psicodinamico
+
Panteorico
(Bordin)
Quattro dimensioni di alleanza terapeutica:
PWC, PC, WSC, TUI
Orlinsky,
Howard, Saunders
1989
Therapeutic
Bond Scales
(TBS)
Generico di
Orlinsky
& Howard
Alleanza di lavoro
Risonanza empatica
Affermazione recipr.
Hartley, Strupp
e coll.
1983, 1988
Vanderbilt
Therapeutic
Alliance Scale
(VTAS)
Psicodinamico
+
Interpersonale
Contributo del T
Contributo del P
Interazione T/P
Safran e coll.
2002
Ruptures
Resolution Scale
(RRS)
Modello di Safran Markers di rottura:
ritiro, confrontazione, manipolazione.
Colli, Lingiardi
2001, 2002
Indice di Valutazione dell’Alleanza Terapeutica
(IVAT)
Psicodinamico-relazionale
+
Modello di Safran
Markers di rottura diretti e indiretti
del paziente
Resolution markers
del terapeuta

Legenda: P = paziente; T = terapeuta; AT = alleanza terapeutica


L'attenzione rivolta alla verifica empirica del costrutto e di conseguenza la necessità di costruire strumenti affidabili per la sua valutazione hanno portato nuovi argomenti al dibattito. Quali sono le dimensioni che compongono la dimensione dell'alleanza terapeutica? Vediamo alcuni esempi.
Luborsky (1976a) utilizza il termine "alleanza d'aiuto" per descrivere due tipi d'alleanza: tipo 1 e tipo 2. Nell'alleanza di tipo 1 il terapeuta fornisce aiuto al paziente che lo riceve in modo fiducioso e passivo. L'alleanza di tipo 2, che si forma successivamente, è invece più attiva e si fonda sulla consapevolezza di paziente e terapeuta di essere impegnati in un lavoro comune. Nella sua descrizione dell'alleanza, Luborsky mette in risalto la dimensione evolutiva e temporale dell'alleanza.
Louise Gaston, come Luborsky impegnata a studiare l'alleanza da un punto di vista sia teorico sia empirico, ha invece suddiviso l'alleanza in quattro dimensioni:
1. Capacità del lavoro del paziente (Patient working capacity, PWC)
2. Impegno del paziente (Patient Commitment, PC)
3. Consenso sulla strategia di Lavoro (Working Strategy Consensus, WSC)
4. Comprensione e Coinvolgimento del terapeuta (Therapist Understanding and Involvment, TUI)
La suddivisione proposta dalla Gaston sembra riflettere soprattutto il modo in cui l'alleanza si sviluppa nelle terapie psicodinamiche e include la dimensione affettivo-relazionale del terapeuta.
Hartley e Strupp (1983) hanno invece preferito integrare, nella loro definizione di alleanza e nella costruzione di strumenti per misurarla (VTAS), diversi orientamenti teorici, in particolare dinamici e interpersonali.
Le divergenze teoriche nella definizione delle dimensioni del costrutto potrebbero spiegare la non completa convergenza nelle valutazioni tra gli strumenti citati in Tabella 2: benché tutti statisticamente affidabili, non risultano totalmente sovrapponibili. Questa convergenza parziale ha rinforzato la definizione di alleanza come costrutto di natura complessa e multidimensionale.
L'autore che più d'ogni altro ha contribuito al superamento dei confini tra le diverse impostazioni teoriche è Edward Bordin (1975), il quale ha sostenuto la necessità di comprendere il concetto di alleanza terapeutica all'interno di una visione "panteorica" capace di trascendere il modello psicoanalitico da cui ha avuto origine. L'alleanza è vista da Bordin come un fattore comune a tutte le psicoterapie a prescindere dall'orientamento teorico e dal modello operativo. La concettualizzazione di Bordin è panteorica in quanto sintetizza e integra le precedenti formulazioni del costrutto in particolare quelle di Rogers (1951) e di Greenson (1965). Bordin (1979, p. 16) definisce l'alleanza come «un reciproco accordo riguardo agli Obiettivi (Goal) del cambiamento e ai Compiti (Task) necessari per raggiungere tali obiettivi, insieme allo stabilirsi dei Legami (Bond) che mantengono la collaborazione tra i partecipanti al lavoro terapeutico».
La definizione di Bordin ha dato un importante impulso alla ricerca empirica ed è stata il riferimento fondamentale nella costruzione di uno dei più noti strumenti di valutazione dell'alleanza, il Working Alliance Inventory (WAI, Horvath, Greenberg, 1982).
A Bordin va riconosciuto anche il merito di aver "traghettato" il concetto di alleanza dalla sua culla psicodinamica ad altri campi di intervento clinico, in particolar modo il cognitivismo. Proprio in quegli anni, Beck (1976, p. 161) sottolineava la necessità di «concepire la relazione terapeutica come uno sforzo congiunto. La funzione del terapeuta non è quella di cercare di riformare il paziente, quanto piuttosto di lavorare insieme al paziente contro i problemi di quest'ultimo». Il concetto di collaborazione, centrale nell'opera di Beck, prende il nome di "empirismo collaborativo": «l'efficacia della terapia cognitiva dipende dal livello di congruenza che si stabilisce tra le aspettative del paziente circa gli obiettivi terapeutici e quelle del terapeuta» (Beck, Freeman, 1990, p. 6). Si può dire che Beck abbia colto molto chiaramente due delle componenti dell'alleanza descritte da Bordin: l'accordo sui compiti e l'accordo sugli scopi della terapia, pur continuando a trascurare il terzo elemento, ovvero la relazione terapeutica.
L'elemento relazionale riceverà pieno riconoscimento, quasi centralità, da parte di altri terapeuti cognitivisti (Greenberg, Safran,1987; Safran, Segal, 1990; Semerari, 1991), i quali ritengono che siano proprio i processi interpersonali attivati durante la terapia a permettere il cambiamento nel paziente.
In sintesi: dopo un primo periodo di teorizzazioni psicoanalitiche, dopo una seconda fase caratterizzata dal fiorire di ricerche empiriche e strumenti di valutazione, siamo entrati oggi in una terza fase dell'evoluzione del concetto d'alleanza, caratterizzata dall'approfondimento delle sue dinamiche cliniche. Grazie al lavoro di alcuni autori, tra i quali spicca il nome di Safran, è cambiata la concezione dell'alleanza terapeutica: inizialmente definita come qualche cosa di statico, che c'è o non c'è, in favore di una concettualizzazione più dinamica e cangiante.
In particolare, l'interesse si è concentrato su uno specfico aspetto: le rotture e le riparazioni dell'alleanza, viste in una luce diversa da ciò che tradizionalmente era considerato in termini di impasse e/o resistenza.
Nell'evoluzione del concetto di resistenza va ricordato l'approccio proposto da Reich (1949), che sottolinea l'importanza di considerare le resistenze del paziente come parte integrante della persona e non come isolati processi difensivi, e la necessità di comprenderle più che di combatterle. Ricordiamo che, nelle Lezioni di tecnica psicoanalitica tenute all'Istituto di Chicago nel 1974 e 1975, Kohut affronta il tema delle difese proprio a partire da una riflessione critica su Reich.

«Sulla questione delle difese narcisistiche» dice Kohut (1996, p. 321) «Wilhelm Reich spese tutte le sue energie. E, ancora una volta, c'è una gran parte che è messa in evidenza correttamente, se la si tiene entro i limiti del comprendere perché il paziente si sta comportando così, e non si confonde l'idea di una difesa con quella di una corazza quasi fisica, che non è più un'astrazione clinica, ma qualcosa che si deve eliminare fisicamente col martello e le tenaglie ( oppure, più sottilmente, ai giorni nostri, ma anche più pericolosamente, qualcosa che si deve eliminare con martello e tenaglie verbali! (Credo che Freud a volte tendesse a fare proprio questo, e di sicuro Wilhelm Reich esagerava all'estremo questa pratica.) Sì, se non si concretizza troppo l'idea di resistenza, come se fosse qualcosa di malvagiamente cattivo, quanto meno di ostinatamente oppositivo (come un bambino il quale non vuole essere educato perché è pigro e deve essere mobilizzato), allora è un concetto utile. Da questo punto di vista, la crosta narcisistica o la corazza o le difese o le resistenze, che ogni paziente porta nell'analisi, esistono per essere capite e analizzate. Devono essere afferrate nei termini delle funzioni generali che queste difese, resistenze e atteggiamenti hanno per ogni essere umano [...] delle funzioni molto specifiche che hanno per un paziente particolare, in un dato momento [...] e infine delle specifiche interrelazioni con la storia della persona che ha una patologia sottostante specifica. In altre parole, non sono semplicemente mura difensive in cui far breccia al grido: Per Enrico, l'Inghilterra e San Giorgio!»

Non è stato semplice superare una visione delle resistenze unicamente come ostacoli da oltrepassare. Anche Schafer (1992) ha criticato l'abitudine a vedere le resistenze in termini esclusivamente negativi e ne ha enfatizzato il ruolo all'interno del processo terapeutico spostando l'attenzione dall'analisi della resistenza del paziente all'analisi della concomitante esperienza controtransferale del terapeuta.
Il contributo più decisivo nella concettualizzazione delle resistenze e delle impasses terapeutiche viene oggi dagli autori di orientamento relazionale,(2) il cui approccio (derivato dall'intreccio dei contributi della psicoanalisi interpersonale americana, della scuola inglese delle relazioni oggettuali e della psicologia del Sé) è centrato sullo studio dei processi che reciprocamente coinvolgono e influenzano paziente e terapeuta: ciò che oggi chiamiamo intersoggettività (Mitchell, Aron, 1999; Mitchell, 2002). La revisione dei concetti di intrapsichico e interpersonale ha giocoforza modificato la nostra comprensione dei concetti di resistenza e difesa. Non solo le "resistenze", ma anche le "difese" vengono oggi in buona parte ricondotte al contesto relazionale.(3)
Da un punto di vista intersoggettivo, le difese non sono più un fenomeno intrapsichico, un sistema chiuso che permette alla personalità di funzionare più o meno adattivamente. Al contrario, sono plasmate e costantemente influenzate dal contesto interpersonale. Come ogni altro aspetto del funzionamento della personalità, le difese sono inscindibili dai processi di influenza relazionale e di mutua regolazione. Il terapeuta a orientamento relazionale cerca di capire le difese come qualcosa che il paziente porta in ogni contesto interpersonale, ma che poi si manifesta in modo specifico nella singolarità dei contesti. Più che concentrarsi esclusivamente su come opera la difesa all'interno del paziente, egli dovrà invece rivolgersi al modo in cui il processo difensivo opera all'interno della diade terapeutica. Se il paziente attribuisce un particolare sentimento al terapeuta, per esempio rabbia o avidità, il clinico a orientamento relazionale-interpersonale si deve domandare non solo se l'attribuzione al terapeuta può riguardare una proiezione di rabbia o avidità del paziente, ma anche se il paziente sta notando o percependo qualcosa di reale nel comportamento del terapeuta.
Ci sembra importante sottolineare che le opzioni e le tecniche terapeutiche non devono dipendere dai modelli scolastici, ma davvero dal contesto interpersonale e dunque dalle caratteristiche individuali del paziente e dalla configurazione relazionale della coppia al lavoro (Horwitz et al., 1996). È utile che il clinico sappia integrare gli aspetti intrapsichici e interpersonali, cercando una tensione dialettica tra difese, resistenze e dinamiche relazionali. Per esempio, il terapeuta può sentirsi aiutato dalla psicologia dell'Io nel riconoscere aspetti stabili della difesa (fattori di "tratto") che si palesano in molte situazioni interpersonali; d'altro canto, l'approccio interpersonale lo aiuterà a vedere gli aspetti specifici e unici di ciascuna diade interpersonale (fattori di "stato").
All'interno dell'approccio relazionale il terapeuta viene considerato coautore della rottura: la resistenza può esser considerata una risposta del paziente a un atteggiamento o intervento del terapeuta (conscio o inconscio).
Se da un lato gli autori relazionali hanno dato massimo risalto alla relazione terapeutica, dall'altro sembrano paradossalmente aver "trascurato" di menzionare esplicitamente il costrutto dell'alleanza terapeutica. Una spiegazione esauriente ci viene da queste osservazioni di Maria Ponsi: «anche se la nozione di alleanza terapeutica fa riferimento alla relazione - e in questo senso si può considerarla una nozione bi-personale -, raramente viene menzionata dagli autori che si riconoscono nel paradigma relazionale [...] Una volta che tutta la situazione analitica viene concepita in un ottica bi-personale e che la qualità e la regolazione della relazione analitica diventano temi centrali della teoria e della tecnica viene in qualche modo a cadere l'esigenza di disporre di un costrutto [...] che invece era apparso necessario in una fase in cui gli aspetti relazionali venivano sottovalutati» (Ponsi, 2002, p. 79).
Da una prospettiva che potremmo definire cognitivo-interpersonale, Safran propone una lettura delle rotture dell'alleanza come «utili finestre sul mondo soggettivo del paziente» (Safran, Muran, 2000a, p. 85): non più ostacoli alla terapia ma potenti fattori di cambiamento . È proprio a partire dalle rotture dell'alleanza con il proprio paziente che il terapeuta ha la possibilità di intervenire dal vivo sulle modalità relazionali disfunzionali che hanno provocato la rottura terapeutica.
Negli ultimi vent'anni, Safran e il suo gruppo hanno dato vita a un vero e proprio paradigma di ricerca sulle rotture dell'alleanza unendo così alle teorizzazioni cliniche la verifica empirica delle stesse. L'approccio di Safran può essere definito "integrato" in quanto si propone di unire lo spirito empirico della ricerca in psicoterapia (di origine cognitiva) all'attenzione rivolta alla relazione terapeutica di stampo psicoanalitico intersoggettivo(4)

2. La ricerca
I principali indirizzi che hanno guidato la ricerca sull'alleanza nell'ultimo decennio sono: a) relazione tra alleanza e outcome del trattamento; b) fattori che favoriscono lo sviluppo dell'alleanza (caratteristiche del paziente e del terapeuta); c) convergenze nelle valutazioni fornite da paziente, terapeuta e osservatore esterno circa la qualità dell'alleanza; d) evoluzione e organizzazione dell'alleanza nel tempo; e) risoluzione delle rotture dell'alleanza.
Si potrebbe iniziare col dire che uno dei risultati più interessanti della ricerca sull'alleanza è quello che vede in essa il fattore terapeutico aspecifico con maggior capacità predittiva circa il risultato della terapia (outcome). Il rapporto tra alleanza e outcome non è tuttavia così lineare (buona alleanza = buon outcome e viceversa) come potrebbe sembrare. A renderlo più complesso intervengono infatti numerose variabili: la patologia del paziente, il tipo di interventi del terapeuta, lo strumento utilizzato per la misurazione dell'alleanza, il periodo della misurazione, il punto di vista del paziente e quello del terapeuta, ecc.
Come emerge dalle due metanalisi effettuate da Horvath (Horvath, Symonds 1991; Horvath, Bedi, 2002), il momento in cui viene misurata l'alleanza sembra avere una grande influenza sulla sua capacità predittiva rispetto all'outcome: le valutazioni compiute nelle fasi iniziali (prima-quinta seduta) e finali della terapia hanno una maggiore capacità predittiva rispetto alle valutazioni intermedie (Luborsky, 1990; Horvath, Symonds, 1991; Castonguay et al., 1996; Gaston et al., 1998; Barber et al., 1999). Una possibile spiegazione di queste differenze risiede nel fatto che nelle fasi intermedie di una terapia vengono affrontate le problematiche più strutturali, causa di possibili stress alla relazione tra paziente e terapeuta e di conseguenza all'alleanza terapeutica.
Le prime ricerche sull'alleanza indicavano il paziente come miglior predittore del risultato, trovando peraltro una scarsa correlazione tra la valutazione del paziente e quella del terapeuta. La metanalisi compiuta da Horvath e Bedi nel 2002 e altre ricerche hanno invertito questo risultato, individuando nel terapeuta un miglior predittore dell'outcome (Hersouog et al., 2000; Yeomans et al., 1994) e una maggiore correlazione (che tende ad aumentare con l'avanzare della terapia) tra le valutazioni del paziente e quelle del terapeuta (Gunderson et al., 1997; Hersuog et al., 2000).
Per quanto riguarda le variabili del paziente ricordiamo innanzi tutto il rapporto tra alleanza e gravità del disturbo. Su questo punto le ricerche sono discordanti: mentre alcuni autori hanno trovato un rapporto significativo tra gravità del disturbo e cattiva alleanza (Gaston et al., 1998; Zuroff et al., 2000), altri hanno trovato piccole differenze tra pazienti più o meno gravi (Joyce, Piper, 1998; Pavio, Bahr, 1998).
Circa la tipologia dei disturbi, alcune ricerche hanno evidenziato un rapporto tra diagnosi e alleanza. In particolare alcuni autori hanno individuato delle peculiarità nell'andamento dell'alleanza in soggetti con gravi disturbi di personalità (Andreoli et al., 1993; Lingiardi et al., 2000). Il fenomeno del dropout, che porta alcuni pazienti, verosimilmente quelli con le alleanze più deboli, a interrompere prematuramente e in modo unilaterale la psicoterapia, rende tuttavia particolarmente difficile questo tipo di indagine.
È stato anche indagato, con conclusioni più che univoche, il rapporto tra stile d'attaccamento del paziente e qualità dell'alleanza: pazienti con attaccamenti insicuri(5) riportano riportano alleanze più deboli nelle fasi iniziali della terapia (Mallinckrodt, 2000; Tyrrel et al., 1999; Eames, Roth, 2000; Hilliard et al.; 2000; Rubino et al., 2000).
Per quanto riguarda le variabili del terapeuta la letteratura più recente indica, come fattori facilitanti per il formarsi di una buona alleanza, le abilità interpersonali, grazie alle quali il clima delle sedute può rimanenere più sicuro e sincero, favorendo così nel paziente i sentimenti di fiducia e speranza. Queste abilità sembrano aiutare il terapeuta anche nel precoce riconoscimento di schemi interpersonali maladattivi, con la possibilità di intervenire tempestivamente su di essi (Safran, Muran, 2000). Circa la variabile "esperienza del terapeuta" i risultati sono invece discordanti: alcune ricerche non riconoscono importanza all'esperienza del terapeuta per la formazione di una buona alleanza (Dunkle, Friedlander, 1996), altre sembrano invece sostenere tale correlazione (Bein et al., 2000; Kvilighan et al., 1998).
Circa il rapporto tra interventi del terapeuta e qualità dell'alleanza, Luborsky, nel Penn Psychotherapy Project, ha indagato il rapporto tra alleanza e accuratezza delle interpretazioni. In contrasto con quanto si potrebbe ipotizzare intuitivamente, i dati raccolti da Crits-Christoph, Cooper e Luborsky (1988) dimostrano una certa indipendenza tra alleanza terapeutica [che continua invece a predire significativamente l'esito del trattamento (Luborsky, 1990, p. 225)] e accuratezza delle interpretazioni. Come suggerisce lo stesso Luborsky, questi risultati sono probabilmente validi solo per i pazienti meno gravi; nel caso di pazienti più gravi, sembra invece necessaria una forte alleanza perché essi possano tollerare le interpretazioni. Ricerche successive hanno indagato il rapporto tra accuratezza delle interpretazioni e sviluppo dell'alleanza. Crits-Christoph, Barber e Kurcias (1993) hanno ipotizzato che l'alleanza rilevata nelle prime sedute dipende prevalentemente dalle caratteristiche del paziente, mentre quella rilevata nelle fasi finali della terapia dipende in misura maggiore dagli interventi del terapeuta. I risultati hanno in parte confermato l'ipotesi di partenza: laddove l'alleanza era migliorata nel corso della terapia il terapeuta aveva prodotto interventi più aderenti ai "Temi Relazionali Conflittuali Centrali" (CCRT) del paziente rispetto ai casi in cui l'alleanza era peggiorata durante il trattamento.
Lo studio della variazione della "forza" dell'alleanza nel tempo ha sollevato alcuni quesiti: esistono cambiamenti sistematici e prevedibili nella forza dell'alleanza che corrispondono a diverse fasi della terapia? Esistono fluttuazioni nel tempo dell'alleanza (nel corso di una seduta o nell'arco di diverse sedute)? I cambiamenti nell'alleanza segnalano solo una reazione a specifici eventi della terapia? I risultati degli studi longitudinali sono ambigui: Gaston e Ring (1992) non hanno trovato esempi significativi di cambiamenti sistematici nella "forza" dell'alleanza nel tempo; Luborsky et al. (1980) hanno riscontrato che segni positivi dell'alleanza nelle fasi iniziali della terapia permangono con notevole costanza dalle prime sedute alla fine del trattamento e sono buoni indici predittivi dell'esito. Da una rassegna della letteratura condotta da Frieswyk et al. (1996) risulta che la qualità dell'alleanza nelle fasi iniziali della terapia è positivamente associata con l'esito del trattamento. Al tempo stesso è stato osservato che sintomi precoci di alleanza negativa non sono necessariamente predittivi di un esito negativo (Greenberg, Horvath, 1991; Horvath, 1991; Bachelor, 1992; Gaston, Ring, 1992).
Per Gelso e Carter (1994), un trattamento di successo sarebbe caratterizzato, nel corso del tempo, da un tipico "andamento a U" : alleanza alta-bassa-alta. La relazione terapeutica si aprirebbe cioè con una buona alleanza, seguita dalla caduta dell'intesa tra paziente e terapeuta, cui farebbe seguito, nella fase conclusiva, una ripresa della buona alleanza. Altri ricercatori (per esempio Kvilighan, Shaughnessy, 1995, 2000) hanno invece osservato un diverso andamento dell'alleanza in relazione al tipo di trattamento (per cui, per esempio, l'andamento a U non sarebbe applicabile alle terapie brevi). In realtà, l'analisi dello sviluppo longitudinale dell'alleanza nel corso delle sedute (Safran, et al., 1990; Horvath, Marx, 1991) indica un complesso pattern di sviluppo, caratterizzato da flessioni e riprese: un andamento, osservano Horvath e Greenberg (1994, p. 3) che può assumere le caratteristiche dell'ottovolante!
Per concludere - senza nulla togliere all'ottimismo di Wampold (2001, p. 158), il quale sostiene che «l'impatto dell'alleanza nelle varie ricerche spiega la varianza dell'outcome molto più di quanto non la spieghino le diverse tecniche impiegate» - non possiamo fare a meno di segnalare a tutt'oggi la presenza di ricerche tra loro discordanti per quanto riguarda sia l'impostazione sia i risultati. È importante promuovere nuove ricerche sui fattori che mediano l'alleanza, magari privilegiando l'indagine in un campo ancora relativamente inesplorato, quello relativo alle variabili del terapeuta (Backeland, Lundwall, 1975; Dunkle, Frielander, 1996; Bein et al., 2000; Kvilighan, Patton, Foote, 1998), intese soprattutto come capacità interpersonali e tipologia degli interventi (Frayn,1992; Henry, Strupp,1994) .

2.1. Ricerche empiriche sulle rotture dell'alleanza
Come abbiamo visto, una forte alleanza iniziale tra paziente e terapeuta (o un alleanza che aumenta gradualmente nel corso della terapia) può essere considerata un buon predittore dell'outcome (Horvath, Symonds 1991; Horvath, Bedi, 2002). Viceversa segni iniziali di cattiva alleanza non sono necessariamente predittori di un cattivo esito della terapia. Questo dato ci porta a riflettere su un aspetto particolare dell'alleanza: probilmente non è la qualità negativa dell'alleanza in sé predittiva di un peggiore outcome, ma la capacità predittiva del costrutto risiede nella capacità di paziente e terapeuta di "lavorare" sull'alleanza e di risolverne le problematiche. Non è quindi il manifestarsi in sé di stalli, impasses e rotture nell'alleanza a determinarne il risultato positivo o meno, ma la capacità del terapeuta di affrontare in modo costruttivo tali situazioni.
Bisogna osservare a questo punto che non sempre i pazienti sono in grado di (o desiderano) comunicare al terapeuta il loro disagio in terapia, o il loro disaccordo circa qualche obiettivo della terapia. Rennie (1994), grazie a una ricerca di tipo qualitativo, ha estratto diversi fattori che spiegano la deferenza del paziente: 1) paura di criticare il terapeuta; 2) bisogno di andare incontro alle aspettative percepite del terapeuta; 3) accettazione dei limiti del terapeuta; 4) paura di ferire l'autostima del terapeuta; 5) timore di manifestare ingratitudine nei confronti del terapeuta. Questi risultati sembrano suggerire una forma di protezione da parte del paziente nei confronti del terapeuta ma soprattutto confermano l'opinione, basata su osservazioni cliniche e sul buon senso, che il paziente non dice tutto al terapeuta e in particolare che raramente comunica il proprio disagio nei confronti della terapia o del terapeuta. Purtroppo questa osservazione clinica, in parte suffragata dai dati empirici, va a colludere con un limite, emerso da alcune ricerche, proprio dei terapeuti (più probabilmente degli esseri umani): indipendentemente dalla loro esperienza clinica, è raro che i terapeuti siano consapevoli del "non detto" del paziente o di sue reazioni negative "covert" attuate durante una seduta [con una percentuale che varia tra il 17% (Regan, Hill, 1992)(6) e il 45% (Hill, Thompson, Cogar, Dennan, 1993)].
Il problema delle rotture dell'alleanza non si riduce però semplicemente all'incapacità del terapeuta di "leggere" i segnali di cattiva alleanza manifestati dal paziente. Il problema per un terapeuta può riguardare anche come agire o "reagire" di fronte al riconoscimento nel paziente di sentimenti negativi nei confronti della terapia o del terapeuta: diverse ricerche suggeriscono che la sola consapevolezza da parte del terapeuta di sentimentimenti negativi nel paziente verso la terapia può influenzare il risultato della terapia (Fuler, Hill, 1985; Martin et al.,. 1986; Martin et al., 1987).
Ma come reagiscono i terapeuti quando si accorgono di un problema (di una rottura) nell'alleanza con il paziente? Alcuni potrebbero aumentare l'aderenza al loro modello teorico anziché aumentare la propria flessibilità: da alcune ricerche è emerso che alcuni terapeuti, in risposta a rotture dell'alleanza di pazienti con diagnosi di depressione, tendevano a concentrarsi in modo esclusivo sui pensieri irrazionali dei pazienti (pilastro della terapia cognitiva standard della depressione) anziché rispondere loro in modo più flessibile (Castonguay et al., 1996); questa eccessiva attenzione ai pensieri irrazionali era inoltre correlata a un peggiore outcome. Ricerche simili su terapie di orientamento psicodinamico hanno evidenziato una correlazione tra incremento delle interpretazioni di transfert in risposta a segni di rottura dell'alleanza e peggiore outcome (Piper et al., 1991). Altri studi dimostrano invece che l'alleanza migliora quando i terapeuti sono in grado di rispondere in modo non difensivo al paziente, riconoscendo e discutendo gli episodi di rottura (Foremar, Marmar, 1985).
Un discorso a parte meritano le ricerche che hanno indagato il processo di formazione e sviluppo delle rotture: di questo argomento si è occupato in particolare il gruppo di ricerca di Safran e Muran. Gli autori, impiegando una modalità di ricerca insipirata alla task analytic investigation (Greenberg, Pinsof, 1986), hanno costruito e validato empiricamente un modello descrittivo del processo di rottura e riparazione dell'alleanza (Safran et al.,1990; Safran, Muran, 1995, 1996, 1998, 2000). Si tratta di una ricerca basata su quattro stadi ricorsivi: 1) sviluppo del modello teorico, 2) verifica empirica del modello teorico, 3) sviluppo di un modello per il trattamento basato sulle conoscenze acquisite dopo la verifica empirica del modello teorico, 4) valutazione dell'efficacia del modello clinico impiegato. Una volta completato il primo ciclo, il paradigma di ricerca prevede la costruzione di un nuovo modello teorico basato però sui risultati ottenuti nei passaggi precedenti e così via fino ad arrivare a un modello d'intervento il più affidabile ed efficace possibile.
Il primo modello, Stage Process Model I (Safran, 1990), sviluppato a partire dall'analisi qualitativa di 15 sedute di psicoterapia, era composto da quattro stadi: 1) rilevazione del marker di rottura dell'alleanza da parte del terapeuta, 2) esplorazione dell'esperienza di rottura, 3) esplorazione dell'evitamento, 4) esplorazione degli schemi interpersonali.
Nel secondo modello, Stage Process Model II, sempre basato sull'analisi di sedute audio e videoregistrate, sono state individuate due modalità di rottura dell'alleanza da parte del paziente: le rotture Withdrawal (caratterizzate da modalità comunicative più indirette) e rotture Confrontation (caratterizzate da comunicazioni più dirette ed esplicite).(7) Inoltre è stato eliminato lo stadio 4 (esplorazione del ciclo interpersonale), poiché non sempre presente nelle terapie esaminate, ed è stato sostituito da uno stadio chiamato "espressione di autoassertività nel paziente".
L'ultima modifica apportata al modello, Stage Process Model III, ha visto l'ulteriore revisione della definizione del quarto stadio. In particolare gli autori hanno osservato come i CCRT (Luborsky, Crits-Christoph,1992) fossero in grado di spiegare/descrivere gli stati mentali di un paziente in seguito a una rottura e riparazione dell'alleanza: in modo invariabile questa fase sarebbe caratterizzata dall'espressione da parte del paziente dei suoi bisogni e desideri.
Questa modalità di ricerca, che può appare macchinosa e complessa, ha permesso al gruppo di Safran di affinare il proprio modello clinico giungendo a un modello di intervento, il Brief Relational Psychoanalytic Treatment, la cui efficacia sembra essere indagabile empiricamente (Safran, 2002; Muran, 2002). L'importanza delle ricerche di Safran e colleghi va dunque ricercata nel tentativo di collocare le proprie teorizzazioni all'interno di un contesto clinico e di sostanziare empiricamente tali teorizzazioni mediante un accurata valutazione del processo e dell'outcome (Muran, 2002).

3. La clinica
Una rottura dell'alleanza terapeutica può essere definita un momento di tensione, un breakdown nella collaborazione tra paziente e terapeuta. Come abbiamo visto, spesso i pazienti non verbalizzano, o addirittura celano, i loro stati di disagio verso il terapeuta; altrettanto frequentemente questi ultimi non si accorgono di tale disagio. È quindi di importanza fondamentale per la pratica clinica che il terapeuta sappia riconoscere i segnali di cattiva alleanza mostrati dal paziente al fine di monitorarne lo stato e l'andamento. Ma ancora più decisiva è la capacità del terapeuta di "utilizzare" a scopo trasformativo le rotture riconosciute.
Come già segnalato, le modalità di rottura dell'alleanza possono essere distinte in dirette o indirette (oppure esplicite o implicite, di rottura o di ritiro, ecc.). Spesso i marker di rottura diretti hanno intensità maggiore mentre marker indiretti hanno minore intensità. Tuttavia, markers indiretti con bassa intensità possono essere più pervasivi e comparire nel corso di tutta la seduta.
Le modalità e gli stili di rottura possono dipendere a volte dalla patologia presentata dal paziente. Soggetti con problemi nella regolazione degli impulsi, come i borderline, esprimeranno preferenzialmente il loro disagio verso la terapia o il terapeuta attraverso markers di rottura diretti e con elevata intensità, comprese vere e proprie aggressioni verbali. Alcuni tratti della personalità narcisistica (Ronningstam, 1998) come per esempio la difficoltà a riconoscere i propri limiti empatici o la convinzione di meritare un trattamento di favore, spesso si rivelano d'ostacolo alla condivisione degli obiettivi terapeutici. Per il paziente paranoide, non sarà facile stabilire una relazione basata sulla fiducia e la collaborazione, e questo naturalmente influirà pesantemente sulla costruzione dell'alleanza. Nel caso di pazienti con problemi di ansiosi o evitanti, sarà invece più probabile che le rotture si manifestino attraverso marker indiretti, per il timore di perdere l'appoggio del terapeuta.
Vediamo ora un elenco di markers di rottura(8) tratto dagli item della scala IVAT(9) (Indice di Valutazione dell'Alleanza Terapeutica), uno strumento che abbiamo costruito allo scopo di valutare, a partire da trascritti di colloqui o sedute, l'alleanza terapeutica e in particolar modo le sue rotture (Colli, Lingiardi, 2002).


Tabella 3. Markers di rottura (diretti e indiretti) del paziente indagati dalla scala IVAT

Il paziente non riconosce o critica gli scopi/compiti della terapia
Il paziente attacca esplicitamente la persona e/o la competenza del terapeuta
Il paziente rifiuta energicamente un intervento del terapeuta e/o è irritato da domande del terapeuta
Il paziente lamenta la mancanza di progressi significativi in terapia
Il paziente manifesta dubbi circa la seduta in corso
Il paziente manifesta dubbi sulla prosecuzione della terapia
Il paziente esprime seri dubbi sulle sue possibilità di cambiamento
Il paziente mostra insofferenza nei confronti di costi, tempi, ecc. della terapia
Il paziente salta la seduta o arriva in ritardo
Il paziente esprime sentimenti negativi nei confronti del terapeuta per mezzo del sarcasmo
Il paziente nega uno stato d'animo evidente
Il paziente fornisce una risposta tangenziale a un intervento diretto del terapeuta o cambia visibilmente discorso
A domande di largo respiro del terapeuta, il paziente risponde con monosillabi o frasi corte
Il paziente si esprime in modo eccessivamente ridondante e/o tende saltare continuamente da un argomento all'altro
Il paziente parla di un'esperienza di dolore in modo intellettualizzato
Il paziente allude a problemi presenti nella relazione terapeutica esclusiva-mente facendo riferimento ad altre relazioni tematicamente simili
Il paziente si mostra eccessivamente acquiescente
Il paziente adotta strategie grossolane di accrescimento della propria autostima
Il paziente si autocritica e/o si svaluta in modo eccessivo


L'elenco di markers riportato in tabella 3 ci offre una lente per osservare la fenomenologia delle interazioni paziente-terapeuta durante le rotture dell'alleanza, ma certo non pretende di essere esaustivo: l'esperienza clinica ci insegna infatti quanto possono essere creativi i pazienti nel manifestare il loro disagio verso la terapia e/o il terapeuta ...
Le rotture dell'alleanza possono essere definite secondo varie dimensioni: 1) modalità di comunicazione della rottura diretta vs indiretta, 2) intensità, 3) pervasività, 4) oggetto della rottura (scopi, compiti, relazione).

3.1.1 Rottura diretta vs indiretta
Una comunicazione del paziente indicativa di rottura dell'alleanza può essere più o meno diretta. Tale dimensione richiama alla mente le rotture di confrontazione (Confrontation) e ritiro (Withdrawal) descritte da Safran e Muran.
Nei marker di rottura più diretti è il paziente stesso a segnalarci in modo esplicito il problema, comunicando le problematiche relative all'alleanza terapeutica. Per esempio, un paziente potrebbe dire di non essere soddisfatto dei risultati ottenuti, oppure di non sentirsi accolto e di percepire il terapeuta come una persona fredda, di non credere nell'utilità dei compiti proposti, ecc. Molto più spesso avverrà che il paziente non comunicherà in modo diretto il proprio disagio: in tal caso il terapeuta dovrà riconoscere quei segnali del paziente (comportamenti) riconducibili a processi covert indicanti una rottura dell'alleanza.
I marker diretti e indiretti si differenziano per il livello di inferenza richiesto al terapeuta (o all'osservatore) per la loro rilevazione: nel caso dei marker diretti l'inferenza richiesta è minima in quanto il processo psicologico nel paziente indicante una rottura è un processo overt, ovvero la corrispondenza tra il comportamento manifesto del paziente e i suoi processi interni è elevata (per esempio il paziente dice: "Lei non è un buon terapeuta e non sa comprendermi"). Nel caso di marker indiretti l'inferenza richiesta è elevata in quanto il comportamento del paziente non è direttamente riconducibile al tipo di processo psicologico interno (covert) del paziente: per esempio un paziente che parla in modo evasivo (che "mena il can per l'aia") oppure che si riferisce a problematiche relative alla relazione terapeutica facendo però esclusivamente riferimento a relazioni extra-analitiche.

3.1.2. Intensità della rottura
Le rotture dell'alleanza possono differenziarsi per forza e intensità. Si possono verificare rotture "violente" e dirompenti (per esempio acting come aggressioni verbali o fisiche al terapeuta), rotture d'intensità medio-alta (per esempio energici rifiuti del paziente a fronte di interpretazioni del terapeuta: "ma cosa c'entra mio padre con i miei problemi!"), e infine rotture di lieve intensità o semplici increspature relazionali.

3.1.3. Pervasività della rottura
Possiamo valutare la pervasività dei marker di rottura dell'alleanza nel contesto sia di una seduta sia dell'intera terapia. Nel corso di una seduta può accadere che non si manifesti alcun marker di rottura (per esempio un paziente può non essere "pronto" a rispondere a un intervento del terapeuta e inizialmente rispondere con frasi brevi ma poi a poco a poco aprirsi e sviluppare una seduta che mette in risalto la sua capacità di dialogo) oppure che se ne manifestino molti (per esempio un paziente che manifesta, magari con modalità sottilmente passivo-aggressive, marker di rottura per tutta la seduta). Allo stesso modo un'intera terapia può essere caratterizzata da pochissime rotture dell'alleanza oppure esserne costantemente segnata.

3.1.4. Oggetto della rottura
Le rotture dell'alleanza possono avere come oggetto gli scopi della terapia, i mezzi utilizzati per raggiungere tali scopi o la relazione tra paziente e terapeuta.
Un paziente può per esempio essere in disaccordo sugli obiettivi da perseguire per risolvere i propri problemi; in altri casi, il paziente può non percepire come obiettivi mete che invece il terapeuta considera fondamentali. Ancora, il paziente può percepire come non utili gli strumenti utilizzati e/o proposti dal terapeuta per raggiungre gli obiettivi concordati: per esempio ritenere inutili le libere associazioni (in una terapia psicoanalitica) oppure il diario dei pensieri (in una terapia cognitivo-comportamentale).
Talvolta la rottura può avere come oggetto non tanto il razionale della terapia (scopi e compiti) bensì la dimensione relazionale: per esempio il paziente può non sentirsi a proprio agio con il terapeuta, essere diffidente nei suoi confronti, oppure sentirsi incompreso o addirittura manipolato.
Queste tre tipologie di rottura non si escludono tra loro; nella realtà clinica spesso un disaccordo sugli scopi o i compiti della terapia è anche indice di una problematica relazionale e viceversa.

Dal razionale al relazionale: gli interventi del terapeuta
Il contenuto di questo articolo riflette in parte il dibattito attualmente in corso sulla necessità di verificare l'efficacia degli interventi terapeutici e la conseguente necessità di renderli replicabili attraverso la loro manualizzazione. Ma la manualizzazione impoverisce la psicoterapia e i suoi aspetti più creativi e "artigianali" o la arricchisce di sfide e risultati? Visto che l'alleanza è un fenomeno relazionale (quanto transferale? e quanto "reale"?), risultante dall'incontro di due persone (e di due personalità) uniche, come è possibile riconoscere delle situazioni replicabili, applicabili ... manualizzabili? Ma se neghiamo la possibilità di costruire modelli operativi di intervento in psicoterapia che siano empiricamente indagabili, non corriamo il rischio di favorire il solipsismo di una soggettività (o di un'intersoggettività) radicale? Rifiutando ogni riferimento alla teoria della tecnica non rifiutiamo anche le esperiene di clinici che prima di noi hanno affrontato le nostre stesse impasses?
Queste domande necessarie ci portano direttamente al cuore della vexata quaestio della ricerca in psicoterapia. Un simposio tenuto qualche anno fa da Fonagy e Britton all'Istituto di Psicoanalisi di Londra si intitolava: "Psychoanalysis and Research: Grasping the Nettle". La traduzione italiana più appropriata sarebbe "afferrare il coro per le corna", ma credo che il più letterale "prendere in mano l'ortica" renda meglio l'idea dei possibili effetti urticanti di questo dibattito, troppo spesso costretto tra riduzionismo empirico e integralismo analitico (Dazzi, 2000).
Noi preferiamo considerare la manualizzazione come un punto di partenza, una cornice tecnica di riferimento e confronto al cui interno si sviluppa la dimensione intersoggettiva del famoso incontro di «due persone che parlano in una stanza» (Nissim Momigliano, 1984).
Le rotture dell'alleanza e le conseguenti riparazioni non sono solo un prerequisito per il cambiamento, ma l'essenza stessa del cambiamento. Nell'affrontare una rottura dell'alleanza, il terapeuta non dovrebbe considerarla un semplice malfunzionamento della relazione terapeutica, un inconveniente da risolvere al più presto, bensì un punto di partenza potenzialmente trasformativo: il paziente mostra in vivo al terapeuta i suoi problemi relazionali (Safran direbbe i suoi "cicli interpersonali maladattivi") e il terapeuta, che in quel momento partecipa della relazione, ha la possibilità di discuterne con il paziente.
Come le rotture del paziente, anche gli interventi del terapeuta possono essere distinti in base alla dimensione dell'alleanza cui appartengono (scopi, compiti, relazione). Naturalmente gli interventi del terapeuta sono sempre interrelati: una riformulazione degli scopi della terapia veicolerà sempre un significato relazionale e viceversa.
Gli interventi del terapeuta indirizzati alla risoluzione delle rotture dell'alleanza possono esser collocati lungo «un continuum di interazioni che si dispiega fra un estremo in cui gli interventi a sostegno della relazione collaborativa sono quasi impercettibili perché ben integrati nella struttura del discorso e un estremo in cui vengono formulati dei veri e propri interventi non-interpretativi» (Ponsi, 2002, p. 82).
Gli interventi del terapeuta potrebbero essere quindi collocati lungo un continuum che va da interventi di stampo prevalentemente razionale (scopi/compiti/metodi) a interventi di tipo relazionale-affettivo. Un breve elenco di queste condizioni mostra però molto bene il continuo intrecciarsi dei due piani fino a formare una dimensione inclusiva che è quella del legame: interventi di regolazione della relazione terapeutica, confrontazione, interpretazioni del transfert, osservazioni sulla relazione reale, interventi di self-disclosure, condivisione del controtransfert, enactment, ecc.
Tra i vari tipi di intervento del terapeuta vogliamo ora concentrarci sulla self-disclosure (Renik, 1995; Jacobs, 1998). Il dialogo creatosi attorno all'opportunità o meno di utilizzare questo tipo di intervento è riconducibile al dibattitto tra clinici relazionali, sostenitori di una psicologia bi-personale, che vedono la soggettività del terapeuta come necessaria e innegabilmente appartenente al processo terapeutico e autori di orientamento più classico che sostengono condotte terapeutiche più neutrali. Per molto tempo l'introduzione della relazione all'interno della tecnica è stata considerata una deformazione della tecnica classica fondata su neutralità, astinenza e anonimato; la prospettiva relazionale ha invece portato in primo piano il fatto che il terapeuta partecipa al processo terapeutico (e lo co-costruisce) anche con il suo mondo interiore e la sua storia personale. Ne consegue che all'interno della teoria della tecnica può essere considerata la possibilità che il terapeuta si riveli attraverso alcuni interventi (appunto detti di self-disclosure) al paziente come una figura non solo connotata dalla neutralità e dall'anonimato.
Hill e Knox (2002) definiscono le self-disclosures come «atteggiamenti del terapeuta che rivelano aspetti personali del terapeuta stesso» e non includono in questa definizione tutte quelle "rivelazioni di sé" non verbali del terapeuta come l'abbigliamento, l'arredamento dello studio, ecc. Alcuni autori (McCarthy, Betz, 1978; Hill, O'Brien, 1999) ritengono utile distinguere tra self-disclosures propriamente dette intese come «rivelazioni personali di sé da parte del terapeuta a riguardo di avvenimenti, fatti situazioni non appartenenti all'esperienza immediata del terapeuta con il paziente o per la terapia» e rivelazioni del terapeuta relative alla propria esperienza immediata in relazione al paziente o alla terapia.
Utilizziamo qui l'espressione self-disclosure (SD) per indicare una rivelazione del terapeuta di aspetti della propria vita non appartenenti all'esperienza immediata con il paziente e svelamenti controtransferali per indicare comunicazioni volontarie al paziente circa la propria esperienza in terapia. Con alcuni pazienti le SD sono considerate utili al fine di mantenere e incrementare l'alleanza terapeutica durante il corso della terapia. Grazie a una SD alcuni pazienti potrebbero iniziare a vedere in modo diverso il proprio terapeuta, umanizzandolo; altri potrebbero sentirsi più a proprio agio in una relazione percepita come più paritaria. Hill e Knox (2002, p. 262) forniscono delle linee guida, o sarebbe meglio dire consigli di buon senso, circa l'utilizzo delle SD:

Il terapeuta dovrebbe fare pochi interventi di SD.
Gli argomenti più idonei per una SD riguardano il background teorico-tecnico del terapeuta, quelli meno idonei riguardano le proprie pratiche sessuali e le proprie credenze.
Il terapeuta dovrebbe utilizzare le SD per incrementare l'alleanza ma anche per validare un'esperienza del paziente, normalizzarla o offrire un modo alternativo di pensare o agire.
Il terapeuta dovrebbe evitare di fare SD che spostino il focus dal paziente o che interferiscano con il processo della seduta.
L'efficacia delle SD sembra essere maggiore quando la SD è prodotta in risposta ad una SD del paziente.
Il teraputa dovrebbe sempre monitorare con attenzione le reazioni del paziente alle proprie SD.
L'utilizzo delle SD non sembra necessario con tutti i pazienti.

Un'eccessiva manualizzazione di una dimensione relazionale come le SD ci sembra però poco praticabile e ci troviamo d'accordo con Aron (1997) quando dichiara che una teoria della tecnica che prescrive la self-disclosure è limitante tanto quanto una teoria che la bandisce.
Se le SD possono essere utili per mantenere viva l'alleanza, ancora di più lo sono in situazioni di rottura dell'alleanza. Questo tipo di svelamenti offre la possibilità di uscire da circoli viziosi con il paziente. Rientrano in questa categoria di interventi anche le comunicazioni del terapeuta che forniscono un feedback al paziente circa gli stati d'animo che gli sta comunicando: "Mi corregga se sbaglio, ma mi sembra che lei sia arrabbiata per qualche cosa" fino a vere e proprie disclosure del proprio mondo interiore "spesso mi sento giudicato da lei e mi sembra che qualsiasi cosa io dico viene preso da lei come un offesa". Un terapeuta può assumere su di sé la responsabilità per uno stallo della terapia: "forse ho insistito troppo su questo aspetto perché sentivo in lei un senso d'urgenza a cui volevo porre rimedio ...".
Nella risoluzione delle rotture dell'alleanza, si tende a spostare il focus della seduta sul qui e ora della relazione (spesso proprio grazie a piccole SD). La focalizzazione sul qui e ora della relazione rappresenta uno dei passi fondamentali per l'esplorazione di una rottura dell'alleanza: spostare la propria attenzione su quanto sta avvenendo in seduta permette infatti ai due partecipanti di metacomunicare (Kiesler, 1996) su quanto sta avvenendo.
Anche Safran ci fornisce delle indicazioni su come il terapeuta dovrebbe comunicare, o meglio metacomunicare, e in particolare raccomanda ai terapeuti di:
sottolineare al paziente la natura soggettiva delle proprie osservazioni, per esempio, come suggerito da Bollas (1987), utilizzando frasi del tipo: "Mi sembra che...", "Secondo me...", "Io penso che...", e mantenendo sempre un tono più esplorativo che confrontativo;
stare attenti a non collegare esplicitamente in modo avventato la modalità relazionale presentata dal paziente in terapia con altre relazioni del paziente;
essere pronti ad assumersi le proprie responsibilità per aver contributo a un processo di rottura;
rispondere in modo aperto e non difensivo a eventuali critiche fatte dal paziente.

Oltre a prestare attenzione agli indicatori del paziente di rotture dell'alleanza il terapeuta dovrebbe "ascoltare" anche i propri indicatori interni, ovvero la propria esperienza controtransferale. Infatti spesso lo stato mentale del paziente (in particolare nei pazienti gravi) può essere dedotto dalla riflessione del terapeuta sul proprio stato mentale relativo all'esperienza relazionale attuale con il paziente. Indipendentemente dalla prospettiva teorica e dal linguaggio utilizzato, autori di orientamento diverso sono concordi nel riconoscere nell'esperienza che il terapeuta ha del paziente uno dei più potenti indicatori dello stato mentale del paziente stesso. Che si parli di regolazione tra sistemi motivazionali interpersonali (Liotti, 1994), di cicli interpersonali disfunzionali (Safran, Segal, 1990) o di controtransfert e identificazione proiettiva (Ogden, 1991, 1994), il riferimento comune è all'uso della propria esperienza soggettiva come informazione per cogliere l'esperienza soggettiva dell'altro. Prima di essere utilizzata in modo tecnico e attivo, la propria esperienza soggettiva va naturalmente riconosciuta e analizzata alla luce della propria conoscenza di sé, della propria storia e personalità, e calata nella narrazione intersoggettiva, per non correre il rischio di agire e proiettare sul paziente parti scisse di sé.
Come recentemente osservato Westen e Gabbard (2002), è possibile distinguere le reazioni controtransferali che ci si può mediamente attendere - come l'empatia verso sentimenti dolorosi, l'orgoglio per importanti conquiste del paziente o il piacere per alcuni suoi miglioramenti - dalle reazioni controtansferali idiosincratiche che portano l'impronta delle dinamiche dell'analista, e «nella misura in cui la forma dell'analisi riflette in modo troppo forte le dinamiche e i quadri interpretativi propri dell'analista - inclusi i modelli teorici e le metafore da lui preferite - possiamo dire che l'analista non sta stabilendo un buon processo analitico» (Ibidem, p. 127). In questo contesto, l'unica differenza tra le reazioni di transfert e quelle che possono essere ricondotte all'alleanza terapeutica è che le seconde sono più influenzate e plasmate dalla cultura e meno idiosincratiche, cioè più correlate alle aspettative culturali.


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Note:

1) Per approfondire il tema dell'impasse terapeutica alla luce del concetto di "terzo analitico" si veda Benjamin (2002a, 2002b), Lingiardi (2002b), Mitchell (2002, p. 146), Aron (2002), Gerhardt, Sweetnam, Borton (2000), Safran, Muran (2000a).

2)Per evitare confusioni, molti preferiscono continuare a usare il termine "difesa" per definire un'attività intrapsichica inconscia e il termine "resistenza" per indicare i processi che avvengono tra il paziente e il terapeuta.

3)Questo approccio ha portato Safran (2002) a costruire un modello d'intervento (il Brief Relational Psychoanalytic Treatment) che rappresenta l'ingresso, non senza difficoltà (Warren, 2002), di questo autore nel mondo relazionale.

4) Misurati con Relationship Scales Questionnaire (RSQ) di Griffin, Bartholomew (1994).

5) In particolare Regan e Hill hanno chiesto a 24 coppie paziente-terapeuta di riportare, al termine di ogni seduta, i pensieri e le emozioni che avevano provato ma che non erano stati in grado di esprimere. In seguito è stato chiesto ai terapeuti di indicare che cosa secondo loro i pazienti avessero tralasciato di verbalizzare in seduta: i risultati indicano che solo il 17% dei terapeuti era consapevole del materiale celato dai pazienti.

6) Nel Manuale di Codifica della Rupture Resolution Scale, non ancora pubblicato, Samstag, Safran e Muran (2000) descrivono una terza tipologia di rotture, le rotture Manipulative (di manipolazione) che sembrano collocarsi a metà strada tra le Confrontation e le Withdrawal.

7) Con l'espressione "marker di rottura" ci riferiamo a quei segni (comportamenti, parole, riferimenti al terapeuta o alla terapia) che possono essere indicativi/predittivi di una rottura più o meno manifesta, o comunque di un malessere del paziente circa la terapia e o il terapeuta.

8)La scala IVAT è uno strumento nato per valutare, qualitativamente e quantitativamente, l'alleanza terapeutica a partire dai trascritti di sedute. È composta da due scale: IVAT-P (che valuta i markers di rottura del paziente) e IVAT-T (che valuta gli interventi del terapeuta volti alla risoluzione di rotture nell'alleanza). Per il suo utilizzo è necessario lo studio del manuale per la codifica (Colli, Lingiardi, 2001) nonché uno specifico addestramento su sedute trascritte.



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