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C.P.A.T. --> HOME PAGE --> N. 43/2005

QUADERNI DI PSICOLOGIA,
ANALISI TRANSAZIONALE
E SCIENZE UMANE

Dal n° 43 - 2005


Le funzioni organizzative dell'attività mentale del sogno

James L. Fosshage
Traduzione di Claudia Chiaperotti




Quando Freud diceva che i sogni sono “la via regia all’inconscio” assegnava ai sogni il ruolo di accesso principale all’inconscio. Egli considerava l’inconscio come fonte inesauribile di energie istintuali che premono per essere liberate e come contenitore di fantasie e ricordi che vengono banditi nello stato cosciente. L’inconscio dinamico forniva una spiegazione alla diffusa irrazionalità degli esseri umani ed era considerato da Freud una delle tre grandi scoperte scientifiche (le altre due erano quelle di Copernico e di Darwin) che hanno fatto scendere l’uomo dal suo trono.
È passato ormai quasi un secolo dalla pubblicazione di questo monumentale lavoro di Freud sui sogni, del quale egli disse: «Un’intuizione come questa succede, ma una sola volta nella vita» (Jones, 1953, p. 350). Il modello classico di formazione e interpretazione del sogno è rimasto relativamente invariato (Curtis, Sachs, 1976). L’applicazione, poi, del modello strutturale (Freud, 1923; Arlow, Brenner, 1964) ha sottolineato la partecipazione alla formazione del sogno di tutte e tre le entità psichiche: Es, Io e Super-Io. Tuttavia stimolo primario al sogno rimane il desiderio, che rappresenta un impulso istintuale di origine infantile e che cerca gratificazione nel corso di tutta la vita (Altman, 1969). Ulteriori aspetti caratterizzano il modello classico: le difese (o i loro mascheramenti) sono sempre presenti nella formazione dei sogni, con il risultato di una distinzione di contenuto manifesto e latente; inoltre, i sogni sono prodotti di una regressione intrinseca (Arlow, Brenner, 1964; Blanck, Blanck, 1974) e cioè riguardano modalità primitive di funzionamento, escludendo in generale funzioni cognitive più sofisticate. Anche se, dal punto di vista clinico, l’interpretazione del sogno in una prospettiva classica si accentra sempre più sul conflitto latente intersistemico anziché semplicemente sul desiderio latente (Waldhorn, 1967), nessun sogno può considerarsi pienamente analizzato fintantoché non sono venuti alla luce i desideri infantili sessuali e aggressivi.
All’infuori della psicoanalisi classica, si sono sviluppati diversi modelli psicoanalitici. A cominciare da Jung (1916), Adler (1936), Fromm (1951) e French, Fromm (1964), si è dato molto rilievo agli aspetti progressivi del sogno, di problem-solving e a quella che io chiamo “autoriparazione” (particolarmente da parte di Jung). Nell’ambito della teoria delle relazioni oggettuali, Fairbairn sostiene che «i sogni sono rappresentazioni di situazioni endopsichiche sulle quali si è bloccata la persona che sogna (punti di fissazione) e spesso includono qualche tentativo di superare la situazione stessa» (citato in Padel, 1978, p. 133). In termini di Psicologia del Sé, Kohut (1977) ipotizza che quando il Sé è minacciato da uno stato di frammentazione o di dissoluzione, la funzione del sogno è quella di ripristinare il Sé; sono i sogni che egli chiama “sogni sullo stato del Sé” (self-state dreams). In queste formulazioni è implicito un funzionamento cognitivo elevato, mentre va diminuendo l’accento sulla presenza di operazioni difensive.
Al di là della psicoanalisi, sono emersi nuovi ambiti di studio: la psicofisiologia del sonno e del sogno, la ricerca sui contenuti dei sogni e la psicologia cognitiva. La ricerca sul sogno REM e la ricerca sui contenuti del sogno suggeriscono come il sonno REM e l’attività mentale durante il sogno giochino un ruolo essenziale nella regolazione dell’affetto, nel consolidamento della memoria, nell’elaborazione delle informazioni e nell’adattamento allo stress (si veda: Hartmann, 1973; Fiss, 1986; Levin, 1990; Greenberg, Perlman, 1993; Kramer, 1993). La ricerca conferma che il sogno è un processo mentale complesso che svolge un’essenziale funzione adattiva. Dal canto suo, la psicologia cognitiva va chiarendo come l’inconscio debba essere considerato più correttamente come un aspetto della cognizione, riferito al livello di consapevolezza, anziché un’entità o uno spazio che contiene energia e impulsi che premono per essere liberati. Un’importante funzione di tutta l’attività cognitiva, conscia e inconscia, è l’elaborazione delle informazioni. Sulla base delle nuove conoscenze acquisite potremmo cambiare l’aforisma di Freud secondo cui “il sogno è la via regia all’inconscio” e dire che “il sogno è l’espressione regia dell’attività mentale inconscia”.
È sulla scorta delle evoluzioni teoriche in psicoanalisi e dei risultati della ricerca sul sogno REM e contenuto dei sogni che io (Fosshage, 1983) per primo ho proposto una revisione del modello psicoanalitico dei sogni. Intendo in questa sede analizzare e sviluppare ulteriormente le implicazioni teoriche e cliniche di questo modello, tenendo in considerazione alcuni dei più recenti sviluppi della teoria psicoanalitica, la ricerca sui sogni e la psicologia cognitiva.
Considero questo modello come il modello organizzativo dei sogni, in quanto il processo e le funzioni principali dei sogni sono di organizzare i dati. Analizzerò in primo luogo la duplice modalità dell’attività mentale; di seguito mi concentrerò sulla funzione del sogno fornendo illustrazioni cliniche; da ultimo descriverò le regole tecniche per capire e lavorare con i sogni.

Duplice modalità dell’attività mentale
Freud (1900) scoprì che i processi inconsci che si manifestano nei sogni e nella formazione dei sintomi erano governati da una modalità di organizzazione mentale diversa da quella del pensiero razionale conscio, denominandola, rispettivamente, processo primario e secondario. Sull’onda dell’interesse per le scienze idrauliche del tempo, Freud distingueva questi due modelli sulla base della teoria dell’energia. Il processo primario si riferiva a una modalità per cui le energie premono per una scarica immediata secondo il principio del piacere. Nel processo secondario l’energia è trattenuta e la sua scarica è ritardata, in ossequio al principio di realtà. Questa definizione basata sull’energia ha portato a pensare che il processo primario rimanga sempre primitivo e immutato.
Successivamente, Arlow e Brenner (1964) ipotizzarono che il processo primario e quello secondario fossero i due poli che definiscono un continuum energetico e che l’ideazione non possa essere mai completamente libera o completamente vincolata. Altri, svincolando gradualmente questi concetti dalla definizione basata sull’energia, li riformularono vedendo nel processo primario una forma di cognizione che svolge una generale funzione organizzativa di integrazione e di sintesi (Holt, 1967; Noy, 1969, 1979) per cui vengono organizzati i dati percettivi, cognitivi e affettivi. Riferendomi alle contraddizioni insite nella teoria freudiana, ebbi a scrivere:

Mentre la definizione economica freudiana di processo primario… logicamente ci dipinge un’immagine di un “ribollire di eccitazioni”, i principi di condensazione, di spostamento e di simbolizzazione (nonostante la loro relativa fluidità) implicano organizzazione e struttura. In effetti, la definizione economica di processo primario va in senso contrario alla grande scoperta di Freud che sogni e forme di cognizione patologica… fossero organizzati, strutturati e significativi. (Fosshage, 1983, p. 646)
Quando si ipotizza che il processo primario, così come quello secondario, svolgano una funzione organizzatrice e di sintesi, ci si deve domandare come essa si sviluppi. Noy (1969, 1979) per primo suggerisce che il processo primario e il processo secondario si sviluppino nella loro complessità nel corso di tutta la vita. Egli distingue però tra le due modalità: il processo primario avrebbe a che fare con problemi interni, mentre quello secondario si occuperebbe di problemi esterni; concettualizzazione che, a mio modo di vedere, non pare empiricamente valida. Nel tentativo di dar seguito a queste svolte teoriche, ho ridefinito i due processi.

Il processo primario è quel tipo di funzionamento mentale che usa immagini visive e altre immagini sensoriali con connotazioni intensamente affettive per svolgere una funzione di integrazione generale e di sintesi. Il processo secondario, invece, è una modalità concettuale e logica che utilizza simboli linguistici (con una funzione integrativa e di sintesi). Questi processi sono da considerarsi come modalità diverse ma complementari di apprendere, di rispondere e di organizzare il [mondo esperienziale]… Entrambi i processi sono operativi e si intrecciano nel corso dell’attività mentale (ad es. la cognizione durante il sonno o la veglia), ma in proporzioni che variano a seconda del momento e della persona. (Fosshage, 1983, p. 649)

In questo modo di intendere il processo primario, i principi di simbolizzazione e di condensazione sono processi che organizzano i dati percettivi, cognitivi e affettivi (incluse le percezioni del momento, i ricordi, le fantasie) e possono, o meno, svolgere una funzione difensiva.
L’influenza delle scienze cognitive ha condotto gli psicoanalisti a distinguere diverse modalità di cognizione (Erdelyi, 1985; Horowitz, 1988; Power, Brewin, 1991). Horowitz, ad esempio, introduce una divisione tripartita consistente in una modalità di rappresentazione (le reazioni espressive), una di immagine e una lessicale. Sulla base del lavoro di Paivio (1986, 1991) invece, la Bucci (1985) ipotizzava i codici verbali e non verbali di elaborazione delle informazioni come derivanti da input verbali e non verbali. Il codice non verbale è basato su canali sensoriali e «l’emozione è probabilmente associata a questo sistema» (p. 584). Nessun codice è superiore all’altro ed essi si combinano, attraverso un “processo referenziale”, per creare nuove organizzazioni. Ora però la Bucci (1994, 1997) fa riferimento a codici multipli, in quanto fa una distinzione fra modalità simboliche e non simboliche di elaborazione delle informazioni nel sistema non verbale.
Gli psicologi cognitivi hanno formulato teorie e condotto ricerche per chiarire le diverse modalità cognitive (si veda l’ottima rassegna di Epstein, 1994). Alcuni ipotizzano una triplice modalità, ma i più definiscono, anche se in modi diversi, una duplice elaborazione delle informazioni. Epstein, ad esempio, nella sua teoria del Sé cognitivo-esperienziale, differenzia tra elaborazione esperienziale e razionale. Il sistema esperienziale, anche se non verbale, si basa sul far esperienza e ha perciò una definizione ampia. Gli organismi di ordine superiore «organizzano in modo efficiente l’esperienza (elaborano schemi) e indirizzano il comportamento apprendendo dalla passata esperienza. Questo sistema opera in modo molto diverso da quello, sviluppato molto più tardi, che risolve problemi astratti utilizzando simboli e deduzioni logiche» (p. 714). Qui, di nuovo, le emozioni si considerano collegate al sistema esperienziale.
La psicologia cognitiva, almeno finora, tende a confermare l’ipotesi freudiana originaria relativa a due diversi tipi di attività mentale. La teoria e la ricerca attuali ne divergono, però, asserendo che queste due modalità, che seguono regole diverse, non rivestono una funzione di liberazione dell’energia, bensì una funzione di integrazione generale e di sintesi. Inoltre, esse non rimangono immutate, ma evolvono e diventano più complesse. Queste nozioni, relativamente recenti, riguardo alla duplice modalità di elaborazione hanno implicazioni profonde sulla nostra comprensione della formazione e della funzione dei sogni. A differenza dell’idea che il processo primario, ad esempio, soddisfi desideri allucinatori per placare impulsi infantili, la ricerca ci svela un’attività mentale tesa a integrare e a organizzare. Il soddisfacimento del desiderio è un processo organizzativo che può essere difensivo o regolatorio (Fosshage, 1983, 1987b). Mentre entrambi i tipi di attività mentale, primario e secondario, svolgono la stessa funzione in termini generali, il processo primario (che funziona per immagini e in modo non verbale) è associato agli affetti. L’attività mentale per immagini, quindi, è essenzialmente legata alla vita affettiva (il che ha riscontro nel fatto che i sogni in fase REM, più marcatamente per immagini, siano più intensamente emotivi).

La funzione del sogno
Sulla base della ridefinizione del concetto di processo primario, la modalità principale di attività mentale durante il sogno, particolarmente in fase REM, io sostengo che «la funzione sovraordinata dei sogni consiste nello sviluppo, mantenimento (regolazione) e, se necessario, riparazione dei processi psichici… e dell’organizzazione [psicologica]» (Fosshage, 1983, p. 657). L’attività mentale durante il sogno, così come durante la veglia, ha funzione organizzatrice e va da una cognizione elementare – come, ad esempio, il rivivere momentaneamente un avvenimento – a forme altamente complesse, come lo sforzo di risolvere complicati problemi emotivi o intellettuali.
Altri sono giunti a formulazioni simili. Atwood e Stolorov (1984) considerano i sogni come «i custodi della struttura psicologica» (p. 103). Sulla base delle ricerche sul sogno REM e sul contenuto dei sogni, Greenberg (1987) e colleghi (Greenberg, Perlman, 1993) descrivono la funzione del sogno come quella di «integrare informazioni dell’esperienza in corso con ricordi del passato per produrre schemi che possano organizzare complicati compiti comportamentali» (p. 3). Altri teorici, come Ullman (1969), Breger (1977) e Hartmann (1995) hanno sottolineato la funzione adattiva dei sogni. Kramer (1993) ha condotto approfondite ricerche sulla loro funzione di regolazione dell’umore. Fiss (1986, 1989), in linea con la mia definizione, sostiene che il sogno facilita lo sviluppo, il mantenimento e il ripristino del Sé. Da un punto di vista neurofisiologico, Wilson (1985) descrive lo sviluppo evolutivo delle strutture cerebrali, confermando la funzione di integrazione del sogno, vale a dire l’elaborazione sistematica delle informazioni (p. 295).
Vediamo ora, più da vicino, ognuna di queste funzioni, esaminando alcuni dei risultati delle ricerche sul sogno REM, NREM, sul contenuto dei sogni e delle ricerche cliniche1.

Funzione evolutiva
L’attività mentale durante il sogno, così come durante la veglia, elabora le informazioni e contribuisce allo «sviluppo dell’organizzazione psicologica attraverso il consolidamento della rappresentazione di nuove configurazioni psichiche emergenti» (Fosshage, 1983, p. 658). Si acquisiscono nuove prospettive percettive e si elaborano le immagini di nuovi comportamenti, contribuendo così allo sviluppo. Ne emergono nuove rappresentazioni oggettuali (o schemi) e nuovi scenari relazionali. L’attività mentale durante il sogno, inoltre, può proseguire gli sforzi consci o inconsci della veglia per risolvere conflitti, ripristinando uno stato precedente, utilizzando processi difensivi o creando una nuova organizzazione2.
Alcuni di coloro che propongono modelli di elaborazione delle informazioni suggeriscono qualcosa di simile, e cioè che «i sogni servono a integrare materiale investito affettivamente in strutture che fanno parte dei sistemi della memoria che precedentemente hanno trattato materiale simile in modo soddisfacente» (Breger, 1977, p. 24) e che percezioni ed esperienze nuove vengono confrontate con ricordi e soluzioni permanenti in un continuo «riordinamento e arricchimento della struttura associativa della memoria permanente» (Palombo, 1978, p. 468). Greenberg e Perlman (1975, 1993) hanno sottolineato la funzione di problem-solving dei sogni. Kramer (1993) indica la funzione problem-solving o di accomodamento (in senso piagetiano) dei sogni. E Hartmann (1995) descrive la funzione “semi-terapeutica” dei sogni.
Quali dati ci offre la ricerca a sostegno della funzione evolutiva dei sogni? L’attività cerebrale durante il sonno REM è intensificata, il che suggerisce, come dimostrano le ricerche, che il cervello è al lavoro. Apprendimento e problem-solving sono aspetti di quella che io chiamo la funzione evolutiva dei sogni. Numerosi studi sugli animali e sugli esseri umani rivelano che il sonno REM aumenta quando si apprendono cose nuove (Fiss, 1990; Greenberg, Perlman, 1993); c’è una relazione lineare tra durata del sonno REM e nuovo apprendimento. Ad esempio, in un corso intensivo di lingua straniera gli studenti il cui sonno REM era aumentato hanno ottenuto un miglioramento della conoscenza della lingua e quelli il cui sonno REM non era aumentato non sono migliorati (De Koninck et al., 1977). Anche in altri esperimenti di apprendimento si è notato un aumento del sonno REM: test del labirinto (Lucero, 1977), di inversione di prismi (Zimmerman, Stoyva, Metcalf, 1970), svolgere compiti che confondono (Lewin, Gombosh, 1972) e affrontare esperienze traumatiche (Greenberg, Pillard, Perlman, 1972). È dimostrato che il sonno REM contribuisce, e talvolta può essere essenziale, all’apprendimento e alla soluzione dei problemi.
Per dimostrare in modo diretto che il sogno, e non solo il sonno REM, contribuisce a un aumento della memoria, Fiss, Kremer e Litchman (1977) hanno raccontato a un gruppo di soggetti una storia in toni molto vivaci come stimolo pre-sonno. I soggetti incorporavano la storia nei loro sogni facilitandone il ricordo e concludendo che sognare serve a consolidare la memoria (Fiss, 1986).
L’attività mentale predominante nei sogni REM è quella più carica di immagini affettive, mentre nei sogni NREM la modalità prevalente è il processo secondario. Non sorprende quindi che la ricerca sui sogni abbia dimostrato che i sogni REM sono più importanti, quando si tratta di affrontare materiale altamente emotivo, dei sogni NREM. Inoltre, focalizzare l’attenzione sui sogni REM in modo conscio ne accresce l’effetto. In un noto studio, Cartwright, Tipton e Wicklund (1980) hanno dimostrato che quei pazienti a cui viene insegnato a prestare attenzione ai loro sogni REM rimangono più a lungo in terapia e fanno progressi maggiori di quelli a cui si insegna a prestare attenzione ai sogni NREM (ricerca fatta per convalidare l’attenzione sui sogni, particolarmente quelli popolati di immagini, in psicoanalisi). Analogamente, Fiss e Litchman (1976) hanno riscontrato che concentrarsi sui sogni REM, rispetto ai sogni NREM, produce un maggior sollievo dei sintomi e una maggiore consapevolezza.
Da un’analisi dei risultati delle ricerche, Levin (1990) conclude: «In generale, i dati sperimentali dimostrano che il sonno REM, e in particolare il sogno REM, ha un’utilità funzionale nel consolidare, integrare ed elaborare le informazioni di carattere affettivo e conflittuale o negativo. Inoltre, un aumento del sonno e del sogno REM sembra essere collegato alla capacità di usare la fantasia in modo efficace, di seguire un pensiero divergente [creativo] e di problem-solving olistico» (p. 37). Kramer (1993), riassumendo i dati della ricerca, nota: «Sognare bene la notte, il che succede circa il 60% delle volte, è il risultato di un’attività di problem-solving progressiva, sequenziale e figurativa che si svolge durante tutta la notte» (p. 187). La ricerca conferma l’ipotesi che il sonno e i sogni REM svolgono un ruolo importante nello sviluppo dell’organizzazione psicologica.
Ricerche neurofisiologiche rivelano che la fase REM subisce una diminuzione quantitativa nel corso degli anni; su questa base Meisner (1968) e Breger (1977) sostengono che il sogno favorisce la strutturazione del sistema nervoso (Fosshage, 1983). Più recentemente, Reiser (1990) indica come il sogno crei “immagini di memoria e reti nodali” o “reti neurali”, il che corrisponde a una descrizione in chiave neurofisiologica di ciò che io descrivo come sviluppo dell’organizzazione psicologica.
L’evidenza clinica della funzione evolutiva dell’attività mentale che si svolge durante il sogno si ha quando per la prima volta emerge in un sogno una nuova configurazione psicologica, o un cambiamento, che non si può far risalire all’attività mentale vigile (vedi Fosshage, 1987a e 1989 per dettagli ed esempi clinici). Un paziente, ad esempio, può sognare di farsi valere per la prima volta con un padre critico. L’emergere in sogno di una nuova configurazione suggerisce che la persona con la sua attività onirica produce il cambiamento o, quanto meno, favorisce lo sviluppo (in un mio precedente articolo [Fosshage, 1988] reinterpreto il sogno di un paziente, riportato da R. Greenson, nel quale il paziente ristruttura un profondo conflitto per emergere da uno stato di depressione).
Momenti di svolta creativi richiedono un successivo sforzo mentale per favorire la riorganizzazione psicologica. L’analista deve sottolineare le nuove immagini e i movimenti del sogno perché vengano consolidati. Descriverò due casi clinici di sogni con funzione evolutiva e l’uso clinico che ne ho fatto.

Esempio clinico
Qualche tempo fa una donna di una cinquantina d’anni iniziò con me una terapia psicoanalitica. Proveniva da una famiglia aristocratica, era molto intelligente e lavorava con successo nel settore dell’editoria. Era estremamente repressa nei modi e nella vita e non aveva mai avuto una relazione intima e sessuale. Dopo circa tre mesi di terapia, la paziente raccontò un breve sogno: era alla guida della sua Porsche rossa sul viale d’accesso di casa sua. Al suo accenno a una Porsche rossa ebbi una spontanea espressione di sorpresa. Dopo avermi detto come si fosse sentita contenta nel sogno, notando la mia sorpresa mi domandò: «Cosa pensava che guidassi?». Una risposta mi venne immediatamente alla mente, ma mi domandai se dovessi esprimerla o no. Per prepararci entrambi e per offrire una scelta dissi: «Lo vuol proprio sapere?». Senza timore rispose di sì. Risposi alla domanda dicendo: «Una Edsel». Non ne fu compiaciuta ma sembrò capire. Nella discussione che seguì chiarimmo che la Edsel era lo spazio “costretto” e fuori tempo, fuori moda nel quale si trovava; la Porsche rossa era il suo lato sportivo e vitale che emergeva. Io puntualizzai il contrasto tra l’aspetto limitativo della sua esperienza che era stato in primo piano durante la veglia e l’emergere nel sogno del suo lato vitale e sportivo. La Porsche divenne un simbolo forte della trasformazione incipiente e necessaria che fece da guida generale per la terapia. Alla conclusione di un’analisi di buon successo durata cinque anni, l’omaggio che la paziente mi fece di un modellino di Porsche che la ricordasse mi parve appropriato. Esprimendo la mia risposta spontanea avevo fatto presa sul suo stato conscio, piuttosto che su quello onirico, e raffrontando i due stati riuscimmo ad approfondirne la conoscenza e a mettere in luce la sua necessità di integrare e sviluppare la parte più vitale e sportiva del Sé3.

Esempio clinico
Il secondo esempio clinico illustra una profonda svolta nel modo di vedere l’analista da parte del paziente, che emerge per la prima volta in un sogno. Il paziente era un giovane medico. Pur molto competente nel suo lavoro, provava un malessere debilitante, un’indifferenza, e aveva difficoltà a trovare la donna giusta. Per rivitalizzarsi aveva provato una serie di rimedi orientali. Una sua amica, mia ex studentessa, gli aveva caldamente raccomandato di venire da me. Anche se notevolmente scettico riguardo alla psicoanalisi e alla psicoterapia, per le pressioni dell’amica decise di fare un tentativo: tanto, cosa aveva da perdere? Non pensava che la psicoanalisi avrebbe funzionato e la sua prima impressione di me fu che io fossi un ciarlatano di cui non fidarsi. Solo una volta, nei primi tre mesi di terapia, accennò a considerarmi come una persona solida, che aveva una moglie e una casa (lo ricevevo nel mio studio a casa mia), tutti aspetti della vita che avrebbe voluto per sé.
Il paziente disse del sogno: «Si svolgeva di fronte a casa sua. Un giovane si sta trasferendo a casa sua come forma di terapia. Io gli dissi che era fortunato ad avere lei, uomo onesto, affidabile, integro, degno di fiducia, non un ciarlatano. Io mostravo la mia vecchia casa, quella in cui sono cresciuto. Volevo venderla. In qualche modo anch’io mi sarei trasferito qui, a casa sua».
Ci rendemmo entrambi conto, con sorpresa, di come il sogno trasmettesse una diversa percezione dell’analista. Gli chiesi se corrispondesse a un pensiero conscio che aveva avuto su di me o sulla nostra relazione. Rispose con convinzione, senza pensarci su: «No». Disse che nel sogno si trasferiva a vivere con me, ma consciamente aveva solo dei dubbi. Io feci notare che nel sogno vedeva me e la nostra relazione in modo molto diverso.
Quanto detto del sogno e del processo illustra come emergessero nuove immagini dell’analista, e del paziente in relazione all’analista, che erano in netto contrasto con le sue percezioni consce. Il sogno e lo stato conscio vanno considerati come differenti stati del Sé (letteralmente, differenti stati mentali). In questo caso gli stati erano decisamente diversi. Con l’interpretazione fummo in grado di notare la differenza senza svalutare né l’uno né l’altro. In modo conscio, il paziente indicava sfiducia nell’analista. Precedentemente, solo una volta il paziente aveva accennato a un transfert con un oggetto-Sé idealizzato, che presumibilmente era la ragione per cui aveva iniziato ed era rimasto in terapia. Mentre si può facilmente presumere che l’interazione terapeutica abbia favorito la nuova percezione, è stato in sogno che è riuscito a vedere chiaramente e definitivamente l’analista come degno di fiducia, esperienza evolutivamente necessaria con “l’altro” idealizzato. Nella sua esperienza onirica, il paziente vedeva e consolidava questa nuova percezione. Facendo riferimento al sogno e mettendovisi in relazione in maniera affettiva in uno stato conscio, si facilitava l’integrazione del passaggio evolutivo che era emerso nel sogno.

Funzioni di mantenimento (regolazione) e di ripristino
L’attività mentale, in sogno come nella veglia, può servire a «mantenere, regolare e ripristinare le configurazioni e i processi psichici in atto» (Fosshage, 1983, p. 262), compreso il mantenimento e la regolazione dell’autostima (“sogni sullo stato del Sé”), l’attaccamento, l’esperienza del sesso, dell’esplorazione e della sicurezza di sé e dell’avversione (Lichtenberg, Lachmann, Fosshage, 1992, 1996). Le funzioni di mantenimento e di ripristino sono strettamente correlate e non sempre si riesce a distinguerle. Il mantenimento si riferisce al modulare e dà continuità all’organizzazione psicologica; il ripristino, invece, riguarda uno stato di più marcata disorganizzazione psicologica.
Nell’attività mentale, sia onirica che vigile, noi utilizziamo (e riveliamo) schemi primari per organizzare l’esperienza (per un’analisi degli schemi e dei pattern organizzativi, si veda Piaget, 1954; Wachtel, 1980; Atwood, Stolorow, 1984). Le immagini del Sé, dell’altro e del sé-con-l’altro sono raffigurate in modo alquanto intricato. Il sogno, così come l’attività vigile, può servire a mantenere o a trasformare questi schemi.
Nei sogni di mantenimento e di ripristino il punto centrale è la regolazione dell’affetto. Se, ad esempio, durante la giornata non abbiamo potuto esprimere la nostra rabbia o il nostro malumore nei confronti di qualcosa che abbiamo sentito come una minaccia, è possibile che cerchiamo di “raddrizzare la situazione” in sogno, in un tentativo di regolare l’affetto e ripristinare il nostro equilibrio interiore.
Tuttavia, il ripristino dell’organizzazione psicologica non sempre comporta un passo verso la “salute”. È possibile che, sia nei sogni sia nella veglia, si ristabilisca e si rafforzi uno “schema mentale” (un pattern organizzativo) abituale ma più problematico. Ad esempio, sulla base del passato, un successo può essere vissuto come minaccia all’altro e quindi al necessario legame (vivificante) con l’oggetto-Sé. Un sogno può servire a riaffermare una visione negativa di sé di inadeguatezza, che è più familiare e dà meno ansia, ripristinando però il legame con l’oggetto-Sé e un certo equilibrio psicologico. Questo lo scopriremo solo riuscendo a capire qual è la visione caratteristica di sé che ha il paziente e ricostruendo attentamente gli eventi della giornata che hanno portato al sogno. Ad esempio, nel sogno del medico a cui si è fatto cenno, i ruoli dell’attività mentale onirica e di quella vigile erano molto diversi: quando nel sogno era emersa una nuova immagine dell’analista come persona degna di fiducia (una fiducia evolutiva), in stato di veglia il paziente era rapidamente ritornato alla precedente immagine negativa dell’analista (ripristino dell’organizzazione che gli era più familiare).
Cosa ci dicono le ricerche riguardo alla funzione regolatrice dei sogni? È ormai assodato che una privazione del sonno REM causa un effetto rebound, e cioè che il REM aumenta, come compensazione, quando se ne presenta l’occasione. L’effetto rebound dimostra il bisogno neurofisiologico di sonno REM. I dati indicano che una privazione del sonno REM influenza l’umore e l’organizzazione psicologica, deteriorando la memoria a lungo termine riferita ad aspetti affettivi o di coping (Greenberg, Perlman, Schwartz, Grossman, 1983) e la capacità di affrontare stimoli stressanti (Grieser, Greenberg, Harrison, 1972). Tuttavia, gli studi sulla deprivazione di sonno REM indicano come vi sia una notevole variazione individuale nella risposta (Cartwright, Monroe, Palmer, 1967). Questa variabilità potrebbe aver a che fare con un altro aspetto evidenziato dalla ricerca, e cioè che per alcuni la privazione di sonno REM porta a un aumento compensatorio del vissuto di fantasie (Cartwright, Retzel, 1972) e di sogni NREM (Webb, Cartwright, 1978; Ellman, 1985). A spiegazione di questi risultati, Ellman (1985) ipotizza che i meccanismi che attivano il REM non siano specifici del sonno, ma che si verifichino in fasi successive nel corso delle ventiquattr’ore. Analizzando i dati della ricerca che mettono a confronto la privazione di sonno REM e NREM, Webb e Cartwright (1978) concludono che «la privazione di sonno REM produce una maggiore variazione nelle performance durante la veglia rispetto a una equivalente privazione di sonno NREM» (p. 243). Per riassumere, i dati ci indicano che il sonno REM e l’attività di tipo REM sono essenziali al mantenimento dell’equilibrio neurofisiologico e psicologico4.
Anche ricerche più direttamente centrate sui sogni suggeriscono funzioni di regolazione e riparazione. Spesso i sogni includono le esperienze emotive più intense della giornata (Piccione, Jacobs, Kramer, Roth, 1977) e i pensieri avuti prima di coricarsi (Piccione et al., 1977; Kramer, Moshiri, Scharf, 1982). Alcuni studi sui sogni utilizzano un “paradigma di incorporazione” (Fiss, 1986), in base al quale prima del sonno vengono presentati degli stimoli per influenzare il sogno. Vengono quindi studiati gli effetti dell’incorporazione. In uno studio classico (Cohen, Cox, 1975), alcuni soggetti venivano sottoposti a un’esperienza stressante di fallimento appena prima di andare a dormire. Coloro che avevano incorporato nei loro sogni l’esperienza del fallimento, il giorno appresso si sentivano meglio ed erano più disposti ad affrontare nuovamente il compito in cui avevano fallito rispetto a coloro che non lo avevano sognato. (È anche possibile che i soggetti che avevano incorporato nel sogno l’esperienza del fallimento fossero quelli che meno si sentivano sconfitti ed erano disposti ad affrontare il compito in sogno.) La struttura tematica del sogno non è stata oggetto di esame, ma molto probabilmente il sogno aveva aiutato a sostenere, se non a ripristinare, l’autostima e il senso di potercela fare, per cui il soggetto era disposto ad affrontare nuovamente il compito l’indomani.

Esempio clinico
La descrizione che Kohut (1977) fa del “sogno sullo stato del Sé” (Ornstein, 1987) è un esempio nel quale lo sforzo onirico, di fronte alla minaccia di auto-frammentazione o di disgregazione, mira a ripristinare un senso del Sé positivo e coesivo. È interessante notare come un esempio di questo tipo sia il sogno di Irma di Freud (1900). Nell’individuare gli eventi (i “residui diurni”) che avevano scatenato il sogno di Irma, Freud ricorda la sua irritazione per la critica di un collega relativa alla terapia di una paziente. Il collega aveva visto la paziente in un giorno d’estate e aveva giudicato negativamente il suo stato, e implicitamente la terapia. Quella notte in sogno Freud aveva cercato di ripristinare la sua autostima screditando il collega critico in maniera aggressiva e ingegnosa5. Freud, in questo caso, si discosta dal suo modello di sogno, in quanto non va alla ricerca dei sottostanti desideri infantili libidinali e aggressivi, ma vede il sogno come il tentativo di ripristinare la sua considerazione di sé6.
Efficacia funzionale dei sogni
Mentre con il sogno, e con l’attività mentale vigile, possiamo tentare di sviluppare, mantenere e ripristinare l’organizzazione psicologica, l’efficacia di questi sforzi varia. Gli affetti sono molto importanti per valutare l’efficacia di un sogno o di uno scenario onirico. L’incubo, ad esempio, rivela un notevole insuccesso nel gestire uno stimolo o un conflitto particolarmente ansiogeni.
Inoltre, gli scopi motivazionali del sognatore possono essere in conflitto. Ad esempio, i tentativi evolutivi di cambiamento possono contrastare direttamente con i tentativi di mantenere l’attuale organizzazione psicologica. Si consideri, ad esempio, il caso del sognatore che ritorna a una posizione masochistica, familiare e abituale, ma a duro prezzo in termini di vitalità del senso positivo di sé.

Contenuto dei sogni
Freud fa una distinzione, essenziale per il suo modello dei sogni, tra contenuto manifesto e latente, sulla base della teoria degli impulsi, nella quale gli impulsi latenti o desideri infantili devono essere mascherati e trasformati in sogno manifesto per preservare il sonno. La sua teoria che tutti i sogni comportino una trasformazione difensiva (mascheramento) del contenuto latente è esclusiva del modello classico e lo differenzia da tutti gli altri modelli di sogno. Se si lasciano da parte le teorie degli impulsi e dell’energia, non è più teoricamente necessario presupporre l’ubiquità delle difese nella formazione dei sogni (Fosshage, 1983, 1987b).
A mio parere i sogni rivelano in modo diretto i problemi immediati di chi sogna, attraverso gli affetti, le metafore, i temi. Fromm (1951) parla di linguaggio simbolico (“la lingua dimenticata”) non come linguaggio che maschera, ma come di un «linguaggio nel quale esprimiamo un’esperienza interiore come se fosse un’esperienza sensoriale» (p. 12). I tentativi di trovare soluzione ai problemi di cui parlano French e Fromm (1964), i processi di relazioni oggettuali di Fairbairn (1944), la regolazione dell’autostima di Kohut (1977), i modi dell’Io individualizzati, esperienziali e relazionali di Erikson (1954) e i processi evolutivi, di organizzazione e di regolazione da me ipotizzati, sono tutti aspetti direttamente (manifestamente) osservabili nei sogni (Fosshage, 1983).
A mano a mano che l’attività mentale onirica sviluppa, regola e ripristina l’organizzazione psicologica, tentando di armonizzare lo sforzo evolutivo e il bisogno di mantenere la coesione, le organizzazioni difensive hanno la funzione di preservare la coesione del Sé. Le difese – ciò che chiamiamo “avversione” (Lichtenberg, Lachmann, Fosshage, 1992, 1996) – compaiono nei sogni. La comparsa dell’avversione, tuttavia, non richiede la trasformazione o il mascheramento di ciò che è latente in contenuto manifesto; essa compare direttamente sulla scena del sogno.
Mi rivolgo quindi al contenuto del sogno (Fosshage, 1983, 1987a, 1987b). Io non sostengo una differenziazione tra contenuto latente e manifesto, in quanto questa distinzione presuppone un processo di trasformazione o di dissimulazione nella formazione del sogno. Evitando la distinzione tra contenuto latente e manifesto e sostenendo che il contenuto del sogno è di per sé rivelatore, non intendo dire che il significato dei sogni sia immediatamente palese (anche se talvolta lo è). Molto spesso, a causa della natura metaforica dei sogni, il significato delle immagini, dei temi, degli affetti e delle scene di relazione deve essere messo in luce attraverso lo studio analitico, l’elaborazione e le associazioni di chi ha sognato. La principale differenza con il modello classico consiste nel fatto che io non penso che le immagini vengano scelte allo scopo di dissimulare e che vengano perciò trasformate in altre immagini, ma piuttosto che la persona scelga le immagini per il loro potere evocativo e perché sono utili in termini di pensiero immaginifico, analogamente a quando chi, da sveglio, sceglie le parole per facilitare il pensiero e la comunicazione.
Come ho detto, anche se non è dissimulato il contenuto del sogno è spesso sfuggente e difficile da cogliere. Ciò a causa di una serie di fattori tra cui il ricordo imperfetto, la scarsa chiarezza del processo mentale durante il sogno, la sua natura metaforica (Ullman, 1969), la difficoltà di capire il significato di certe immagini da svegli o di trovare un senso quando si sovrappongono due diversi stati mentali e il fatto che il contesto intersoggettivo nel quale il sogno viene raccontato ed esaminato non facilita il compito.
Non presupporre che il contenuto del sogno sia stato trasformato a scopo difensivo comporta profonde implicazioni sul lavoro con i sogni e sulla loro comprensione. Anziché considerare le immagini oniriche come mascheramenti di qualcos’altro, a parer mio esse vengono scelte dal sognatore in quanto sono il linguaggio migliore che la persona ha a disposizione in quel momento per esprimere e facilitare ciò che pensa. Per capire i temi e le metafore di un sogno occorre che la persona descriva approfonditamente la sua esperienza onirica, le associazioni e le corde degli affetti toccate dal sogno e che l’analista indaghi sul sogno e sui suoi collegamenti con la vita reale. Le immagini del sogno, quindi, devono essere valutate clinicamente per ciò che rivelano metaforicamente e tematicamente, non per ciò che nascondono. In questo modo ogni immagine e il modo in cui è usata nel contesto del sogno potrà essere valutata per ciò che esprime. Ad esempio, l’“Io” del sogno identifica la persona che sogna; gli oggetti-immagini del sogno rappresentano le immagini che la persona ha dell’altro. Se non si presuppone che queste immagini oggettuali siano proiezioni del Sé di chi sogna, si accede alle immagini che chi sogna ha degli altri, di sé con gli altri e di importanti modalità relazionali. L’indagine, tuttavia, può rivelare che taluni aspetti della persona sono proiettati sull’altro. Se evitiamo il comune presupposto che le rappresentazioni oggettuali siano rappresentazioni di sé (basato sulla presunta ubiquità del mascheramento) potremo gettar luce sulle modalità del paziente di relazionarsi con gli altri e sugli aspetti di sé che egli proietta sull’altro.
La tesi che il contenuto del sogno sia rivelatore attraverso la sua struttura metaforica e tematica (Fosshage, 1987a) è confermata dai risultati delle ricerche. Diversi studi hanno dimostrato che esperienze emotivamente significative e stimolanti vengono direttamente incorporate nel cosiddetto “contenuto manifesto dei sogni” (ad esempio Witkin, 1969; Breger, Hunter, Lane, 1971; Greenberg, Perlman, 1975; Piccione et al., 1977; Kramer, Moshiri, Scharf, 1982). Si pone però la questione se queste esperienze siano i “residui diurni” scelti allo scopo di mascherare ed esprimere un diverso contenuto latente o se invece esse esprimano reali preoccupazioni di chi ha sognato che possono essere state potenziate avendo attivato, per affinità, primari temi conflittuali o schemi organizzativi. Questi ricercatori tendono a considerare il sogno il rivelatore più diretto delle principali preoccupazioni del sognatore. Una dimostrazione ancor più convincente è fornita da Levin (1990) che riporta una serie di studi che hanno rilevato nei sogni di persone depresse una predominanza di masochismo, impotenza e dipendenza. E in uno studio recente, Firth (Firth et al., 1990) ha rilevato che nei sogni di persone che avevano tentato il suicidio e di pazienti violenti senza fantasie suicide vi era un uguale contenuto di morte, superiore a quello di persone gravemente depresse ma senza impulsi suicidi. (Presumo che la struttura tematica dei sogni, ad esempio relativa a chi fosse a morire, dovesse essere diversa tra i primi due gruppi.) Si può concludere che nei sogni vengono rappresentati direttamente gli aspetti di personalità.

Il significato di un sogno
Quando l’attività mentale durante il sogno, così come durante la veglia, viene considerata come un processo di organizzazione, ne consegue, sulla base di ciò che sappiamo sull’attività mentale vigile, che essa varia rispetto al senso che assume per la persona che sogna. Ad esempio un sogno può essere un pensiero relativamente semplice – tosare il prato, terminare di scrivere una relazione, svolgere un qualche lavoro quotidiano – senza ulteriori significati e con un effetto minimo sull’umore della persona. O può essere semplice, come il sogno del paziente di Erickson (1954) del fiume Senna, ma essere molto significativo. Oppure può essere un’ampia rappresentazione della vita della persona, che include traumi tematici, conflitti, cambiamenti e situazioni attuali che toccano profondamente la persona (vedi ad esempio i sogni riportati in questo articolo e Fosshage, 1989).
Le ricerche confermano il diverso significato dei sogni. I sogni REM, maggiormente dominati dalle immagini, generalmente presentano scenari più carichi di affetto rispetto ai sogni NREM, dominati invece da processi secondari, che corrispondono più da vicino al pensiero da svegli legato al processo secondario. È dimostrato che i sogni REM sono molto più importanti dei sogni NREM per consolidare la memoria e per affrontare problemi emotivi. È dimostrato inoltre che varia l’effetto dei sogni sui pensieri e sui sentimenti della veglia (Kuiken, Sikora, 1993).
L’idea che il significato dei sogni possa variare differisce radicalmente dal modello classico in cui si presume che sia sempre presente un significato latente più profondo. Dal punto di vista clinico, ciò libera analista e paziente dal pesante, e spesso fallimentare, obbligo di dover trovare un importante significato latente in ogni sogno. Succede ogni tanto che un paziente racconti un sogno all’analista, sapendo che questi tiene in gran conto i sogni, aggiungendo che il sogno è stato poco significativo. In questo caso è possibile che il paziente non si sia ancora reso conto del significato del sogno, ma è altrettanto possibile che la sua valutazione sia corretta. Riconoscere che la significatività dei sogni varia può risparmiare ad analista e paziente una ricerca di senso frustrante e infruttuosa che può diventare mero esercizio intellettuale.

Chiarezza del sogno
I sogni variano quanto a chiarezza di presentazione e significato. Talvolta le intense immagini e gli scenari di un sogno superano le diverse metapsicologie e rivelano le stesse cose ad analisti di credo diverso (Fosshage, Loew, 1987); altri sogni sono vaghi e richiedono un considerevole sforzo per costruirne un significato.
Tradizionalmente si pensa che la mancanza di chiarezza dei sogni sia dovuta all’attività difensiva. A livello clinico si tentava di superare le difese per arrivare al significato latente nascosto. Se si tiene presente il modello organizzativo, la scarsa chiarezza può riflettere sia processi difensivi sia il processo mentale stesso. Come succede anche nell’attività mentale vigile, quando una nuova idea o una nuova formulazione stanno prendendo forma, queste sono vaghe proprio perché ancora incomplete. Riconoscendo che il sogno è vago in quanto potrebbe riflettere un pensiero ancora non compiutamente formulato, l’analista, invece che imbarcarsi in una frustrante e spesso intellettualizzata ricerca di un significato latente, può decidere di aspettare che emerga una maggiore chiarezza.

La capacità di chi sogna
Il modello legato all’organizzazione ci aiuta a capire meglio che le persone differiscono quanto alla loro capacità di pensiero, sia nel processo primario (per immagini) che nel processo secondario. È altamente probabile che queste capacità abbiano un’influenza sulla complessità e sull’efficacia dell’attività mentale, sia durante la veglia sia in sogno. Uno studio tramite elettroencefalogramma – EEG – (Moffitt et al., 1982) su due gruppi di persone che ricordano poco e molto i sogni ha mostrato che, se svegliati dal sonno REM, si verificava un’improvvisa ampia variazione nell’attività elettrica del cervello di coloro che ricordano poco e scarse variazioni in chi ricorda molto. In questi ultimi vi è maggiore continuità tra l’attività mentale del sonno e della veglia che permette loro di ricordare meglio, mentre vi è più discontinuità in chi ricorda meno. Se è vero che si può apprendere, più o meno bene, a ricordare i sogni, la nostra capacità di ricordarli e il maggiore o minore successo con cui cerchiamo di imparare a farlo dipendono indubbiamente da pattern neurofisiologici. È quindi importante rivedere la teoria psicoanalitica tradizionale secondo cui non ricordare i sogni sarebbe una forma di resistenza, perché potrebbe invece semplicemente dipendere dalle caratteristiche neurofisiologiche e dell’attività mentale. Riconoscere le differenze nel modo di sognare e di ricordare i sogni lascia libero l’analista di rispettare l’individuo anziché sentirsi in dovere di intraprendere un’analisi delle resistenze che potrebbe facilmente indurre nel paziente un senso di inadeguatezza.

Regole tecniche per lavorare con i sogni
Da alcuni decenni ormai la psicoanalisi ha subito la profonda influenza del passaggio da un approccio scientifico positivista a un approccio relativista. Noi ora consideriamo la situazione analitica come un campo intersoggettivo (Stolorow, Brandchaft, Atwood, 1987) o relazionale (Greenberg, Mitchell, 1983; Mitchell, 1988), in cui analista e paziente compongono un sistema di interazioni e influenze reciproche. Pertanto l’interazione analitica incide sui sogni del paziente (la barriera conscio-inconscio), su quali sogni il paziente racconta all’analista e su come li racconta. Inoltre, paziente e analista lavorano insieme, influenzando vicendevolmente il modo in cui interpretano i sogni. Con questo nuovo concetto del contesto analitico, qual è il modo migliore per analista e paziente di analizzare un sogno per capire quali ne sono i significati salienti e che cosa preoccupa il paziente? In altre parole, come possiamo massimizzare l’influenza dell’esperienza onirica nel costruire insieme il senso del sogno? Le seguenti regole tecniche, legate al modello di organizzazione dei sogni, sono suggerite come linee guida per indagare e comprendere i sogni nel contesto analitico.
Nell’ambito del modello organizzativo dei sogni, sognare è considerata un’esperienza di organizzazione affettivo-cognitiva che è la continuazione, sebbene spesso in modo divergente, dei precedenti stati di veglia. Il nostro compito di clinici è quindi quello di gettar luce, nel modo più completo e più chiaro possibile, sull’esperienza onirica del paziente. La prima regola tecnica richiede un ascolto molto attento dell’esperienza del paziente durante il sogno (l’uso della modalità empatica di percezione; Kohut, 1959; Fosshage, 1995). Inizialmente l’indagine analitica deve tendere ad ampliare l’esperienza del sogno del paziente, e questa è la seconda regola tecnica. Ad esempio: cosa sentiva quando nel sogno succedeva la tal cosa? (si veda Bonime, 1962, per l’accento sugli affetti); cosa provava? (domande generali, come «Cosa associa al sogno?» o «Cosa significa questo sogno per lei?» tendono a essere troppo aperte e indefinite e spesso inducono un approccio al sogno intellettualizzato e privo di affetti.) La combinazione di ascolto empatico e domande specifiche sull’esperienza onirica aiuta il paziente a sentirsi coinvolto e in contatto affettivo con l’esperienza e la amplia per il successivo lavoro di comprenderne il significato. Concentrando tutta l’attenzione “sull’esperienza” del sogno si può neutralizzare l’interpretazione che il paziente fa del sogno da sveglio e che può essere in marcato contrasto con la sua struttura metaforica e tematica. Per contro, un’indagine empatica avvalora l’esperienza del sogno e convince maggiormente il paziente della vivezza e della significatività della sua esperienza onirica.
Se i sogni sono considerati processi di organizzazione rivelatori, analista e paziente potranno prestar fede alle immagini del sogno, alle sue metafore e ai suoi temi, come qualcosa che comunica in modo diretto. La terza regola tecnica dice che le immagini di un sogno non devono essere tradotte, ma devono essere comprese nel loro contenuto metaforico e tematico.
Tradizionalmente, il compito dell’analista è di andare al di là delle immagini “palesi” attraverso “libere” associazioni con singoli elementi del sogno. La richiesta di associazioni ai singoli elementi a, b, c e d attraverso z è euristica solo se si pensa che il sogno sia pieno di elementi vagamente collegati che nascondono ed esprimono contemporaneamente qualcosa che vi sta sotto7. I sogni, secondo me, sono sintesi di attività mentale e non comprendono elementi vagamente collegati. A parer mio, richiedere associazioni a singoli elementi del sogno presi al di fuori del loro contesto può facilmente condurre a una frammentazione dell’esperienza del sogno e della sua coerenza e rischia altresì di portare lontano dalle stesse immagini del sogno8.
Considerando il sogno come un processo mentale integrativo e sintetico, attraverso le associazioni ed elaborazioni del sognatore occorre approfondire il significato particolare di un’immagine così come viene usata nel contesto dell’esperienza del sogno. Ogni immagine è come una parola in una frase e sequenze di immagini sono come frasi e periodi che raccontano una storia. Ampliando da svegli il significato di un’immagine del sogno – ad esempio di una particolare persona – si facilita la comprensione; tuttavia un’immagine si può comprendere appieno solo per come viene utilizzata nel contesto del sogno, poiché nel contesto prende forma il suo significato. Di molte immagini è chiaro il significato nell’ambito di un sogno, ma altre occorre svilupparle per capirle. Perché il sognatore ha scelto quell’immagine o quella particolare persona? Cosa significa per il sognatore una certa esperienza di relazione o un dato avvenimento? Contribuisce a dare un significato anche il fatto che l’immagine onirica sia o meno simile al modo in cui il paziente vede le cose nel mondo reale: ad esempio, la sua normale percezione di una persona può cambiare in sogno. Le associazioni spontanee e associazioni più mirate con le immagini del sogno (Whitmont, 1978; Whitmont e Perera, 1990; Fosshage, 1987b) danno forma e sostanza ai vari significati del sogno.
L’indagine si concentra su quelle persone o immagini del sogno che necessitano di chiarimento. Si possono individuare temi relativi alle relazioni oggettuali, o immagini caricate di affetto relative a sé, l’altro, sé-con-l’altro. L’intera vicenda, la storia raccontata dall’inizio alla fine, ha un immenso potere di comunicazione rispetto alle problematiche più profonde di chi ha sognato. Una volta identificati gli scenari, compito dell’analista è di individuare, nel caso non sia chiaro, se, dove e quando questi temi siano emersi nella vita del paziente. La quarta regola tecnica richiede che, conclusa l’elaborazione dell’esperienza onirica, essa venga ricollegata alla vita reale. Spesso le due cose avvengono contemporaneamente; altre volte sono processi separati.
Normalmente, per capire un sogno e valutarne la funzione occorre prendere in considerazione il contesto reale. Ad esempio, un sogno positivo che conferma le capacità intellettuali del sognatore potrebbe avere la funzione di consolidare sensazioni provate recentemente nello stato di veglia o la funzione riparatoria di ridare sicurezza quando se ne dubiti. Un ulteriore contributo alla comprensione del paziente è dato dalla conformità o dalla incongruenza tra l’attività mentale vigile e quella onirica. Quest’ultima può avere vari significati. Ad esempio, un paziente che nella vita si sente più calmo e fiducioso, in sogno può tornare a un precedente stato di ansia, o viceversa. Oppure può scoprire un nuovo modo di vedere le cose o trovare una soluzione a cui non aveva pensato da sveglio, che favorisce la sua crescita. Nel sogno del medico citato in precedenza, l’analista veniva raffigurato in modo molto diverso da come era visto nella realtà e questa era l’indicazione di un’evoluzione incipiente e della formazione di un legame con un oggetto-Sé idealizzante. Valutando la corrispondenza tra lo stato di veglia e il sogno e mettendoli a fuoco entrambi in un processo analitico si può migliorare la comprensione e l’integrazione dell’attività mentale di una persona.
Mentre il significato di alcuni sogni è ben chiaro al sognatore, in molti casi è necessaria un’ulteriore indagine. In questo caso l’interpretazione del sogno viene costruita, quinta regola tecnica, da paziente e analista insieme. La tradizionale traduzione degli aspetti manifesti in contenuto latente apre la via a interpretazioni che facilmente si dipartono dal contenuto metaforico e tematico, aumentando la potenziale influenza dell’analista. L’ascolto empatico dell’esperienza del sognatore, il suo ampliamento e il considerare la struttura tematica e metaforica del sogno come rivelatrice (che non richiede traduzione) massimizzano invece l’influenza del paziente. Analista e paziente insieme elaborano una comprensione (interpretazione) del sogno e dell’attività mentale del sognatore.
Che dire di ciò che riguarda il transfert e i sogni? L’idea che tutte le comunicazioni del paziente siano di natura transferale ha portato a credere che ogni sogno raccontato all’analista abbia a che fare con il transfert. La distinzione tra contenuto manifesto e latente potenzia la traduzione delle immagini oniriche cosa che, a sua volta, fa sì che analisti e psicoterapeuti psicoanalitici vedano i personaggi del sogno come controfigure transferali. Queste traduzioni possono cogliere elementi reali della relazione analitica oppure no. Ne possono derivare comprensione o confusione, disponibilità o avversione.
Quali sono le implicazioni del modello organizzativo dei sogni rispetto al transfert? Tutti i sogni riportati all’analista hanno un significato transferale, o per il loro contenuto o perché è il processo del comunicarli ad avere un significato essenziale per la relazione analitica. (La distinzione tra contenuto e processo, secondo me, è molto importante per comprendere la natura del transfert; vedi Fosshage, 1994). La tradizionale tendenza a presupporre che il contenuto di un sogno si applichi al transfert può facilmente sviare l’attenzione dall’esperienza onirica del paziente, sminuendola. Inoltre, se un pattern relazionale si ripete nel sogno e non è attivo nella relazione analitica ma lo è in altro ambito, interpretarlo come persistente nella relazione analitica tende a rafforzarlo anziché aiutare a sospenderlo gradualmente. Come sesta regola tecnica, quindi, io non parto mai dal presupposto che il contenuto del sogno abbia un riferimento diretto con il transfert, a meno che nel sogno non compaia l’analista, o che il paziente non lo associ immediatamente all’analista. Diversamente, è il processo di comunicare il sogno all’analista che rivela un significato transferale, piuttosto che il contenuto del sogno. Nell’analizzare un sogno, il pattern relazionale che emerge viene prima identificato e successivamente collegato alla vita reale da parte del paziente. Se l’analista ha la sensazione che questo pattern sia presente anche nella relazione analitica, anche se il paziente non vi fa cenno, può semplicemente domandare: «Forse prova la stessa cosa anche qui?». In questo modo si può affrontare la questione del transfert senza convertire le immagini del sogno e senza minimizzare l’esperienza del paziente al di fuori della relazione analitica in cui il particolare pattern relazionale è affiorato.
Il concetto di Freud secondo cui il processo primario è sempre all’origine del sogno ha portato a credere che l’analisi del sogno potesse causare ulteriore scompenso a un paziente gravemente disturbato e che pertanto fosse da evitare. Il lavoro sui sogni avrebbe potuto minare un funzionamento dell’Io precario e far regredire il paziente al materiale primitivo, potenzialmente caotico, del processo primario. Blanck e Blanck (1974) sostengono che con un borderline l’analista non dovrebbe tentare di portare alla luce impulsi dell’Es ma piuttosto di interpretare “verso l’alto” e concentrarsi sui problemi dell’Io. Al contrario, se all’attività mentale del sogno si attribuisce una funzione di organizzazione generale e di sintesi, ne consegue, come settima regola tecnica, che i sogni possono essere utili nell’analisi o nella psicoterapia psicoanalitica di qualunque paziente, indipendentemente dai suoi disturbi. I dati clinici dimostrano, come ho già avuto modo di scrivere, che

i sogni del paziente tendono a essere, occasionalmente o cronicamente, tanto caotici, frammentari, vaghi o conflittuali quanto lo è la sua attività mentale vigile. Dato che l’attività mentale, sia vigile che onirica, svolge una funzione organizzatrice, l’una può talora fornire una superiore chiarezza organizzativa rispetto all’altra. E siccome l’attività mentale del sogno si occupa unicamente di problemi soggettivi senza la necessità di modulazione delle azioni, è avvantaggiata nel provvedere a una riorganizzazione interna. Non lavorare in profondità sui sogni di un paziente gravemente disturbato significa privare il paziente e l’analisi di questo processo di organizzazione così importante. Nei periodi in cui i disturbi si acuiscono i sogni si fanno generalmente più frammentati e disorganizzati, così come l’attività mentale vigile, uno stato di cose che deve essere affrontato, capito e quindi curato, non evitato. (Fosshage, 1987, p. 307)

Per riassumere le indicazioni cliniche che scaturiscono dal modello di organizzazione, la prima cosa da fare incominciando a lavorare sul sogno è chiarire e ampliare l’esperienza del sognatore nel sogno stesso. Il paziente racconta le vicende del sogno, ma spesso non gli è chiaro cosa ha provato, oppure tende a vedere il sogno da una prospettiva “da sveglio”. Domande generali quali «Cosa associa al sogno?» o «Cosa significa per lei questo sogno?» sono spesso troppo indefinite e possono far assumere un atteggiamento troppo freddo o intellettualizzato nei confronti del sogno. Per far sì che il paziente rientri, e che l’analista entri, nell’esperienza del sogno, si può domandare: «Cosa provava quando nel sogno succedeva quella data cosa?», «Cosa sentiva quando questo succedeva?». Rimanendo in contatto con l’esperienza del sognatore la domanda dell’analista rimette il sognatore in un contatto affettivo con la propria esperienza per approfondire e capire il sogno.
L’indagine si concentra su quelle persone, immagini e vicende del sogno che necessitano di un chiarimento per afferrarne il significato. Si possono individuare temi nell’ambito delle relazioni oggettuali o immagini del Sé investite affettivamente, o dell’altro o di sé-con-l’altro. L’intera vicenda, raccontata dall’inizio alla fine, ha un immenso potere di comunicazione rispetto alle problematiche più profonde di chi ha sognato. Una volta identificati gli scenari, l’analista passa a individuare, se non è chiaro, se, dove e quando questi temi siano emersi nella vita reale. Spesso la funzione del sogno la si può comprendere solo sovrapponendo lo stato di veglia a quello del sogno. Un sogno che esprime un’atmosfera vitale di efficienza e di successo, ad esempio, potrebbe riflettere un reale stato di veglia e servire a consolidarlo, oppure potrebbe avere la funzione di restituire autostima dopo un fallimento di cui il paziente si vergogna.
Questo approccio di tipo fenomenologico avvalora ulteriormente l’esperienza del sognatore e ne aumenta la convinzione rispetto al significato del sogno. Le immagini del sogno non vengono viste come difese, ma apprezzate per il loro valore di comunicazione nell’ambito della struttura della vicenda sognata. La cosa importante è che il paziente può incominciare o continuare a fidarsi più della sua esperienza che di quella che tradizionalmente è stata la traduzione interpretativa dell’analista, per arrivare a comprendere il sogno. E questo facilita la coesione del Sé.

Conclusioni
Avendo detto tutto questo sull’attività mentale nel sogno e sulla sua enorme importanza nello sviluppare e regolare la nostra vita psichica, importanza che per molti versi è addirittura maggiore di quella attribuitale da Freud, l’ampia visione di noi stessi e della nostra vita che talvolta è racchiusa in un sogno può essere apprezzata appieno solo ascoltando il sogno stesso. Per concludere, presento uno di quei sogni che raffigura il cambiamento degli stati interni della sognatrice.
La donna aveva trentanove anni all’epoca del sogno ed era una persona molto intelligente e dotata di immaginazione. Era stata cresciuta come una bambina modello e aveva dovuto imparare a essere molto fredda e a tenere a bada gran parte della sua vita affettiva sia perché i genitori, persone di successo che avevano per lei grandi progetti, si intromettevano pesantemente nella sua vita, sia perché aveva subito abusi sessuali da parte del fratello e di un vicino di casa. Era arrivata ad avere intense paure paranoiche e fantasie suicide e, su sua richiesta, era stata ricoverata per un mese per poter affrontare le sue paure in un ambiente protetto e quindi più sicuro. Il sogno si presentava in tre parti:

I. Un villaggio adagiato su un pendio. Non un pendio ripido, ma dolce e graduale; femminile. È inverno. Guardo il villaggio dall’alto, come se fosse il plastico di un trenino elettrico. Vi sono gruppi di case strette le une alle altre, in mezzo alla neve. Vedo i tetti; sembrano vecchi libri foderati di cuoio appoggiati sulle case. Le rotaie del treno si snodano attraverso il villaggio, collegandolo e unendolo. Ci sono boschi di abeti verdi, strade, piazze, viottoli di campagna coperti di neve. C’è calma, silenzio; è bellissimo. So di essere il villaggio, ma anche di esservi sospesa sopra. È il paesaggio di me stessa.

II. Un senso di paura. Ho quello stesso terrore che mi ha fatto andare all’ospedale. È una paura immensa, non affrontabile, che mi schiaccia. La sento dappertutto, sulla pelle, dentro di me. Sono paralizzata dal terrore. Questa paura è vecchia e familiare. Il villaggio è in uno stato di morte apparente. È congelato e immobile; nulla si muove. La me stessa che è nel villaggio cessa di avere sensazioni. Ho la nota sensazione di paura seguita dall’assenza di sentimenti.

III. Il tempo è passato, come nella storia di Rip Van Winkle9. Ho la sensazione che siano passati vent’anni (ma so che sono di più). Il villaggio è rimasto nel suo stato di morte apparente. Ho vissuto tutto questo tempo senza sentire nulla. C’è il disgelo, il villaggio torna alla vita. Le casette sono nello stesso posto, ma è come se fossero dislocate in posti nuovi. Le rotaie sono allo stesso posto tra le case nel villaggio, come quando lo guardo dall’alto, ma la me stessa che è nel paesaggio sente altro. Sono disorientata, ma non ho paura. Sono contenta che il lungo sonno sia finito. I ghiaccioli alle grondaie delle case si stanno sciogliendo; la luce arriva sul paesaggio con un’angolazione diversa. Alla fine del sogno io sono nel villaggio, non vi sono più sospesa al di sopra. Cerco la mia strada in un luogo che non conosco. Il disgelo fa comparire macchie di terra tra la neve. Il paesaggio non è più immacolato come era all’inizio del sogno (quando era un modello – una bambina modello) ma mi ci sento radicata dentro; è molto più reale e pieno di vitalità.

Questo sogno ci dice molto. Ci racconta la storia drammatica di una trasformazione psicologica in corso. Il sonno ventennale, come quello di Rip Van Wenkle, è cominciato quando la sognatrice aveva diciannove anni, l’inizio dell’età adulta, come disse lei stessa, e all’età in cui aveva conosciuto il suo ex marito. Allevata come bambina modello, era graziosa e femminile e aveva conquistato una certa calma, ma a costo di essere fredda e distaccata dalla propria esperienza («So di essere il villaggio ma anche di esservi sospesa sopra»). Nell’analisi la paziente incominciò a riprendere contatto con i sentimenti, si imbatté nel terrore e si “congelò” per non sentirlo. A poco a poco, cominciando a capire e a lavorare sulla sua paura, cominciò a sgelarsi, a essere più pienamente “dentro” la sua esperienza e a essere più vitale e vivace. La persona che sogna riesce a catturare in vivide immagini oniriche sentimenti, stati e trasformazioni del Sé che la portano a riflettere, soppesare e consolidare ulteriormente questi cambiamenti interni.


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