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PSYCHOMEDIA
Salute Mentale e Comunicazione

Dibattiti svoltisi sulla Lista PM-PT Psicoterapia


Addendum dell'aprile-maggio 2000
al Dibattito su "Farmaci e psicoterapia"
avvenuto nella lista "Psicoterapia" 
di PSYCHOMEDIA (PM-PT) 
nel marzo-aprile 1999
(interventi di Tullio Carere, Paolo Migone, Piero Porcelli)
 
Editing a cura di Paolo Migone, co-owner della lista PM-PT

18 Aprile 2000, Paolo Migone:
Rendo pubblica una mail personale di Tullio Carere, col suo permesso, nel caso potesse interessare ai membri di PM-PT e stimolasse altri interventi. Io non ho ancora avuto tempo di rispondere, e lo farò appena possibile. Riguarda il tema del rapporto tra psicoterapia e farmaci, di cui abbiamo già discusso a lungo in lista (vedi il dibattito pubblicato su PSYCHOMEDIA). Lo spunto di questa mail è dovuto a un convegno internazionale che si terrà a Milano il 20-22 ottobre 2000, organizzato dall'Associazione per la Ricerca in Psicologia clinica (ARP), intitolato "IL FUTURO DELLA PSICOTERAPIA: Ritorno alla clinica", e mi è stato chiesto di organizzare un Workshop su psicoterapia e farmaci, a cui parteciperà anche Tullio (oltre a Giacomo Contri e Salvatore Freni). Discutevo il titolo con Franco Del Corno (uno degli organizzatori), il quale, modificando leggermente una mia proposta, suggeriva di intitolarlo "L'associazione tra psicoterapia e farmaci: perché discuterne ancora?". Ne ho parlato con Tullio, il quale mi ha scritto questa mail. 
Il 14 Aprile 2000 Tullio Carere ha scritto: 
Caro Paolo, il titolo che ti è stato suggerito da Del Corno mi sembra appropriato per quello che hai in mente: cioè, se ho capito bene, che non dovremmo nemmeno più discutere dell'associazione psicoterapia-farmaci, ma dovremmo darla per scontata come qualsiasi altra "azione" intrapresa dal terapeuta, dal momento che ciò che importa non è quello che il terapeuta fa (somministrazione di farmaci inclusa), ma il significato che alla cosa viene attribuito da entrambi i membri della coppia terapeutica. Essendo centrale e prioritaria, nella tua visione, l'analisi continua di questi significati, il significato "in sé" di un intervento qualsiasi (inclusa quindi anche la somministrazione di un farmaco) perde di importanza fino a svanire del tutto. Ti sei reso conto peraltro, nelle discussioni che hai avuto con Bordi e Freni, che la cosa non è così pacifica nemmeno tra coloro che condividono molte delle tue premesse (non prendiamo in considerazione gli analisti "ortodossi"). Nemmeno per me, come sai, la cosa è pacifica. Considera, per cominciare, che i farmaci non possono essere somministrati da chiunque: chi li dà deve essere un medico, e per di più competente in quel settore. Questo implica che quel medico deve conoscere a sufficienza le proprietà dei farmaci che prescrive: cioè gli effetti mediamente prodotti da quel farmaco in una condizione data. Il medico dovrà poi monitorare le conseguenze della somministrazione del farmaco nel caso specifico, che si discosteranno da quelli medi attesi sia per la risposta individuale al farmaco (effetti collaterali inclusi), sia per il vissuto soggettivo che accompagna qualsiasi atto terapeutico (effetto placebo). Ci sono quindi due livelli: l'azione specifica del farmaco, e l'azione secondaria al vissuto soggettivo. Ma la stessa cosa si può dire anche di ogni intervento attivo o modalità interattiva di rapporto. Una qualsiasi tecnica attiva può essere studiata come un farmaco, con un protocollo di applicazione che prescrive con precisione le modalità di somministrazione su un campione sufficientemente omogeneo di pazienti (non è possibile il doppio cieco, ma è possibile il confronto con altre tecniche su campioni simili: più che con i farmaci, l'analogia tiene quasi alla lettera con le tecniche chirurgiche). Come per il farmaco, per un intervento relazionale attivo si potrà dire che deve essere applicato da un terapeuta che conosce a sufficienza quel tipo di tecnica (cioè gli effetti da essa mediamente prodotti in una situazione data). Come il farmaco, anche una modalità relazionale specifica sarà applicata con il fine di ottenere un dato effetto, precisamente quello mediamente prodotto in circostanze simili (ad esempio una tecnica di desensibilizzazione su un sintomo fobico). E come per il farmaco, occorrerà monitorare l'effetto prodotto da quell'intervento nel caso specifico, sia per la variabilità della risposta individuale, sia per il vissuto soggettivo (essendo queste due categorie di fenomeni difficilmente separabili, tanto per il farmaco quanto per l'intervento relazionale). Dunque, sia con i farmaci che con le diverse tecniche attive o modalità interattive di rapporto, si dovranno sempre distinguere due livelli: l'effetto che il terapeuta deliberatamente si propone di ottenere con quella somministrazione o quell'intervento (e che è ragionevole aspettarsi, sulla base della ricerca e/o dell'esperienza) - quindi il significato che il terapeuta attribuisce a quell'intervento - e il significato che a quell'intervento attribuisce il paziente, avendo quell'attribuzione il potere di amplificare, ridurre o in vario modo alterare l'effetto atteso. Quindi il terapeuta, come non mi stanco di sottolineare, si muove su due livelli diversi: su uno interviene attivamente, con lo scopo deliberato di ottenere degli effetti terapeutici (come in ogni atto di cura, dalle cure genitoriali alle cure mediche); sull'altro si distacca, prende le distanze da ogni intenzione terapeutica, neutralizza lo stesso desiderio di curare, per analizzare su questa base neutralizzata i significati attribuiti da entrambi a ogni evento della relazione. Perché discuterne ancora? Perché ci sono due posizioni estreme: da un lato molti, forse la maggior parte degli analisti (a cominciare dall'attuale presidente dell'International Psychoanalytic Association [IPA], Kernberg) continuano a pensare che interventi attivi deliberati debbano essere evitati in un trattamento che si voglia chiamare "psicoanalisi" (lo stesso Gill lo pensava). Dall'altro lato molti terapeuti di orientamento eclettico introducono nella terapia interventi di ogni provenienza e tipo, senza preoccuparsi del valore e della compatibilità dei diversi interventi. La buona terapia, credo, rifugge da entrambi questi estremismi: fa uso di diversi tipi di intervento, ma non di qualsiasi cosa. Non pasticcia casualmente, ma organizza i diversi fattori terapeutici in modelli o mappe, di cui si serve per delimitare il campo della terapia e orientarsi al suo interno. Non tutto è terapeutico, non tutto è compatibile con tutto. Ecco perché, credo, dobbiamo discutere ancora di queste cose, e non possiamo permetterci di dare nulla per scontato. Se ne hai voglia, possiamo fare un piccolo aggiornamento alla discussione sui farmaci che abbiamo avuto in lista tempo fa (anche per prepararci al Workshop di ottobre a Milano). A presto Tullio 
 
20 Aprile 2000, Piero Porcelli:
Il 14 Aprile 2000 Tullio Carere ha scritto:
>(...) Ti sei reso conto peraltro, nelle discussioni che hai avuto con Segio Bordi e
>Salvatore Freni, che la cosa non è così pacifica nemmeno tra coloro che 
>condividono molte delle tue premesse (non prendiamo in considerazione gli >analisti "ortodossi"). 

Nemmeno per me, come sai, la cosa è pacifica. Condivido che la cosa non è pacifica, anche se per ragioni leggermente diverse da quelle espresse da Tullio. Ho riletto il resoconto del dibattito sviluppatosi in lista qualche tempo fa e resto convinto di quello che dissi allora. Anzitutto è vero che il farmaco ha un'azione specifica quanto un intervento direttivo ma il farmaco ha una "potenza" che non credo sia pari a quella di un intervento, anche se molto direttivo. Un intervento in psicoterapia deve necessariamente essere mediato dal significato che gli viene attribuito dal paziente, dal terapeuta e/o dalla coppia nel rapporto terapeutico. Se non viene attribuito il "giusto" significato, l'intervento può facilmente esser vano o anche controproducente. Credo sia esperienza comune a tutti noi l'aver fatto un intervento a cui avevamo dato un certo significato e che avevamo intenzione producesse un certo effetto e poi non è stato così. O, al contrario, sentirci dire dal paziente che alcune nostre parole hanno avuto per lui questo o quel significato importante mentre noi ne avevamo affatto l'intenzione. Il farmaco invece può agire biochimicamente anche saltando i significati, tanto che anche nei foglietti illustrativi si sconsiglia ad esempio di guidare dopo l'assunzione di un neurolettico. Inoltre il farmaco, in virtù della sua "potenza", ha una caratteristica di eterogeneità rispetto alla talking cure. Ciò significa, a mio modesto parere, che si presta ad essere integrato o scisso dal contesto generale della terapia "con le parole". E l'integrazione o la scissione può esser effettuata tanto dal terapeuta quanto dal paziente, a partire appunto dal significato che viene dato alla "potenza" del farmaco, alla "potenza" traslata di chi lo somministra. Nella scorsa discussione ho anche riportato degli esempi clinici di come a volte si rende necessario scindere i due aspetti nel campo terapeutico e a volte è indispensabile integrare i due aspetti, e come a volte sia lo stesso paziente ad effettuare queste operazioni in modo difensivo e manipolatorio, tanto che colludere su questo livello si può rivelare profondamente antiterapeutico, anche se la terapia farmacologica segue tutti i protocolli evidenced-based per la patologia manifestata. Infine non penso che sia una questione di persone ma di funzioni. Tullio ricordava che i farmaci possono esser somministrati non da chiunque ma solo dal medico specialista. Però è anche vero che non tutti gli psicoterapeuti sono medici (con problematiche amplificate dalla non conoscenza di tutte le implicazioni biomediche del farmaco) o che non tutti gli psicoterapeuti medici trattano farmacologicamente essi stessi i propri pazienti, preferendo che sia un altro medico a somministrare i farmaci. Così come è possibile che il medico psicoterapeuta abbia in psicoterapia un paziente seguito da un altro psichiatra che somministra una terapia su cui lui non è d'accordo. Si ripropone qui, indipendentemente dalla persona del terapeuta, il problema dell'integrazione o della scissione delle funzioni. Solo che questa volta il campo terapeutico vede un terzo protagonista, fisicamente assente dal setting ma psicologicamente presente attraverso il farmaco somministrato. Con tutti i problemi connessi relativi a chi si assume realmente la responsabilità della terapia (in senso globale). In conclusione, condivido con Paolo e Tullio che il rapporto farmaci-psicoterapia sia tutt'altro che pacifico e scontato, anche perché le risposte "tutto no" (il polo IPA sintetizzato da Tullio) o "tutto sì" (il polo eclettico estremo) non affrontano il problema ma offrono soluzioni insoddisfacenti. 

20 Aprile 2000, Paolo Migone: 
Vorrei commentare brevemente gli interventi di Tullio e Piero sul rapporto tra psicoterapia e farmaci, in questa che sembra essere una seconda trance di dibattito su questo argomento. Con Tullio mi sembra essere d'accordo, anch'io nel precedente dibattito sostenevo le stesse posizioni: il farmaco può essere inteso nella stessa categoria logica di qualunque altro intervento, nel senso che ha degli effetti suoi specifici che però vengono sempre filtrati dall'assetto idiosincratico ("biologico" e "psicologico") del ricevente, assetto che non va dato mai per scontato e sul quale dobbiamo sempre attentamente fare inferenze per essere sicuri che l'intervento non ottenga effetti diversi da quelli desiderati. Se ad esempio somministro un potente sonnifero a un paziente, è probabile che dorma (ma non è certo, se ad esempio era assuefatto a quel farmaco). Se faccio un intervento offensivo, è probabile che si offenda o si deprima, accompagnato da un correlato biologico-comportamentale (ritmo cardiaco, sudorazione, motilità, ecc.). In entrambi i casi si tratta di risposte a interventi. E' per questo che non mi sembra di concordare con Piero quando dice: 
>ma il farmaco ha una "potenza" che non credo sia pari a quella di un 
>intervento, anche se molto direttivo... [poiché] ... può agire
>...biochimicamente anche saltando i significati, tanto che anche nei 
>foglietti illustrativi si sconsiglia ad esempio di guidare dopo l'assunzione di un neurolettico 

Se entriamo nella logica quantitativa (intervento più o meno "potente" ecc.) si rischia di fare errori, o di usare una logica che alla fin fine annulla quello che avevo detto prima, cioè si implica che psicoterapia e farmaci sono in due categorie "diverse" (l'una con effetti più potenti dell'altra). Infatti se è vero che "si sconsiglia" di guidare dopo l'assunzione di un neurolettico ("si sconsiglia", tra l'altro, non si vieta, e quasi tutti i nostri pazienti da sempre hanno imparato a non osservare le indicazioni del "bugiardino"), nel senso che il neurolettico può alterare i riflessi ecc., è anche vero però che dopo un intervento verbale particolarmente traumatico, dopo una emozione dovuta all'aver appreso una data informazione, ecc., una persona può essere così distratta/distrutta in macchina da avere un grave incidente (a proposito, mi viene i mente un lontano ricordo: un amico che era in analisi con Eissler mi disse una volta che l'analista temporaneamente gli proibì - a proposito di parametri - di usare la macchina per venire in seduta per i troppi incidenti che aveva, a causa di conflittualità emerse in terapia). C'è chi si può anche buttare sotto al treno dopo aver appreso una grave notizia, un lutto, ecc. Questo per dire che a volte le parole fan più male delle pillole, se vogliamo parlare in termini di potenza. Io preferirei insomma lasciare la questione della "potenza" di un intervento come derivante da variabili più complesse, dipendenti dal contesto ecc., non dall'oggetto in sé. Resto dell'idea quindi che, per i nostri scopi, e per evitare pericolosi dualismi che avrebbero un effetto negativo sulla tecnica, sia più corretto ragionare come se pillole e parole appartenessero alla stessa categoria logica (anche se sappiamo tutti che un farmaco, ad esempio il cianuro di potassio, può uccidere in pochi secondi, e che è più difficile uccidere in pochi secondi una persona con delle parole, anche se volessimo - però in teoria possiamo indurlo a farlo da solo, e sono stati descritti casi del genere...). A scopo euristico, non mi sento cioè di condividere l'affermazione di Piero secondo cui "il farmaco, in virtù della sua 'potenza', ha una caratteristica di eterogeneità rispetto alla talking cure". Infine, riguardo alle problematiche della scissione difensiva, della complessità dei rapporti tra farmacologo e psicoterapeuta che seguono lo stesso paziente, questi sono tutti problemi tecnici all'ordine del giorno, e rimando a quanto dissi nell'altro dibattito, dove dissi, in breve, che secondo me è sbagliato ritenere che queste difficoltà siano in via di principio diverse da quelle incontrate in qualunque psicoterapia "senza farmaci", poiché così si rischia di creare l'illusione della "psicoterapia pura" ("l'analisi classica", il "setting classico", il "paziente nevrotico classico", ecc.), che notoriamente non esiste. Ringrazio Tullio e Piero per gli stimoli ricevuti 

26 Aprile 2000, Piero Porcelli
Il 20 Aprile 2000 Paolo Migone wrote: 
>Resto dell'idea quindi che, per i nostri scopi, e per evitare pericolosi 
>dualismi che avrebbero un effetto negativo sulla tecnica, sia più corretto 
>ragionare come se pillole e parole appartenessero alla stessa categoria 
>logica [snip] C'è qualcosa che mi sfugge su questa questione dei farmaci. 

Fino ad un certo punto, seguo benissimo il pensiero di Paolo e ne concordo. Da un certo punto in poi, però, non sono certi di capire. Vediamo fin dove lo capisco. Sono d'accordo sul fatto che pillole e parole seguono gli stessi canali all'interno del rapporto terapeutico. E questo lo capisco non solo per ragioni teoriche. Lavoro da anni in un ambulatorio di patologie "psicosomatiche" gastrointestinali e so, per esperienza quotidiana, della differenza di "contesto" nella somministrazione di farmaci. Ad esempio ho notato che l'effetto terapeutico dei cortisonici in pazienti con rettocolite ulcerosa in fase acuta è molto maggiore se il paziente viene seguito anche in modo minimo, con il counseling, poiché cambia la strutturazione dell'esperienza (di malattia, dei sintomi, della terapia, del ruolo di malato, dei timori di cancro, ecc.) a cui viene conferito un certo significato condiviso fra me e il paziente. Non parliamo poi dei disturbi funzionali dove lo stesso farmaco ha effetti molto efficaci o del tutto nulli a seconda che il paziente venga seguito o meno con un certo modo di organizzare il follow-up. E' ovvio che tutto questo è enormemente potenziato in psicoterapia. Quindi, fin qui tutto chiaro. Sono anche d'accordo con Paolo che considerare il problema da un punto di vista quantitativo (come avevo detto nella mail precedente) è fuorviante e che il problema in questo modo è mal posto. Da che punto non sono certo di capire? Paolo dice che il farmaco appartiene alla stessa classe logica di un qualsiasi altro intervento in psicoterapia. Capisco che esista una zona di sovrapposizione (più o meno ampia a seconda del terapeuta, del paziente, della relazione, del setting, ecc.) in cui pillole e parole hanno lo stesso valore logico e funzionale. Ciò che non capisco è in che senso il farmaco appartiene alla stessa classe logica della parola. Certo, un paziente può essere angosciato e in lacrime sia se ha una recidiva di un disturbo depressivo maggiore che se è colpito dal lutto di una persona cara. Gli effetti sono certo identici, ma forse i percorsi sono diversi. Lo diceva Ignacio Matte Blanco in un capitolo del trattato italiano di medicina psicosomatica di qualche anno fa a cura del gruppo di Pancheri. Posso provocare una reazione d'ansia acuta in un soggetto sia che gli inietti adrenalina in circolo, sia che lo terrorizzi puntandogli un mitra in faccia e annunciandogli la sua condanna a morte. La differenza sta in ciò che lui definiva - se non ricordo male - la "comprensione del significato": con il farmaco, l'effetto è per così dire diretto e non mentalizzato; con un evento psicologico o relazionale (dal mitra al lutto ad un intervento per nulla o molto direttivo), l'effetto è necessariamente mediato in seguito alla mentalizzazione. Anche la reazione allo spavento diventa fisiologica dopo che lo stimolo viene codificato come pericoloso dal sistema protettivo di sopravvivenza. Non voglio portare il discorso sui massimi sistemi. E' che ciò ha una ricaduta clinica, come credo sia anche la prospettiva di Paolo. Il farmaco ha bisogno di essere mentalizzato ed in tale funzione di mentalizzazione (integrazione o scissione, svolta dal terapeuta o dal paziente, condivisa o meno nella coppia terapeutica, all'interno del rapporto a due o con l'inclusione fantasmatica di un terzo se il farmacologo è diverso dallo psicoterapeuta) sta, a mio modo di vedere, il problema centrale del rapporto tra pillole e parole. Poiché anche un intervento in psicoterapia deve essere mentalizzato, allora pillole e parole possono esser trattate come equivalenti dal punto di vista della psicoterapia. E' una specie di finzione epistemologica che ha grosso modo il valore del "falso" nella logica dell'interpretazione di Codignola. Se è questo ciò che Paolo intende per "stessa classe logica", lo capisco. Ma non sono certo di capire fino in fondo ciò che intende per "appartenenza alla stessa classe logica". Ringrazio a mia volta Paolo e Tullio per aver riproposto un tema su cui non ho le idee molto chiare, come su molte altre cose della psicoterapia, d'altronde. 

29 Aprile 2000, Paolo Migone:
Il 26 Aprile 2000 Piero Porcelli wrote:
>Posso provocare una reazione d'ansia acuta in un
>soggetto sia che gli inietti adrenalina in circolo, sia che lo terrorizzi 
>puntandogli un mitra in faccia e annunciandogli la sua condanna a morte. La 
>differenza sta in ciò che [Matte Blanco] definiva - se non ricordo male - la 
>"comprensione del significato": con il farmaco, l'effetto è per così dire 
>diretto e non mentalizzato; con un evento psicologico o relazionale (dal 
>mitra al lutto ad un intervento per nulla o molto direttivo), l'effetto è 
>necessariamente mediato in seguito alla mentalizzazione. Anche la reazione 
>allo spavento diventa fisiologica dopo che lo stimolo viene codificato come 
>pericoloso dal sistema protettivo di sopravvivenza.

Caro Piero, grazie dei preziosi stimoli, la tua obiezione mi sembra precisa e interessante, e ti rispondo come posso. Io, superando quello che, per come io lo capisco, è un modo di concepire il dualismo mente-corpo, ritengo che alla base di un dato sintomo (es. ansia) vi sia sempre e comunque un dato "biologico" (es. adrenalina), altrimenti non avremmo quel sintomo, non avremmo niente (mente e corpo vano sempre insieme, sono due modi di vedere la stessa cosa). Sotto questa luce, quando tu dici che "con il farmaco, l'effetto è per così dire diretto e non mentalizzato", io ritengo che invece non esistano effetti diretti (cosa sono poi?), ma sempre in un qualche modo anche mentalizzati, altrimenti il paziente non li conoscerebbe, non ne farebbe esperienza soggettiva. Una angoscia libera diventa subito legata (a un'idea, a una causa ipotizzata). Del resto, si può argomentare che nella depressione classica non vi sia la "comprensione del significato" di cui parla Matte Blanco, altrimenti sarebbe già una depressione un po' diversa, magari un po' meno grave. Il depresso tipicamente non sa perché è depresso, e se lo sa spesso è una razionalizzazione (es. è depresso non perché ha perso il congiunto ma si sente in colpa del fatto che il congiunto è morto, ha idee persecutorie, di rovina, ecc.). Quando lo sa veramente, la depressione, come diceva Freud, un po' diminuisce o si modifica, e vi è un'altra reazione che è di "sofferenza" ma non di depressione vera e propria. Mi sembra inoltre che un pericolo del tuo approccio sia quello di considerare l'effetto "psicologico" di un farmaco come scontato, conosciuto a priori, non scoperto dopo alla luce delle caratteristiche idiosincratiche (biologiche e psicologiche) del soggetto, mentre secondo me anche quello deve essere visto, scoperto, senza pregiudizi, naturalmente a partire da una aspettativa che ci siamo fatti sulla media delle risposte precedenti, ma che ci serve solo a livello probabilistico per orientare i nostri interventi (come mi sembra diceva Tullio). Immagino ora che tu possa dire che di fatto si tratta di dolori diversi, quello creato dal mitra puntato e quello creato dalla adrenalina iniettata, ma questo è scontato. Il mio punto è che si tratta di dolori diversi sempre, anche all'interno della categoria "mitra puntati" (quale mitra, chi lo punta, ecc.), e naturalmente all'interno della categoria "notizie" (lutto, intervento analitico sbagliato, offesa, ecc.). Tutti gli stati mentali comunque hanno alle spalle pathways neurofisiologici, e ho detto che "euristicamente" preferisco considerarli tutti come appartenenti alla stessa classe, appunto in ossequio a un principio antidualista da una parte, e analitico dall'altra (nel senso che solo dopo scopriamo quale è il vero impatto biologico ed emotivo, non aprioristicamente). Tieni presente inoltre che certi fatti appartenenti a una classe (ad esempio la classe dei "mitra") possono avere effetti molto meno mediati e/o più imponenti (es. inconsci, o biologici - anche in termini di substrato neurofisiologico) di certi fatti appartenenti all'altra classe (es. iniezione di una sostanza, che magari in quel soggetto ha effetti minori). Come mi sono espresso schematicamente nell'altra mail, anche una notizia brutta può far morire sul colpo di crepacuore o far precipitare in una depressione gravissima, motivo in più per sostenere l'utilità *clinica* di considerare tutti gli input (psicologici e biologici) come appartenenti alla stessa classe. Non so se sono riuscito a rispondere alla tua osservazione.

>Poiché anche un intervento in psicoterapia deve
>essere mentalizzato, allora pillole e parole possono esser trattate come 
>equivalenti dal punto di vista della psicoterapia. E' una specie di finzione 
>epistemologica che ha grosso modo il valore del "falso" nella logica 
>dell'interpretazione di Codignola. Se è questo ciò che Paolo intende per 
>"stessa classe logica", lo capisco. Ma non son certo di capire fino in fondo 
>ciò che intende per "appartenenza alla stessa classe logica". 

Se mi chiarisci come intendi il riferimento al Codignola ti sarei grato, vorrei essere sicuro di capirlo bene. 

1 Maggio 2000, Piero Porcelli:
Il 29 Aprile 2000 Paolo Migone wrote: 
>Come mi sono espresso schematicamente nell'altra mail, 
>anche una notizia brutta può far morire sul colpo di crepacuore o far 
>precipitare in una depressione gravissima, motivo in più per sostenere 
>l'utilità *clinica* di considerare tutti gli input (psicologici e biologici) 
>come appartenenti alla stessa classe. 
>Non so se sono riuscito a rispondere alla tua osservazione. 

Si, ti ringrazio. Credo di capire il tuo punto, ma faccio difficoltà a farlo entrare nei miei schemi. Probabilmente la ragione sta nella diversa posizione professionale che ciascuno di noi due ha nei confronti dell'uso dei farmaci in psicoterapia. Tu puoi e sai prescriverli, io non posso e soprattutto non so prescriverli. Per necessità, io devo assumere che il paziente è affetto dalla patologia psichiatrica X (diagnosi dello psichiatra) per la quale è indicata la terapia farmacologica Y (prescritta dallo psichiatra che ha fatto diagnosi) e che, per vari motivi, è stato (o si è da sé stesso) inviato a me per una psicoterapia. Quindi, tu sei legittimato a sapere e sai il percorso dalla molecola alla mentalizzazione, e pertanto puoi e sai a buon diritto gestire la molecola all'interno di un rapporto psicoterapeutico nello stesso modo in cui puoi e sai gestire un intervento verbale. Io posso solo prendere il dato così com'è. Come dicevo in precedenza, lavoro spesso con pazienti affetti da patologie intestinali. La diagnosi di riacutizzazione di una rettocolite ulcerosa viene fatta da uno specialista il quale prescrive la terapia. Io, in psicoterapia, posso solo lavorare con questo paziente sui suoi vissuti, sulla sua esperienza, sulla "perception", sulle fantasie tanto di malattia quanto riguardo all'assunzione dei farmaci. Ipotizzo che anche tu faresti altrettanto, demandando follow-up e terapia gastrointestinale al tuo collega, medico come te ma specialista nella patologia in questione. Per me, a questo riguardo, non esiste differenza fra una patologia organica (cardiaca o intestinale, ecc.) ed una psichiatrica (depressione maggiore o schizofrenia ecc.). 

>Se mi chiarisci come intendi il riferimento al Codignola ti sarei grato, 
>vorrei essere sicuro di capirlo bene. 

Non sono riuscito a trovare il libro, finito chissà dove (è di vecchia data, come sai, credo fine anni '70, ed ha conosciuto un paio di miei traslochi). Però ricordo la tesi centrale che mi ha molto aiutato nel mio lavoro. Se ricordo bene, Codignola sosteneva che il "vero" è rappresentato da tutto ciò che non posso interpretare (come le condizioni materiali del setting) mentre il "falso" è il vero oggetto analitico poiché interpretabile. Senza discutere della tesi di Codignola (che ci porterebbe lontano), il mio riferimento era molto semplice: la malattia (organica o psichiatrica, e tutto ciò che è ad essa connessa, compresa la terapia farmacologica) è il vero mentre tutto ciò di cui posso discutere con il paziente - poiché riguarda la sua esperienza di malattia - è il falso. Questo, però, partendo dal mio punto di osservazione, quella di uno psicologo e non di uno psichiatra, con il problema della mentalizzazione del farmaco (per inciso, per me l'effetto della molecola non è scontato, anzi è sconosciuto: è per questo che il farmaco è per me reale, vero, materiale). Sono completamente d'accordo con il tuo assunto antidualista (e lo sai bene, credo) ma nella mia posizione di psicologo psicoterapeuta trovo più operativo assumere il dualismo pillole-parole che tentare superamenti pasticciati che tu da medico puoi invece evitare. Ribadisco comunque che per me il vero problema qui è chi svolge le funzioni di integrazione. Per quello che dicevo prima, di solito lavoro con alcuni psichiatri con cui condivido una lunga esperienza comune di formazione e lavoro clinico. Ciò mi consente di svolgere una migliore funzione integrativa, partendo dalla *mia* integrazione con il farmacologo. Il pericolo sta quando è il paziente (con tutte le sue difese, resistenze, fantasie, manipolazioni, ecc.) a integrare le due funzioni psico- e farmaco-terapeutiche. Ricordo un giovane paziente con schizofrenia paranoide con il quale ottenni risultati molto molto parziali in psicoterapia. Il problema era infatti estraneo al nostro rapporto. Il ragazzo non voleva assolutamente assumere i farmaci e veniva seguito da uno psichiatra "biologista" la cui posizione (verbalizzata esplicitamente tanto al paziente quanto a me) era: "tu devi prendere i farmaci che ti dò, e non rompere; se ti vuoi lamentare (del fatto che ti senti malato, matto, degli effetti collaterali, e quant'altro), vai a farlo dallo psicologo". Il dialogo con questo psichiatra, accademico e con molta puzza sotto al naso, era molto difficile (mai più avuto un paziente in comune da allora) e l'effetto più disastroso fu che era il paziente a gestire l'integrazione fra psico- e farmaco-terapia, vivendo lo psichiatra come punitivo ma onnipotente e me come accogliente ma manipolabile, una pappamolle. Mi piacerebbe sapere, a questo riguardo, da te Paolo e da altri psichiatri psicoterapeuti in lista, come ti comporti (nell'ambito del modo in cui è stata impostata questa discussione) quando hai in psicoterapia un paziente seguito farmacologicamente da un altro psichiatra e ti trovi in disaccordo con la terapia prescritta. 

1 Maggio 2000, Paolo Migone:
Il 1 Maggio 2000 Piero Porcelli wrote: 
>...Credo di capire il tuo punto, ma faccio difficoltà a farlo entrare nei miei schemi. 
>Probabilmente la ragione sta nella diversa posizione professionale che ciascuno 
>di noi due ha nei confronti dell'uso dei farmaci in psicoterapia. 
>Tu puoi e sai prescriverli, io non posso e soprattutto non so prescriverli... 

Non sono sicuro che dipenda dal fatto che tu sei psicologo e io medico, a meno che non dipenda dal mito (che forse hanno molti non medici) che i medici conoscano perfettamente come funzionano i farmaci (un omologo mito è che solo gli "psicoanalisti" sanno come funzionano le interpretazioni). Non si sa molto sui farmaci, si sanno poche cose generali. Tu dici: "trovo più operativo assumere il dualismo pillole-parole che tentare superamenti pasticciati che tu da medico puoi invece evitare". Non ritengo che la mia proposta di superamento del dualismo derivi dal fatto di essere medico. Come ho detto, la mia impressione è che sia utile considerare gli interventi "psicologici" e quelli "biologici" come appartenenti alla stessa classe perché di fatto entrambi producono effetti biologici (e anche psicologici, ovviamente sono questi ultimi quelli che a noi interessano - tra parentesi, ricorderai gli ultimi due articoli di Kandell sull'American Journal of Psychiatry, rispettivamente del 1998 e del 1999). Tu inoltre ti chiedi "chi svolge le funzioni di integrazione". Per me la parola "integrazione" è fuorviante, perché per parlare di integrazione bisogna che esistano cose "diverse" da integrare tra loro, mentre invece - volendo usare la parola "integrazione" - tutti gli interventi sono già "integrati", cioè sono sia biologici che psicologici (tutti ad esempio sono sempre accompagnati da un significato). Riguardo al Codignola, ti ringrazio della tua risposta, che è come immaginavo. Anche per me Codignola è stato un importante punto di riferimento. Ma ritengo che il suo libro del 1977 sia piaciuto a molti forse anche perché dava una potente rassicurazione, quella di sapere cosa in analisi andava e non andava interpretato (per Codignola quelli che non andavano interpretati erano gli elementi del setting, prima di tutto); forniva cioè una cornice di riferimento funzionale per permettere al terapeuta di muoversi con un gradiente minore di incertezza. Le cose sono però più complicate, e concordo con te che è meglio non aprire per ora questo altro fronte di discussione (tra l'altro molto complesso, almeno per me). Infine chiedi "come mi comporto (nell'ambito del modo in cui à stata impostata questa discussione) quando ho in psicoterapia un paziente seguito farmacologicamente da un altro psichiatra e mi trovo in disaccordo con la terapia prescritta". Per facilità ti copio parte di un mio lavoro, dove riprendo brani (lievemente rimaneggiati) scritti nel dibattito precedente su "Farmaci e psicoterapia" pubblicato su Psychomedia

"...Infine, se alcuni prediligono non dare farmaci quando fanno psicoterapia pur avendo una preparazione psicofarmacologica, e ritengono più indicato farli prescrivere da un collega per maggiore chiarezza, affermano però che anche qui vi sono dei rischi, perché due terapeuti possono non essere sintonizzati e dare messaggi diversi al paziente. Anche questo modo di ragionare ritengo che nasconda una errata concezione sottostante. Non siamo mai "terapeuti unici": la moglie del paziente, gelosa, può dirgli che sbagliamo in questo o in quello, il paziente parla con un amico che va anche lui dall'analista e gli fa dire che il suo analista farebbe in un altro modo e così via. Certo, un'altra figura professionale è più autorevole di una figura non professionale, ma sappiamo che l'autorevolezza è proprio quella che andrebbe analizzata e smitizzata, cioè non è la logica della autorità quella che vogliamo trasmettere, anche nel senso che magari la moglie del nostro paziente vede le cose molto meglio di noi. Intendo dire questo: se il nostro paziente va a farsi dare i farmaci da un altro medico, e se questo medico ha una linea diversa dalla nostra, o se addirittura ci si mette contro (magari colludendo con una tendenza scissionale inconscia del paziente), quale è il problema? Questo sarebbe un problema come un altro, da affrontare tranquillamente in terapia, all'ordine del giorno. Cosa c'è di più bello che due opinioni diverse? Vediamo quale può esser la migliore, discutiamone. Magari ha ragione il farmacologo, e avremmo un arricchimento. Il terapeuta analizza dal suo punto di vista, e tutti i dati rientrano nel processo interpretativo, compresi i comportamenti dell'altro collega (che sono comunque anche oggetti interni del paziente): questi comportamenti potrebbero essere "usati" dal paziente, oppure potrebbero rappresentare una possibile interpretazione diversa dei dati, che noi vaglieremmo, e, come facciamo sempre, cercheremmo di capire cosa è meglio fare. Vi sono qui ottime occasioni per mostrare al paziente come lavoriamo (ad esempi rispettando la opinione degli altri e non mettendoci in competizione con l'altro collega - cosa che rivelerebbe solo una nostra insicurezza, e il paziente la coglierebbe subito, anche inconsciamente). Insomma anche qui vi sarebbero infiniti test potenzialmente terapeutici se sappiamo superarli, al punto che addirittura potrebbe considerarsi una felice opportunità questo "problema", che peraltro è un modello di problema come tanti il paziente ne deve affrontare nella vita, e non c'è niente di meglio per lui che vedere come noi lo affrontiamo. Si può obiettare che questo approccio funziona meglio con pazienti più maturi che sanno tollerare aree di conflitto e riflettere su di esse, mentre altri pazienti riceverebbero uno squilibrio da una situazione da loro percepita come confusiva. Questo è ovvio, ma la mia argomentazione era solo volta a criticare un modo di ragionare che passa sopra ai possibili significati della relazione terapeutica, assegnando ad essi un significato a priori. Se si valuta che un determinato paziente, a causa di un suo deficit cognitivo, tollera solo pochi messaggi chiari, dati da un solo terapeuta, ed entra in confusione con due figure di riferimento, è indicato un terapeuta unico (che, se il paziente ha bisogno di farmaci, deve per forza essere un medico), ma vi può essere un altro paziente che verrebbe arricchito da un altro tipo di esperienza, o che per lo meno non verrebbe arricchito da un terapeuta che non tollera il conflitto tra punti di vista diversi..." (da un editoriale intitolato "Psicoterapia e Servizi di Salute Mentale", in: Rivista Sperimentale di Freniatria, 1999, CXXIII, 4: 219-232). 

1 Maggio 2000, Tullio Carere:
Il 20 Aprile 2000 Paolo Migone wrote: 
>>Resto dell'idea quindi che, per i nostri scopi, e per evitare pericolosi 
>>dualismi che avrebbero un effetto negativo sulla tecnica, sia più corretto 
>>ragionare come se pillole e parole appartenessero alla stessa categoria logica... 
 
Il 26 Aprile 2000 Piero Porcelli wrote: 
>C'è qualcosa che mi sfugge su questa questione dei farmaci. Fino ad un 
>certo punto, seguo benissimo il pensiero di Paolo e ne concordo. 
>Da un certo punto in poi, però, non sono certo di capire. 

Vediamo di capire meglio in che senso pillole e parole appartengono alla stessa categoria logica, e in che senso appartengono a categorie diverse. Appartengono alla stessa categoria in quanto sia le pillole sia le parole sono intese come strumenti terapeutici o mezzi di cura (dove la "cura" è una nozione più vasta di "terapia", includendo per esempio anche le cure parentali). Posso prendermi cura di qualcuno offrendo farmaci (ma anche cibo), o parole (ma anche carezze e abbracci). Queste cose possono variamente sovrapporsi: un farmaco inerte può essere dato per pura rassicurazione, certe parole valgono come nutrimento, un abbraccio può trasmettere un significato, e così via. E' quindi giusto raggrupparle assieme nella categoria generale "mezzi di cura". Nella categoria vastissima delle "relazioni di cura" distinguiamo quelle professionali, in cui un cliente/paziente si rivolge a un terapeuta perché ha un problema o un disagio che vorrebbe risolvere o eliminare. Abbiamo osservato, in un dibattito parallelo, che il terapeuta si distingue dal guaritore perché i suoi metodi sono pubblici, verificabili e controllabili, mentre il guaritore fa leva in primo luogo sul carisma personale. Il terapeuta, pertanto, per essere tale è tenuto a dichiarare la sua teoria e la sua tecnica, e ad attenersi a queste (la terapia non esclude il carisma, e in generale una dimensione di eventi "sorgivi" o comunque imprevedibili: ma mentre il guaritore non si preoccupa di stabilire le necessarie connessioni e mediazioni tra la sfera degli eventi spontanei e incontrollabili e la teoria-tecnica di base, questo compito è centrale in ogni pratica che voglia essere considerata terapeutica). Nella categoria generale delle terapie, distinguiamo quindi le "psicoterapie" (o terapie relazionali, come preferisco chiamarle, perché il tipo di dialogo che in esse si sviluppa è spesso non solo psicologico, ma anche filosofico). La psicoterapia si distingue dalle altre terapie perché opera unicamente, o prevalentemente, attraverso la relazione (mentre nelle altre terapie il mezzo terapeutico principale è qualcosa - come un farmaco, una ginnastica o una dieta - cui si attribuisce un'azione terapeutica a sé stante, relativamente indipendente dalla relazione in cui è somministrato). Anche nella psicoterapia c'è sempre un quid che nella teoria del terapeuta è ritenuto terapeutico "in sé", sia esso un'interpretazione, un'esperienza correttiva, una prescrizione comportamentale o un'ingiunzione paradossale. In questo senso è giusto dire che tutte le cose cui si attribuisce una virtù terapeutica, siano esse pillole o parole, appartengono alla stessa categoria generale, dei "fattori terapeutici". La psicoterapia si distingue dalle altre terapie semplicemente perché i fattori terapeutici su cui fa leva sono di ordine relazionale (esperienziale, cognitivo). La distinzione veramente importante (su cui Paolo mi pare insista) non è tanto tra terapia in generale e psicoterapia, ma tra (psico)terapia "buona" o "vera", e (psico)terapia cattiva o manipolativa. La distinzione sta in questo: il cattivo terapeuta (cardiologo o psicoanalista che sia) dà per scontato il valore e il significato dei suoi strumenti (farmaci o interpretazioni). Il buon terapeuta invece non dà mai nulla per scontato. Conosce i suoi strumenti e li maneggia con perizia, ma si preoccupa sempre di indagare l'effetto delle sue operazioni sul paziente, in che modo i suoi interventi sono vissuti e interpretati dal paziente, in che modo lui stesso attribuisce ai propri interventi significati accessori non previsti dalla teoria, in che modo recepisce e interpreta le risposte del paziente. Un'accurata analisi o monitoraggio dei vissuti relazionali è ciò che distingue il vero terapeuta (psicoanalista o cardiologo) dal manipolatore di corpi e di coscienze. Detto questo, rimane il compito di definire o delimitare il campo della psicoterapia, a tutt'oggi segmentato da una miriade di scuole e sottoscuole. Si tratta di stabilire quali modalità relazionali hanno valore terapeutico (per chi, in quali casi, in quali forme) e quali no. Ad esempio saremo probabilmente tutti d'accordo sul fatto che un clima moderatamente erotico in molti casi può favorire il processo terapeutico, mentre l'intrusione di comportamenti sessuali espliciti lo distrugge. La definizione dei principali fattori psicoterapeutici, e la loro organizzazione in una teoria generale o, più modestamente, una mappa, è uno dei compiti cui dovremmo dedicarci, a mio parere, in modo prioritario. 


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