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Dibattito precongressuale
avvenuto tra il 20 Maggio 2001 e il 14 Marzo 2002 in preparazione del

I Convegno Nazionale SEPI-Italia (Milano, 16 Marzo 2002)
Integrità e integrazione in psicoterapia

Editing a cura di Tullio Carere-Comes e Paolo Migone

Interventi: Giorgio Alberti, Sergio Benvenuto, Tullio Carere-Comes, Giovanni Liotti,
 
Seconda di due parti (gennaio-marzo 2002). Torna alla Prima Parte

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Sergio Benvenuto, 3 Gennaio 2002:

Liotti scrive:
<< Per parlare un poco in prima persona: Non ci tengo poi tanto come potrebbe sembrare, alla dicotomia fra "scienza" ed "ermeneutica" come tema per il nostro dibattito. [...] Non ho bisogno, per sostenere tale tesi, di alcuna contrapposizione con posizioni che negano valore alla procedura scientifica nella selezione delle (piccole) teorie della psicoterapia. Dunque, non DISPEREREI affatto se la SEPI decidesse di non farla diventare strumento di riflessione, la dicotomia stereotipata fra moderno e post-moderno, o altre similari. Non mi pare una proposta GRAVE quella di Benvenuto, di orientare su altri assi dialettici il dibattito, come l'asse dialettico fra unità della sofferenza e molteplicità delle tecniche psicoterapeutiche volte a ridurla>>

Malgrado le grandi differenze di stile tra Liotti e me (le style c'est l'homme), alla fine, mi pare, siamo d'accordo. Mi pare che Liotti voglia passare da filosofemi su ciò che è scientifico o non lo è a parlare della sua personale ricerca, per quello che può interessare tutti noi. Mi sembra un'ottima idea.

Liotti scrive:
<<Per contenere questo modo di argomentare, la nostra civiltà occidentale ha inventato un metodo che, pare, si è rivelato di qualche utilità se è vero che nessuno di noi manderebbe il proprio figlio a curarsi in un Ospedale ispirato alla medicina medievale qualora ne riaprissero uno. Il metodo consiste NON nel limitare la produzione di idee creative e che magari colpiscono e commuovono oltre a convincere a prima vista razionalmente, ma nel vagliarne SUCCESSIVAMENTE l'utilità o l'applicabilità AGGIUNGENDO, alla critica razionale dell'idea, i risultati di procedure sperimentali ripetibili, di studi di efficacia, di indagini epidemiologiche e di quant'altro possa>>

Sono d'accordo su tutto. Non ho mai scritto un solo rigo contro l'applicazione dei protocolli scientifici in psicoterapia e nelle scienze umane in generale. Ma una cosa sia chiara: non credo che tessendo le lodi del Metodo Scientifico si faccia scienza! (Siccome nel CNR sono ogni giorno a contatto con "scienziati", so bene purtroppo quello che dico. Certo molti applicano metodologie scientifiche, ma che cosa davvero scoprono?). In fondo, è questo il messaggio che il buon Feyerabend voleva mandare: NON confondere la retorica scientista con la scienza vera. Questa è un'altra cosa.

Negli ultimi anni, comunque, cresce in me una sensazione sgradevole. Mi chiedo se succede anche ad alcuni di voi. Soprattutto dopo il libro di Sokal e Bricmont, Imposture intellettuali, è cresciuta una preoccupante intolleranza scientista. In effetti, quelli di noi che non usano protocolli scientifici standard non criticano mai - quando sono persone serie - la scienza, le metodologie scientifiche, la ricerca oggettiva, ecc. Nessuno si sognerebbe di dire che Darwin o Einstein o Crick non contano! Ma si ha l'impressione che gli "scientisti" non siano mai contenti delle nostre genuflessioni di fronte all'altare della Scienza. Per loro, chi non usa protocolli scientifici è comunque e sempre un cialtrone: "O fai come noi, o usi [quello che noi pensiamo che sia] il Metodo Scientifico, oppure quello che fai è nonsense!" Per tipi come Sokal, o sei uno scienziato che usa certe procedure o scrivi poesie liriche - sul resto va gettato l'anatema. Penso al contrario che tra le poesie liriche da una parte e le procedure sperimentali dall'altra, ci sia un'ampia gamma di varianti, di modi di descrivere e di scoprire, che spesso danno risultati che fanno storia.

Dò un esempio tra le centinaia possibili. A fine 800 Cesare Lombroso, applicando metodologie [che lui pensava fossero] scientifiche creò la frenologia, con tutto il corredo del "criminale nato", i "bernoccoli", ecc. Nello stesso periodo Freud scriveva (ma senza mai pubblicarlo) il Progetto per una Psicologia Scientifica, che non è solo il progetto di base di tutta la psicoanalisi, ma anche un'arditissima teoria neurologica che oggi viene considerata dai maggiori neuroscienziati (ad esempio dal premio Nobel Kandel) come un precorrimento geniale di tutta la moderna neuroscienza. Freud "inventa" la sinapsi. Invece, della frenologia non si parla più, se non per farci battute. Eppure Lombroso applicava metodologie scientifiche (dell'epoca), Freud invece faceva una pura speculazione senza alcuna base osservativa. perché questa differenza?
E' che Freud aveva talento, mentre Lombroso... meno. Ovvero, Freud aveva più presa sul reale di Lombroso.
Morale dell'apologo: la scoperta spesso arriva da dove meno ce la si aspetta. Riempirsi la bocca di inni al Metodo Scientifico è propaganda ideologica, non vera scoperta.
Certo, è importante poi che lo sperimentalista corrobori o meno le ipotesi e le intuizioni, ma PRIMA DI TUTTO ci vogliono ipotesi e intuizioni interessanti. E' stato importante corroborare sperimentalmente la relatività di Einstein, ma prima di tutto ci voleva Einstein...

Sono convinto che Liotti e altri abbiano SCOPERTO qualcosa: mi interessa saperlo, molto di più che sapere le metodologie che usano. Quanto a me, anche se non applico (per ora) protocolli scientifici, cerco di fare del mio meglio - sulla base di quello che sono e di quello che so - per portare un po' d'acqua al mulino del sapere sulla sofferenza mentale. E' un errore escludere dal sapere chi non si adegua ad uno stile "scientista". Sergio Benvenuto

Sergio Benvenuto, 9 Gennaio 2002:

Carere scrive:
>questo non equivale a dire che "anything goes", restando l'ambizione
>personale del terapeuta l'unico criterio di misura? Se la risposta è sì,
>Benvenuto non può risentirsi dell'etichetta [feyerabendiano] in questione.
>Se la risposta, come mi auguro, è no, siamo alle soglie della cosa che conta. Occorrerà
>infatti precisare a quale misura diversa dall'ambizione personale debba
>riferirsi il terapeuta per sottrarsi al puro arbitrio delle opzioni.

Si vede che mi spiego veramente male. Pensavo di aver già risposto, e non una volta sola, a questa domanda. E proprio per rispondervi, avevo fatto un lungo discorsetto sul comunismo per portare un esempio noto a chiunque.

Così come la storia sta selezionando - negativamente - il comunismo, così sta selezionando (negativamente o positivamente) varie forme di psicoterapia. Si vede che alcune non funzionano, e cominciano a declinare. Mi pare che sia un po' il caso delle psicoterapie familiari di tipo sistemico: hanno avuto anni di fulgore, poi (mi pare) gli stessi terapeuti della famiglia hanno cominciato a vedere i limiti di questa tecnica, della teoria del double bind, etc.
Ma appunto, per rendersi conto se qualcosa funziona o meno - dal comunismo alla psicoanalisi - BISOGNA DARLE TEMPO. E' quel che dice in effetti Imre Lakatos nel suo bel saggio sulle Metodologie dei Programmi di Ricerca, correggendo Popper. Un programma - anche psicoterapico - va giudicato su tempi lunghi. Un programma di ricerca all'inizio può essere epistemicamente debolissimo, ma col tempo può rafforzarsi; all'inverso, molti programmi forti, egemoni, poco a poco possono regredire (è stato il caso dell'Ego Psychology in America, per esempio).
Ovviamente Carere potrà dire: che qualcosa funzioni o meno lascia aperta la questione "che cosa significa FUNZIONARE?" E' una questione aperta, appunto. L'importante è ammettere che sia aperta.
Vi ricordate della battuta sul tipo che da adulto soffre di enuresi e va da uno psicoanalista. Dopo dieci anni il suo amico lo incontra e gli chiede dell'analisi, "va a gonfie vele!" risponde. "Ma ti fai ancora pipi sotto o no?" E l'altro: "mi faccio ancora sotto - ma ora ne sono fiero."
Ora, se pensiamo che una psicoterapia funziona quando è curato il sintomo in quanto tale, allora quell'analisi è stata un fallimento. Se invece pensiamo che una psicoterapia funziona quando il soggetto è soddisfatto, allora è stata un successo. I metri dell'efficacia non sono assoluti, ma relativi.
La storia, col tempo, seleziona quel che funziona, ma non seleziona adottando UN SOLO criterio. La scienza occidentale è oggi selezionata positivamente perché, ad esempio, ci permette di volare sugli oceani. Ma è selezionata anche la religione cristiana, non perché ci permetta di volare sugli oceani, perché soddisfa altri tipi di esigenze. Analogamente, una psicoterapia può rivelarsi, COL TEMPO, meno efficace di un'altra nel curare certi sintomi, ma espandersi lo stesso perché risponde ad altre esigenze: ad esempio, perché dà al soggetto il senso di un possesso intellettuale sulla propria psiche, oppure perché dà un sentimento di elevazione spirituale, ecc.
Molte analisi oggettive sull'efficacia delle varie psicoterapie peccano, è la mia impressione - non sono uno specialista del campo - di UNIDIMENSIONALITA'. Danno per scontato che una persona che soffre cerchi sempre e solo una stessa cosa, mentre questo non è vero: è una pluralità di esigenze e di desideri. Il pluralismo psicoterapico è il riflesso, almeno in parte, della pluralità delle forme di vita umane. Ciò rende la verifica empirica un lavoro molto complesso, che esige sperimentatori molto raffinati. Con molto TALENTO.

>Quel poco o tanto che l'approccio scientifico alla psicoterapia è riuscito a ottenere è
>liquidato sommariamente [da Benvenuto] con affermazioni tipo "non abbiamo
>evidenze per far prevalere una teoria su tutte le altre" che oltre a essere fuorvianti
>(abbiamo molte evidenze che ci fanno preferire una teoria alle altre in
>diversi settori), sono ingenerose verso coloro che prediligono l'approccio
>scientifico e hanno l'unico effetto di rafforzare, tra questi ultimi, la
>convinzione che posizioni come quelle espresse da Benvenuto sono
>"ovviamente non confrontabili" con quelle del campo scientifico, come suggerisce Liotti (12/12).

Se davvero Liotti, Carere, Migone, o chi altro proporranno approcci psicoterapici che si affermeranno attraverso prove scientifiche davvero convincenti, possono stare tranquilli: prima o poi ce ne accorgeremo. (Prove convincenti, non inconfutabili: gli storici della scienza hanno mostrato che TUTTE le teorie scientifiche sono confutate). Posso assicurarvelo: la vera scienza non mi annoia mai. E'  vero che personalmente non uso protocolli scientifici, ma non credo per questo di essere un imbecille: quando leggo un libro scientifico, in genere mi rendo conto se si tratta di vera scoperta o di fumo scientista. Perciò il mio ultimo lavoro pubblicato è su un'ipotesi scientifica che considero seria: quella di Edelman (chi volesse leggerlo, lo troverà sul sito Filosofia di www.psychomedia.it). Il fumo dello scienzalese non signifca necessariamente l'arrosto della scienza.

>"Il dialogo è tra noi inevitabile perché abbiamo a che fare con lo stesso
>reale", scrive Benvenuto. Invece purtroppo - o per fortuna - il dialogo non
>è inevitabile, anche se abbiamo a che fare con lo stesso reale.

Touché. Su questo ha ragione Carere.

>arbitrio delle opzioni o dal puro funzionalismo in chiave adattiva. Ma
>l'approccio al vero o al reale può essere connotato prevalentemente in senso
>soggettivo (come è il caso di Benvenuto) o in senso oggettivo (come è il caso di Liotti).

Anche qui, mi sento a disagio nell'essere incastrato nell'opposizione rigida tra "soggettivo" ed "oggettivo". In fondo, sia il soggettivismo che l'oggettivismo sono due facce della stessa medaglia. Io cerco altre medaglie. E le cerco in ciò che tento di concettualizzare - senza farmi molto capire, ahimè - come "tendere al reale" (che secondo me non è il noumeno kantiano).

>Nell'approccio soggettivo la verità è prevalentemente un "affetto" (come ha
>mostrato Benvenuto in un suo eccellente lavoro), mentre in quello oggettivo
>è vera la teoria che è verificata, cioè ha superato il vaglio della prova
>secondo i criteri del metodo scientifico attuale.

In questo sono popperiano: credo che una teoria scientifica non possa MAI essere verificata. Può essere solo corroborata, quindi si tratta di un processo che resta sempre aperto. Quanto all'"affetto di verità", ne parlavo in termini "oggettivi": talvolta i nostri pazienti sentono (ma non perché diamo loro prove scientifiche!) che quello che diciamo loro è vero, e quindi tornano da noi. Se non sentono questo affetto, spesso non tornano. Tutto qui. Sergio Benvenuto

Tullio Carere, 28 Gennaio 2002:

Cari amici e colleghi, vorrei tirare le somme della seconda parte del nostro dibattito, nella speranza di accendere una terza e ultima fiammata prima del convegno di marzo. L'argomento centrale della discussione è stato sempre di più il rapporto tra psicoterapia e scienza. Dico rapporto per prendere le distanze dagli opposti estremismi di coloro che considerano la terapia un'arte che nulla ha a che fare con la scienza, e di coloro che identificano la terapia tout court con la scienza (o la considerano valida solo se e nella misura in cui è "scientifica"). Evitando di cadere nell'uno o nell'altro fosso, potremo fare qualche passo sulla strada che conduce a una comprensione globale del processo. In questa visione allargata potremo indagare il rapporto tra psicoterapia e scienza: in che senso la terapia è o deve essere scienza, in che senso non lo è o non deve esserlo.

Giustamente Benvenuto ha osservato che non basta invocare il nome della scienza per fare qualcosa di scientifico. Occorre invece precisare quali delle operazioni che concretamente facciamo nella nostra pratica clinica sono a nostro parere degne di essere dette scientifiche. Per esempio Rossi Monti mi ha scritto:
>io condivido l'assunto di Liotti della necessità di pensare al problema della
>verifica empirica. Ma non posso però pensare di dovermi porre il problema
>della verifica empirica tutte le volte che mi è venuto in mente qualcosa che
>mi sembra significativo dire in un rapporto psicoterapeutico con un paziente.

Questa affermazione di Rossi Monti rispecchia la posizione che il clinico ha in generale verso la ricerca empirica. La ricerca ha permesso di scoprire molte cose interessanti sulla psicoterapia, come ricordava Liotti. Salvo che la "psicoterapia" del ricercatore è un artefatto che ha poco a che vedere con la terapia come è realmente praticata sul campo. I dati della ricerca controllata valgono solo per trattamenti manualizzati di breve durata condotti con gli stessi criteri applicati nelle ricerche da cui sono stati ottenuti quei dati. La terapia come è effettivamente condotta sul campo ha invece una serie di caratteristiche che mancano del tutto nei processi studiati negli "efficacy studies" (Seligman, 1995), sicché i dati sulla "psicoterapia empiricamente validata" hanno una validità esigua per il clinico, che infatti sostanzialmente li ignora.

Questo non significa che i dati della ricerca siano irrilevanti per la clinica, ma solo che il clinico deve decidere caso per caso quali dati sono rilevanti nella situazione specifica. Il fatto è che tra la massa dei dati che in ogni momento il clinico deve selezionare come rilevanti, quelli provenienti dalla ricerca rappresentano una porzione complessivamente esigua. Come osservano Stricker e Trierweiler (1995), il clinico per lo più non è uno "scienziato applicato" (cioè non applica se non marginalmente alla clinica i dati ricavati dalla ricerca), ma, nella misura in cui opera come scienziato, è uno "scienziato attivo" (cioè "affronta l'interazione clinica come un problema da risolvere, come lo scienziato affronta i problemi nel suo laboratorio"). In altre parole, la posizione del clinico non è subordinata a quella del ricercatore empirico, ma intanto è una posizione scientifica in quanto il clinico si pone come un "local clinical scientist". In questa posizione il setting clinico è visto come un analogo del laboratorio scientifico.

Una volta sgomberato il campo dall'equivoco (della subordinazione della clinica alla ricerca empirica), credo che potremo entrare nel vivo della questione: quali sono precisamente le funzioni del terapeuta in quanto "local scientist", e come si colloca il ruolo dello scienziato locale tra gli altri ruoli di competenza del terapeuta? E soprattutto: possiamo parlare di queste funzioni e di questi ruoli come delle "invarianze", trasversali a tutti i metodi di psicoterapia? (Intendo invarianze nel senso di Nozick: "Invariances: The structure of the objective world", Harvard Univ. Press., 2001). La possibilità stessa di comunicare tra esseri umani non si fonda sull'esistenza di invarianze, cioè di strutture relativamente stabili dell'esperienza? Se queste invarianze non esistessero, come potremmo noi, terapeuti di diverse scuole e persuasioni, comunicare tra di noi? Visto che abbiamo deciso di incontrarci, do per scontato che vogliamo provare davvero a comunicare. Sarà possibile questa comunicazione, se non identificheremo un certo numero di invarianze del nostro campo? Altrimenti, su che cosa si potrà fondare una comunicazione? (Intendo proprio comunicazione, non una competizione darwiniana di idee). Tullio Carere

Giovanni Liotti, 30 Gennaio 2002:

Rispondo ancora alla sollecitazione di Tullio Carere, con la speranza di ridurre un certo polverone che mi sembra di aver contribuito a sollevare.

1. Mi colpisce che l'attenzione nella lettera di Carere, rispetto ai rapporti fra ricerca di base e psicoterapia si riferisca, apparentemente, soprattutto agli studi di efficacia. A me questi ultimi sembrano di secondaria importanza, per l'integrazione delle psicoterapie, rispetto agli studi di processo e soprattutto agli studi sulla developmental psychopathology e alle ricerche di neurobiologia e neuropsicologia più vicine agli interessi dello psicoterapeuta (per intenderci, penso agli scritti di Edelman, Damasio, Ramachandran, Schore, Panksepp, Siegel, Rizzolatti, MacLean, Bowlby, Bretherton, Main, Suomi, Sroufe e altri che spero -- dico spero perché, non facendo parte di istituti universitari o di ricerca come il CNR, non ho molte conoscenze personali fra i ricercatori-- non siano gente che si riempie la bocca con la parola "scienza" essendo in realtà non scienziati, ma "scientisti" capaci di suscitare la giusta riprovazione di alcuni fra noi).

2. Ovviamente quanto si fa in seduta è diverso da quanto si fa in uno studio sperimentale: l'OPERARE quotidiano dello psicoterapeuta non può e non deve essere soggetto a verifica empirica indipendente in ogni suo aspetto. Il problema è se le TEORIE, che guidano quello che facciamo in seduta, è bene o no che siano vagliabili (ed eventualmente già vagliate) in un qualche contesto di ricerca indipendente dalla seduta psicoterapeutica. Si noti che "vagliare" non è sinonimo di "verificare" (può bastare dimostrare che una teoria che seguiamo è falsa a farci abbandonare la prassi che ne deriva, mentre siamo autorizzati a procedere con le toeire che ancora non sono state dimostrate erronee e fuorvianti).

3. Forse nessuno ha osservato quello che ho proposto e più volte ripetuto in questi nostri scambi (e allora mi pento davvero di averlo proposto come tema, perché può essersi trattato di una mia allucinazione): alcuni psicoterapeuti di diversa formazione, dopo aver studiato con attenzione i contributi di ricerca (di solito DATI DA ALTRI, non prodotti dagli psicoterapeuti stessi), si sono trovati di fronte ad almeno un abbozzo di integrazione. Ho avuto modo di osservare tutto ciò parlando con psicoanalisti, terapisti familiari e psicoterapeuti cognitivisti che si erano interessati a teoria e ricerca sull'attaccamento. Sembravano aver fatto notevoli passi avanti verso l'integrazione delle loro inizialmente assai diverse teorie e prassi, dopo questo confronto con una teoria ed una linea di ricerca che riguardano lo sviluppo della personalità e non la psicoterapia. Poi ho osservato di nuovo lo stesso fenomeno in un contesto in cui, al posto della teoria dell'attaccamento, c'erano gli studi sul processo del San Francisco Psychotherapy Research Group: terapeuti di scuola psicoanalitica e cognitivista si comprendevano e si ritrovavano intorno alla Control-Mastery Theory (CMT), che da tali ricerche empiriche deriva.
Infine, ho osservato che il gruppo della CMT trovava forti corrispondenze con la teoria dell'attaccamento, che all'inizio non conosceva. Come se il fatto di derivare le proprie teoria da procedimenti che comprendono il vaglio sperimentale delle ipotesi avesse condotto a qualcosa di comune e di integrativo i ricercatori della CMT e quelli dell'attaccamento.
Mi fermo a questi due esempi, ma naturalmente potrei farne altri riferendomi al potere integrativo del confronto fra psicoterapia e scienza cognitiva (la psicoanalista Bucci ed il terapeuta cognitivista Wells forse hanno nella scienza cognitiva, cui entrambi fanno riferimento, un "terreno comune" per integrazioni/confronti fra le loro teorie e prassi terapeutiche?). Se tutto ciò lo ho notato solo io, temo di aver preso una seria cantonata e ne farò ammenda durante il nostro incontro di Marzo a Milano.

4. Ho partecipato ad una sola ricerca seria in vita mia, e riguardava la psicopatologia, non direttamente la psicoterapia (rapporti fra disorganizzazione dell'attaccamento e sviluppo di disturbi bordreline e dissociativi). Mi è capitato quasi per caso, e non è probabile che il caso si ripeta. Non ho intenzione di trasformarmi in un ricercatore. Mi sento come il medico (che so, un diabetologo ad esempio) che, pur non mettendo piede in alcun laboratorio di ricerca, legge attentamente i risultati delle ricerche sul metabolismo glicidico pensando che ciò giovi alla sua pratica (esclusivamente clinica!), e magari gli permetta di parlare meglio col nutrizionista, con l'endocrinologo e con l'internista che, pur alieni anch'essi dal diventare ricercatori ed attaccatissimi al loro mestiere di clinici, condividono con lui la convinzione che la ricerca sperimentale sul metabolismo costituisca un "linguaggio comune" per diversi specialisti. La similitudine è probabilmente fuorviante, vista la diversa "materia" di cui si occupano gli psicoterapeuti rispetto a medici di diversa specializzazione, me ne rendo conto. Tuttavia, essa può servire a chiarire che non ho intenzione di trasformarmi in ricercatore per sentirmi autorizzato ad aver fiducia nella ricerca, e che mi piacerebbe non essere considerato "scientista" se apprezzo il metodo scientifico pur facendo solo il clinico. Giovanni Liotti

Tullio Carere, 2 Febbraio 2002:

At 0:39 +0100 30-01-02, Giovanni Liotti wrote:
>Rispondo ancora alla sollecitazione di Tullio Carere, con la speranza di ridurre
>un certo polverone che mi sembra di aver contribuito a sollevare.
>1. Mi colpisce che l'attenzione nella lettera di Carere, rispetto ai rapporti fra
>ricerca di base e psicoterapia si riferisca, apparentemente, soprattutto agli
>studi di efficacia. A me questi ultimi sembrano di secondaria importanza, per
>l'integrazione delle psicoterapie, rispetto agli studi di processo e soprattutto
>agli studi sulla developmental psychopathology e alle ricerche di neurobiologia
>e neuropsicologia più vicine agli interessi dello psicoterapeuta

Caro Gianni, ero convinto che chi impugna il verdetto di Dodo - come anche tu hai fatto in alcune occasioni - lo facesse sulla base degli studi di efficacy, dal momento che gli studi di effectiveness (ad es. quello di Consumer Reports) per quanto ne so lo confermano. Comunque sia, constato con piacere che nemmeno tu attribuisci molta importanza agli studi di efficacy, che sono poco rilevanti per la psicoterapia reale e quindi a maggior ragione per l'integrazione psicoterapeutica.

Diverso è il caso degli altri campi di ricerca da te citati, e soprattutto del filone cui ti riferisci, basato su un'evidenza che prima di essere empirica è logica. L'evidenza in questione può essere enunciata così: un organismo non potrebbe sopravvivere, crescere ed eseguire i suoi programmi se non avesse disposizioni innate alla sopravvivenza, alla crescita e all'autoorganizzazione. Queste disposizioni innate debbono naturalmente trovare nell'ambiente condizioni favorevoli alla loro attuazione. Se non le trovano, l'organismo non potrà sopravvivere o avrà una crescita difettosa. I difetti conseguenti alla carenza di fattori di crescita nell'ambiente originario potranno essere corretti in parte o del tutto ricreando le condizioni necessarie in altri ambiti, come ad esempio e in particolare in una relazione psicoterapeutica. Questo è il fondamento sia dell'offerta di "esperienze emotive correttive" da parte del terapeuta, sia della "messa alla prova" del terapeuta da parte del paziente, per ottenere quel tipo di relazione di cui ha bisogno per guarire.

Sono le idee dell'articolo sull'IJPA che hai scritto assieme a Paolo e che io, come ricorderai, ho molto apprezzato. Ricorderai anche il dibattito in rete che ne è seguito, e l'accoglienza non troppo calorosa degli psicoanalisti. Jane Milton, per esempio, disse: l'articolo mi è piaciuto, ma il paziente che occhieggia tra le sue righe non è quello che io riconosco nella mia pratica quotidiana; questo paziente mi ricorda quello che si incontra negli scritti degli autori cognitivo-comportamentali - ben disposto, forse con qualche credenza disadattiva ma pronto a riapprendere le cose e a riadattarsi. Dove sono finiti l'odio, la distruttività, l'inerzia mortale, l'invidia e le altre cose di cui non si può immaginare il minimo valore adattivo-evolutivo?

La risposta della Milton è esemplare: corrisponde a quella che mediamente puoi aspettarti da un analista cui sottoponi la prospettiva in questione. Questo non significa che la prospettiva non abbia valore: al contrario ne ha molto, ma non sarà su questa base che potrai stabilire un dialogo con terapeuti, come sono la maggior parte degli analisti, che privilegiano tutt'altre cose nel loro lavoro. Certo il dialogo è per principio impossibile con chi non si schioda dalla propria teoria o appartenenza di scuola, questo va da sé. Ma se insisti a sventolare il vessillo della scienza, come l'unico sotto cui possano mai raccogliersi le smandrappate schiere degli psicantropi, tutto quello che otterrai è che dall'altra parte si sventolino ancora più energicamente i vessilli dell'inconscio, dell'ermeneutica, dell'istinto di morte, della formazione personale, del transpersonale e quant'altro vede la scienza più o meno come il Moloch che cerca di annullare tutto ciò che fa umana la vita umana.

Se invece mantieni il tuo appassionato interesse per la scienza, ma rinunci al tentativo di affermare *l'egemonia* del discorso scientifico sugli altri discorsi che attraversano il campo della psicoterapia, crei almeno il presupposto perché un vero dialogo possa iniziare (se intendiamo il dialogo come quel tipo di comunicazione che si apre quando gli interlocutori rinunciano a far valere come veri o prioritari o egemoni i propri presupposti). Se lo scienziato accetta di essere solo uno degli attori che si muovono sulla scena della terapia, e non pretende di salire sul podio per dirigere tutta la compagnia, anche l'artista e il mistico possono essere indotti a fare altrettanto, abbandonando a loro volta le pretese di egemonia che non meno spesso e volentieri dello scienziato avanzano. Di convegni in cui ognuno dice la sua, raccoglie le sue carte e se ne va è pieno il mondo. Ma se riuscissimo a farne uno in cui spuntasse almeno un esilissimo inizio di dialogo, sarebbe una cosa davvero straordinaria. Tullio

Giovanni Liotti, 3 Febbraio 2002:

Caro Tullio, ti sono assai grato per la tua lettera gentile e precisa. E' molto servita a chiarirmi l'equivoco che sentivo serpeggiare nella corrispondenza che si siamo scambiati in questi mesi, ma che non riuscivo ad identificare con precisione. Mi sono mosso sulla base del presupposto, acritico e non meditato, che il nostro convegno mirasse ad esplorare la possibilità di confronto-integrazione fra IDEE diverse emerse nel modo delle psicoterapie, ed avevo del tutto trascurato l'altra finalità del convegno, che tu chiaramente esprimi in questa ultima lettera: facilitare direttamente il dialogo fra le PERSONE che si occupano di psicoterapia.
La dialettica che ha come polarità 1 "integrazione di idee" (che a mio avviso si verifica soprattutto per selezione di quelle che tengono meglio ad un qualche vaglio organizzato) e come polarità 2 "dialogo fra persone" (che quelle idee sostengono), è indubbiamente di centrale importanza. Di questa dialettica, ho trascurato il secondo polo. Chiudo la mia partecipazione, troppo ahimè attiva, a questo scambio di corrispondenza, cercando per un'ultima volta di chiarire il motivo di tale trascuratezza del "dialogo".
Coerentemente al primato che tendo ad attribuire alle idee rispetto alle vicende delle persone che quelle idee sostengono (guarda un poco: con la mia passione per la Scienza dovrei essere "aristotelico", e qui mi scopro "platonico" vedendo tutti noi come ombre di idee proiettate sul muro della famosa caverna), coerentemente a ciò, dicevo, non mi sono mai curato né di cercare prioritariamente l'accordo con le persone né tanto meno di convincerle. Si parla, magari anche si litiga civilmente, e questo è già tanto per stimolare la crescita della conoscenza. Non mi disturba dunque neanche un poco che Jane Milton e la maggioranza degli psicoanalisti trovi superficiali idee come quelle espresse da Migone e me nell'Interbnational Journal of Psychoanalysis. Non mi rammarico di non averli convinti che non è convincente il loro modo di spiegare la distruttività umana riconducendola ad un primario "istinto di morte". L'idea di un primario istinto di morte compete con altre, e verrà selezionata (io credo dalla prova dei fatti, raccolti dalla neurobiologia ala psicologia evoluzionista alla clinica ANCHE con gli studi di efficacia) o scartata indipendentemente da quanti oggi la sostengono. Tendo dunque a pensare che le idee si affermano da sé (per selezione: sopravvivono quelle che funzionano meglio rispetto all'adattamento e alla sopravvivenza, appunto), e che la Scienza "moderna" sia stata e resti un ottimo modo di facilitare tale affermazione per selezione. Coerentemente a ciò, mi pare, sono pronto a riconoscere di aver sostenuto una idea sbagliata quando qualcuno raccoglie prove convincenti che tale era, e per di più sono pronto ad abbandonarla. Per questo ho cominciato come comportamentista, sono passato al cognitivismo, ho scoperto poi il valore dell'evoluzionismo e dell'etologia, e infine mi sono appassionato al lavoro di psicoanalisti "scientifici" (come altrimenti chiamarli?) come Bowlby, Stern e Weiss, col risultato che adesso non so più in quale casella piazzarmi quando si categorizzano gli psicoterapeuti. Evidentemente, non potrò neppure piazzarmi nella casella degli "integrazionisti".
Attendo di scoprire dal nostro dialogo se esiste un metodo alternativo a quello scientifico, per accertarci "tutti insieme" (beninteso, tutti quelli che accettano il metodo) di quali fra le nostre idee vadano prescelte e mantenute e quali invece abbandonate. Se lo troverò, mi convincerò anche che l'idea che le idee si selezionino da sé è sbagliata. Così potrò anche abbandonare l'ulteriore idea di un "cammino" (incerto, lungo, difficile, tortuoso, pieno di andirivieni) che progressivamente migliora nel suo approssimarsi all'inafferrabile realtà. E' un'idea problematica, naturalmente, ma i molti critici di essa (Voltaire, con il suo "Candido", non mi ha convinto; Leopardi, con la sua geniale critica alle "magnifiche sorti e progressive", non mi ha convinto; e tanto meno mi hanno convinto Lyotard, Feyerabend, e ancor più recenti altri) non annullano l'impressione a sostegno del "progressismo" che mi fa il confronto fra gli attuali Ospedali (dove ci si ammala di mille malattie infettive e i chirurghi possono lasciare attrezzi nella pancia della gente) e quelli medievali. Gianni Liotti

Tullio Carere, 8 Febbraio 2002:

Caro Gianni, mi sembra importante la differenza che poni tra "confronto di idee" e "dialogo tra persone". Il confronto, se è privilegiato a scapito del dialogo, prende facilmente - direi inevitabilmente - la caratteristica dello scontro, della competizione "darwiniana". Curiosamente, tu hai in comune questa impostazione darwiniana con Benvenuto, che però in questa competizione di idee assegna alla "scienza moderna" il ruolo di un'idea tra le altre, e non un ruolo privilegiato. Certamente anche Benvenuto preferisce farsi curare in un ospedale moderno che in uno medievale, ma non per questo è disposto a riconoscere alla scienza moderna un ruolo egemone anche nella clinica psicoanalitica o psicoterapeutica. Napolitani addirittura ritiene che la pratica psicoanalitica è del tutto incompatibile con i modelli biologico-terapeutici che la trascinano giù per una china "medicalistica". Anche questa è un'idea, no? Ed è un'idea che darwinianamente si è affermata al punto da essere probabilmente maggioritaria in ambito psicoanalitico: il che significa, darwinianamente, che è funzionale "all'adattamento e alla sopravvivenza" (se non altro, degli psicoanalisti).

Ma il dialogo, come già Benvenuto ha riconosciuto, e come ora riconosci anche tu, è altra cosa da questo confronto darwiniano. Ed è altra cosa anche dal tentativo di "cercare prioritariamente l'accordo con le persone", e ancor più da quello di "convincerle". E' invece precisamente quel <<metodo alternativo a quello scientifico, per accertarci "tutti insieme" (beninteso, tutti quelli che accettano il metodo) di quali fra le nostre idee vadano prescelte e mantenute e quali invece abbandonate>>. Se vogliamo (veramente, sinceramente) accertarci "di quali fra le nostre idee vadano prescelte e mantenute e quali invece abbandonate", come potrà mai questo accertamento avvenire, se ognuno rimane tenacemente aggrappato alle proprie convinzioni di partenza e non le mette in gioco? Per esempio, come potranno mai due persone come te e Napolitani dialogare, se tu non sospendi (metti in gioco o tra parentesi) la tua fede incrollabile nel metodo scientifico, e Napolitani non sospende la sua certezza (altrettanto adamantina) che la psicoanalisi nulla ha a che fare con la scienza "medicalistica"?

Mi rendo conto della tua difficoltà: per te al di fuori del metodo scientifico ci sono solo tenebre medievali. Eppure, considera il fatto che la moderna filosofia della scienza non è riuscita a trovare una netta linea di confine tra scienza e metafisica: nel senso che, come si è visto, ogni discorso scientifico è impregnato di credenze metafisiche di cui lo scienziato è per lo più ignaro. Di qui la pretesa non ingiustificata degli psicoanalisti di collocarsi su un piano più elevato di quello della scienza, dal momento che la psicoanalisi è in grado di scoprire gli assunti metafisici inconsci da cui lo scienziato è inconsapevolmente agito (più difficile, per lo psicoanalista, è scoprire gli assunti metafisici inconsci da cui la stessa psicoanalisi è inconsapevolmente agita: la psicoanalisi della scienza è più facile della psicoanalisi della psicoanalisi).

Ti propongo questa ipotesi: il valore della psicoterapia non sta nell'essere scientifica, ma nell'essere dialogica. La psicoterapia *autentica* non è scientifica (dal momento che la scienza è carica di assunti metafisici come ogni altra ideologia), ma dialogica (dal momento che il dialogo è l'unica modalità di comunicazione in cui programmaticamente si sospendono *tutti* gli assunti, inclusi quelli fondativi di ogni discorso scientifico). A fondamento del dialogo non c'è alcun assunto teorico, ma solo la fede nel *logos*, essendo il logos, da Eraclito in avanti, la legge universale (il Tao di Lao Tsu, il noumeno di Kant, l'Umgreifende di Jaspers, l'O di Bion: la cosa in sé). La fede nel logos (F in O, per Bion) è la fede che nel dialogo (cioè nel vuoto che si spalanca in conseguenza della messa tra parentesi di ogni presupposto, o della sospensione di memoria e desiderio) il logos stesso si manifesta: il noumeno si fa fenomeno (Eraclito: dando ascolto non a me, ma al logos...). Tullio

Paolo Migone, 9 Febbraio 2002:

At 12.13 09/02/2002 +0100, Tullio Carere wrote:
>Ti propongo questa ipotesi: il valore della psicoterapia non sta
>nell'essere scientifica, ma nell'essere dialogica. La psicoterapia
>*autentica* non è scientifica (dal momento che la scienza è carica di
>assunti metafisici come ogni altra ideologia), ma dialogica (dal momento
>che il dialogo è l'unica modalità di comunicazione in cui
>programmaticamente si sospendono *tutti* gli assunti, inclusi quelli
>fondativi di ogni discorso scientifico). A fondamento del dialogo non c'è
>alcun assunto teorico, ma solo la fede nel *logos*...

Vorrei fare alcune osservazioni su questo brano di Tullio, perché lo trovo problematico. Innanzitutto mi sembra che ripresenti il mito della "autenticità" (della psicoterapia, o di altre cose), cioè Tullio sembra credere che al mondo esista qualcosa di autentico (il logos), di non influenzato da qualcosa, concetto questo che lui nega per la scienza la quale sarebbe "carica di assunti metafisici come ogni altra ideologia". Non capisco perché il logos sarebbe scevro da condizionamenti, mentre la cosiddetta scienza (o qualunque altra cosa) no. Ma non è stato Freud, tra gli altri, a dire che proprio dietro al logos si nascondono tante cose che lo rendono falso? E quali sono queste cose responsabili della autenticità (o non autenticità) del logos?

Tullio sembra proporre come valore il dialogo, il confronto, se basato sulla "messa tra parentesi di ogni presupposto". Sì, ma come facciamo a mettere tra parentesi ogni presupposto se ciò è impossibile? Anzi, supponiamo che sia possibile (qualunque cosa ciò significhi), ma come facciamo a sapere che lo abbiamo fatto? Curiosamente, è proprio la scienza che, col rigore del metodo sperimentale, ha sviluppato metodologie che possono verificare la influenza di determinate variabili su altre (e questo non ha niente a che fare col concetto di verità o di autenticità, cosa che non è mai interessata alla scienza, che è sempre stata "relativa" a qualcos'altro).

A me non convince questa ipotesi di Tullio basata sul valore del dialogo, perché il vero problema è ad esempio differenziare (come peraltro gli ermeneuti sono stati costretti a cercare di fare) un dialogo autentico da un dialogo inautentico, una "parola piena" da una parola non piena, ecc. Non si può negare (pena un impoverimento nella conoscenza) che esistano dialoghi perfetti ma falsi. Insomma, non vedo come questa ipotesi di Tullio esca dalle secche delle posizioni dell'ermeneutica, in cui la verità è solo interna al discorso, è "intra-clinica".

La posizione cosiddetta scientifica invece presuppone un terzo polo oltre ai due contendenti, un polo "extra-clinico" (per riecheggiare le parole di Grünbaum, ma anche di Rubinstein), cioè un punto di riferimento condiviso a cui rapportare le posizioni dei due dialoganti. Beninteso, questo non ha niente a che fare col concetto di verità (con l'iniziale minuscola o maiuscola che sia), perché il terzo polo, la "verità scientifica", è solo una verità tra le tante, l'importante è che sia una terza verità, che cioè non ci si fermi al dialogo (diventa di secondaria importanza che il dialogo sia scevro o non scevro di assunti metafisici). Il terzo polo, poi, non è mai immutabile, dato che cambia col tempo, con le scoperte fatte, ecc. L'importante è che ci sia. Non ha mai la pretesa di essere autentico (come il logos che pretende di poterlo essere), pretende solo di offrire strumenti condivisibili da tutti, sui quali ci si può realmente confrontare, seppure in certi casi (come in quello della psicoterapia) nella loro consapevole modestia e limitatezza. Penso fosse questo il senso della proposta di Liotti.

(Se ci fate caso, poi, l'operazione psicoanalitica stessa si basa su questo superamento del dialogo, del confronto in quanto tale, e sulla irruzione alla coscienza di un'altra verità - l'Es, un altro polo interno, ecc.). Paolo Migone

Tullio Carere, 10 Febbraio 2002:

At 19:03 +0100 9-02-02, Paolo Migone wrote:
>Vorrei fare alcune osservazioni su questo brano di Tullio, perché lo trovo
>problematico. Innanzitutto mi sembra che ripresenti il mito della
>"autenticità" (della psicoterapia, o di altre cose), cioè Tullio sembra
>credere che al mondo esista qualcosa di autentico (il logos), di non
>influenzato da qualcosa, concetto questo che lui nega per la scienza la
>quale sarebbe "carica di assunti metafisici come ogni altra ideologia". Non
>capisco perché il logos sarebbe scevro da condizionamenti, mentre la
>cosiddetta scienza (o qualunque altra cosa) no. Ma non è stato Freud, tra
>gli altri, a dire che proprio dietro al logos si nascondono tante cose che
>lo rendono falso? E quali sono queste cose responsabili della autenticità (o
>non autenticità) del logos?

Tutto ciò che è conoscibile è un oggetto per un soggetto, mentre ovviamente non è conoscibile la totalità indivisa di soggetto e oggetto (la parte non può conoscere il tutto). Il logos (il noumeno, la cosa in sé, "O") è precisamente questa totalità, e quindi per definizione inconoscibile. La sua esistenza non è dimostrabile, perché non è un oggetto, ma è necessaria, perché se la realtà in sé non esistesse non esisterebbe nulla al cui interno un soggetto possa differenziarsi ponendosi di fronte a un oggetto. La differenza presuppone l'indifferenziato.

E' vero che la scienza permette di conoscere le cose "oggettivamente", ma questa oggettività è sempre e inevitabilmente relativa al modo in cui avviene la spaccatura soggetto/oggetto. Ci sono quindi tante "oggettività" (tanti paradigmi scientifici) quanti sono i modi di questa spaccatura, e questi modi, dipendendo dalle condizioni storiche e culturali, sono evidentemente illimitati. Certamente ognuno di noi, ogni singolo soggetto, vive all'interno di una sua particolare spaccatura, quindi vede l'oggetto in un modo soggettivamente condizionato da categorie e giudizi, valori e progetti. L'oggettività allora non può essere che intersoggettività, cioè accordo o negoziazione tra soggetti su quali siano le categorie e i valori fondativi del mondo che si vuole percepire e abitare.

Un accordo peraltro, anche se ottenuto a larga maggioranza, non è di per sé garanzia di verità (come dimostrano i plebisciti nelle dittature o la manipolazione del consenso nelle democrazie). Giustamente osservi che "il concetto di verità o di autenticità... non è mai interessato alla scienza" (la scienza si disinteressa della verità, quando non pretende ingenuamente di averne il monopolio). Quindi o ce ne disinteressiamo anche noi (e allora contano solo i risultati - le cifre, i voti, l'audience: ma Horkheimer e Adorno ci avranno pure insegnato qualcosa...); oppure decidiamo che la verità è un bene di cui l'umanità non può fare a meno, se non vuole scivolare nella barbarie (inclusa quella tecnico-scientifica così ben descritta dai Francofortesi).

Se dunque decidiamo che nella vita umana (e a maggior ragione nella psicoterapia) la verità conta, e conta molto, non sarà alla scienza che ci dovremo rivolgere per sapere che cosa è - di volta in volta, mai definitivamente - vero (la scienza ci può dire solo che cosa è oggettivo, cioè che cosa corrisponde alle regole stabilite per il tipo di oggettività in esame, mai che cosa è vero). E dunque, dove potremo cercare la verità, se non nella cosa in sé (nel referente ontologico, nel logos), che è inconoscibile? Rinunciando a possederla, potremo solo cercare di aprire quello spazio - lo spazio dell'ascolto, lo spazio del dialogo - in cui il logos si può manifestare, cioè in cui il noumeno può farsi fenomeno (Bion: "ogni pensare e tutti i pensieri sono veri quando non c’è il pensatore"). La verità, come la realtà, è indimostrabile (la scienza può solo falsificare, mai verificare), ma è allo stesso modo necessaria: un mondo senza verità diventa la società dello spettacolo e della manipolazione, di cui gli scienziati sono solo i funzionari.

>Tullio sembra proporre come valore il dialogo, il confronto, se basato sulla
>"messa tra parentesi di ogni presupposto". Sì, ma come facciamo a mettere
>tra parentesi ogni presupposto se ciò è impossibile? Anzi, supponiamo che
>sia possibile (qualunque cosa ciò significhi), ma come facciamo a sapere che
>lo abbiamo fatto? Curiosamente, è proprio la scienza che, col rigore del
>metodo sperimentale, ha sviluppato metodologie che possono verificare la
>influenza di determinate variabili su altre (e questo non ha niente a che
>fare col concetto di verità o di autenticità, cosa che non è mai interessata
>alla scienza, che è sempre stata "relativa" a qualcos'altro).

Come facciamo a raggiungere la saggezza, che è irraggiungibile? Non possiamo raggiungerla, ma possiamo amarla: filosofia significa questo. La scelta filosofica è la scelta di cercare sempre la saggezza, o la verità, sapendo che non riusciremo mai a possederla. Allo stesso modo, pur sapendo che non riusciremo mai a sospendere ogni presupposto, siamo pronti a sospendere e mettere in gioco tutto ciò che riusciamo a sospendere: a cominciare dalle nostre teorie e credenze di scuola, e non è poco. Come facciamo a sapere che lo abbiamo fatto? Il criterio lo ha fornito già Socrate: chi è nella ricerca e nel dialogo sa di non sapere (nulla di certo). Chi crede di sapere qualcosa difende accanitamente le sue credenze o le sue tesi. E' facile riconoscere la persona che dialoga: non è una tabula rasa, ha le sue convinzioni, ma è disposta a metterle in discussione e a cambiarle, in nome del logos che si sviluppa nel dialogo. La persona che non ha fede nel logos non può abbandonare le sue credenze o teorie, per paura di precipitare nel vuoto (Bion: la sospensione di desiderio e memoria è sentita, "fintanto che F in O non sia stato istituito, come un attacco estremamente grave all’io").

>A me non convince questa ipotesi di Tullio basata sul valore del dialogo,
>perché il vero problema è ad esempio differenziare (come peraltro gli
>ermeneuti sono stati costretti a cercare di fare) un dialogo autentico da un
>dialogo inautentico, una "parola piena" da una parola non piena, ecc. Non si
>può negare (pena un impoverimento nella conoscenza) che esistano dialoghi
>perfetti ma falsi. Insomma, non vedo come questa ipotesi di Tullio esca
>dalle secche delle posizioni dell'ermeneutica, in cui la verità è solo
>interna al discorso, è "intra-clinica".
>La posizione cosiddetta scientifica invece presuppone un terzo polo oltre ai
>due contendenti, un polo "extra-clinico" (per riecheggiare le parole di
>Grünbaum, ma anche di Rubinstein), cioè un punto di riferimento condiviso a
>cui rapportare le posizioni dei due dialoganti. Beninteso, questo non ha
>niente a che fare col concetto di verità (con l'iniziale minuscola o
>maiuscola che sia), perché il terzo polo, la "verità scientifica", è solo
>una verità tra le tante, l'importante è che sia una terza verità, che cioè
>non ci si fermi al dialogo (diventa di secondaria importanza che il dialogo
>sia scevro o non scevro di assunti metafisici). Il terzo polo, poi, non è
>mai immutabile, dato che cambia col tempo, con le scoperte fatte, ecc.
>L'importante è che ci sia. Non ha mai la pretesa di essere autentico (come
>il logos che pretende di poterlo essere), pretende solo di offrire strumenti
>condivisibili da tutti, sui quali ci si può realmente confrontare, seppure
>in certi casi (come in quello della psicoterapia) nella loro consapevole
>modestia e limitatezza. Penso fosse questo il senso della proposta di Liotti.

Per dialogare basta anche una persona sola: come avviene nel dialogo interno tra due parti del sé, ciascuna portatrice di interessi diversi, che è possibile quando è disponibile uno spazio interno neutralizzato, una camera di compensazione in cui ogni parte del sé ha il diritto di portare le proprie posizioni, ma nessuna ha quello di imporle. Questo spazio va costruito a partire da un dialogo esterno, come quello della terapia, se non è stato trovato altrove. Ma anche chi ha imparato a dialogare internamente ha bisogno di un dialogo esterno per correggere gli inevitabili errori. Allo stesso modo, il dialogo tra due persone dovrebbe continuamente cercare riferimenti esterni alla coppia, per correggere le inevitabili collusioni: quindi la comunità dei colleghi per il terapeuta, e più in generale la comunità in cui la coppia paziente-terapeuta è immersa (per esempio trovo importante e a volte essenziale coinvolgere direttamente o indirettamente i familiari del paziente nella terapia).

Nel formulare ipotesi da vagliare all'interno e all'esterno della relazione, il terapeuta si pone come uno "scienziato locale". In questo lavoro tiene presenti i risultati di ricerche cliniche su casi simili, e anche di ricerche extracliniche (per es. di psicologia dello sviluppo) che studiano situazioni simili a quelle che si presentano in terapia. Questo lavoro è propriamente scientifico e, come ho detto spesso, il terapeuta lo svolge dal vertice scientifico della relazione, un vertice che ogni terapia che si rispetti dovrebbe avere al suo interno. Ma il lavoro scientifico è solo una parte del lavoro complessivo della terapia, dal momento che il terapeuta è portato dalla logica (dal logos) del processo a svolgere anche ruoli diversi nella relazione. Paradossalmente, proprio la ricerca scientifica ha mostrato che solo una parte minore dei risultati è attribuibile alle competenze tecnico-scientifiche del terapeuta, mentre la parte maggiore dipende dalla sua capacità di gestire la relazione, quindi da fattori relazionali "aspecifici", cioè comuni ai diversi approcci (Lambert, 1992).

In conclusione (chiedo scusa per la lunghezza della risposta, non sono riuscito a essere più stringato) sia nella relazione terapeutica, sia nella relazione tra di noi, l'approccio scientifico ha un ruolo importante, ma pur sempre subordinato al dialogo. Tanto è vero che il tentativo di attribuire alla scienza un ruolo egemone ha come unico risultato di allontanare coloro che da questa pretesa si sentono solo oppressi (ad esempio uno dei colleghi che non hanno partecipato a questo dibattito precongressuale mi ha scritto che se ne è astenuto perché lo ha trovato poco dialogico e inversamente troppo preoccupato di stabilire la scientificità della psicoterapia). Tullio

Paolo Migone, 14 Febbraio 2002:

At 23.54 12/02/2002 +0100, Tullio wrote:
>L'approccio scientifico non è "il" dialogo, ma solo
>quella parte del dialogo che è in sintonia con il "logos dell'Occidente", a
>sua volta solo una parte del logos - quella parte che ispira "confronti
>darwiniani" piuttosto che dialoghi propriamente detti.

Ma non è una contraddizione qui dire che si è aperti al dialogo quando già a priori si dà un giudizio negativo sul logos dell'Occidente? Il "logos dell'Occidente", qualunque cosa esso sia, è un punto di vista tra i tanti, e questo lo avevo detto chiaramente. Io dico solo che non va escluso, né considerato a priori un dialogo di serie B rispetto al tuo dialogo che sarebbe di serie A. Sicuramente ti ho frainteso, ma ho avuto l'impressione che tu avessi una posizione aprioristica. E poi non capisco cosa centri l'Occidente (da opporre all'Oriente? Ma non sono questi dei cliché datati?), e neanche cosa centrino e la "misurazione", i dati "oggettivabili" ecc. Non è una concezione di scienza ormai superata? Ogni metodo può servire a seconda degli scopi che ci prefiggiamo. Riguardo al fatto poi che "secondo molti psicoterapeuti, forse la maggioranza, molti eventi significativi di una psicoterapia, forse i più significativi, non sono oggettivabili, né misurabili, né riproducibili", questo può essere vero, ma allora è un bel problema, perché se la psicoterapia ad esempio non è in un qualche modo riproducibile ma avviene a caso, fuori dal nostro controllo, allora non si capisce perché ci sforziamo di studiarla, di capirla. Dovremmo rinunciare anche a confrontarci, tanto l'effetto psicoterapeutico sarebbe casuale ed è più bravo chi è più baciato dalla fortuna.

Poi dici:
>Ogni scienziato si muove all'interno di un paradigma dato, che per lui non è in discussione
>e di cui per lo più non è nemmeno consapevole. Lo
scienziato è in effetti
>anche lui un credente: crede nel suo paradigma, spesso senza nemmeno saperlo

A me sembra che allo scienziato sia più facile conoscere il proprio paradigma, se non altro perché è il più semplice, il più umile, il più limitato. Ho l'impressione che il rischio di non sapere che ci si sta muovendo all'interno di un paradigma dato aumenti se ci si convince di essere fuori da ogni paradigma (cosa infatti impossibile). L'unica cosa che si può fare è accettare volentieri i propri paradigmi, senza vergogna, e confrontarli, vedere quali servono di più a seconda dei compiti che vogliamo affrontare. Paolo

Giovanni Liotti, 14 Febbraio 2002:

Caro Tullio (agli altri della lista, a cui già due volte avevo promesso di non intasare più la casella della posta, ho vergogna a rivolgermi), la foga di alcune tue frasi mi istiga ad un'ultima risposta. Non risponderò comunque ad una tua eventuale controrisposta, che gradirò ma terrò per la mia riflessione interna. Ho ascoltato la tua passione per Bion (O), Heidegger, Lacan. Tu hai ascoltato la mia per Bowlby, Popper e Darwin. Questo è evidentemente dialogo fra persone. Aspetto di riuscire a comprendere come da dialoghi come il nostro, a due o a poche voci, possa derivare un processo di integrazione della psicoterapia, intesa come impresa che coinvolge migliaia di persone. Mi auguro di capirlo, e soprattutto di vederlo avvenire. Mi auguro anche di poter notare che dialoghi diversi da quelli regolati dal metodo scientifico diano davvero luogo ad integrazioni. Mi piacerebbe ad esempio scoprire se, non ricollegandosi a processi di ricerca controllata o ai suoi risultati, sarebbero possibili convincenti generalizzazioni, per dirne una, sugli effetti negli psicoterapeuti del praticare psicoterapia (come quella che fai, prendendo spunto dal lavoro scientifico di Fieder, per suffragare alcune tue tesi).

Una volta riconosciuto che abbiamo dialogato, vorrei però farti notare che a me, in quanto psicoterapeuta, scienziato e credente (come giustamente rilevi), non faciliti l'ascolto quando affermi:

Tullio Carere ha scritto:
> mi dirai che questa radicale apertura è proprio quella dello scienziato, rispetto
> al credente che resta chiuso nel suo credo. Se fosse veramente così, avremmo
> risolto il problema. Ma a me non sembra che sia così per diversi motivi: 1.
> Ogni scienziato si muove all'interno di un paradigma dato, che per lui non
> è in discussione e di cui per lo più non è nemmeno consapevole. Lo
> scienziato è in effetti anche lui un credente: crede nel suo paradigma,
> spesso senza nemmeno saperlo. 2. Per il paradigma scientifico oggi
> dominante hanno rilievo solo i dati oggettivabili, misurabili,
> riproducibili. Ma secondo molti psicoterapeuti, forse la maggioranza, molti
> eventi significativi di una psicoterapia, forse i più significativi, non
> sono oggettivabili, né misurabili, né riproducibili. ...
> .... A monte dell'approccio scientifico è il "logos dell'occidente", più portato
> a dire che ad ascoltare, ... E' il logos del confronto "darwiniano" e di ogni logomachia.

Vuoi dire che i buoni, i "non credenti", sono solo quelli che come te amano Bion, Lacan e Heidegger, e che viceversa "ogni scienziato" è un dogmatico che per di più non sa di esserlo (ti ripeto che, in quanto Popperiano, io so di essere un credente, e che in Popper si ritrova persino una versione del vecchio "Credo ut intelligam" di S. Agostino)? Vuoi dire che da Bowlby o Popper o Lorenz o Weiss o Gabbard o Kandell non vengono mai "parole piene", ma solo parole vuote? O ancora, intendi che alcuni "scienziati" sono persone buone e parlano parole piene, ma la maggior parte degli altri sono biechi figuri (ammetto che possa essere e vero) e dunque non bisogna lasciarsi andare alla logomachia disdicevole che la scienza in sé determina (e qui sono in veemente disaccordo)? Oppure vuoi affermare che le "parole piene" della psicoterapia devono riguardare solo ciò che non è oggettivabile misurabile riproducibile? O ancora che i pochissimi "non credenti"(a questo punto davvero pochi, escludendo scienziati, uomini di fede, e psicoterapeuti che amano la scienza) costituiscono l'unica categoria a cui dovranno un giorno afferire i "veri" psicoterapeuti? Credo di no, credo che tu non voglia affermare alcuna di queste, perdona il termine, assurdità e sciocchezze. Perché allora una persona semplice, ma forse dotata di media intelligenza come me, è indotta in alcuni momenti a credere che tu possa aver voluto dire qualcosa del genere? Forse perché mi rispondi come se io avessi perorato la causa della scienza denigrando quella della poesia, della mistica o della religione, o affermato che allo psicoterapeuta è proibito interessarsi di mistica, di arte o di religione? Non solo non lo ho mai fatto, ma di sicuro in un'occasione durante i nostri scambi, e forse in più d'una, ho affermato esplicitamente la mia personale ammirazione per la mistica (e la filosofia, e l'arte etc.: e sì che sono uno psicoterapeuta "scientifico"....).

L'effetto finale del nostro dialogo per iscritto è che, a Milano, il 16 Marzo, durante il nostro dialogo a viva voce, parlerò avendo la certezza nel cuore da un lato di non riuscire a spiegarmi e dall'altro di essere poco ascoltato e male capito; inoltre, ascolterò con la certezza di non riuscire io a capire te ed altri (soprattutto quando si parla di cose ineffabili come "O" -- che paradosso parlare dell'ineffabile -- o di cose poco conosciute da molti di quelli che pure ne parlano, come l'evoluzionismo). Forse questa certezza della difficoltà estrema di noi umani a parlarci e a capirci è il modo ideale per il dialogo, e allora la nostra troppo lunga sequenza di lettere sarà servita a qualcosa. Speriamolo. Gianni

P.S.: Una tua affermazione che non avevo mandato giù, e a cui non avevo risposto per evitare ulteriori lungaggini,a questo punto mi torna in mente, e ormai non ho più ragioni di brevità per evitare di esprimere il mio disaccordo. Mi avevi scritto che certi atteggiamenti di rifiuto delle procedure scientifiche e della "medicalizzazione" della psicoterapia sono idee "selezionate" dalla stessa sopravvivenza degli psicoanalisti, che in maggioranza le intratterrebbero, e dunque vincenti rispetto alle idee ""pro-scientifiche" e "moderniste". Può darsi che ciò si dimostri vero, ma ti ricordo che i processi selettivi non avvengono nell'ambito di anni o decenni: ci vuole un poco di tempo. Per il momento, a proposito di vantaggi per a sopravvivanza della psicoanalisi offerti dalle suddette idee, suggerisco di riflettere sui recenti articoli che Kandell ha scritto sull'American Journal of Psychoanalysis, in cui lamenta che l'insegnamento della psicoanalisi è quasi del tutto scomparso dai corsi Universitari di Psichiatri e dalle Scuole di Specializzazione post-laurea delle Università Mediche Nordamaricane, in cui viceversa era dominante fino ad alcuni anni fa. Per rimediare a questo dramma, Kandell propone nei suoi aricoli un nuvo rapportto fra psicoanalisi e neuroscienze, dimostrando come la psicoanalisi potrebbe vitalizzare (oltre che esserne rivitalizzata) l'insegnamento universitario delle neuroscienze. Può darsi che Kandelle sbagli, ma certo non sembra così sicuro alla maggioranza degli psicoanalisti non italiani (penso ad esempioa Kachele, a Fonagy) che il disprezzo per il mondo medico e delle ricerca sia funzionale alla sopravvivenza della psicoanalisi.

Tullio Carere, 15 Febbraio 2002:

Cari Gianni e Paolo, vi ringrazio per le vostre risposte, davvero preziose. Già mentre scrivevo il mio ultimo intervento mi chiedevo se i miei argomenti sarebbero riusciti a facilitare il dialogo - mio unico obiettivo cosciente - o avrebbero alimentato un'ulteriore logomachia. Le vostre risposte risolvono il dubbio: se vogliamo riuscire a dialogare (e credo fermamente che lo vogliamo) non è questa la strada da percorrere. Non sarà con argomentazioni filosofiche sofisticate, o contrapponendo Bion, Heidegger e Lacan a Bowlby, Popper e Darwin, che faremo un solo passo avanti. Vi sono molto grato per avermi aiutato a capirlo una volta per tutte.

Curiosamente, mi sono trovato qualche mese fa su un'altra ML in una situazione analoga, ma a parti invertite: ero io a sostenere le ragioni della scienza, appoggiandomi a Kaechele, contro i colleghi che lanciavano bordate lacaniane (Sergio Benvenuto può testimoniarlo). Questo mi consente di enunciare la PRIMA LEGGE dei dibattiti tra psicoterapeuti: "Ogniqualvolta in un dibattito tra psicoterapeuti viene fatto il tentativo di affermare la supremazia dell'approccio scientifico, si genera nel gruppo una reazione in senso umanistico, e viceversa". E' una legge empiricamente verificabile nei dibattiti in rete, reperibili negli archivi dei siti web.

Permettetemi allora di provare una strada diversa. Il punto di partenza è per me sempre lo stesso: l'assunto che il (vero) dialogo richiede la sospensione di ogni assunto, salvo ovviamente questo. Ma invece che invocare la fede in O, o altri argomenti che, come abbiamo visto, ci portano dritti in un vicolo cieco, vi propongo questa volta un approccio pragmatico.

1. Una paziente arriva in seduta annunciando di essere incinta e dichiarando di essere intenzionata ad abortire. Avendo però osservato come altre donne, dopo aver abortito, sono state tormentate a lungo da sensi di colpa, vuole essere aiutata a prendere la decisione giusta. Può il terapeuta aiutarla? Non possiamo sapere se il terapeuta sarà all'altezza della situazione. Ma di una cosa possiamo essere certi: potrà fornire l'aiuto richiesto solo un terapeuta laico, cioè uno che ammette a priori che la decisione di abortire può essere giusta o sbagliata, a seconda delle circostanze. Se invece il terapeuta è un credente, convinto in partenza che l'aborto sia in ogni caso la soppressione di una persona umana, e quindi un delitto, potrà solo aiutare la paziente a prendere la decisione che per lui è giusta a priori, cioè quella di non abortire. Nel primo caso ci potrà essere un dialogo, reso possibile dal fatto che da entrambe le parti si rinuncia a conoscere in anticipo la decisione giusta; nel secondo solo un indottrinamento o un tentativo di conversione ai "veri valori".

2. Recentemente ho avuto con Owen Renik il seguente breve scambio, iniziato su una ML americana e proseguito privatamente:

I ask the following of Owen:

Carere: As you do not categorically exclude the possibilty of being photographed, painted, videotaped, etc. by a patient, I assume that by the same token you would not categorically exclude the possibilty of being touched by a patient. As a matter of fact, it is not seldom for a patient to express the wish or the need for bodily touch--while I have never come across a request of photographing or painting me. Would you say that anything goes in the session (with the obvious exclusion of sex and violence), as long as it is conducive either to a new (corrective) experience, or to the re-staging of an old one? Tullio Carere

Renik: Hi All! In answer to Tullio, I do not categorically exclude being touched by a patient, either. It seems to me that many of the decisions being considered about what to do or not do with patients are ones that can and should be made on ordinary grounds (common sense, decency, courtesy, etc.) rather than as matters of psychoanalytic principle. Best, Owen

Carere: Hi Owen! Thank you for your reply. I am very much in agreement with your point that "the decisions being considered about what to do or not do with patients are ones that can and should be made on ordinary grounds (common sense, decency, courtesy, etc.) rather than as matters of psychoanalytic principle." Among "ordinary grounds" I assume you include different kinds of patients' needs. As you are surely not the sort of analyst who thinks that all the patients need are "good interpretations", I wonder if you just rely on common sense, to identify the basic patients' needs (and the basic ways to meet them in a therapeutic relationship) or if you have something like a map to orient yourself in the therapeutic field. Best, Tullio

Renik: Hi Tullio! I guess I'd say that I rely on my best judgment, in the ordinary sense-- not
upon any arcane psychoanalytic principles. I'd hasten to add, though, that
my ordinary best judgment is inevitably idiosyncratic and flawed (like every
other analyst's) which is why it's crucial that there be ground rules for the
analytic relationship that permit my patient an authoritative voice in the
proceedings. Then, we can negotiate our modus operandi collaboratively. Best, Owen
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La discussione era partita dal fatto che Gabbard aveva ricevuto degli e-mail erotici da una paziente che aveva in analisi, li aveva stampati, portati in seduta e letti ad alta voce, con l'intento di portare all'interno della seduta dei vissuti che fino a quel momento la paziente era riuscita a comunicare solo per e-mail. Se un analista come Gabbard, forse il massimo esperto mondiale di "boundary violation", si permette azioni non convenzionali come questa, vuol dire che molte altre azioni in linea di principio possono essere ritenute terapeutiche - come ad esempio quelle ipotizzate da Renik. Ma come decidere se un'azione è lecita e giusta o no?

Se il criterio è il credo del terapeuta, un analista credente e praticante non ammetterebbe mai un contatto fisico con il, e soprattutto la, paziente; mentre un terapeuta con un altro tipo di credo (per esempio quello dell'"abbraccio terapeutico") accetterrebbe il contatto senza esitare (entrambi potrebbero citare molti lavori scientifici a sostegno dei rispettivi credo). Invece un terapeuta laico (cioè non credente) come Renik non acconsente incondizionatamente né esclude categoricamente: ascolta il proprio "giudizio ordinario" ma, ben sapendone la fallacia, dà ugualmente credito al giudizio del o della paziente. Sospendendo la certezza nella verità del proprio giudizio (sia personale che di scuola), apre lo spazio per il dialogo, in cui paziente e terapeuta possono "negoziare i loro modi operandi collaborativamente". (Sarà forse superfluo ricordare che per il terapeuta credente il modus operandi non è negoziabile, ma è stabilito dalla teoria, se non dal manuale, del terapeuta).

Lo *spirito laico* è l'atteggiamento mentale in cui da un lato non si dà nulla per scontato, dall'altro si ha fiducia nel potere del dialogo di portare alla luce quelle verità di cui nessun credo e nessuna teoria possono appropriarsi. Nei due casi riportati, solo il dialogo paziente/terapeuta permetterà di stabilire con ragionevole certezza se l'aborto è o non è la decisione giusta (il male minore), e se un contatto fisico può o non può favorire il processo terapeutico. Analogamente, solo tra terapeuti disposti a sospendere il giudizio sulla supremazia del proprio approccio (psicoanalitico o comportamentale, scientifico o umanistico) può stabilirsi quel dialogo terapeutico (non dovrebbe essere terapeutico per eccellenza il dialogo tra terapeuti?) che solo lo spirito laico, mi sembra, può ispirare.

Augurandomi che sia questo lo spirito che alla fine soffierà a Milano, vi ringrazio ancora una volta per la vostra appassionata partecipazione, che è servita a sgomberare il campo da diversi malintesi e a preparare il terreno per l'inizio del vero dialogo da cui, credo, non siamo ormai più tanto lontani. Tullio

Mario Rossi Monti, 17 Febbraio 2002:

Leggo con piacere l'ultimo intervento di Tullio Carere. Ho seguito (in "colpevole" silenzio) il dibattito; silenzioso ma attento. E, accanto alla enorme ricchezza di spunti toccati, ero rimasto però colpito (e anche un po' perplesso) dalle deriva epistemologica che inevitabilmente assumeva. Come se, più che di parlare di integrazione, analogie, differenze tra vari approcci alla psicoterapia, si finisse per assumerci noi il compito di una rifondazione della epistemologia su larga scala. Compito improbo e improbabile. Soprattutto per noi, che al di là delle legittime aspirazioni di ciascuno, lavoriamo di fatto con una epistemologia debole, della quale vediamo svantaggi (ma anche qualche vantaggio) tutti i giorni. Mi sembra che l'intervento di Tullio ri-centri il problema, sottraendoci ad una aspirazione sovradimensionata che ci allontana da ciò che potremmo effettivamente scambiarci in tema di psicoterapia. Restaurando uno "spirito laico", mi pare una ottima introduzione al congresso che ci aspetta. Mario Rossi Monti

Tullio Carere, 17 Febbraio 2002:

Caro Paolo, che cosa ne pensi di quella che ho (scherzosamente, ma non troppo) chiamato la Prima legge del dibattito tra di noi? Mi sembra un enunciato popperianamente falsificabile. Se bene intendo la logica popperiana, cui mi pare tu e Gianni (cui mando in copia questo messaggio) siete particolarmente legati, un enunciato falsificabile si deve considerare provvisoriamente vero, finché non sia stato falsificato. Se non troviamo il modo di falsificarlo (io non lo trovo), non dovremmo quindi per il momento accettarlo, e quindi uscire dalla sterile contrapposizione scientifico/umanistica per accedere al terreno del dialogo che si apre quando quella contrapposizione è superata? Non ti (vi) sembra che l'obiettivo del convegno sia precisamente questo: trovare un terreno comune su cui incontrarci e costruire una minima capacità di intesa? Tullio

Giovanni Liotti, 18 Febbraio 2002:

Caro Tullio, Concordo col tuo semiserio principio, che ci si può attendere almeno una risposta a favore della ricerca se si parla di ermeneutica ad un uditorio di psicoterapeuti, ed almeno una risposta a favore dell'ermeneutica se si parla dell'importanza della ricerca in psicoterapia. Immaginavo persino che questa osservazione potesse identificare una polarità dialettica centrale nella situazione attuale delle psicoterapie, visto che quello dell'ermeneutica (postmoderna?) e quello della scientificità (modernista?) sembrano due partiti trasversali che attraversano tutte le diverse tradizionali Scuole di psicoterapia. Pensavo che intorno a questa tensione dialettica si potesse articolare il nostro discorso a Milano, ma non è stato così.

Non ho alcuna (sottolineo "ALCUNA") obiezione ad attribuire priorità al dialogo rispetto agli altri nostri assunti (assunti che però non credo possiamo "sospendere", ma solo, appunto, subordinare all'intenzione di ascoltarci). Sono però scettico sul fatto che possiamo capirci, prima ancora che identificare un accordo, se dialoghiamo solo sull'importanza fondamentale del dialogo (potremmo chiamarlo "metadialogo"?). E ammesso che ci capiamo e ci accordiamo attraverso il metadialogo, dubito che questo accordo, fra due o tre di noi quattro gatti che si incontreranno a Milano, faccia avanzare di anche un solo piccolo passo il processo concreto di integrazione delle psicoterapie che secondo me è iniziato nel vasto mondo (anche se forse non all'interno della SEPI).

Provo a spiegare con una allusione perché non ho grande fiducia nel metadialogo come terreno comune per lo studio dell'integrazione delle psicoterapie. Dunque: ammiro il pensiero di Buber (credo che in fondo il mio libro "La dimensione interpersonale della coscienza" sia frutto della lettura di Buber ancor più che di quella di Popper, o di Bowlby). Però non credo che gli psicoterapeuti si troveranno un giorno a scegliere il principio dialogico di Buber come fondamento per la loro prassi, o per la ricerca di un terreno comune su cui edificare una "psicoterapia senza aggettivi". Se non altro, perché Buber non ci dice, non può dirci, in quale diverso modo è bene affrontare disturbi fra loro diversi (quanto sono diversi, che so, un disturbo ossessivo-compulsivo ed un disturbo borderline di personalità).

Anche io intendevo parlare di integrazione delle psicoterapie attraverso alcuni esempi concreti, pur se molto diversi da quello del toccare i pazienti o del dialogare con una paziente sul dubbio se abortire o no. Sono esempi, i miei, di situazioni in cui ho personalmente visto psicoterapeuti di diversa formazione comprendersi ed accordarsi e lavorare in modo che diveniva via via sempre più simile. Una di queste situazioni la ho incontrata parlando con psicoterapeuti interessati alla teoria dell'attaccamento. Un'altra parlando con psicoterapeuti interessati alla control-mastery theory. Credo che a Milano ve le racconterò, queste due situazioni, nel modo più semplice possibile. Spero che altri portino esempi analoghi (e diversi dai miei, naturalmente).

Forse se osserviamo alcuni limitati esempi concreti di come psicoterapeuti di diversa formazione siano arrivati ad alcuni accordi, e se ne diamo testimonianza, possiamo contribuire ad alimentare la speranza (o il timore) che il processo di integrazione sia già cominciato, magari senza fanfare e senza proclami su come esso debba o non debba avvenire. D'altro canto, più di questo, sul nostro tema, non sarei capace di dire e non riesco a pensare. Forse ti interesserà sapere che è in fase di avanzata progettazione un "Textbook of psychotherapy", a cura di uno psicoanalista, un terapeuta cognitivista ed uno psicoterapeuta di Scuola umanistico-esistenziale, tutti e tre internazionalmente assai noti. I tre curatori intendono garantire che ogni capitolo tratti in modo unitario la psicoterapia di ogni singolo disturbo elencato dal DSM-IV, integrando nella descrizione del trattamento contributi psicoanalitici, cognitivisti e di altro orientamento. Il prerequisito per tale confronto-integrazione è che i contributi psicoanalitici, cognitivisti e di altro orientamento SIANO SUFFRAGATI DA "EVIDENCES". Le "evidences" non riguardano ovviamente solo gli outcome studies, ma anche il consenso fra i terapeuti esperti di un determinato disturbo, e soprattutto i punti chiave dei modelli psicopatologici su cui un intervento è basato rispetto alle attuali conoscenze offerte dalle neuroscienze, dalla ricerca psicologica di base, dalla ricerca epidemiologica e sui fattori di rischio, ecc. Il progetto dei tre curatori, ognuno dei quali fornirà apporti per la propria area teorico-clinica agli estensori dei singoli capitoli che afferiscano ad una diversa area, è descritto in una lettera agli estensori dei vari capitoli (a me hanno proposto quello sui disturbi dissociativi). Nella lettera si afferma che, a giudizio dei curatori e dei responsabili della prestigiosa collana in cui il textbook sarà pubbicato, i tempi sono ormai maturi per una tentare una tale prima operazione sistematica di confronto ed integrazione fra diversi modi di affrontare la psicoterapia, proprio perché sono ormai state raccolte "evidences" sufficienti a creare un almeno iniziale consenso su cosa, nello studio della genesi e della cura psicologica di ogni singolo disturbo, è utile e sensato, e cosa meno. Secondo me si tratta di un piccolo ma interessante passo nella direzione dell'integrazione. Tuttavia, per non creare occasioni di irritato rifiuto al dialogo fra la maggioranza degli psicanalisti (italiani?) che vedono di cattivo occhio, come tu scrivi, la "medicalizzazione" della psicoterapia, stai pur certo che a Milano eviterò il benché minimo cenno a questo progetto di Textbook, così disdicevolmente connesso al DSM e all'evidence based psychotherapy. Come vedi, ne parlo solo in questa lettera indirizzata a Paolo e a te, mentre non ne ho fatto alcun cenno nelle lettere rivolte a tutta la lista. Intuivo, anche prima che tu me ne scrivessi esplicitamente, che a qualcuno sarebbe potuto apparire, questo accenno al Textbook, come motivo per abbandonare ogni interesse per incontri come quello di Milano, e l'ultima cosa al mondo che desideravo era creare ostacoli a questo incontro. Gianni Liotti

Tullio Carere, 20 Febbraio 2002:

At 1:27, 18-02-02, Giovanni Liotti wrote:
>Caro Tullio, ... concordo col tuo semiserio principio, che ci si può attendere almeno una
>risposta a favore della ricerca se si parla di ermeneutica ad un uditorio di
>psicoterapeuti, ed almeno una risposta a favore dell'ermeneutica se si parla
>dell'importanza della ricerca in psicoterapia. Immaginavo persino che questa
>osservazione potesse identificare una polarità dialettica centrale nella situazione
>attuale delle psicoterapie, visto che quello dell'ermeneutica (postmoderna?) e
>quello della scientificità (modernista?) sembrano due partiti trasversali che
>attraversano tutte le diverse tradizionali Scuole di psicoterapia. Pensavo che
>intorno a questa tensione dialettica si potesse articolare il nostro discorso a Milano

Caro Gianni, questo è stato a mio parere un momento molto importante del dibattito, ma mi sembra che purtroppo non siamo riusciti a coglierlo. Se rileggi la risposta di Benvenuto, come ho fatto io, forse vedi quello che ho visto io: che non è la "dialettica" che ha rifiutato, bensì il "dualismo", che è cosa diversa. Io ritengo che la terapia (quella "buona") oltre che dialogica debba essere anche dialettica: ma bisogna intendersi sul significato del termine. Articolare una dialettica che in prima approssimazione possiamo chiamare "scientifico-ermeneutica" vorrebbe dire, nel senso comunemente (e filosoficamente) attribuito a questa espressione, riconoscere che il campo della terapia ha un polo scientifico e un polo ermeneutico, entrambi legittimi e necessari; qualcuno potrà sentirsi più vicino all'uno o all'altro polo, ma dovrà integrare anche l'altro, se vorrà essere un terapeuta, appunto, "dialogico-dialettico", e non "scolastico" (vedi il lavoro che vi ho mandato qualche mese fa: "Towards a new paradigm: Dialogic-dialectical versus scholastic psychotherapy").

Se, oltre alla risposta di Benvenuto, rileggo anche il tuo intervento che l'ha provocata, capisco meglio la risposta: in effetti tu non proponevi un'articolazione dialettica tra scienza ed ermeneutica nel senso specificato sopra, ma precisamente quel dualismo che Benvenuto ha rifiutato. E' come se tu dicessi: il campo è diviso tra scienziati ed ermeneuti, vediamo quale dei due gruppi è in grado di favorire un processo integrativo (sottinteso: solo l'approccio scientifico è integrativo, gli ermeneuti, col loro pensiero debole, non possono che essere disintegrativi). Benvenuto ha risposto: se fosse vero che il campo è diviso in questi due schieramenti, io non vorrei stare né da una parte né dall'altra, ma con quell'esigua minoranza che rifiuta questo dualismo, che è sbagliato perché vuole separare due componenti entrambe necessarie alla psicoterapia. Su questo non posso che essere d'accordo con lui. L'ermeneutica di per sé non è disintegrativa, ma questo dualismo lo è. E' integrativa la dialettica, ma è disintegrativo il dualismo.

>Provo a spiegare con una allusione perché non ho grande fiducia nel metadialogo
>come terreno comune per lo studio dell'integrazione delle psicoterapie. Dunque:
>ammiro il pensiero di Buber (credo che in fondo il mio libro "La dimensione
>interpersonale della coscienza" sia frutto della lettura di Buber ancor più che di
>quella di Popper, o di Bowlby). Però non credo che gli psicoterapeuti si troveranno
>un giorno a scegliere il principio dialogico di Buber come fondamento per la loro
>prassi, o per la ricerca di un terreno comune su cui edificare una "psicoterapia
>senza aggettivi". Se non altro, perché Buber non ci dice, non può dirci, in quale
>diverso modo è bene affrontare disturbi fra loro diversi (quanto sono diversi, che
>so, un disturbo ossessivo-compulsivo ed un disturbo borderline di personalità).

Per il terapeuta dialogico la diagnosi non è irrilevante, ma è sicuramente molto meno significativa di quanto pensano coloro che auspicano un'evoluzione verso una psicoterapia "scientifica", che spazzerà via le attuali ciarlatenerie come la medicina scientifica ha spazzato via la pseudomedicina inutile e dannosa dei secoli passati. A molti terapeuti il punto finale di questa evoluzione, in cui ad ogni casella del DSM-X corrisponderà un trattamento empiricamente validato, sembra uno scenario da incubo. Ma forse questo stesso incubo l'hanno avuto anche i vecchi medici, all'incalzare impetuoso della medicina scientifica che faceva crollare i loro miti. E quindi le resistenze degli attuali psicoterapeuti all'avanzata della psicoterapia empiricamente validata potrebbero avere lo stesso significato, di difesa di posizioni indifendibili. Forse è così. Anzi, mi sembra probabile che almeno una parte di queste resistenze abbia proprio questo significato, di difesa di posizioni scolastiche e corporative che non hanno la minima possibilità di reggere al vaglio della prova. Ma il rifiuto di questo tipo di "evoluzione" (evidence-based) ha anche ben altre, e ben più serie, motivazioni.

Molti studiosi (ad esempio Bohart, 2000) contestano l'applicazione del modello medico alla psicoterapia proprio sulla base dei dati forniti dalla ricerca. Secondo questo modello, la psicoterapia è il trattamento di condizioni patologiche, come quelle elencate dal DSM-IV, mediante la somministrazione di procedure la cui efficacia deve essere validata empiricamente mediante trial clinici randomizzati controllati. Ora, sostengono questi studiosi, proprio i dati della ricerca sulle psicoterapie contraddicono questo modello. Primo, il verdetto di Dodo contraddice l'idea che nella maggior parte dei casi trattamenti differenti producono effetti differenti (e gli studi di efficacia citati per contestare il verdetto di Dodo sono irrilevanti per la pratica clinica: Jacobson, 1999). Secondo, solo una parte minore, non superiore al 15%, nella varianza dell'esito è attribuibile alle tecniche specifiche del trattamento, mentre il 40% è dovuto al cliente e a fattori indipendenti dalla terapia, il 30% a fattori comuni, soprattutto relazionali, e il 15% per cento a effetti placebo (Lambert, 1992). Terzo, gli studi hanno chiarito che la perizia (expertise) e l'addestramento dei terapeuti producono solo una differenza modesta sull'esito (mentre nel caso di chirurghi o elettricisti questa differenza è molto grande). Quarto, diversi studi hanno mostrato che i clienti che usano testi di auto-aiuto non se la cavano peggio di quelli che vanno da un terapeuta, e che tra i libri o le procedure impiegate non si notano differenze significative quanto all'efficacia (conferma del verdetto di Dodo). Insomma, conclude Bohart, "l'evidenza che sono i terapeuti con le loro potenti tecniche a fare la terapia è scarsa. Una spiegazione molto più plausibile è che la forza risanativa della terapia viene primariamente dal lato della 'variabile dipendente' dell'equazione: il cliente".

Proprio basandosi sui dati della ricerca, afferma Bohart, la logica del modello medico (il trattamento --> opera sul paziente --> per produrre effetti) deve essere rovesciata in quella effettivamente operante nella realtà clinica (il cliente --> opera su trattamenti e procedure --> per produrre effetti). Una terapia basata su questa logica, pertanto, deve abbandonare il malinteso sforzo di incasellare i pazienti in categorie diagnostiche per poi somministrare loro i trattamenti corrispondenti, per favorire al contrario lo stabilirsi di relazioni terapeutiche basate su collaborazione e dialogo. In un commento al lavoro di Bohart (Carere-Comes, 2001), io ho proposto un'ulteriore modifica dello schema: "il processo-->opera su terapeuta e paziente-->per produrre effetti", che corrisponde a una visione più equilibrata di una relazione cui paziente e terapeuta contribuiscono ciascuno per la sua parte. Bohart ha risposto che è d'accordo, e che l'enfasi sul ruolo del paziente serve per lui solo a bilanciare l'enfasi contraria che è sempre stata messa sul ruolo del terapeuta. Sulla sostanza, invece, siamo perfettamente d'accordo: "La terapia è il processo del dialogo, piuttosto che la prescrizione di trattamenti da parte di un terapeuta esperto" (Bohart, 2001).

L'appello al dialogo, quindi, non è da intendersi come un richiamo generico e vagamente sentimentale, ma come l'indicazione del terreno fondamentale, o della sostanza stessa della psicoterapia. E come è proprio la ricerca scientifica a mostrare la necessità di questo fondamento, sarà ancora la ricerca scientifica a evidenziare nel modo più oggettivo possibile che cosa avviene in una relazione basata sul dialogo, piuttosto che sull'applicazione di una teoria o un manuale. Qui si aprirebbe il discorso sui fattori comuni, che non apro per non farla troppo lunga. Per ora mi premeva solo obiettare alla tua convinzione che il principio dialogico non possa essere un fondamento per la prassi psicoterapeutica, o per la ricerca di un terreno comune. Per me la posizione basilare e fondativa del dialogo non ha bisogno di essere validata scientificamente (dal momento che solo la comunicazione basata sulla sospensione o messa in gioco di tutti i presupposti coscienti può fare emergere il logos proprio di ogni relazione, rispetto al quale tutti gli altri logoi, incluso quello scientifico, sono derivati [Husserl]): tuttavia il fatto che anche i dati della ricerca scientifica confermano la necessità di mettere il dialogo, e non il modello medico, a fondamento della psicoterapia, può facilitare l'intesa tra di noi - almeno tra quanti, di noi, riconoscono nella ricerca scientifica un terreno meno impervio di altri su cui provare a confrontarsi. Tullio

Giovanni Liotti, 21 Febbraio 2002:

Caro Tullio, ripeto che concordo (mi sembra ovvio) sull'importanza sovraordinata del dialogo. Mi sembra ovvio, dico, visto che il dialogo è l'essenza stessa della psicoterapia. Penso però che non basti affermare, con dovizia di argomentazioni antropologico-filosofiche, tale importanza ESSENZIALE, ma che la forma del dialogo efficace vada specificata con la massima precisione possibile. E credo che un buon metodo per scegliere tale forma debba tener conto tanto del tipo di disturbo quanto della ricerca di base sulle relazioni umane (ad esempio della ricerca etologica sui tipi fondamentali di interazione: attaccamento, competizione, cooperazione fra pari, esplorazione, sessualità, gioco sociale; oppure dalla ricerca sullo sviluppo delle motivazioni alla relazione, come nella teoria multimotivazionale di Lichtenberg: attaccamento-affiliazione, avversione-ritiro, ricerca di piacere sensual-sessuale, esplorazione-autoaffermazione, regolazione dei bisogni omeostatici).

Credi davvero che il "verdetto dodo" valga, tanto per fare i soliti esempi, per il disturbo borderline, per il disturbo bipolare, per il disturbo ossessivo-compulsivo, per il disturbo da attachi di panico, per l'anoressia nervosa? Su quali basi lo credi? Le ricerche che citi lo affermano? Mi interesserebbe molto se fosse così. Però per adesso prendo atto che tu dici:

Tullio Carere ha scritto:
> Molti studiosi (ad esempio Bohart, 2000) contestano l'applicazione del
> modello medico alla psicoterapia proprio sulla base dei dati forniti dalla
> ricerca. ... Primo, il verdetto di dodo contraddice l'idea
> che nella maggior parte dei casi trattamenti differenti producono effetti
> differenti .... Insomma, conclude Bohart, "l'evidenza che sono i terapeuti con
> le loro potenti tecniche a fare la terapia è scarsa. Una spiegazione molto più
> plausibile è che la forza risanativa della terapia viene primariamente dal
> lato della 'variabile dipendente' dell'equazione: il cliente".

Tu dici "nella maggior parte dei casi trattati". Tutti i casi considerati insieme? Dai problemi esistenziali allle difficoltà coniugali all'agorafobia alla schizofrenia? Può darsi che se si ragiona così si arrivi al "verdetto di dodo", ma mi sembra evidente quale problema si nasconda dietro questo ragionamento. Lo stesso che c'era dietro la vecchia famosa ricerca di Eysenck, che affermava che l'essere in lista di attesa per un trattamento giovava (lievemente) di più della effettiva esperienza di un trattamento psicoanalitico. Presumibilmente, Eysenck pervenne a questo risultato perché a molti dei pazienti in lista di attesa i disturbi (minori) passavano da soli, mentre i trattamenti (alcuni almeno mal condotti, perché guidati da teorie malefiche, grazie al cielo falsificate dalla ricerca, come quella che i bisogni di attaccamento sono secondari al soddisfacimento di una primaria "libido") producevano presumibilmente anche alcuni effetti iatrogeni, il che rendeva il trattamento effettivo perdente rispetto all'attesa del trattamento. Le cose cambiano molto se però ti chiedi quanti pazienti ossessivi, ad esempio, stanno meglio dopo un anno di lista di attesa rispetto a quanti pazienti ossessivi stanno meglio dopo un anno di terapia cognitivo-comportamentale (guarda che questo è solo un esempio, non un'affermazione della certa meravigliosa efficacia-efficienza della terapia cognitiva del DOC).

Concordo invece sull'importanza della variabile "paziente" nel processo di cura. Tanto concordo, che apprezzo assai la ricerca effettuata dal San Francisco Psychotherapy Research Group, la quale dimostra appunto come il paziente porti al vaglio del dialogo terapeutico le proprie credenze patogene (la cosiddetta situazione di "Test" della control-mastery theory), con il Piano inconscio di permettere al terapeuta di confutarle. Identificare in anticipo le più comuni credenze patogene corrispondenti a diversi tipi di disturbo (elencati dai difettosissimi ma necessari manuali diagnostici) è un interessante compito della ricerca, e potrebbe permettere al terapeuta di muoversi meglio nelle situazioni di "Test". Insomma, si può concordare sulla importanza centrale delle variabili legate al paziente, e al tempo stesso affrontare il problema con una mentalità scientifica e di ricerca controllata. Tanto si può, che in effetti è stato fatto in una delle due situazioni con cui mi sarebbe piaciuto esemplificare il valore del metodo scientifico in psicoterapia: la ricerca che ha condotto alla formulazione della control-mastery theory.

Dirò di più: l'importanza centrale delle variabili legate al paziente nel processo terapeutico costituisce la base "filosofica" stessa delle cure mediche, e ciò almeno dai tempi di Ippocrate. Ricordi la storia della "vis medicatrix naturae", che è compito del medico identificare ed aiutare? La medicina si distingueva dalla chirurgia proprio su questa base: il medico (appoggiandosi sulla ricerca scientifica) deve aiutare la vis medicatrix naturae, mentre il chirurgo opera con forza propria indipendentemente da tale "vis". Il tutto è ben racchiuso nel motto di Ambroise Parè, a cui molti riconducono la nascita della medicina moderna: "Io lo ho bendato, e Dio lo ha guarito". Quindi Bohart parla del tutto impropriamente di "modello medico", nel tuo passaggio che qui copio:

> Proprio basandosi sui dati della ricerca, afferma Bohart, la logica del
> modello medico (il trattamento-->opera sul paziente-->per produrre effetti)
> deve essere rovesciata in quella effettivamente operante nella realtà
> clinica (il cliente-->opera su trattamenti e procedure-->per produrre effetti).

Il modello "trattamento che opera sul paziente per produrre effetti" è, nella storia e nella filosofia della medicina, il modello chirurgico, non quello medico, che viceversa, nella sua filosofia di base, mira a potenziare le risorse del paziente e ad allearsi ad esse nel processo di guarigione. Questo è quanto, del tutto esplicitamente, fa il terapeuta che si basa sulla teoria dell'attaccamento, o sulla control-mastery theory (per continuare a riferirmi ai miei due esempi favoriti di "trattamento fondato su dati di ricerca scientifica"). E la diagnosi psichiatrica, in quest'ottica, è una guida per "aiutare la vis medicatrix naturae", perché contribuisce ad identificare lo specifico modo, diverso da sindrome a sindrome, in cui questa "vis" è ostacolata dallo specifico disturbo (la specifica "credenza patogena" della control-mastery theory, lo specifico modello operativo interno di attaccamento insicuro della teoria dell'attaccamento).

Come vedi, continuo ad avere l'impressione che quanto cerco di affermare nel nostro dialogo è spesso assimilato dal mio interlocutore a posizioni che NON sono quelle che difendo. Parlo di metodo scientifico, e mi accorgo che il mio interlocutore intende "quello che porta la gente ad affermare di conoscere la verità", mentre io intendo l'esatto contrario. Parlo di modello medico, e il mio interlocutore intende "quello che porta il terapeuta a NON considerare la tendenza a guarire che è intrinseca al paziente", mentre io intendevo dire l'esatto contrario. Riconosco però che sul tema "Scienza- Ermeneutica" pensavo ad uno scontro fra posizioni interessanti, non ad un amichevole integrativo confronto, e dunque è bene che la mia proposta sia stata rifiutata se, come mi spieghi, non si crede che anche la polemica possa contribuire al dialogo ed entrare a far parte della dialettica (e può darsi davvero che su questo tu abbia ragione). E riconosco anche che, sia pure con grande sforzo, siamo forse riusciti a cominciare, almeno un pochino, a dissipare alcuni clamorosi malintesi. Gianni.

Tullio Carere, 23 Febbraio 2002:

At 1:49, 21-02-02, Giovanni Liotti wrote:
>Caro Tullio, ... ripeto che concordo (mi sembra ovvio) sull'importanza sovraordinata del
>dialogo. Mi sembra ovvio, dico, visto che il dialogo è l'essenza stessa della
>psicoterapia. Penso però che non basti affermare, con dovizia di argomentazioni
>antropologico-filosofiche, tale importanza ESSENZIALE, ma che la forma del dialogo
>efficace vada specificata con la massima precisione possibile. E credo che un buon
>metodo per scegliere tale forma debba tener conto tanto del tipo di disturbo quanto
>della ricerca di base sulle relazioni umane (ad esempio della ricerca etologica sui
>tipi fondamentali di interazione: attaccamento, competizione, cooperazione fra
>pari, esplorazione, sessualità, gioco sociale; oppure dalla ricerca sullo sviluppo
>delle motivazioni alla relazione, come nella teoria multimotivazionale di
>Lichtenberg: attaccamento-affiliazione, avversione-ritiro, ricerca di piacere
>sensual-sessuale, esplorazione-autoaffermazione, regolazione dei bisogni omeostatici).

Caro Gianni, sull'importanza del dialogo sono d'accordo tutti, persino chi, come il papa, è convinto di avere un accesso privilegiato alle verità eterne. Il disaccordo comincia quando si tratta di precisare che cosa si intende con questa parola. Infatti io non sono d'accordo con te, quando auspichi che "la forma del dialogo efficace vada specificata con la massima precisione possibile". Per me il dialogo efficace è al contrario quello la cui forma non è specificata affatto, e che proprio per questo potrà prendere la forma (imprevista e imprevedibile) che l'incontro irripetibile tra due persone genera, quando non è costretto a prendere quella prevista dalla teoria del terapeuta.

Questo non toglie che il terapeuta sia tenuto a conoscere i "tipi fondamentali di interazione", per quanto ne sappiamo dalla ricerca di base sulle relazioni umane, ma soprattutto dallo studio naturalistico delle relazioni terapeutiche (studio dei fattori comuni). E' infatti molto importante, secondo me, che il terapeuta disponga di una mappa dei bisogni di base che i pazienti portano nella relazione, e dei ruoli fondamentali che il terapeuta è portato ad assumere per rispondere a questi bisogni. Ma una mappa è solo uno strumento, sempre provvisorio e imperfetto, per orientarsi nella relazione, non un modello cui la relazione si deve conformare. In altre parole: va benissimo disporre di ogni sorta di schemi, teorie, modelli che descrivono i tipi fondamentali di interazione (servono per un primo inquadramento), a patto di saperli mettere da parte per capire che cosa sta davvero succedendo in questo momento con questa persona, e che cosa dobbiamo fare momento per momento. Se parliamo con qualcuno e ci accorgiamo che il nostro interlocutore non ci sta veramente a sentire, ma ci sta solo incasellando nei suoi schemi (per quanto dotti, per quanto scientifici), per portarci dove i suoi schemi prevedono che dobbiamo andare, non siamo molto contenti, no? Allo stesso modo non è contento il paziente, se trova un terapeuta che si muove nella relazione in questo modo.

>Credi davvero che il "verdetto Dodo" valga, tanto per fare i soliti esempi, per
>il disturbo borderline, per il disturbo bipolare, per il disturbo ossessivo-compulsivo,
>per il disturbo da attacchi di panico, per l'anoressia nervosa? Su quali basi lo credi?

Mi pare che tu contesti il verdetto di Dodo perché pensi che certe terapie siano più efficaci di altre nel trattamento di determinati disturbi. Per esempio, pensi che la terapia cognitivo-comportamentale sia più efficace della psicoanalisi nel trattamento del DOC. Ma esiste davvero una "terapia cognitivo-comportamentale" o una "psicoanalisi"? Come trattamenti manualizzati, certo. Se tu vuoi dire che il trattamento manualizzato cognitivo-comportamentale è più efficace del trattamento manualizzato psicoanalitico nella cura del DOC, d'accordo. Ma ti riferisci agli studi di efficacia, la cui corrispondenza con la realtà clinica è ritenuta molto bassa o nulla. Che cosa succede nella realtà clinica? Io cito spesso la ricerca di Topeka, il PRP della Menninger Foundation. Questa ricerca è poco citata dagli psicoanalisti, perché ha dato un risultato imbarazzante. Essendo stata condotta in un contesto naturalistico, cioè su trattamenti non manualizzati, ma definiti "psicoanalitici" o "psicoterapeutici" secondo i criteri correnti, ha permesso di scoprire che i primi ("psicoanalitici") erano praticamente indistinguibili dai secondi ("psicoterapeutici"). Gli psicoanalisti hanno versato fiumi di inchiostro per dimostrare una differenza a loro dire capitale, in realtà inesistente.

Quindi, nella realtà clinica la psicoanalisi è pressoché indistinguibile dalla psicoterapia analitica. Ma tu credi che la psicoterapia analitica come è realmente svolta oggi, cioè come è andata evolvendo in funzione delle "contingenze rinforzanti" (Jacobson), sia molto differente da qualsiasi psicoterapia non-analitica? Queste differenze possono essere marcate nei terapeuti principianti, che per insicurezza si attengono alle istruzioni delle rispettive scuole, ma sono sempre più tenui e tendono a scomparire quanto più aumenta l'esperienza del terapeuta (Fiedler). Dunque, bisognerebbe decidere. O ci basiamo sugli studi di efficacia, e allora nella terapia reale ci atteniamo rigidamente al manuale (cosa che nessuno per fortuna fa, e se lo facesse commetterebbe abuso teoretico: Basseches). Oppure abbandoniamo l'idea infondata che esistano nella realtà (non in laboratorio) "trattamenti diversi che producono risultati diversi".

Con questo non intendo dire che gli studi di efficacia siano inutili. Penso che possano essere utili, ma non per dimostrare che la terapia A è più efficace della terapia B nel trattamento del disturbo C - dal momento che i protocolli dei trial clinici randomizzati non hanno nulla a che vedere con la terapia reale sul campo. Gli studi di efficacia possono essere utili invece per mostrare che la tecnica A si è dimostrata efficace nel trattamento del disturbo B, e quindi se nel corso di una terapia reale si presenta una situazione che assomiglia al disturbo B, si potrà considerare l'applicazione della tecnica A, con tutte le cautele del caso. Non più di così.

>Dirò di più: l'importanza centrale delle variabili legate al paziente nel
>processo terapeutico costituisce la base "filosofica" stessa delle cure mediche, e
>ciò almeno dai tempi di Ippocrate. Ricordi la storia della "vis medicatrix
>naturae", che è compito del medico identificare ed aiutare? La medicina si
>distingueva dalla chirurgia proprio su questa base: il medico (appoggiandosi sulla
>ricerca scientifica) deve aiutare la vis medicatrix naturae, mentre il chirurgo
>opera con forza propria indipendentemente da tale "vis". Il tutto è ben racchiuso
>nel motto di Ambroise Parè, a cui molti riconducono la nascita della medicina
>moderna: "Io lo ho bendato, e Dio lo ha guarito"...
>Il modello "trattamento che opera sul paziente per produrre effetti" è, nella
>storia e nella filosofia della medicina, il modello chirurgico, non quello medico,
>che viceversa, nella sua filosofia di base, mira a potenziare le risorse del paziente 
>e ad allearsi ad esse nel processo di guarigione. Questo è quanto, del tutto esplicitamente,
>fa il terapeuta che si basa sulla teoria dell'attaccamento, o sulla control-mastery theory

Curiosamente il famoso motto di Paré è usato in ambito psicoanalitico come emblema dell'atteggiamento chirurgico, freddo e distaccato: "Non raccomanderò mai con troppa insistenza ai colleghi di prendersi a modello durante il trattamento analitico il chirurgo, il quale mette da parte tutti i suoi affetti e persino la sua umana pietà nell'imporre alle proprie forze intellettuali un'unica meta: eseguire l'operazione nel modo più corretto possibile... La giustificazione di tale freddezza emotiva che si richiede all'analista riposa sul fatto che essa crea le condizioni più vantaggiose per entrambe le parti: per il medico l'auspicabile salvaguardia della propria vita affettiva, per il malato il massimo d'aiuto che possiamo dargli. Un chirurgo del passato aveva preso per suo motto le parole: Je le pansai, Dieu le guérit. L'analista dovrebbe accontentarsi di qualcosa di simile" (Freud, Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico, 1912, OSF, Boringhieri, p. 536).

Il medico "mira a potenziare le risorse del paziente e ad allearsi ad esse nel processo di guarigione"? Non sono certo che questo si possa dire della medicina attuale, che sembra orientata solo alla somministrazione di farmaci empiricamente validati. Si può dire invece di sicuro della psicoterapia, ma non è detto che la cosa avvenga all'interno di un vero dialogo. Infatti, se le risorse sono individuate sulla base della teoria (scientifica quanto vuoi) del terapeuta, e non sulla base di ciò che emerge di momento in momento nel dialogo, la relazione è ancora una volta governata dalla teoria, e non dal dialogo.

>Riconosco però che sul tema "Scienza- Ermeneutica" pensavo ad uno
>scontro fra posizioni interessanti, non ad un amichevole integrativo confronto, e
>dunque è bene che la mia proposta sia stata rifiutata se, come mi spieghi, non si
>crede che anche la polemica possa contribuire al dialogo ed entrare a far parte
>della dialettica (e può darsi davvero che su questo tu abbia ragione).

La dialettica non è mai assimilabile a "un amichevole integrativo confronto". Un confronto dialettico può anche essere durissimo, ma intanto è dialettico in quanto non ha come obiettivo la sconfitta dell'avversario, bensì il superamento (il "toglimento": Aufhebung) della contraddizione in una sintesi (integrazione) in cui *entrambi* i poli del conflitto (tesi e antitesi) sono superati e allo stesso tempo mantenuti. Del resto io trovo del tutto legittima anche la polemica non dialettica, diretta a quelli che riteniamo errori logici o fattuali del nostro interlocutore, o a correggere malintesi (frequentissimi) - ma sono modi di comunicazione diversi dall'articolazione dialettica di una contraddizione.

>E riconosco anche che, sia pure con grande sforzo, siamo forse riusciti a
>cominciare, almeno un pochino, a dissipare alcuni clamorosi malintesi.

Sono d'accordo, è un buon inizio. La cosa che mi preme non è arrivare a un accordo (non credo che ci arriveremo), ma a precisare meglio i termini del disaccordo, sgomberando appunto il campo da diversi malintesi. Mi piacerebbe arrivare a una definizione sintetica delle nostre due posizioni e proporla sulla lista SEPI internazionale, come conclusione del nostro dibattito precongressuale. Avremmo di sicuro degli interessanti feed-back dalla comunità internazionale. Tullio

Giovanni Liotti, 23 Febbraio 2002:

Caro Tullio, mi sembra che, tornando ad uno dei temi iniziali, siamo ora in grado di cogliere meglio il punto centrale del disaccordo fra noi. Tu scrivi:
> Per me il dialogo efficace è... quello la cui forma
> non è specificata affatto, e che proprio per questo potrà prendere la forma
> (imprevista e imprevedibile) che l'incontro irripetibile tra due persone
> genera, quando non è costretto a prendere quella prevista dalla teoria del terapeuta.

Che questo sia possibile alla mente umana, che esista un interlocutore che possa entrare in dialogo con un altro essendo privo di teorie, aspettative e mete, a me sembra totalmente impossibile. Un coniuge non dialoga MAI con l'altro, o un figlio con un genitore, o un amico con un amico, o un docente con un allievo, o un paziente con un terapeuta, (e lo stesso vale a ruoli invertiti) senza aspettative, schemi pre-costituiti, ipotesi, "teorie", scopi, obiettivi, speranze, paure. La psicopatologia è (anche) una descrizione delle forme di dialogo che i pazienti tendono a proporre ai loro interlocutori. All'inizio del trattamento, l'anoressica ti dice "ecco il mio corpo macilento, ma tu non mi piegherai a nutrirlo"; l'ossessivo ti dice "sono responsabile dei miei pensieri negativi, e debbo cancellarli, e soffro indicibilmente per queste tentate cancellazioni, ma non posso/non voglio rinunciare alle mie neutralizzazioni"; il depresso ti dice "ogni sforzo è inutile, la solitudine e la sconfitta inevitabili, la vita solo dolore"; e puoi continuare tu con gli esempi. E, secondo me, è inevitabile che il terapeuta abbia una teoria su quello che si cela dietro queste iniziali diverse forme di dialogo proposto, sul perché siano così diverse le forme della sofferenza mentale e della conversazione terapeutica, sul come rispondere in maniera da non confermare il "tema narrativo" del paziente, ecc.

Mi sembra che, nonostante quanto avevi prima affermato, almeno una parte di te in fondo sia d'accordo con la tesi che ho appena difeso, perché aggiungi:
> Questo non toglie che il terapeuta sia tenuto a conoscere i "tipi
> fondamentali di interazione", per quanto ne sappiamo dalla ricerca di base
> sulle relazioni umane, ma soprattutto dallo studio naturalistico delle
> relazioni terapeutiche (studio dei fattori comuni). E' infatti molto
> importante, secondo me, che il terapeuta disponga di una mappa dei bisogni
> di base che i pazienti portano nella relazione, e dei ruoli fondamentali
> che il terapeuta è portato ad assumere per rispondere a questi bisogni.

Poi tenti di sminuire l'importanza di questa affermazione, dicendo che la mappa (la tua teoria, i tuoi schemi interpretativi), si possono "mettere da parte". Ne abbiamo già discusso, ma vale la pena di approfondire. E allora ti chiedo: Davvero "metti da parte le tue mappe"? Come fai? Sospendi il pensiero cosciente ed anche quello inconscio? D’improvviso non hai più memorie speranze aspettative a farti cogliere e valutare quello che sta accadendo nell'interazione, o ad orientare la tua attenzione? Raggiungi una percezione pura, senza schemi di significato e valori che pre-selezionino ed organizzino i percetti (per non dire dei concetti)? C'è una tecnica per questa davvero straordinaria sospensione dell'attività mentale? Freud o Bion ce l'avevano? Si può insegnare agli allievi delle Scuole di psicoterapia? Se c'è la tecnica del "mettere da parte", è diversa dalla tecnica dei koan o da altri "strumenti didattici" delle da noi due più volte citate diverse Scuole mistiche, dai Sufi agli Chassidim? E' forse la a me anche simpatica tecnica della Mindfulness descritta da Marsha Linehan? Ma allora, non è un paradosso confutare l'uso delle tecniche di dialogo con una tecnica come la "mindfulness"?

Tu scrivi:
> Ma una mappa è solo uno strumento, sempre provvisorio e imperfetto, per
> orientarsi nella relazione, non un modello cui la relazione si deve conformare.

La differenza fra "orientarsi nella relazione attraverso una mappa delle relazioni" e "conformarsi ad un modello di relazione" a prima vista sembra affascinante, ma ad un esame più attento appare un artificio retorico e non una vera differenza. Infatti, per spiegare tale differenza scrivi:

> In altre parole: va benissimo disporre di ogni sorta di schemi,
> teorie, modelli che descrivono i tipi fondamentali di interazione (servono
> per un primo inquadramento), a patto di saperli mettere da parte per capire
> che cosa sta davvero succedendo in questo momento con questa persona, e che
> cosa dobbiamo fare momento per momento.

Ed ecco qui il per me difficile da credere "metterli da parte". Ammesso che tu ci riesca, poi come fai a continuare a capire il paziente? Come fai a capire quello che l'altro ti dice, senza una teoria, un'ipotesi su quello che l'altro intende dirti? Si usa oggi dire che tra i due ed i quattro anni il bambino costruisce i primordi della sua "Teoria della Mente" dell'altro (da Premack a Frith a Baron-Cohen a Leslie, conosci di certo questo concetto), appunto perché è così, e solo così, che il bambino comincia a cogliere l'intenzionalità dell'altro dietro i puri suoni del suo comportamento verbale. Conosci, dicevo, gli studi che riconoscono nel fallimento di questa costruzione l'antecedente più importante dell'autismo infantile (l'autismo: notevole ostacolo al dialogo, non credi?) E all'improvviso possiamo capire la mete dell'altro senza una Teoria della Mente?

> Se parliamo con qualcuno e ci accorgiamo che il nostro interlocutore non ci sta 
> veramente a sentire, ma ci sta solo incasellando nei suoi schemi (per quanto dotti, 
> per quanto scientifici), per portarci dove i suoi schemi prevedono che dobbiamo
> andare, non siamo molto contenti, no? Allo stesso modo non è contento il
> paziente, se trova un terapeuta che si muove nella relazione in questo modo.

Certo, se vedo che i suoi schemi non assimilano quello che i miei schemi propongono, se noto che il mio interlocutore non fa alcuno sforzo attivo di assimilazione della mia esperienza raccontata alla sua esperienza (codificata nei suoi schemi di memoria e significato, nelle sue "teorie" di vita), se non sperimento dunque il suo sforzo empatico, mi secco molto. Te ne ho anche scritto, di questa mia seccatura nel vedere assimilati i miei schemi su scienza e medicina ai tuoi schemi su scientismo e psicofarmacologia bruta, e tu mi hai scritto sulla tua seccatura nel vedere i tuoi schemi sulla ricerca della verità assimilati da me ai miei schemi sui cercatori di verità religiose (fra l'altro, ho conosciuto cristiani, ebrei e persino musulmani -- sono nato e vissuto a lungo in una città estera dove le tre comunità convivevano -- che non credono di possedere verità, ma solo un metodo, la loro religione, per cercarla; ho stimato alcune di queste persone; quindi non volevo offenderti con quei miei richiami alle religioni in risposta a qualche tua frase). Adesso stiamo cercando questa faticosa assimilazione empatica DELLE NOSTRE DIVERSE E NON "SOSPESE" MAPPE/ SCHEMI/ TEORIE, e ci comprendiamo meglio. Avverto il tuo sforzo empatico (spero tu avverta il mio), e dialogo meglio con te anche se restiamo in disaccordo. Tutto ciò non ha affatto richiesto che abbandonassimo le nostre teorie per metterci in ascolto l'uno dell'altro. Io non richiedo al paziente di essere d'accordo con le mie teorie sul suo disturbo. Le uso per arrivare ad una comprensione empatica del suo disturbo (del quale continuamente mi parla nel dialogo terapeutico), e le tengo per buone se in effetti me la permettono, questa maggiore comprensione empatica, altrimenti le abbandono.

Gli studi di efficacia contribuiscono a farmi selezionare le teorie psicopatologiche e psicoterapeutiche che meglio permettono la comunicazione e la comprensione fra me ed i miei pazienti. Ripeto ancora che li trovo importanti ma non fondamentali, questi studi di efficacia, e importanti solo in quanto contribuiscono a confutare aspettative e teorie dei terapeuti, non a confermarle. Esempio: Salkovskis con i suoi studi di efficacia sui DOC ha confutato la mia teoria che fosse particolarmente utile e produttivo soffermarsi soprattutto sul significato delle immagini mentali ossessive, e mi ha suggerito che è più utile soffermarsi invece sui rituali di neutralizzazione (le compulsioni). Sugli studi di efficacia, tu scrivi:
> Mi pare che tu contesti il verdetto di dodo perché pensi che certe terapie
> siano più efficaci di altre nel trattamento di determinati disturbi. Per
> esempio, pensi che la terapia cognitivo-comportamentale sia più efficace
> della psicoanalisi nel trattamento del DOC. Ma esiste davvero una "terapia
> cognitivo-comportamentale" o una "psicoanalisi"? Come trattamenti
> manualizzati, certo. Se tu vuoi dire che il trattamento manualizzato
> cognitivo-comportamentale è più efficace del trattamento manualizzato
> psicoanalitico nella cura del DOC, d'accordo. Ma ti riferisci agli studi di
> efficacia, la cui corrispondenza con la realtà clinica è ritenuta molto bassa o nulla.

E' ritenuta molto bassa o nulla nella realtà clinica piena di cosiddette comorbilità (e io sono d'accordo che è così), mentre gli studi di efficacia sono condotti sui rari pazienti con disturbi puri di asse1. Ciò non toglie che questi studi qualcosa mi dicono pure, sul mio paziente col DOC in comorbilità con un grave disturbo di personalità, pur non dicendomi che lo devo curare solo con le tecniche del manuale. Per l'esattezza, mi dicono: se vuoi che ti senta empatico, il tuo paziente col DOC in comorbilità, interessati più a come compie i suoi rituali di neutralizzazione (compulsioni), che a cosa significano le sue immagini mentali intrusive (ossessioni). Nei pazienti con DOC puri, questo interesse sulle compulsioni può portare a forti remissioni di tutto il disturbo. Nel mio concreto paziente con DOC e DP, non porterà ad analoghe riduzioni dei disturbi, ma mi farà fare un pezzettino di strada verso un dialogo più sentito e condiviso (questa almeno è la mia esperienza, e ci ho scritto su un capitolo del mio ultimo libro, che riguarda le tecniche cognitivo-comportamentali come veicoli importanti di comunicazione empatica).

Così, puoi comprendere che non concordo affatto con la seguente tua affermazione:
> Dunque, bisognerebbe decidere. O ci basiamo sugli studi di efficacia, e allora
> nella terapia reale ci atteniamo rigidamente al manuale (cosa che nessuno
> per fortuna fa, e se lo facesse commetterebbe abuso teoretico: Basseches).
> Oppure abbandoniamo l'idea infondata che esistano nella realtà (non in
> laboratorio) "trattamenti diversi che producono risultati diversi".
 
No, che non bisognerebbe decidere in modo tanto drastico e dicotomico. Mi sembra che, grazie agli studi di efficacia, possiamo utilizzare ALCUNI SUGGERIMENTI del manuale su cui sono basati. Possiamo inoltre continuare a pensare che trattamenti diversi producono risultati diversi SUI DISTURBI PURI DI ASSE 1 (dunque, possiamo dialetticamente tenere insieme i due poli della tua drastica e dicotomica opposizione, "o ... o..."). Possiamo infine adattare ALCUNI SPUNTI del manuale ai nostri quotidiani pazienti che hanno insieme disturbi di Asse 1 e di Asse 2. Ma è inutile che continui su questo punto, perché tu esprimi con grande efficacia la stessa idea (vedi che a volte siamo d'accordo). Infatti, scrivi:
> Con questo non intendo dire che gli studi di efficacia siano inutili. Penso
> che possano essere utili ... per mostrare che la tecnica A si è dimostrata efficace nel
> trattamento del disturbo B, e quindi se nel corso di una terapia reale si
> presenta una situazione che assomiglia al disturbo B, si potrà considerare
> l'applicazione della tecnica A, con tutte le cautele del caso. Non più di così.

Un ultimo punto: Eh, sì, curioso: Parè, che era un CHIRURGO, ha aiutato i MEDICI a recuperare l'idea che la cicatrice la fa il paziente, non il medico (il quale però deve avere adeguate teorie sui diversi tipi di bendaggio da applicare alle diverse tipologie di ferite, altrimenti non dovrebbe mettere bene le bende). Rispetto alla tua curiosa obiezione: non intendevo presentare Parè come un precursore di Kohut e dell'empatia. Dunque non è affatto pertinente la tua osservazione. Essa riguarda il modo con cui Freud ha usato il motto di Paré (sottolineando la necessaria freddezza del chirurgo), mentre invece io di quel motto sottolineavo il recupero dell'idea che ci sono forze guaritrici intrinseche al paziente, e non solo intrinseche alle tecniche del medico. Ricordi in quale contesto (la minaccia di essere condannato al rogo per l'accusa di aver chiamato il Diavolo a guarire i suoi pazienti) Parè pronunciò la famosa frase?

Se tutti i "medici" di oggi dovessero ragionare come i "medici" che volevano Paré sul rogo, ciò non toglierebbe che l'atteggiamento di Paré (non in senso di empatia, ma nel senso del rispetto per la vis medicatrix naturae) resta quello che rappresenta la medicina, e non il loro. Gianni

Tullio Carere, 24 Febbraio 2002:

At 23:38, 23-02-02, Giovanni Liotti wrote:
>Caro Tullio, ...mi sembra che, tornando ad uno dei temi iniziali, siamo ora in grado di
>cogliere meglio il punto centrale del disaccordo fra noi... che esista un interlocutore che
>possa entrare in dialogo con un altro essendo privo di teorie, aspettative e mete, a me sembra 
>totalmente impossibile...  E allora ti chiedo: Davvero
>"metti da parte le tue mappe"? come fai? sospendi il pensiero cosciente ed anche
>quello inconscio? d'improvviso non hai più memorie speranze aspettative a farti
>cogliere e valutare quello che sta accadendo nell'interazione, o ad orientare la
>tua attenzione? raggiungi una percezione pura, senza schemi di significato e valori
>che pre-selezionino ed organizzino i percetti (per non dire dei concetti)? c'è una
>tecnica per questa davvero straordinaria sospensione dell'attività mentale? ...
>Ed ecco qui il per me difficile da credere "metterli da parte". Ammesso che tu
>ci riesca, poi come fai a continuare a capire il paziente? Come fai a capire quello
>che l'altro ti dice, senza una teoria, un'ipotesi su quello che l'altro intende dirti? ...
>Certo, se vedo che i suoi schemi non assimilano quello che i miei schemi
>propongono, se noto che il mio interlocutore non fa alcuno sforzo attivo di
>assimilazione della mia esperienza raccontata alla sua esperienza (codificata nei
>suoi schemi di memoria e significato, nelle sue "teorie" di vita), se non
>sperimento dunque il suo sforzo empatico, mi secco molto....
>Io non richiedo al paziente di essere d'accordo con le mie teorie sul
>suo disturbo. Le uso per arrivare ad una comprensione empatica del suo disturbo
>(del quale continuamente mi parla nel dialogo terapeutico), e le tengo per buone se
>in effetti me la permettono, questa maggiore comprensione empatica, altrimenti le abbandono.

Caro Gianni, anche a me sembra che siamo arrivati al punto centrale del nostro disaccordo. Partiamo da quello su cui siamo d'accordo: certamente anch'io sono convinto che non esista una cosa come l'"immacolata percezione", e che senza preconcezioni ricavate dall'esperienza precedente non saremmo in grado di percepire alcunché. Infatti io uso un mio modello generale a quattro vertici, che descrive le quattro posizioni cardinali che il terapeuta è chiamato ad assumere per rispondere a quelle che considero le quattro categorie cardinali di bisogni terapeutici. Io non sono, non posso, né voglio essere "tabula rasa". Quindi siamo d'accordo: senza modelli, teorie, preconcezioni, ipotesi, non si può nemmeno immaginare di lavorare.

Il disaccordo viene al passo successivo. Per te tutto ciò che riusciamo a capire dipende dalle nostre preconcezioni (che quindi debbono essere le più vaste e "integrate" possibile, secondo il modello della "integrazione teorica"). Per me invece tutte le nostre preconcezioni (che anche secondo me debbono essere le più vaste e integrate possibile) sono indispensabili solo per una *precomprensione* di ogni momento della relazione con il paziente (o con chiunque altro). Questa precomprensione deve però essere continuamente sospesa per una comprensione più piena, che includa quegli aspetti della realtà che gli schemi prestabiliti non possono accogliere, secondo il movimento del circolo ermeneutico. Permettimi di citarti un passaggio di un mio recente lavoro ("La logica della relazione psicoterapeutica"):

<<Nel normale processo di apprendimento il bambino cerca in primo luogo di assimilare i nuovi dati agli schemi cognitivi di cui dispone, cioè li interpreta alla luce dei modelli, miti o teorie preesistenti. L'assimilazione piagetiana corrisponde sostanzialmente all'interpretanza dell'ermeneutica, cioè all'atteggiamento interpretativo costante e strutturale dell'essere umano. Tuttavia il bambino sano non si limita ad assimilare: di fronte alla contraddizione non cerca di forzare la realtà nei suoi schemi, ma li sospende, li neutralizza; accetta di non sapere, di restare nell'incertezza quanto basta per lasciare entrare nel suo orizzonte qualcosa che li contraddice e lo obbliga a modificarli. Qui il bambino non interpreta, ma grazie alla sospensione dell'atteggiamento assimilativo vede qualcosa di nuovo. Invece di far rientrare i dati nei suoi schemi, "accomoda" il suo apparato percettivo alla realtà che ha di fronte. L'accomodamento del bambino corrisponde embrionalmente all'epoché della fenomenologia, in cui la messa tra parentesi di aspettative e preconcezioni consente di accogliere ciò che può manifestarsi grazie a quell'apertura. Ed è proprio grazie a questa neutralizzazione sistematica che i suoi schemi si modificano e arricchiscono.

Lo stesso movimento dialettico si esprime nel circolo ermeneutico. Noi interpretiamo sempre a partire da una precognizione, come ha chiarito Heidegger (1927, §32). Nel rivalutare il pregiudizio come fonte di comprensione, e nel negare la possibilità di un'interpretazione neutrale, Heidegger ha indicato lucidamente le condizioni generali dell'interpretatività. In questa enfasi sul comprendere come interpretare, peraltro, si intuisce il desiderio dell'allievo di affrancarsi dal maestro Husserl, che in modo altrettanto unilaterale aveva insistito sulla neutralità. Più equilibrata, rispetto a entrambi, la posizione di Freud: "heideggeriano" nel prescrivere la mitologia centrata sull'Edipo come base per la produzione di senso nelle storie analitiche, "husserliano" quando suggerisce di procedere "senza intenzione alcuna, lasciandosi sorprendere ad ogni svolta, affrontando ciò che accade via via con mente sgombra e senza preconcetti" (1912, p. 535).>>

Nella dialettica piagetiana assimilazione/accomodamento, sembra che tu consideri solo l'assimilazione. La stessa empatia, per te, è un fenomeno puramente assimilativo. Ma, come ha fatto notare Fornaro (1993) (vedi http://www.publinet.it/pol/ital/documig3.htm), l'empatia (Einfühlung) presuppone l'unipatia (Einsfühlung), quella "trasformazione in O" che corrisponde a una temporanea perdita dei confini dell'Io, quel salto nel vuoto in cui ogni rassicurante preconcezione è momentaneamente sospesa. Osservava Fornaro che se immaginiamo di entrare nell'anima di un altro senza sospendere teorie, sentimenti e intuizioni - se pratichiamo empatia senza unipatia - non facciamo altro che proiettare nell'altro la nostra immaginazione. Cioè non facciamo altro che assimilare il nostro interlocutore al già noto.

Io sono completamente convinto che non è questo che tu fai nel tuo lavoro clinico. Sono convinto che anche tu sospendi le tue preconcezioni, sei capace di unipatia oltre che di empatia assimilativa, e stai nel non sapere quanto basta per permettere alla "cosa in sé" di rivelarti qualcosa di veramente "reale" (che "colpisce" per la sua realtà, direbbe Benvenuto), al di là di quello che riesci a cogliere assimilativamente. Però tutto questo, per motivi che non conosco, nella tua elaborazione teorica non compare.

>Gli studi di efficacia contribuiscono a farmi selezionare le teorie
>psicopatologiche e psicoterapeutiche che meglio permettono la comunicazione e
>la comprensione fra me ed i miei pazienti.

 

Seligman (1995) ha elencato le caratteristiche che idealmente uno studio di efficacia deve avere:
<<In the ideal efficacy study, all of the following niceties are found:
1. The patients are randomly assigned to treatment and control conditions.
2. The controls are rigorous: Not only are patients included who receive no treatment at all, but placebos containing potentially therapeutic ingredients credible to both the patient and the therapist are used in order to control for such influences as rapport, expectation of gain, and sympathetic attention (dubbed nonspecifics).
3. The treatments are manualized, with highly detailed scripting of therapy made explicit. Fidelity to the manual is assessed using videotaped sessions, and wayward implementers are corrected.
4. Patients are seen for a fixed number of sessions.
5. The target outcomes are well operationalized (e.g., clinician-diagnosed DSM–IV disorder, number of reported orgasms, self-reports of panic attacks, percentage of fluent utterances).
6. Raters and diagnosticians are blind to which group the patient comes from. (Contrary to the "double-blind" method of drug studies, efficacy studies of psychotherapy can be at most "single-blind," since the patient and therapist both know what the treatment is. Whenever you hear someone demanding the double-blind study of psychotherapy, hold onto your wallet.)
7. The patients meet criteria for a single diagnosed disorder, and patients with multiple disorders are typically excluded.
8. The patients are followed for a fixed period after termination of treatment with a thorough assessment battery.>>

Dopo essere stato convinto che gli studi di efficacia fossero il "golden standard" per misurare il valore della psicoterapia, Seligman ha finito per cambiare opinione:

<<The efficacy study is the wrong method for empirically validating psychotherapy as it is actually done, because it omits too many crucial elements of what is done in the field. The five properties that follow characterize psychotherapy as it is done in the field. Each of these properties are absent from an efficacy study done under controlled conditions. If these properties are important to patients' getting better, efficacy studies will underestimate or even miss altogether the value of psychotherapy done in the field.

1. Psychotherapy (like other health treatments) in the field is not of fixed duration. It usually keeps going until the patient is markedly improved or until he or she quits. In contrast, the intervention in efficacy studies stops after a limited number of sessions—usually about 12—regardless of how well or how poorly the patient is doing.

2. Psychotherapy (again, like other health treatments) in the field is self-correcting. If one technique is not working, another technique—or even another modality—is usually tried. In contrast, the intervention in efficacy studies is confined to a small number of techniques, all within one modality and manualized to be delivered in a fixed order.

3. Patients in psychotherapy in the field often get there by active shopping, entering a kind of treatment they actively sought with a therapist they screened and chose. This is especially true of patients who work with independent practitioners, and somewhat less so of patients who go to outpatient clinics or have managed care. In contrast, patients enter efficacy studies by the passive process of random assignment to treatment and acquiescence with who and what happens to be offered in the study (Howard, Orlinsky, & Lueger, 1994).

4. Patients in psychotherapy in the field usually have multiple problems, and psychotherapy is geared to relieving parallel and interacting difficulties. Patients in efficacy studies are selected to have but one diagnosis (except when two conditions are highly comorbid) by a long set of exclusion and inclusion criteria.

5. Psychotherapy in the field is almost always concerned with improvement in the general functioning of patients, as well as amelioration of a disorder and relief of specific, presenting symptoms. Efficacy studies usually focus only on specific symptom reduction and whether the disorder ends.

It is hard to imagine how one could ever do a scientifically compelling efficacy study of a treatment which had variable duration and self-correcting improvisations and was aimed at improved quality of life as well as symptom relief, with patients who were not randomly assigned and had multiple problems. But this does not mean that the effectiveness of treatment so delivered cannot be empirically validated. Indeed it can, but it requires a different method: a survey of large numbers of people who have gone through such treatments.>>

Seligman si riferisce agli studi di "effectiveness", come quello di Consumer Reports che commenta in questo lavoro. Gli studi di "efficacy" sono a sua (e anche mia) opinione troppo lontani dalla realtà clinica per poter validare o invalidare empiricamente ciò che si fa sul campo. Tuttavia una sia pur ridotta utilità la conservano, e su questo ci siamo trovati d'accordo. Spero che un minimo accordo riusciremo a trovarlo anche sulla dialettica assimilativo-accomodativa di cui sopra. Paolo troverà un ben voluminoso incartamento, al suo ritorno. Mi spiace per lui, ma a me questo scambio è davvero molto utile. Tullio

Paolo Migone, 25 Febbraio 2002:

Cari Tullio e Gianni, torno ora da Roma, e ho trovato tra le 94 mail che mi sono arrivate in questi miei giorni di assenza le vostre tre. Mi complimento con voi per il vero "dialogo" che avete sviluppato, nel senso che è duro, schietto, quello che piace a me, che avviene tra persone che si stimano. E' lo stile che Tullio ha sempre avuto in lista in questi ultimi anni, per cui in tanti lo abbiamo apprezzato, che pretendeva che gli interlocutori fossero alla sua altezza, cosa che non è sempre avvenuta per cui alcuni se ne sono andati sdegnosamente dal dialogo con Tullio (ti ricordi quando hai persino dovuto dimetterti da moderatore della lista di psicoterapia perché non riuscivi a mediare le posizioni?). In realtà forse quelli che si offendevano per i tuoi toni non avevano molto da dire, ma questa ovviamente è solo una mia interpretazione. In questa ultima fase Tullio invece mi sembra che sia più morbido (anche se non demorde), nel senso che parla sempre del concetto di dialogo in cui i due "nemici" non si sconfiggono l'un l'altro, ma entrambi sono vincitori perché emerge non una posizione alle spese dell'altra ma una terza posizione sintesi delle altre due. Ti confesso Tullio che non ho mai capito bene questa tua idea, la trovo un po' superflua, e ho tra me e me pensato che tu ragionassi così per non urtare troppo la suscettibilità di quelli che nel dibattito potevano andarsene (magari avevi l'incubo che neppure venissero al convegno a cui tieni tanto!), per cui ti sforzavi di fare l'ecumenico ("abbracciamoci tutti appassionatamente"). Non mi piace questo bisogno di ecumenismo perché presuppone poca stima per gli interlocutori. Infatti in un dialogo duro nessuno perde mai, perché è comunque la idea migliore che vince, e ci guadagna anche colui che perde, anzi soprattutto lui (è scontato che non ci si scontra come persone, ma come idee, le persone sono sempre unite per la sconfitta del comune nemico: l'ignoranza, chiamiamola così, oppure per far trionfare la verità, anche se suona un po' mistico).

C'è una tua frase Tullio che trovo contraddittoria:
>La dialettica non è mai assimilabile a "un amichevole integrativo
>confronto". Un confronto dialettico può anche essere durissimo, ma intanto
>è dialettico in quanto non ha come obiettivo la sconfitta dell'avversario,
>bensì il superamento (il "toglimento": Aufhebung) della contraddizione in
>una sintesi (integrazione) in cui *entrambi* i poli del conflitto (tesi e
>antitesi) sono superati e allo stesso tempo mantenuti. Del resto io trovo
>del tutto legittima anche la polemica non dialettica, diretta a quelli che
>riteniamo errori logici o fattuali del nostro interlocutore, o a correggere
>malintesi (frequentissimi) - ma sono modi di comunicazione diversi
>dall'articolazione dialettica di una contraddizione.

Faccio fatica a distinguere tra questa tua concezione di dialettica, quella che auspichi, e la "polemica non dialettica" che sarebbe "del tutto legittima". Io parlerei in modo semplice: due posizioni si confrontano, può darsi che in un caso una sia sbagliata e vada scartata (l'idea avversaria viene sconfitta, con gioia di entrambi i combattenti), in un altro emerge una terza idea e nessuno perde del tutto. Ma può darsi però che uno perda un po' meno di un altro, ecc. Ma perché perdere tempo in questi discorsi? L'unico senso che ci trovo, ripeto, è che siano solo degli escamotage per non ferire nessuno e far restare gli interlocutori nel mini-dibattito SEPI. Ma non so se è così, o se ho capito bene.

Passo ora ad altri temi che avete toccato. Modello medico e scienza: per me non centra niente questo discorso, anche qui si perde un sacco di tempo in chiacchiere (senza contare che è proprio dal modello medico classico, e dalle ricerche controllate, che è nato il concetto di placebo, cioè l'importanza della relazione psicologica). Prima di tutto per me non esiste il modello medico in quanto tale, esiste il modello scientifico e basta. Il modello medico è solo una applicazione di alcuni principi scientifici, così come la psicoterapia, cioè la clinica, è una applicazione di alcune scienze di base. E nessuno ha mai detto che la clinica sia semplice, anzi è complicatissima, ed è per questo che siamo qui ad arrovellarci.

Tullio dice:
>Il medico "mira a potenziare le risorse del paziente e ad allearsi ad esse
>nel processo di guarigione"? Non sono certo che questo si possa dire della
>medicina attuale, che sembra orientata solo alla somministrazione di
>farmaci empiricamente validati. Si può dire invece di sicuro della
>psicoterapia, ma non è detto che la cosa avvenga all'interno di un vero
>dialogo. Infatti, se le risorse sono individuate sulla base della teoria
>(scientifica quanto vuoi) del terapeuta, e non sulla base di ciò che emerge
>di momento in momento nel dialogo, la relazione è ancora una volta
>governata dalla teoria, e non dal dialogo.

Questo mi fa ancora pensare che Tullio abbia una idea di scienza stereotipata, o antiquata. La medicina non è mai stata così, è stata così per chi non la conosceva o la praticava male. Mi viene in mente un mio vecchio articolo del 1991, in cui attaccavo certi psicologi che, alla ricerca di una loro identità di "psicologi clinici", se la prendevano col modello medico. Si tratta di un mio articolo stimolato dal "Circolo del Cedro" di Roma (e poi uscito sulla Rivista di Psicologia Clinica, 1991, V, 3: 305-310). I colleghi del Circolo del Cedro avevano scritto un documento ufficiale e mi avevano chiesto di commentario. Trascrivo alcuni brani del mio articolo di commento:

<<Nella Tesi I viene detto che i maggiori ostacoli alla definizione e allo sviluppo della psicologia clinica sono due, "tra loro interdipendenti: (a) l'identificazione della psicologia clinica con la psicoterapia e la dipendenza dal modello medico; (b) la politica delle "Scuole" e la costruzione-riproduzione dell'ortodossia". (...) Leggendo meglio però questo passaggio, viene detto che si è identificata la teoria (cioè la psicologia clinica) con una tecnica, il che sicuramente rappresenta un problema dal punto di vista scientifico, come se fosse venuta a mancare una coerente "teoria della tecnica". Infatti, come viene detto nel punto (b) che è interdipendente dal primo, "l'operatività psicologico-clinica (in realtà: psicoterapeutica) è consegnata alle "Scuole"" e alla loro "politica" (culto dell'ortodossia, ignoranza reciproca, tecnica senza teoria, "autoreferenza teorica e tecnica", "sincretismo a-teorico e/o eclettismo multi-teorico", ecc.). Come accenna giustamente anche il documento stesso, le "Scuole" sono andate configurandosi in questo modo sul mercato fin dai primi anni '70 dietro alla spinta della domanda di neolaureati disoccupati in cerca di una identità professionale.

Ma a ben vedere il documento non dice solo questo, dice che "l'identificazione con la psicoterapia è, allo stesso tempo, espressione e fattore costitutivo del modello medico". L'ostacolo allo sviluppo della psicologia clinica non sarebbe allora la sua identificazione con una pratica (come invece affermato prima), ma con un modello, e precisamente con quello medico. Sorge allora la domanda: perché mai la identificazione con la psicoterapia sarebbe espressione del modello medico? Sarebbero le "Scuole" portatrici del modello medico e responsabili di questa identificazione? Cosa si intende poi per "modello medico", e perché esso sarebbe un "ostacolo"? Ci si aspetterebbe a questo punto una risposta a tali domande, ma si rimane perplessi dalla descrizione del modello medico fatta in questo documento. Infatti, quando il documento va oltre ai nominalismi e prova a descriverne alcuni aspetti, emerge una serie di stereotipie e cliché degni della peggiore "Scuola": viene detto che il modello medico tratta i problemi "come se fossero largamente indipendenti dalla contestualizzazione", adotta "una concezione del cambiamento di tipo lineare", presuppone una "dipendenza "integrale" del... "profano"... dal "tecnico"", esprime "una logica della prescrizione", e così via. Tutti questi non sono attributi del modello medico, ma slogan stantii utilizzati soprattutto alcuni anni fa proprio nella sottocultura delle faide tra certe "Scuole" di psicoterapia italiane (vengono in mente ad esempio certe vecchie critiche dei sistemici alla psicoanalisi). Può anche darsi che questo sia il modo di lavorare del medico della mutua di qualche membro del Circolo del Cedro, ma non ha niente a che vedere col "modello medico". Non si dimentichi che il modello medico (che sarebbe meglio chiamare "scientifico", perché il "modello medico" non significa niente in quanto tale) è quello che ha permesso non solo alla psicoterapia e alla psicologia clinica ma alla stessa psicologia generale di esistere e di fondarsi come discipline autonome. Questa critica al modello medico dunque rischia di confondere la teoria con una pratica, ricorrendo proprio a una cultura di "Scuole" che qui si intende criticare. Non posso dilungarmi in questa sede a parlare del modello medico, anche perché ne ho già trattato in altri lavori a cui rimando. Alcune psicoterapie (soprattutto la psicoanalisi) si distinguono in uno modo peculiare dalle specialità mediche perché sono le uniche discipline nelle quali chi non si aggiorna rimanendo indietro nelle conoscenze non viene messo da parte e semplicemente considerato un "ignorante", ma viene rispettato di più, magari promosso supervisore o didatta, e chiamato "ortodosso". Sarebbe già un progresso se almeno a questo riguardo certi psicoterapeuti imparassero dal modello medico!

(...) Una impressione che emerge da questo documento è che la psicologia clinica, in questa sua ricerca di identità così tipica delle discipline in fase di crescita, rischi di darsela in negativo, cioè affermando solo che "non deve essere il modello medico", il modello cioè non a caso attribuito alla corporazione rivale nel campo della psicoterapia (secondo la legge 56/1989, solo medici e psicologi potranno praticarla). In altre parole, questa operazione di critica al modello medico rischia di non essere altro che una espressione di inferiorità culturale verso i medici, nei cui confronti forse si teme di non riuscire ad acquisire una indipendenza. La psicologia clinica quindi non sa che cosa è, sa solo che non vuole essere il "modello medico"; ma il problema, come abbiamo visto, è che essa, sempre secondo questo documento, non sa neanche cos'è il modello medico. Se si accetta che una delle applicazioni della psicologia clinica è la psicoterapia, cioè una terapia, bisogna pur fare i conti con un modello scientifico di "terapia" al quale anche il modello medico fa riferimento, altrimenti le nostre affermazioni restano nel vuoto e hanno solo il valore di propaganda ideologica per una supposta identità scientifica. Nel documento non si va molto più in là di affermazioni generiche, o di inglesismi ("competence" meglio di "performance", ecc.) che non vengono però spiegati approfonditamente. Quello che è chiaro è che è non si dovrebbe mimare "la relazione domanda/offerta" di altre professioni, ma viene detto poco di propositivo. La genericità delle proposte qui fatte emerge chiaramente se pensiamo al problema della "verifica delle prestazioni" accennato prima: mi chiedo a quale modello si debba far ricorso per verificare gli interventi. Ad esempio più avanti, nella Questione III, si dice che lo "strumento principe" della verifica è il "resoconto": a quale concetto alludono gli autori, a quale strumento scientifico credibile?...>>

Altro tema: Dodo verdict. Concordo con Tullio sul fatto che il paradosso della equivalenza (emerso dalle ricerche, le stesse che ama tanto Gianni!) ha perseguitato i ricercatori per decenni e minacciato la loro identità di scuola (tante volte sono stato io a sostenere queste posizioni e a differenziarmi da coloro che in modo semplicistico credono nelle tecniche - vedi il dibattito sulla IPT, pubblicato in rete al sito http://www.publinet.it/pol/ital/documig1.htm).

Ma ancora una vota rischiamo di essere generici, perché credere nel verdetto di Dodo vorrebbe dire anche che non ha senso discutere tra noi tanto non ci sono mai differenze. Di fatto tu Tullio ancora mi sembri in contraddizione quando ammetti che di fatto c'è una differenza, nel senso che certe differenze nella ricerca possono avere da qualche parte delle ripercussioni nella clinica:

>Con questo non intendo dire che gli studi di efficacia siano inutili. Penso
>che possano essere utili, ma non per dimostrare che la terapia A è più
>efficace della terapia B nel trattamento del disturbo C - dal momento che i
>protocolli dei trial clinici randomizzati non hanno nulla a che vedere con
>la terapia reale sul campo. Gli studi di efficacia possono essere utili
>invece per mostrare che la tecnica A si è dimostrata efficace nel
>trattamento del disturbo B, e quindi se nel corso di una terapia reale si
>presenta una situazione che assomiglia al disturbo B, si potrà considerare
>l'applicazione della tecnica A, con tutte le cautele del caso. Non più di così.

Allora ammetti che A è meglio di B, dato che, se è pur vero che efficacia non vuol dire efficienza (cioè i trials non sono uguali alla clinica reale, cioè hanno poca validità esterna), è anche vero che qualcosa hanno a che fare con la clinica (e poi, come si spiega una differenza nei trials? Bisogna pur spiegare almeno quella). Tullio se ne rende conto, e aggiunge la frase "con tutte le cautele del caso", quindi finché non chiariamo cosa si intende, siamo al punto di prima. Insomma, mi sembra che se non specifichiamo meglio restiamo ad un livello un po' ideologico, generico. Mi vengono in mente quelli che accomunano tutti i disturbi mentali in un unico fascio e li chiamano "follia": come facciamo a curarla? Come farebbero i medici a curare le malattie, i chirurghi a operare se esistesse solo una malattia, la "malattia fisica", senza poterne distinguere una dall'altra, o se in chirurgia esistesse una sola tecnica, appunto chiamata "chirurgia"? Saremmo ancora ai tempi del salasso (certo, si può argomentare che nel campo della psicoterapia siamo ancora ai tempi del salasso!).

Concordo con Gianni sul fatto che i manuali e le ricerche sono utili, anche se a volte tu, Gianni, sembra che la faccia troppo facile, e rischi di apparire troppo semplice in certe tue argomentazioni, come se fosse possibile oggi dare per scontato che abbiamo già delle grosse certezze che emergono dalla ricerca (sono cauto persino sulle ricerche del gruppo di San Francisco! Tante volte ci si può autoingannare). A me sembra che ne abbiamo molto poche di certezze, in futuro ne avermi di più. La mia posizione è quella di una grande cautela. Ma mi sembra che nella sostanza siamo d'accordo, ad esempio concordo con questa tua frase:
>No, che non bisognerebbe decidere in modo tanto drastico e dicotomico.
>Mi sembra che, grazie agli studi di efficacia, possiamo utilizzare ALCUNI
>SUGGERIMENTI del manuale su cui sono basati.
e mi sembra che anche Tullio dica la stessa cosa. Quindi, dove divergiamo?

Un punto di divergenza concettuale penso posa essere che Tullio crede nella sospensione del giudizio, del desidero, della teoria ecc., e Gianni e io molto meno. Rossi Monti (un fenomenologo che conosce però bene anche la psicoanalisi) ci ha messo in guardia e ci ha detto: state calmi non intrufolatevi troppo in questioni epistemologiche che non possiamo certo risolvere noi. Mi sembra che Rossi Monti abbia ragione, anche se a volte mi chiedo come sia possibile non prendere posizione su questioni epistemologiche di fondo. Comunque su questa posizione di fondo io, nella mia ignoranza, tendo pensare che è meglio avere una posizione e confrontarci senza paura col paziente. Avere una posizione non vuol dire schiacciarlo, anzi, magari arricchirlo. Di nuovo penso che vi sia una confusione tra livelli: avere una nostra ferma posizione di fronte al paziente non vuol dire necessariamente non riuscire più ad ascoltare la sua. Per ora mi fermo. Paolo

Tullio Carere, 25 Febbraio 2002:

Caro Paolo, tu hai scritto:
>Faccio fatica a distinguere tra questa tua concezione di dialettica, quella
>che auspichi, e la "polemica non dialettica" che sarebbe "del tutto
>legittima". Io parlerei in modo semplice: due posizioni si confrontano, può
>darsi che in un caso una sia sbagliata e vada scartata (l'idea avversaria
>viene sconfitta, con gioia di entrambi i combattenti), in un altro emerge
>una terza idea e nessuno perde del tutto. Ma può darsi però che uno perda
>un po' meno di un altro, ecc. Ma perché perdere tempo in questi discorsi?
>L'unico senso che ci trovo, ripeto, è che siano solo degli escamotage per
>non ferire nessuno e far restare gli interlocutori nel mini-dibattito SEPI.
>Ma non so se è così, o se ho capito bene.

La questione della dialettica va collocata nel suo contesto, che era quello dell'opposizione scienza/ermeneutica, o simili. Per qualcuno (come per me) questa opposizione, come altre simili, è di tipo dialettico, nel senso che la terapia è sia scientifica che ermeneutica. Per altri bisogna schierarsi, o da una parte o dall'altra. Se un'opposizione è di tipo dialettico va articolata, ma non tutte le opposizioni lo sono, potendo anche essere legittime polemiche contro idee che si ritengono semplicemente errate.

>Modello medico e scienza: per me non c'entra niente questo discorso, anche
>qui si perde un sacco di tempo in chiacchiere (senza contare che è proprio
>dal modello medico classico, e dalle ricerche controllate, che è nato il
>concetto di placebo, cioè l'importanza della relazione psicologica). Prima di tutto 
>per me non esiste il modello medico in quanto tale, esiste il modello scientifico e basta.

Il modello medico, come definito per es. da Bohart, consiste nel "trattamento di condizioni patologiche, come quelle elencate dal DSM-IV, mediante la somministrazione di procedure la cui efficacia deve essere validata empiricamente mediante trial clinici randomizzati controllati", quindi un'operazione basata su procedure che in tanto sono ritenute scientificamente fondate, in quanto sono diverse dal placebo. Mi sembra sia corretto dire che 1) questo modello è dominante nella medicina attuale, e 2) qualcuno auspica la sua estensione alla psicoterapia. Gianni e io ci siamo trovati d'accordo nel rifiutare questo modello, in nome del principio dell'attivazione delle risorse del paziente, che non può essere inteso come un recettore passivo di cure.

>Ma ancora una vota rischiamo di essere generici, perché credere nel verdetto
>di Dodo vorrebbe dire anche che non ha senso discutere tra noi tanto non ci
>sono mai differenze. Di fatto tu Tullio ancora mi sembri in contraddizione
>quando ammetti che di fatto c'è una differenza, nel senso che certe differenze 
>nella ricerca possono avere da qualche parte delle ripercussioni nella clinica

Il verdetto di Dodo è per me indicativo del fatto che nella pratica le differenze di scuola tendono a sfumare (fino quasi a scomparire nei terapeuti più esperti), perché, come osserva Jacobson, sono le contingenze pratiche che il terapeuta deve affrontare nella sua pratica quotidiana a plasmarlo. Questo non vuol dire che certe tecniche non siano più utili di altre nell'affrontare certi problemi specifici. Ma la ricerca ha mostrato che la specificità tecnica è responsabile solo di una quota abbastanza piccola della varianza dell'outcome, mentre pesano molto di più i fattori "comuni" relazionali, incluso il placebo. Quindi dovremmo occuparci molto di più di questi fattori relazionali, a partire dal fattore relazionale principe, che è il dialogo (inteso come nel mio precedente intervento, cioè come dialettica assimilativo/accomodativa, o circolo ermeneutico). Tullio

Giovanni Liotti, 25 Febbraio 2002:

Cari Tullio e Paolo, credo che questa sarà proprio la mia ultima missiva prima del Congresso a Milano: nei prossimi tre mesi sarò assai spesso fuori Roma e comunque nell'occhio di un vero ciclone di impegni, per cui non avrò più il tempo necessario per la nostra corrispondenza.

Vi ringrazio anzitutto, nuovamente, per i tanti preziosi stimoli alla riflessione, e vi prego di perdonare la modalità polemica con cui spesso mi trovo a dialogare con i Colleghi che più stimo. Grazie a te, Tullio, in particolare per i passi dei tuoi scritti e quelli di Seligman. Anche grazie alla chiarezza e totale condivisibilità delle notazioni d Seligman, sappiamo che sull'uso da fare dei risultati degli studi di efficacia siamo piuttosto d'accordo. Un uso limitato, che (per me) è prezioso soprattutto per comprendere meglio la psicopatologia (esempio: il rapporto fra ossessioni e compulsioni nei DOC, illuminato dagli outcome studies di Salkovskis), e meno per orientare la psicoterapia dei casi quotidiani, assai più complessi di quelli reclutati negli studi di efficacia.

La considerazione del tema Piagetiano "assimilazione-accomodamento" è poi preziosa per la mia comprensione di quello che Tullio intende quando scrive:

<<L'accomodamento del bambino corrisponde embrionalmente all'epoché della fenomenologia, in cui la messa tra parentesi di aspettative e preconcezioni consente di accogliere ciò che può manifestarsi grazie a quell'apertura. Ed è proprio grazie a questa neutralizzazione sistematica che i suoi schemi si modificano e arricchiscono.>>

Sono MOLTO d'accordo con l'idea che l'accomodare è importante quanto l'assimilare. Solo che a me non sembra che accomodare equivalga a "sospendere le preconcezioni" a "permettere alla cosa in sé di rivelarci qualcosa di veramente reale", a "lavorare in O", ad effettuare una "neutralizzazione sistematica", a "sperimentare un'epoché", a "perdere momentaneamente i confini dell'Io", e via dicendo. A me sembra che accomodare equivalga piuttosto a confutare congetture, modificare gli schemi preesistenti ("accomodare", appunto), apprendere per prove ed errori. Dunque, ho una visione (forse?) diversa da quella che esprimi come segue:

<<Lo stesso movimento dialettico si esprime nel circolo ermeneutico. ..... Nella dialettica piagetiana assimilazione/accomodamento, sembra che tu consideri solo l'assimilazione. La stessa empatia, per te, è un fenomeno puramente assimilativo. Ma, come ha fatto notare Fornaro (1993), l'empatia (Einfühlung) presuppone l'unipatia (Einsfühlung), quella "trasformazione in O" che corrisponde a una temporanea perdita dei confini dell'io, quel salto nel vuoto in cui ogni rassicurante preconcezione è momentaneamente sospesa.>>

Sono convinto che anche tu sospendi le tue preconcezioni, sei capace di unipatia oltre che di empatia assimilativa, e stai nel non sapere quanto basta per permettere alla "cosa in sé" di rivelarti qualcosa di veramente "reale"... Però tutto questo, per motivi che non conosco, nella tua elaborazione teorica non compare

E' presto (anche se male) detto perché "tutto questo" non compare nella mia elaborazione teorica. Non compare, perché esprimerei il tutto così (e lo ho espresso implicitamente così nei miei scritti ogni volta che ho menzionato la mia adesione alla control-mastery theory):

1. In terapia, formulo ipotesi sul disagio che il mio paziente mi descrive, e per ridurre il quale chiede il mio aiuto (per tale formulazione, uso deliberatamente soprattutto gli schemi = IPOTESI che più hanno FINORA retto al vaglio della ricerca della psicologia di base, della developmental psychopathology, ecc.; mentre lo faccio, e non in una successiva "sospensione" o "epoché", sto già nel "non sapere", perché so che uso SOLO congetture, per quanto migliori di altre che siano GIA’ state confutate dalla PUBBLICA ricerca).

2. Osservo se il paziente risponde con aumentata partecipazione e/o ridotta ansia a quanto faccio e dico sulla base di questa formulazione (ho assimilato finora correttamente il suo disagio ai miei schemi teorici e alla mia personale esperienza umana delle emozioni e delle relazioni? se sì, c'è finora un "successo empatico").

3. Osservo con cura i fallimenti empatici, inevitabili nel corso del trattamento (i "test" della control-mastery theory spesso lo sono).

4. Cerco di correggere la mia formulazione del problema del paziente sulla base di tali fallimenti (qui non sperimento particolari "sospensioni" e non "metto fra parentesi" le mie ipotesi, ma al contrario le tengo assai presenti, e mi chiedo dove fossero sbagliate o limitate; sperimento inoltre nella mia coscienza la ricerca attiva di ipotesi alternative; diciamo che sperimento come il paziente confuta le mie congetture, e come imparo, nella relazione con lui, per prove ed errori).

5. Riparto con la nuova (accomodata) formulazione del problema che permetta di ritrovare sintonia, collaborazione, o almeno sicurezza del paziente nella relazione (naturalmente, uso la teoria dell'attaccamento perché solidamente e pubblicamente vagliata e finora non confutata, e la teoria evoluzionista dei sistemi motivazionali per le stesse ragioni).

Avrai notato che tutto ciò corrisponde strettamente al "metodo scientifico" nell'accezione che Popper (non gli psichiatri "biochimici", né mi sembra Benvenuto) dà a questo termine: un susseguirsi di congetture e confutazioni, grazie alle quali formuliamo MIGLIORI congetture. Ovviamente, il metodo suddetto nel mio lavoro si applica in un clima emotivo, mio e del paziente, particolarmente incandescente, a volte. Proprio per questo mi sembrano così importanti le teorie sulle emozioni che (coscientemente o no) usiamo per muoverci nelle relazioni, e proprio per questo apprezzo fra tali teorie quelle che hanno retto a qualche vaglio pubblico oltre che privato. E quest'ultima ripetuta notazione sul "vaglio pubblico" mi permette di ricambiare le tue citazioni, con una che ti dono, e che cavo da "Miseria dello Storicismo" di Popper:
"L'ingenuo punto di vista che l'obiettività scientifica dipenda dall'atteggiamento mentale e psicologico dei SINGOLI scienziati ... produce il punto di vista scettico secondo il quale gli scienziati non possono mai essere obiettivi. ... Questa dottrina [dell'impossibile oggettività dello scienziato], elaborata dalla cosiddetta "sociologia della conoscenza", trascura completamente il carattere sociale ... della conoscenza ... cioè il carattere ... pubblico della scienza. [E' tale carattere pubblico] ... a imporre una disciplina mentale al singolo scienziato ... e a preservare la TRADIZIONE [della scienza] a discutere criticamente le nuove idee".
 
Per cui:
"Gli scienziati devono resistere alla tentazione dello scientismo. Devono sempre tenere presente che la scienza è congetturale e fallibile" (In : "Tre Saggi sulla mente Umana")
 
e dunque:
"Non il POSSESSO della conoscenza, della verità irrefutabile, fa l'uomo di scienza, ma la RICERCA critica, persistente ed inquieta, della verità" (In: "Logica della Scoperta Scientifica").

Tullio Carere, 27 Febbraio 2002:

Caro Gianni, ti ringrazio della tua ultima missiva, cui non rispondo per lasciarti l'ultima parola. Almeno in questa sede: perché, come ti avevo annunciato, vorrei mandare alla lista SEPI internazionale un messaggio in cui espongo molto sinteticamente quelle che mi sembrano le due posizioni principali emerse dal dibattito: la tua e la mia. Naturalmente altri trarrebbero conclusioni diverse, oppure descriverebbero diversamente le due posizioni, ma questo è il mio punto di vista. Se ne nascerà, come spero, un piccolo dibattito anche lì, ognuno potrà correggere il mio inevitabile bias. Ti mando in anteprima il messaggio in questione, e lo manderò alla lista se non avrai obiezioni. Se vuoi, puoi scrivere alcune righe in inglese per bilanciare da subito il mio bias, che aggiungerò alla mia mail. Altrimenti ti terrò al corrente degli sviluppi (visto che, mi pare, non sei iscritto alla lista SEPI internazionale).

Un'ultima cosa: vorrei editare quest'ultima fase del nostro dibattito tra noi due con la partecipazione di Paolo. Ti manderò il testo editato per la tua approvazione, in vista della pubblicazione su Psychomedia, accanto all'altro (sulla lista SEPI-Italia) che dovrebbe essere già in rete. Tullio

PS. Spero in un intervento di Paolo sulla lista SEPI internazionale, dopo che avrò mandato il messaggio che vi sottopongo qui sotto:

<<Dear all, the 1st SEPI-Italy Conference--Integrity and integration in psychotherapy--will take place in Milan next month (March 16). We had a lively on-line pre-conference discussion, in which most of the presenters took part. The debate developed mainly around two positions, the first of which was presented by Gianni Liotti, whom many of you know. In his view, the only possible common ground for psychotherapists is scientific research. Challenging the dodo verdict, Gianni stated that the research is showing more and more that different conditions are better approached by different methods. For instance, people with OCD are trapped in mind loops whose content is relatively meaningless. They usually don't feel helped if the therapist tries to uncover the unconscious meaning of that content, but only if she understands their main problem and instructs them (in a cognitive-behavior style) on how to stop the loop. Ideally, the research will link all DSM disorders to specific evidence-based approaches. A textbook of psychotherapy, edited by a psychoanalyst, a cognitive-behavior, and a humanistic therapist, all well known, is in preparation. Every chapter will deal with a DSM-IV disorder, the treatment of which will integrate contributions of different orientations, provided that they are all evidence-based. This is the psychotherapy integration of the future, argues Gianni.

My objection is that scientific research has shown that only a minor part of the outcome variance is due to specific techniques, while client factors and relationship factors seem to be much more relevant. I quoted Art Bohart (2001): "Therapy is the process of dialogue rather than the prescription of treatments by an expert therapist". The basis of a true dialogue is not the application of techniques, however scientifically based, but the process that unfolds when all personal and theoretical convictions are put at stake, on both sides. Hypotheses are formulated and tested by patient and therapist together, collaborating as "local scientists" (Stricker & Trierweiler, 1995). Research findings can be helpful in the process of hypotheses generation, which however draws mainly upon the singularity of the situation at hand.

True dialogue is of course not limited by the boundaries of the therapeutic couple--it extends outside them, and involves the patient's environment on one side, the therapist's colleagues and researchers on the other side. Proponents of the dialogic paradigm are, therefore, not advocating the abandonment of theory or method. What they do advocate is a dynamic balance between the known of the theory and the unknown of the process, between the predictability of the method and the freedom to respond with openness and spontaneity. The therapeutic process is therefore not grounded on theory (however evidence-based), but on the dialectic between theory and freedom, predictability and creativity, as between patient and therapist contribution, science and hermeneutic, uncovering and remaking, accepting and confronting, and more. The dialogic-dialectical paradigm is opposed to the scientific one not because it refuses science, but because it advocates at every step of the therapeutic venture a dialogue between all the participants, and a dialectic between all the polarities of the field, science being but one of these.

A feed-back from the international SEPI community on these two positions would be much appreciated by the Italian colleagues who will meet at mid March in Milan. Thank you to those who will give one.>>

Giovanni Liotti, 28 Febbraio 2002:

Caro Tullio, la mancanza di tempo (fra due ore parto per il Veneto, e tornerò Domenica), mi costringe a sovrascrivere sul tuo riassunto in Inglese di quella che chiami la mia posizione (e che non lo è). Scusami se cambio le tue frasi (vedi sotto), ma non posso riscrivere ex-novo il tuo riassunto di quanto ho sostenuto, e mi sembra necessario che tu mandi in giro la mia posizione reale, come è ripetutamente emersa nel nostro scambio, e non la caricatura di essa che fa comodo a te.

Se questa è la dialettica -- una tecnica consistente nel selezionare fra le idee espresse dall'interlocutore solo alcune affermazioni isolate, e di selezionarle al solo fine di porle come fittizia "tesi" a cui opporre la propria antitesi e soprattutto la propria "superiore" sintesi -- allora hanno ragione i critici della dialettica, dal comunista Marx ("nella sua forma mistificata la dialettica fu moda tedesca") al liberale Popper ("la dialettica... rende davvero troppo facile introdurre forzatamente un'interpretazione dialettica ... anche in oggetti del tutto eterogenei" e "Hegel era sia un relativista sia un assolutista: adottava sempre almeno due punti di vista, e, se due non bastavano, ne faceva propri tre"). Ma spero che la dialettica non sia questa maniera di argomentare in vista solo della conferma della propria, inevitabilmente ed hegelianamente e prussianamente "superiore", sintesi.

Se, nel tuo riassunto in Inglese del nostro dibattito, accetterai il mio modo di presentare la mia posizione, allora dovrai evidentemente riscrivere la tua, in particolare riguardo ai "local scientists". L'immagine di terapeuta e paziente come "due scienziati cooperanti" la ho per la prima volta sentita dal mio maestro di behavior therapy, Victor Meyer, nel 1972, e poi la ho ri-sentita dai miei colleghi terapeuti cognitivisti (ad esempio Beck e Bedrosian nel 1982 scrivevano di "cooperative empiricism") per caratterizzare la relazione terapeutica nelle terapie cognitive (che non sono affatto direttive come si crede, ma di questo se capiterà parleremo a Milano). Figurati dunque se posso accettare che tu presenti l'idea dei "cooperating local scientists", così tipicamente cognitivo-comportamentale e che Stricker si limita a ripetere, come una obiezione alla mia posizione! Di nuovo (ma quante volte dovrò ridirlo?) la mia posizione è spesso all'esatto opposto di quella che tu mi attribuisci. Hai per caso bisogno di immaginarla opposta alla tua, la mia posizione, solo per sostenere il tuo pensiero dialettico?

Prima di sovrascrivere sul tuo scritto, vorrei rispondere ad una tua affermazione e ad una tua domanda. Tu scrivi:
> ti ringrazio della tua ultima missiva, cui non rispondo per lasciarti l'ultima parola.

No, prenditi pure tu l'ultima parola, rispondimi come e quando vuoi anche se non avrò tempo di replicare, ma non far apparire il falso, e cioè che nel nostro dibattito io ho parlato solo di studi di efficacia e non anche E SOPRATTUTTO di developmental psychopathology, teoria dell'attaccamento, e studi di processo= control-mastery theory.

Infine: preferirei che tu usassi il mio nome ufficiale (Giovanni), con cui firmo quanto scrivo anche in Inglese, e non il mio nome per amici (Gianni), che forse potrebbe non essere subito riconosciuto da Colleghi stranieri come equivalente al primo. Ecco come penso che la mia posizione, quale è stata da ripetutamente affermata nel nostro dialogo, sia resa in maniera corretta:

<< Dear all, the 1st SEPI-Italy Conference--Integrity and integration in psychotherapy--will take place in Milan next month (March 16). We had a lively on-line pre-conference discussion, in which most of the presenters took part. The debate developed mainly around two positions, the first of which was presented by Giovanni Liotti, whom many of you know. In his view, the only possible common ground for psychotherapists is scientific research.

Challenging the dodo verdict, Giovanni stated that many outcome studies show that different conditions are better approached by different methods. Rather than evidence that one therapeutic technique is superior to others, outcome studies (according to Giovanni) provide better knowledge on where to focus the therapists' attention. For instance, people with OCD are trapped in mind loops, where the content of intrusive mental images is relatively meaningless. They usually don't feel helped if the therapist tries to uncover the unconscious meaning of that content, but only if she understands their main problem (trying compulsively to prevent, cancel or neutralize those images) and helps them straightforwardly to stop the loop. Ideally, the research will link all DSM disorders to specific evidence-based approaches. A textbook of psychotherapy, edited by a psychoanalyst, a cognitive-behavior, and a humanistic therapist, all well known, is in preparation. Every chapter will deal with a DSM-IV disorder, the treatment of which will integrate contributions of different orientations, provided that they are all evidence-based.

Other stimuli to psychotherapy integration -- that according to Giovanni, are even more important than those provided by the outcome studies -- are yield by current research on the psychotherapeutic process. In particular, Giovanni helds Weiss et al.'s Control-Mastery Theory (CMT) as a powerful tool for psychotherapy integration: On the one side, it comes from scientifically sound research on the psychotherapy process (every psychotherapy process, from psychonalysis to various types of psychotherapy incuding congitive an behavioral ones); on the other, it helps the therapist to practice the essence of the scientific method during her daily practice. According to CMT, psychotherapy is an ongoing process of formulation of hypotheses, mainly concerning human relationships. These hypotheses are consciously or unconsciously formulated by both therapist and patient, and are tested by both partners in the therapeutic relationship. Hopefully, the patients' more pathogenic "hypotheses" (expectations, beliefs) are refuted as a consequence of the "corrective experience" allowed by the therapeutic relationship and by the therapist's interventions (here research findings can be helpful for the therapist's clinical choices, states Giovanni, while of course taking into account the singularity of each therapeutic relationship). Also the therapist's case formulation (her hypotheses on the patient), however, are corrected by the patient's responses. Popper's idea of science as a sequence of conjectures and refutations becomes akin to what happens, according to CMT, in the therapeutic process.

The third, and major, contribution of scientific research to psychotherapy integration, argues Giovanni, comes from the fields of developmental psychopathology, attachment theory, and neuroscience (see the recent studies of emotions, empathy & consciousness by Edelman, Damasio, Gallese, Panksepp, Ramachandran, Rizzolatti, Schore, Trevarthen, etc.).

My objection is that scientific research has shown that only a minor part of the outcome variance is due to specific techniques, while client factors and relationship factors seem to be much more relevant. I quoted Art Bohart (2001): "Therapy is the process of dialogue rather than the prescription of treatments by an expert therapist". The basis of a true dialogue is not the application of techniques, however scientifically based, but the process that unfolds when all personal and theoretical convictions are put at stake, on both sides. Hypotheses are formulated and tested by patient and therapist together, collaborating as "local scientists" (Stricker & Trierweiler, 1995). Research findings can be helpful in the process of hypotheses generation, which however draws mainly upon the singularity of the situation at hand.

True dialogue is of course not limited by the boundaries of the therapeutic couple--it extends outside them, and involves the patient's environment on one side, the therapist's colleagues and researchers on the other side. Proponents of the dialogic paradigm are, therefore, not advocating the abandonment of theory or method. What they do advocate is a dynamic balance between the known of the theory and the unknown of the process, between the predictability of the method and the freedom to respond with openness and spontaneity. The therapeutic process is therefore not grounded on theory (however evidence-based), but on the dialectic between theory and freedom, predictability and creativity, as between patient and therapist contribution, science and hermeneutic, uncovering and remaking, accepting and confronting, and more. The dialogic-dialectical paradigm is opposed to the scientific one not because it refuses science, but because it advocates at every step of the therapeutic venture a dialogue between all the participants, and a dialectic between all the polarities of the field, science being but one of these.

A feed-back from the international SEPI community on these two positions would be much appreciated by the Italian colleagues who will meet at mid March in Milan. Thank you to those who will give one. Tullio.>>

Ti saluto, ancora inquieto mentre continuo ad interrogarmi sul senso ed il motivo delle tue omissioni nel riassumere la mia posizione (non è, come scrivi, un bias interpretativo, Tullio: sono vere e clamorose ed ultra-evidenti omissioni). Gianni.

Tullio Carere, 3 Marzo 2002:

Caro Gianni, molte volte, forse il più delle volte, nei tentativi di dialogo con i colleghi mi è capitato di sentirmi frainteso, più o meno seriamente. Non mi è mai sembrato necessario né utile, tuttavia, pensare che chi mi fraintendeva si costruisse una caricatura di comodo del mio pensiero per dimostrare la propria superiorità. Il principio piagetiano dell'assimilazione mi è sempre sembrato più che sufficiente per spiegare il fenomeno. Tutti noi tendiamo a interpretare quello che sentiamo nei termini dei nostri schemi innati o acquisiti, e abbiamo generalmente una grande difficoltà a sospenderli per ascoltare ciò che essi non prevedono. Questo vale purtroppo anche per me, che pure mi faccio paladino della necessità di sospendere ogni preconcezione. Sapendo che questo è l'andamento generale, se vogliamo comunque cercare di portare avanti le ragioni del dialogo è necessario avere molta pazienza, nel momento in cui ci sembra di essere fraintesi (magari per l'ennesima volta). Pazienza che riconosco tu hai per lo più avuto, a parte quest'ultimo scatto.

Fatta questa premessa, veniamo alla cosa che ti è sembrata intollerabile. E' vero, nel presentare il tuo pensiero mi sono riferito solo a uno dei filoni del tuo discorso, ma l'ho fatto per motivi che mi erano parsi buoni. Innanzitutto, la presentazione era destinata a un messaggio per la lista SEPI, che doveva essere breve per ragioni di netiquette, cioè perché i messaggi lunghi sono mal visti e mal tollerati in una lista pubblica di discussione. Quindi la tua e la mia posizione dovevano essere sintetizzate nello spazio che normalmente prende il sommario di un articolo, 15 massimo 20 righe. C'ero riuscito con la tua (15 righe), avevo sforato con la mia (22 righe), che avrei dovuto accorciare nella versione definitiva. Certo, in 15-20 righe potevo accennare molto sinteticamente a tutti e tre i tuoi filoni, ma al prezzo di rinunciare a un discorso intellegibile. Invece ci poteva stare uno solo dei tuoi tre filoni, che a ragione o torto io ritenevo e tuttora ritengo il più rappresentativo del tuo pensiero. Naturalmente la scelta comportava un bias, per cui mi sono guardato bene dal mandare il messaggio così com'era, ma te l'ho sottoposto per avere la tua autorizzazione. Che cosa c'è che non va? Bastava che tu dicessi: non condivido la tua scelta, io presenterei il mio pensiero diversamente. Come in effetti hai fatto, ma con un tono che avrebbe potuto anche irritarmi, se non avessi fatto per il nuovo anno il proponimento di non permettere a nessuno di farmi perdere le staffe.

Tu, del resto, non ti limiti a presentare diversamente il tuo pensiero, ma mi spieghi che cosa "veramente" pensi, a fronte di una grossolana contraffazione. Ma, caro Gianni, il nostro lavoro ci insegna che la nostra autopercezione non è sempre, non è necessariamente più veritiera della percezione che altri hanno di noi (del nostro vero essere, del nostro vero pensiero). In particolare: siamo sicuri che la sintesi del tuo pensiero che mi hai mandato, sovrascrivendo la mia, rappresenti fedelmente il pensiero di quel Gianni Liotti che ha contribuito con N missive al dibattito sulla minilista SEPI-Italia, e poi nel gruppo ristretto con Paolo e me? A mio parere no. Anzi, ci posso fare sopra un'ipotesi falsificabile: nella sintesi in questione l'approccio dialogico è nettamente sovrarappresentato rispetto alla media delle cose che hai detto in questi mesi. E' vero che nella sintesi fatta da me quell'approccio è sottorappresentato, anzi non è rappresentato affatto, ma questo è precisamente il punto del mio bias. Insomma, tu per me non hai contrapposto la "realtà" del tuo pensiero a una volgare contraffazione, ma semplicemente il tuo bias al mio. Tu non hai accesso alla cosa in sé, come non l'ho io. Puoi solo fare ipotesi sul tuo stesso pensiero, come le può fare chiunque altro. L'importante, tu m'insegni, è che siano ipotesi falsificabili. La mia (che la tua sintesi non rappresenti adeguatamente il tuo pensiero, come sei andato esponendolo in questi mesi) è pienamente falsificabile (basterebbe trovare uno studente disposto a sobbarcarsi il lavoro di siglatura in cambio di una tesi di laurea). L'affermazione "so ben io che cosa veramente penso, dal momento che sono io a pensarlo" invece non è falsificabile (anche un pazzo potrebbe affermarlo, anzi, soprattutto un pazzo).

Quella tesi di laurea si proporrebbe un'analisi quantitativa dei tuoi testi. In mancanza, per il momento, di quei dati, proviamo ad accontentarci di un'analisi qualitativa. La tua sintesi, a parte correzioni che mi sembrano marginali della mia (primo paragrafo), e l'aggiunta del terzo paragrafo (cinque righe di pura elencazione), differisce dalla mia essenzialmente per il secondo paragrafo, quello in cui parli della Control-Mastery Theory in termini tali per cui potrei anche prenderlo e trapiantarlo pari pari nella sintesi del *mio* pensiero, se non fosse già troppo lunga, a sostegno della tesi dei "local scientists". Della CMT sono state scritte molte cose, ma la lettura dialogica che ne dai qui non può che trovarmi consenziente. Questo vuol dire che le nostre posizioni non sono poi tanto differenti? Sì e no. No, non sono tanto differenti perché teniamo sicuramente entrambi in gran conto il dialogo. Eppure sì, perché le nostre concezioni del dialogo divergono per un punto importante, che è quello che ho cercato (senza riuscirci) di mettere in luce nelle mie sintesi.

Proviamo a ricapitolare. Tu hai detto (18 Febbraio):
>non credo che gli psicoterapeuti si troveranno
>un giorno a scegliere il principio dialogico di Buber come fondamento per la loro
>prassi, o per la ricerca di un terreno comune su cui edificare una "psicoterapia
>senza aggettivi". Se non altro, perché Buber non ci dice, non può dirci, in quale
>diverso modo è bene affrontare disturbi fra loro diversi (quanto sono diversi, che
>so, un disturbo ossessivo-compulsivo ed un disturbo borderline di personalità).

Io ti ho risposto (20 Febbraio) citando le argomentazioni di Bohart, tutte rigorosamente fondate sui dati della ricerca, sintetizzate nella frase "La terapia è il processo del dialogo, piuttosto che la prescrizione di trattamenti da parte di un terapeuta esperto" (Bohart, 2001). Ne traevo la conclusione che "L'appello al dialogo… non è da intendersi come un richiamo generico e vagamente sentimentale, ma come l'indicazione del terreno fondamentale, o della sostanza stessa della psicoterapia. "

Tu hai ribattuto (21 Febbraio):
>Ripeto che concordo (mi sembra ovvio) sull'importanza sovraordinata del
>dialogo. Mi sembra ovvio, dico, visto che il dialogo è l'essenza stessa della
>psicoterapia. Penso però che non basti affermare, con dovizia di argomentazioni
>antropologico-filosofiche, tale importanza ESSENZIALE, ma che la forma del dialogo
>efficace vada specificata con la massima precisione possibile.

La mia risposta (23 Febbraio): "Per me il dialogo efficace è al contrario quello la cui forma non è specificata affatto, e che proprio per questo potrà prendere la forma (imprevista e imprevedibile) che l'incontro irripetibile tra due persone genera, quando non è costretto a prendere quella prevista dalla teoria del terapeuta."

Questa differenza è rispecchiata nella sintesi che ho fatto del tuo pensiero, e che è diventata il primo paragrafo della tua versione. L'obiettivo per me era quello che ti avevo già annunciato: mettere in rilievo le nostre principali differenze per sottoporle a una discussione internazionale. Ammetto però che il modo in cui ho cercato di realizzare questo obiettivo può suonare riduttivo, e concordo senz'altro sull'opportunità di cambiarlo. Non posso accettare il tuo testo, perché troppo lungo, ma ti propongo l'alternativa che segue:

<<Dear all, the 1st SEPI-Italy Conference--Integrity and integration in psychotherapy--will take place in Milan on March 16. We had a lively on-line pre-conference discussion, in which most of the presenters took part. The debate developed mainly around two positions, the first of which was presented by Giovanni Liotti, whom many of you know, and the second by myself. We agreed on the point that dialogue must be the very foundation of psychotherapy, but emphasized different visions of dialogue.

Firstly, the agreement. We both praise Weiss et al.'s Control-Mastery Theory (CMT) as a powerful tool for psychotherapy integration: On one side, it comes from scientifically sound research on the psychotherapy process (every psychotherapy process, from psychoanalysis to various types of psychotherapy); on the other, it helps the therapist practice the essence of the scientific method in her daily work. According to CMT, psychotherapy is an ongoing process of formulation of hypotheses, mainly concerning human relationships. These hypotheses are consciously or unconsciously formulated by both therapist and patient, and are tested by both partners in the therapeutic relationship. Hopefully, the patients' more pathogenic "hypotheses" (expectations, beliefs) are refuted as a consequence of the "corrective experience" allowed by the therapeutic relationship and of the therapist's interventions (research findings can be helpful for the therapist's clinical choices, while of course taking into account the singularity of each therapeutic relationship). Reciprocally, the therapist's case formulation (her hypotheses on the patient) is corrected by the patient's responses. Popper's idea of science as a sequence of conjectures and refutations is akin to what happens, according to CMT, in the therapeutic process, which is meant as a collaborative venture between two "local scientists" (Stricker & Trierweiler).

Secondly, the disagreement. To Giovanni, it is not enough to underscore the essential importance of dialogue: its effective form must be specified with the greatest possible precision. Challenging the dodo verdict, he states that many outcome studies show that different conditions are better approached by different methods. Rather than evidence that one therapeutic technique is superior to others, outcome studies (according to Giovanni) provide better knowledge on where to focus the therapists' attention. For instance, people with OCD are trapped in mind loops, where the content of intrusive mental images is relatively meaningless. They usually don't feel helped if the therapist tries to uncover the unconscious meaning of that content, but only if she understands their main problem (trying compulsively to prevent, cancel or neutralize those images) and helps them straightforwardly to stop the loop. Ideally, the research will link all DSM disorders to specific evidence-based approaches. A textbook of psychotherapy, edited by a psychoanalyst, a cognitive-behavior, and a humanistic therapist, all well known, is in preparation. Every chapter will deal with a DSM-IV disorder, the treatment of which will integrate contributions of different orientations, provided that they are all evidence-based.

To me, on the contrary, the form of the effective dialogue is not specified at all, so that it can take the unforeseeable form that the unique encounter of two persons generates, when it is not constrained by the therapist's theory. Scientific research has shown that only a minor part of the outcome variance is due to specific techniques, while client factors and relationship factors seem to be much more relevant. I quoted Art Bohart: "Therapy is the process of dialogue rather than the prescription of treatments by an expert therapist". The basis of a true dialogue is not the application of techniques, however scientifically based, but the process that unfolds when all personal and theoretical convictions are put at stake, on both sides. Research findings can be helpful in the process of hypotheses generation, which however draws mainly upon the singularity of the situation at hand. The therapeutic process is therefore not grounded on theory, but on the dialectic between theory and freedom, predictability and creativity, as between patient and therapist contribution, science and hermeneutic, uncovering and remaking, accepting and confronting, and more. The dialogic-dialectical paradigm advocates at every step of the therapeutic venture a dynamic balance between all the polarities of the field, science being but one of these.

A feed-back from the international SEPI community on these two positions would be much appreciated by the Italian colleagues who will meet at mid March in Milan. Thank you to those who will give one. Tullio>>

Commento: Sul primo paragrafo (the agreement) penso sarai d'accordo, perchè riproduce con modifiche minime il tuo secondo, su cui ti ho detto che concordo pienamente. Il secondo riproduce il tuo primo, preceduto dalla frase "To Giovanni, it is not enough to underscore the essential importance of dialogue: its effective form must be specified with the greatest possible precision", che traduce quella citata sopra, dalla tua lettera del 21 Febbraio. Il terzo è una sintesi della mia precedente sintesi.

L'intenzione di questo piccolo testo è di mostrare molto sinteticamente ciò che ci unisce e ciò che ci divide, e non, evidentemente, di dare un quadro completo delle nostre idee. Quindi non include il tuo terzo paragrafo (un elenco di contributi della ricerca all'integrazione psicoterapeutica), come non include aspetti cruciali del mio pensiero (pensa solo alla bioniana "fede in O", all'unipatia, eccetera).

Spero che approverai questa versione. In caso contrario, proponi ancora una volta le tue modifiche. In ogni caso, non credo si possa andare molto più in là di così: mostrare l'area di accordo ed evidenziare l'area di disaccordo nel modo più chiaro e sintetico possibile, in modo da offrire ai colleghi una base per la discussione di due modi di intendere l'integrazione che in questo momento si fronteggiano nel nostro campo. Tullio

Paolo Migone, 3 Marzo 2002:

Caro Tullio, ho letto al tua risposta a Gianni, e mi sento stupido, nel senso che faccio fatica a vedere una reale divergenza tra voi. Sono imbarazzato, temo che mi sfugga qualcosa o che io non abbia letto attentamente le varie mail, o i tuoi articoli (cosa peraltro vera, per colpa mia). Faccio fatica anche a capire la tua enfasi sul dialogo, sulla dialettica tra apertura (alla scoperta di cose nuove) e chiusura (dei modelli precostituiti), tra scienza ed ermeneutica ecc., nel senso che per me nel concetto generale di scienza tutto quello che tu dici dovrebbe essere già incluso, fa parte del normale meccanismo della conoscenza. Forse questo è quello che intende dire Gianni (ad esempio col concetto popperiano di "congetture e confutazioni"). Come forse sai, io non mai capito neanche le obiezioni dell'ermeneutica (circolo ermeneutico ecc.), per me quelle cose lì derivano da filosofi che erano semplicemente ignoranti della scienza, o ne avevano una concezione stereotipata, antiquata. Non a caso col gruppo di Bologna abbiamo voluto nel 1994 cercare di capirci qualcosa di più e far litigare per un giorno intero Holt con Vattimo; la mia impressione fu che il match fu vinto da Holt alla grande. Vattimo, con tutto il suo sfoggio di cultura, ne uscì in realtà malconcio (questa fu però solo la mia opinione, non tutti nel gruppo furono d'accordo, come puoi ben immaginare).

La cosa che faccio più fatica a capire della tua posizione comunque è la tua fede che sia possibile stare fuori da tutto e osservare la dialettica tra le cose, mentre Gianni mi sembra che si schieri da una parte (dalla parte della scienza, intesa in un modo molto aperto e dialettico, come dovrebbe essere) e da lì cerchi di vedere le altre cose. Quindi o volete dire le stesse cose e usate parole diverse, oppure c'è una vera differenza di fondo, filosofica, e allora io simpatizzo con la posizione di Gianni, ammesso che abbia capito bene.

Detto in parole povere: la scienza per me non è una opzione, qualcosa che può entrare o non entrare, c'è sempre, volenti o nolenti, come l'aria che respiriamo. Intendo dire che è un registro per vedere la realtà (d'accordo che è un registro che non si usa sempre e ha certe finalità e non altre), ma prima o poi dalle maglie di quel registro bisogna passare, altrimenti non si fa vera conoscenza, non si ottengono risultati riproducibili, non si controlla la realtà. Che poi della scienza per gran parte della vita non ce ne facciamo niente (es. quando camminiamo, quando facciamo psicoterapia, ecc.) è una cosa scontata, ma questo non vuol dire che essa sia "sbagliata" per cercare di capire in un qualche modo (coi suoi strumenti) quei fenomeni, ammesso che ci vogliamo provare. Paolo

Tullio Carere, 4 Marzo 2002:

At 22:32, 3-03-02, Paolo Migone wrote:
>Caro Tullio, ho letto al tua risposta a Gianni, e mi sento stupido, nel senso che faccio
>fatica a vedere una reale divergenza tra voi. Sono imbarazzato, temo che mi
>sfugga qualcosa o che io non abbia letto attentamente le varie mail, o i
>tuoi articoli (cosa peraltro vera, per colpa mia). Faccio fatica anche a
>capire la tua enfasi sul dialogo, sulla dialettica tra apertura (alla
>scoperta di cose nuove) e chiusura (dei modelli precostituiti), tra scienza ed 
>ermeneutica ecc., nel senso che per me nel concetto generale di scienza tutto quello che 
>tu dici dovrebbe essere già incluso, fa parte del normale meccanismo della conoscenza

Caro Paolo, in fondo la questione si riduce a questo: per Gianni (e senz'altro anche per te) la scienza è il fondamento di ogni discorso che ci possa dire qualcosa di vero e di reale, e il dialogo e la dialettica sono semplicemente aspetti parziali del normale discorso scientifico. Per me, invece, le cose stanno esattamente al contrario: dialogo e dialettica sono il fondamento, e la scienza ne è solo un aspetto parziale. Di conseguenza, per Gianni e per te l'unico terreno su cui potrà mai avvenire un'integrazione psicoterapeutica è quello scientifico, mentre per me questo terreno è quello dialogico-dialettico. Ho visto ieri Freni, che terrà a Milano una relazione su questa stessa linea. Distinguerà la ricerca empirica dalla ricerca euristica, e svilupperà la tesi per cui ciò che è necessario è un'articolazione dialettica tra i due tipi di ricerca, non l'egemonia della ricerca empirica su quella euristica (in questa egemonia, la ricerca euristica è ridotta al solo momento della generazione delle ipotesi, che solo la ricerca empirica può verificare o confutare).

Evidentemente voi siete convinti quanto me della superiorità delle rispettive visioni del mondo, ma questo è normale. Una cosa è chiara nella SEPI: esistono diversi approcci integrativi, e nessuno per il momento riesce a prevalere sugli altri. Quindi per il momento l'unica alternativa agli steccati e alle chiusure settarie è il pluralismo, cioè la convivenza di più approcci all'integrazione. In questa prospettiva, è importante che ciascuno cerchi di definire nel modo più chiaro possibile il proprio approccio, in modo da facilitare il confronto tra i diversi modelli. Se riusciremo in questo, per esempio nella forma che ho proposto di un messaggio alla lista internazionale in cui evidenziamo le nostre aree di accordo e di disaccordo nel modo più chiaro e sintetico possibile, sarà già un risultato notevole. Tullio

Giovanni Liotti, 4 Marzo 2002:

Caro Tullio, hai il mio assenso a far circolare la seconda sintesi che mi hai inviato nella tua ultima mail. Sono stato contento, leggendola, di scoprire di aver sbagliato a sospettare che tu avessi omesso deliberatamente dalla tua precedente sintesi alcuni miei argomenti. Accetto dunque con grande piacere la tua dichiarazione che ad indurti ad ometterli è stato solo un problema di assimilazione inconscia e non empatica, coniugata alla necessità di far risaltare, nelle poche righe permesse dalla netiquette, un contrasto (sul modo di valutare gli outcome studies, anche se poi si è visto che neppure qui c'è sostanziale contrasto) anziché vari accordi (ad esempio su terapeuta e paziente come "scienziati locali" cooperanti, con diversi strumenti, ad un'unica meta identificabile nel "Piano"). Permettimi solo di rilevare che il sottolineare ed enfatizzare il contrasto anziché l'accordo, quando entrambi esistono in un dialogo, potrebbe apparire un modo assai peculiare di cercare l'integrazione. Ma forse sui punti di accordo, prima che ti riscrivessi dichiarando più chiaramente di quanto avessi fatto prima il mio particolare apprezzamento della CMT, non ci eravamo soffermati abbastanza, e dunque solo nell'ultimo irritato scambio essi sono diventati evidenti. Se però è così, ecco un altro strano fenomeno: la collera ed il sospetto permettono di capirsi meglio?

Spero che ci siamo capiti abbastanza, perché altrimenti ci si dovrà entrambi arrabbiare di nuovo (con o senza l'intermediazione di un immaginario laureando a cui affidare il compito di quanto spesso, nelle mie N mail precedenti la tua prima sintesi, io abbia indicato che attribuivo più importanza alla ricerca sul processo e alla developmental psychopathology, ecc. che alla ricerca sugli esiti). Ringrazio tantissimo Paolo per il suo paziente e accurato modo di sostenere e stimolare con la sua grande cultura ed intelligenza gli aspetti migliori del nostro scambio, e di tollerare i peggiori. Gli chiedo anche scusa, perché credo di averlo frastornato inutilmente con le nostre grida. Inutilmente, perché in ultima analisi le grida riguardavano soltanto l'importanza diversa da noi attribuita alla fase di confutazione "scientifica" delle nostre congetture, come fattore di integrazione: fattore salutare e di importanza primaria per me, fattore di importanza secondaria e sottilmente pericoloso per te. Gianni

Giorgio Gabriele Alberti, 10 Marzo 2002:

Cari amici e colleghi, sto seguendo il dibattito che nelle ultime settimane si è sviluppato intorno alla contrapposizione dialettica/scienza, che ha visto in un primo momento aspri e generosi duelli tra Tullio Carere e Giovanni Liotti, e poi, più recentemente, tra Tullio Carere e Paolo Migone.

Mi aggiungo io oggi, probabilmente quando la discussione è già sul defervere, ma forse ho un qualche suggerimento utile da dare. Vedo Tullio impegnato in una difesa appassionata della doppia natura, scientifi- ca e non scientifica, della pratica psicoterapeutica (per esempio, scrive a Diana Fosha: "...I am very happy to be con- firmed in my impression that for you too the scientific enterprise of generating/validating hypotheses and the alchemic thrust of mystic/erotic union live side by side in the therapeutic venture (a dialectical articulation of the two sides is necessarily implied)...").

E chi non concorderebbe sul fatto che nel rapporto col paziente prevalgono processi che, personalmente, direi artistici, ma anche, perché no, mistici, nel senso che ogni prassi è molto più complessa, circolare, multisemica, di ogni modello scientifico, che persegue, come è noto, la semplificazione? Il problema è che parlando delle psicoterapie e della loro eventuale prospettiva integrativa non si fa psicoterapia, si fa un qualcos'altro che proprio per poter essere univoco, non ambiguo, comunicabile, intersoggettivamente verficabile deve rispondere ai criteri dell'attività scientifica.

In questo senso mi trovavo d'accordo con Liotti, e poi, più recentemente con Migone, quando dice: "It seems to me that Tullio's argument is not convincing. Of course if our only dream is the "integration dream", the only way to find an agreement among different theories is to be, in Tullio's words, "dialectical", i.e., not to reject the ideas of anybody. But if our goal is another one, i.e. to build the best therapy, and if by "integration" we mean to integrate what is good in different therapies, necessarily we might need to reject some therapies. I always thought of integration as a way to discuss, to understand things better, to clarify and confront each others' ideas, also in order to correct ours, and not necessarily as something in which we have to find at any cost an agreement."

E mi dispiace vedere che Tullio non sembri riconoscere l'altissima potenzialità di incontro e reciproca comprensione che la posizione di Paolo implica: "...reject some therapies..." - io preferirei dire, più prudentemente, "... rifiutare certi aspetti di certe terapie..." - significa rifiutare insieme, avendone riconosciuto l'irrilevanza, aspetti inutili, pleonastici, inefficaci, di un qualche metodo terapeutico, e quindi progredire insieme verso una migliore conoscenza delle psicoterapie in generale, avendo in mente il progetto comune di ampliare la conoscenza laica e verificabile che in questo campo è possibile.

E' pur vero che nello svolgersi storico di una disciplina vi sono discontinuità, salti di paradigmi, in cui il nuovo irrompe in certi casi straniando gli astanti, abbondando nelle metafore, nelle provocazioni e nelle oscurità, apparendo come mistico. Ma non credo che gli apporti di Roger Bacon, o di Galileo, o di Darwin, o di Freud, ma anche di Watzlawick Beavin e Jackson, di Bowlby, o di Miller Galanter e Pribram, importantissimi per la loro globale influenza, siano mai stati vissuti come mistici. V'è quindi modo di cambiare il cammino della scienza, anche psicologica, in modo apollineo e non dionisiaco. E oso avanzare un qualche dubbio sulla consistenza e persistenza dei contributi dati, ad esempio dalla teoria dell'orgone di Wilhelm Reich, o dal concetto di sincronicità di C.G. Jung.

Che il misticismo, junghiano o d'altro tipo, se espulso dalla finestra rientri dalla porta, è certo un fenomeno ricorrente e forse anche un problema, ma è un problema per così dire sociologico che va tenuto separato dalla conoscenza delle cose, se per conoscenza vogliamo sempre intendere separare, in base a criteri concordati, il vero dal falso. Giorgio G. Alberti

Paolo Migone, 11 Marzo 2002:

At 23.26 10/03/2002 +0100, Giorgio Gabriele Alberti wrote:
>Cari amici e colleghi, sto seguendo il dibattito che nelle ultime
>settimane si è sviluppato intorno alla contrapposizione dialettica/scienza,
>che ha visto in un primo momento aspri e generosi duelli tra Tullio Carere e
>Giovanni Liotti, e poi, più recentemente, tra Tullio Carere e Paolo Migone...

Vorrei ribadire un aspetto della mia critica a Tullio che mi sembra non sia ancora stata colta da nessuno, né italiano né americani. Come ho detto nel quartultimo capoverso della mia mail in inglese del 6-3-2002 alla lista SEPI internazionale, a me sembra che il principale errore di Tullio consista in una confusione tra livelli logici. Infatti la sua posizione "dialogico-dialettica" è aprioristica, filosofica, cioè si colloca al di là di tutte le altre posizioni possibili, posizioni che lui dalla sua posizione vuole per così dire guardare dall'alto, dialetticamente considerare senza escluderne nessuna ecc. Posizione legittima, al di là del senso che può avere questa posizione. Ma il fatto è che le altre posizioni che Tullio vede in modo dialogico-dialettico non sarebbero affatto d'accordo se sapessero che Tullio le tratta in questo modo, si sentirebbero offese. Cioè Tullio non rispetta queste altre posizioni o visioni del mondo. Prendiamo ad esempio la scienza: essa (e la psicoanalisi così come la intese Freud vi rientra) si propone di investigare il mondo dal suo punto di vista, seppur modestamente e coi suoi limitati strumenti, ma senza concedere niente a nessuno e senza guardare in faccia nessuno. La psicoanalisi (o la scienza) studia ad esempio la mistica, guai a mettere questi due campi sullo stesso piano come se fossero due oggetti appartenenti alla stessa classe. Mentre invece Tullio lo fa, e lo fa dalla sua posizione che lui ha già deciso, aprioristicamente, che è superiore a tutte le altre.

Tullio Carere, 11 Marzo 2002:

Carissimi, non speravo tanto: un'ultima fiammata a pochi giorni dal congresso.

At 23:26 +0100 10-03-02, Giorgio Gabriele Alberti wrote:
>E chi non concorderebbe sul fatto che nel
>rapporto col paziente prevalgono processi che, personalmente, direi
>artistici, ma anche, perché no, mistici, nel senso che ogni prassi è molto
>più complessa, circolare, multisemica, di ogni modello scientifico, che persegue, 
>come è noto, la semplificazione? Il problema è che parlando delle
>psicoterapie e della loro eventuale prospettiva integrativa non
>si fa psicoterapia, si fa un qualcos'altro che proprio per poter essere
>univoco, non ambiguo, comunicabile, intersoggettivamente 
>verficabile deve rispondere ai criteri dell'attività scientifica.

Tu affermi, Giorgio, che se vogliamo parlare di psicoterapia, particolarmente in una prospettiva integrativa, dobbiamo usare un linguaggio "univoco, non ambiguo, comunicabile, intersoggettivamente verificabile", dobbiamo insomma sottoporci ai "criteri dell'attività scientifica". Io ho osservato più volte che in questo modo si taglia fuori tutta quella parte non piccola (la maggioranza, in effetti) del campo psicoterapeutico che a questi criteri non intende sottoporsi, o perché ritiene che la psicoterapia non sia per nulla un'attività scientifica, o (più spesso) perché ritiene che l'attività scientifica sia solo una parte, e non il fondamento, tanto della pratica psicoterapeutica, quanto della comunicazione tra terapeuti.

Peggio per chi resta fuori, sembra vogliate dire tu, Gianni e Paolo. Il terreno scientifico è l'unico su cui è possibile intendersi e comunicare tra aderenti a scuole diverse, quindi l'unico su cui un'integrazione possa avvenire. Anzi, sta già avvenendo, come ha spesso ricordato Gianni, citando vari casi di collaborazione interdisciplinare scientificamente fondata. L'integrazione, l'unica possibile, avviene nel recinto della scienza. Fuori restano tutti gli irriducibili, ognuno a coltivare il proprio orticello, ma sostanzialmente incapaci di darsi quella disciplina che permette la comunicazione intersoggettiva.

Fin qui, non fa una grinza. Però, Giorgio, tu fai una premessa essenziale: "chi non concorderebbe sul fatto che nel rapporto col paziente prevalgono processi che, personalmente, direi artistici, ma anche, perchè no, mistici…". Giusto, come non concordare su questo. Ma se su questo siamo d'accordo, per quale motivo la comunicazione terapeuta/paziente dovrebbe essere regolata da principi diversi da quelli che regolano la comunicazione terapeuta/terapeuta? Se riteniamo che la comunicazione intersoggettiva intanto è efficace in quanto è regolata dai "criteri dell'attività scientifica", questo principio non dovrebbe valere anche, e a maggior ragione, per la relazione terapeuta/paziente? E dunque anche la relazione terapeuta/paziente dovrebbe essere scientificamente fondata, eliminando quella disdicevole prevalenza di processi artistici e mistici, esattamente come nella comunicazione tra terapeuti.

Coerentemente con questo assunto, la relazione terapeutica dovrebbe funzionare in primo luogo come un laboratorio scientifico, in cui si generano e validano o confutano ipotesi, in secondo luogo come una relazione medica, in cui disturbi specifici sono trattati con procedure specifiche "evidence-based". E, va da sé, una terapia scientificamente fondata e condotta dovrebbe produrre risultati migliori, anzi molto migliori di una terapia a fondamento ermeneutico, artistico o mistico. La ricerca scientifica (in questo caso, gli outcome studies) non può che confermare questa deduzione impeccabilmente logica. La conferma davvero? Purtroppo no. Una meta-analisi di meta-analisi (una meta-meta-analisi) degli studi di outcome, condotta da Luborsky e in corso di stampa (è stato pubblicato un commentario di Messer e Wampold) conferma alla grande il verdetto di Dodo. I procedimenti specifici impiegati (è irrilevante se siano o non siano scientificamente fondati) hanno un effetto minimo, quasi trascurabile, sulla varianza dell'esito. Quelli che fanno la differenza sono i fattori comuni, cioè il modo in cui la relazione è gestita indipendentemente dal metodo (scientifico o non scientifico) applicato.

L'ipotesi che la relazione terapeutica debba essere scientificamente fondata non è dunque, almeno per ora, scientificamente fondata. Certo che una terapia efficace richiede una comunicazione efficace, questo è chiaro: ma il punto è che una comunicazione efficace non è, nella relazione paziente/terapeuta, una comunicazione scientificamente fondata. E se non lo è nella relazione paziente/terapeuta, perché mai dovrebbe esserlo nella relazione terapeuta/terapeuta? Quello che davvero funziona nella comunicazione terapeutica è la capacità di gestire la relazione: cioè di stare su un terreno scientifico di formulazione/validazione di ipotesi quando è il caso, e su un terreno artistico/mistico, quando è questo che il processo richiede; oppure di confrontare il paziente con la realtà che cerca di evitare quando è necessario, o piuttosto di rassicurarlo e validarlo, quando è di questo che ha bisogno. E' insomma la capacità dialogico-dialettica del terapeuta che fa la differenza, non la sua preparazione scientifica.

Ora, se la comunicazione che funziona nella relazione paziente/terapeuta è di tipo dialogico-dialettico e non di tipo scientifico, perché non dovrebbe essere lo stesso nella relazione terapeuta/terapeuta? Per il momento, è vero, non si può dire, ma questo dipende, a mio parere, dal fatto che la comunicazione terapeuta/terapeuta è solo agli inizi. Lasciamola crescere. Anche nella relazione paziente/terapeuta all'inizio prevaleva l'accanimento scientifico, e solo da poco tempo questo accanimento accenna ad ammorbidirsi. Ci vorrà tempo.

At 0:28 +0100 11-03-02, Paolo Migone wrote:
>Vorrei ribadire un aspetto della mia critica a Tullio che mi sembra non sia
>ancora stata colta da nessuno, né italiano né americani. Come ho detto nel
>quartultimo capoverso della mia mail in inglese del 6-3-2002 alla lista
>SEPI internazionale, a me sembra che il principale errore di Tullio consista
>in una confusione tra livelli logici. Infatti la sua posizione
>"dialogico-dialettica" è aprioristica, filosofica, cioè si colloca al di là
>di tutte le altre posizioni possibili, posizioni che lui dalla sua posizione
>vuole per così dire guardare dall'alto, dialetticamente considerare senza
>escluderne nessuna ecc. Posizione legittima, al di là del senso che può
>avere questa posizione. Ma il fatto è che le altre posizioni che Tullio vede
>in modo dialogico-dialettico non sarebbero affatto d'accordo se sapessero
>che Tullio le tratta in questo modo, si sentirebbero offese. Cioè Tullio non
>rispetta queste altre posizioni o visioni del mondo. Prendiamo ad esempio la
>scienza: essa (e la psicoanalisi così come la intese Freud vi rientra) si
>propone di investigare il mondo dal suo punto di vista, seppur modestamente
>e coi suoi limitati strumenti, ma senza concedere niente a nessuno e senza
>guardare in faccia nessuno. La psicoanalisi (o la scienza) studia ad esempio
>la mistica, guai a mettere questi due campi sullo stesso piano come se
>fossero due oggetti appartenenti alla stessa classe. Mentre invece Tullio lo fa, e lo fa
>dalla sua posizione che lui ha già deciso, aprioristicamente, che è superiore a tutte le altre.

Caro Paolo, tu affermi che la mia posizione dialogico-dialettica è "aprioristica, filosofica". Filosofica senz'altro. Credo fermamente che la psicoterapia contemporanea sia erede del grande dialogo filosofico-terapeutico degli antichi. I filosofi antichi tenevano molto all'"episteme" (quella che oggi chiamiamo conoscenza scientifica), ma avevano un rapporto molto più rispettoso e vitale col mistero (quindi con il vertice "mistico" dell'esistenza) di quanto non abbiano gli attuali fans della scienza.

Io non ho invece deciso "aprioristicamente", che la posizione dialogico-dialettica è superiore a tutte le altre. Sono convinto che questa posizione, non quella attestata sul vertice scientifico, è quella che permette la comunicazione terapeuta/paziente (vedi sopra: non è una convinzione aprioristica). Poi constato ogni giorno che non solo nella relazione terapeuta/paziente, ma in ogni relazione, la comunicazione funziona se, e nella misura in cui, in primo luogo è dialogica (cioè se entrambi gli interlocutori accettano di mettere in gioco tutti i loro assunti), in secondo luogo è dialettica (cioè non cerca di affermare unilateralmente un punto di vista, ma accoglie il criterio centrale della dialettica: che ogni cosa non è soltanto ciò che è, ma è intimamente costituita anche dal rapporto con ciò che non è - per esempio non c'è scienza senza mistica, né mistica senza scienza).

Certo, mi sono convinto della superiorità del paradigma dialogico-dialettico, ma tu non sei convinto della superiorità del paradigma scientifico? Siamo qui per confrontare, senza apriorismi, le nostre posizioni. Io credo che il paradigma dialogico-dialettico sia superiore a quello scientifico perché tanto nella relazione terapeuta/paziente, quanto in quella terapeuta/terapeuta, è in grado di mettere in relazione (dialogica e dialettica, appunto) la componente scientifica e quella mistica, mentre il paradigma scientifico non è in grado di farlo, essendo costretto a espellere, squalificare o ridurre a sé stesso la componente mistica. Tullio

P.S.: C'è un ottimo articolo di Freni su PM sul rapporto tra psicoanalisi e mistica, e in particolare sul filone mistico della psicoanalisi (Winnicott, Bion, Lacan), con una ricca bibliografia.

Giorgio Gabriele Alberti, 12 Marzo 2002:

Caro Tullio, mi chiami in causa, e cercherò di risponderTi. Il Tuo intervento mi evoca tutta una serie di argomentazioni. Cercherò di essere sintetico. Tu dici a un certo punto (esentami, per favore, dal rituale "Tullio Carere wrote"): "Ma se su questo siamo d'accordo, per quale motivo la comunicazione terapeuta/paziente dovrebbe essere regolata da principi diversi da quelli che regolano la comunicazione terapeuta/terapeuta?". Ebbene, potrei risponderTi, da vecchio orecchiante di epistemologia: "Perché le due attività si svolgono a due livelli logici diversi, e ovviamente la classe non può essere membro di se stessa." Ma qui Paolo Migone mi ha appena preceduto. Potrei anche dirTi: "E perché no?". E non sbaglierei di molto, perché non mi sembra che Tu dica in modo convincente perché è opportuno trattare il parlare di psicoterapie come il fare psicoterapia, se non per due motivi che, lo spiegherò subito, mi sembrano poco rilevanti. Inoltre, a un certo altro punto Tu stesso, ammetti che "non si può dire" che questa trasposizione sia ammissibile, e invochi la crescita futura del- la comunicazione terapeuta/terapeuta.

Ti dico però anche: "Perché le due attività hanno obiettivi del tutto diversi: quello della terapia è cambiare il paziente - magari insieme al terapeuta - è cioè un obiettivo in cui la conoscenza è relativamente secondaria, rispetto allo aiutare il paziente a conseguire un livello di funzionamento migliore o più elevato o più soddisfacente. Mentre l'obiettivo del confronto tra le psicoterapie, almeno come lo intendo io, è capire come esse funzionano per trarne l'essenza comune, quindi un fine di conoscenza che è assolutamente primario, quanto primario è l'aiuto nel fare terapia."

Come prima conseguenza, è quindi ovvio che non posso seguirTi in tutta la Tua successiva argomentazione sull'inutilità della terapia scientificamente condotta. Io non ho mai preteso questo, come Tu stesso hai riconosciuto, ma chiederei invece che la conoscenza delle psicoterapie venisse perseguita con metodi che saranno prosaici, ossessivi, barbosi, ma sono il meno peggio per arrivare a una qualche provvisoria rappresentazione della realtà, su cui costruirne poi di sempre migliori. Ora ai Tuoi motivi per trattare il discorso sulle psicoterapie allo stesso modo del fare psicoterapia. Dicevo che non mi convincono, e Ti spiego perché.

Il secondo dei due motivi, come l'ho inteso dal Tuo mail, e che tratterò per primo, e cioè che nel discorrere di psicoterapie sono necessari anche i contributi di una modalità di pensiero mistica (mi riferisco a dove dici: "Ora, se la comunicazione che funziona nella relazione paziente/terapeuta è di tipo dialogico-dialettico e non di tipo scientifico, perché non dovrebbe essere lo stesso nella relazione terapeuta/terapeuta?" ) non mi sembra accettabile perché le intuizioni mistiche non credo possano mai essere veicolo principale di conoscenza, dovendo comunque essere poi riorganizzate, corrette, reinterpretate in termini per così dire scientifici. Ciò è evidente, a quanto ricordo, anche dall'aneddotica sulla creatività dei grandi scienziati, i quali certamente spesso hanno avuto intuizioni rivelatrici, tipicamente mistiche (pensa al ben noto e citatissimo caso di Kékulé e della formula dell'anello benzenico, che gli sarebbe apparsa come una visione onirica), in cui però l'elemento "mistico" - io direi creativo, artistico, visionario, perché mistico sa troppo, nel mio retrogusto, di venerazione del mistero - in tutti questi casi è subordinato al lavoro preliminare e successivo di carattere scientifico "lineare", "logico", "computativo", "pedestre", "barboso", che conferisce compiutezza, senso, organicità all'intuizione. In altre parole, nelle attività scientifiche la parte dell'immaginazione è talvolta dirimente ma secondaria, in quanto è l'elemento irrazionale che viene incorporato nella costruzione razionale e non il contrario. Diversamente nella terapia, ove si può rinunciare a sapere, ove, come diceva Bateson, molto spesso è giusto e meglio non sapere.

Ma torniamo al Tuo primo motivo - come a me appare - per cui bisognerebbe trattare anche misticamente il confronto tra le psicoterapie. Tu dici: "Io ho osservato più volte che in questo modo - cioè usando un linguaggio scientifico nel confrontare psicoterapie - si taglia fuori tutta quella parte non piccola (la maggioranza, in effetti) del campo psicoterapeutico che a questi criteri non intende sottoporsi...".

Credo che qui ci si debba chiarire cosa si vuole. Io, per mia parte, credo che mettendo insieme diversi misticismi, pur di "non tagliare fuori nessuno", non si faccia un grande progresso nella direzione che io personalmente auspico, cioè una comune maggiore conoscenza di tutte le psicoterapie per poi "trarne l'essenza comune" come ho detto prima. Credo invece che questo obiettivo, che ora Ti e ci appare minoritario, possa essere meglio raggiunto con uno sforzo di rigore definitorio dei termini usati, con l'elaborazione di rappresentazioni-modelli, teorie ecc. - dei processi patogenetico-terapeutici adottati dalle diverse psicoterapie, con la definizione delle osservazioni che potrebbero smentire o corroborare queste rappresentazioni. Ovviamente, non ho nulla contro una fantasia euristica che contribuisca, ma credo che l'ultima parola spetti in tutto questo lavoro a della valutazioni razionali e logiche.

Ora concludo, dicendo però che la mia posizione, quella che crede nella razionalità come mezzo ultimo per conoscere, non è affatto una posizione autoritaria o sprezzante nei confronti degli altri che così non pensano. E' un'opinione, e per di più, come Tu mi dici - e io arguivo - di secca minoranza tra gli psicoterapeuti - e, aggiungerei, tra i cittadini di questo paese. Non intendo tagliare fuori nessuno, ma non posso pensare di costruire un qualcosa di duraturo e sincero se abdico a priori a una delle mie convinzioni più radicate e che, Ti assicuro, mi ha permesso mol te esperienze positive.

Ed è una proposta per condividere un linguaggio comune. Anche convertendoci tutti alla medicina ayurvedica piuttosto che antroposofica avremmo un linguaggio comune ma credo che, oltre all'arduo compito di dover formulare la psicoanalisi delle relazioni oggettuali o la terapia cognitivo-comporamentale in quei termini, ci infileremmo in una enclave chiusa al resto del mondo scientifico. Il compromesso di accettare tutti insieme il linguaggio della scienza ci permetterebbe invece di collegarci ad esso, e di entrare in un ambito grande di scambi e confronti Sarebbe così male? Giorgio

Tullio Carere, 13 Marzo 2002:

At 0:05 +0100 12-03-02, Giorgio Gabriele Alberti wrote:
>... le due attività hanno obiettivi del tutto diversi: quello della terapia è cambiare il paziente -
>magari insieme al terapeuta - è cioè un obiettivo in cui la conoscenza è
>relativamente secondaria, rispetto allo
>aiutare il paziente a conseguire un livello di funzionamento migliore o più
>elevato o più soddisfacente. Mentre l'obiettivo
>del confronto tra le psicoterapie, almeno come lo intendo io, è capire come
>esse funzionano per trarne l'essenza comune, quindi un fine di conoscenza
>che è assolutamente primario, quanto primario è l'aiuto nel fare terapia.

Caro Giorgio, la tua definizione di terapia è quella che tipicamente dà un comportamentista, diceva Paul Wachtel in Psychoanalysis and Behavior Therapy (invece uno psicoanalista non cerca di cambiare il paziente, ma si aspetta che il cambiamento sia la conseguenza automatica della conoscenza). Gli outcome studies dell'ultimo decennio non danno ragione né agli uni né agli altri: il paziente non cambia, se non in minima parte, per ciò che il terapeuta fa secondo le prescrizioni del suo metodo, ma soprattutto per come paziente e terapeuta assieme riescono a gestire la relazione. Quindi, in sostanza, per la qualità dialogica e dialettica della relazione.

Sono d'accordo con te, che "l'obiettivo del confronto tra le psicoterapie... è capire come esse funzionano per trarne l'essenza comune", ma come facciamo a portare avanti un confronto, se parliamo linguaggi diversi e ci muoviamo in sistemi di pensiero diversi? Se vogliamo portare avanti questo confronto, dobbiamo in primo luogo imparare a dialogare tra di noi, ed evitare di cadere in atteggiamenti unilaterali. Cioè, ancora una volta, dobbiamo imparare a stare su un terreno dialogico e dialettico. Per questo dicevo che la logica della relazione paziente/terapeuta e di quella terapeuta/terapeuta (come di ogni altra relazione che abbia obiettivi di conoscenza e di crescita personale) sono basilarmente le stesse.

>Il secondo dei due motivi ...cioè che nel discorrere di psicoterapie sono
>necessari anche i contributi di una modalità di pensiero mistica... non
>mi sembra accettabile perché le intuizioni mistiche
>non credo possano mai essere veicolo principale di conoscenza, dovendo
>comunque essere poi riorganizzate, corrette,
>reinterpretate in termini per così dire scientifici...
>In altre parole, nelle attività scientifiche la parte
>dell'immaginazione è tavolta dirimente ma secondaria, in quanto è
>l'elemento irrazionale che viene incorporato nella costruzione razionale e
>non il contrario. Diversamente nella terapia, ove si può rinunciare a sapere,
>ove, come diceva Bateson, molto spesso è giusto e meglio non sapere.

Se in terapia "molto spesso è giusto e meglio non sapere" (affidandosi al non sapere, vedi l'analogia tra questa indicazione di Bateson e l'F in O di Bion) - se in terapia i procedimenti artistici o mistici, comunque non razionali, hanno una parte importante, forse decisiva - la teoria non dovrà tenerne conto? Di fatto nel nostro campo esistono teorici, come Bion o Lacan, che scrivono come mistici, dicendo cose quasi incomprensibili, con lo scopo deliberato di mandare in corto circuito il pensiero di coloro che vorrebbero cogliere l'essenza della terapia mediante costruzioni razionali (come facevano i maestri zen con i loro koan). Nella sterminata produzione teorica del campo psicoterapeutico e psicoanalitico avviene la stessa cosa che nelle discussioni tra psicoterapeuti: quanto più da una parte ci si affanna a dare una fondazione scientifica alla comunicazione terapeutica e inter-terapeutica, tanto più dall'altra parte si esaspera il modo irrazionale di comunicare, sia con i pazienti che tra colleghi. E, va da sé, da entrambe le parti si è convinti che la verità sia dalla nostra (Gott ist immer mit uns).

Ma forse ci avviciniamo al punto. Tu dici, Giorgio, che una "prevalenza di processi artistici e mistici" è accettabile nella terapia, dove "molto spesso è giusto e meglio non sapere", ma non nell'attività scientifica, in cui "è l'elemento irrazionale che viene incorporato nella costruzione razionale e non il contrario". Non posso che dichiararmi d'accordo. Così come non ho nulla da obiettare alla tua scelta di stare su un terreno che, come dici, ti ha "permesso molte esperienze positive". Dove ho forti dubbi è in ciò che tu dai per scontato: cioè che lo

>sforzo di rigore definitorio dei termini usati, con l'elaborazione
>di rappresentazioni - modelli, teorie ecc. - dei processi
>patogenetico-terapeutici adottati dalle diverse psicoterapie, con la
>definizione delle osservazioni che potrebbero smentire o corroborare queste rappresentazioni

sia quello che meglio e più di ogni altro ci possa avvicinare alla "essenza comune delle psicoterapie". Beninteso, tutto ciò è molto utile. Anzi, più che utile, a mio parere è necessario. E' necessario, ma non sufficiente. Perché non lo è? Ti potrebbe rispondere il primo Wittgenstein: il rigore definitorio è molto importante, ma è inadeguato a descrivere condizioni non fattuali, come l'etica e l'estetica (su cui quindi bisogna tacere). Il secondo Wittgenstein, come sai, ha riconosciuto che delle cose non fattuali (molte delle quali sono di pertinenza della psicoterapia) si può anche parlare: ma a patto di rinunciare al rigore definitorio un po' superegoico che era stato l'ideale dei suoi anni giovanili. Col rigore del linguaggio scientifico, ti direbbe Wittgenstein, potrai descrivere molti fatti rilevanti in psicoterapia, ma non coglierai mai la sua essenza.

Pensi che dovremmo tenerci alla larga dal terreno infido della filosofia? E' stato detto che la pretesa dello psicologo di non occuparsi di filosofia produce soltanto filosofie ingenue. Ma non voglio abusare della tua pazienza. Vorrei solo richiamare la tua attenzione, nel caso tu pensi che questa discussione sia un'eccentrica bizzarria, sul fatto che le cose di cui stiamo parlando sono invece così attuali da stare sulle prime pagine dei giornali. Prendi quella dell'Unità di ieri, in cui Angelo Guglielmi ha criticato l'epistemofilia onnivora di Umberto Eco, "l'uomo che sapeva tutto", con argomenti come questo: "Ma a saper tutto non si rischia di dimenticare che il sapere è soprattutto quel che ancora non si sa, né si può capire e mai si capirà?". Argomento impeccabilmente mistico, atto a suscitare l'assenso immediato di ogni terapeuta che stia dall'altra parte dello split come appropriato non a descrivere, ma a indicare la vera essenza della psicoterapia. A Guglielmi risponde il corsivista Merlo, sulla prima pagina del Corriere della Sera di oggi, con un boh! e un ri-boh!, accompagnati da frizzi e lazzi. Come vedi, il dialogo tra giornalisti si svolge in modo non dissimile da quello tra terapeuti. A me veramente è andata meglio: mi sono preso la mia raffica di boh! e ri-boh!, ma almeno i lazzi mi sono stati risparmiati. A molto presto, Tullio

Giovanni Liotti, 14 Marzo 2002:

Cari amici e Colleghi, torno da un viaggio e trovo tante nuove mail. Non riesco a trattenermi (come la ragione mi dice che dovrei: non trattenendomi rispondo forse ad un'esigenza "mistica"?) da un'ultima replica prima di ripartire domani. Forse, però, non è un'esigenza mistica a spingermi a questa ennesima replica "in extremis", ma il fatto che mi è rimasto in gola un argomento che avrei voluto contrapporre ad alcune affermazioni di Tullio, che non ho affrontato perché avevo altre priorità di replica e poco tempo, e che nè Paolo né Giorgio hanno esplicitamente avanzato nelle loro contro-argomentazioni.

La replica riguarda quelle affermazioni di Tullio che si richiamano ad un'importante ricerca scientifica (la meta-analisi di Luborsky) per confutare le tesi a favore della logica scientifica avanzate da Paolo, Giorgio e me (però: non è lievemente paradossale usare la logica scientifica per confutare la logica scientifica?). Mi sembra, caro Tullio, che tu sia veramente troppo affascinato dagli outcome studies e dal Dodo verdict, e che ne tragga conclusioni affrettate.

Ammettiamo (for the sake of the argument) che la meta-analisi di Luborsky riguardi anche studi di efficacia per specifici protocolli di terapia rivolti a specifici disturbi come quelli sui borderline (1) di Marsha Linehan e (2) di Bateman e Fonagy, o quelli sugli ossessivi di Salkovskis (e non mi pare che le meta-analisi di Luborsky li riguardino). Non ne seguirebbe affatto, come affermi, che ne risulti dimostrata l'efficacia di stati mentali di tipo "mistico" nella terapia. I "fattori comuni" potrebbero riguardare non stati mistici della mente del terapeuta, refrattari all'indagine scientifica, ma (scientificamente indagabili, e di fatto così indagate dal San Francisco Psychotherapy Research Group) confutazioni di credenze patogene riguardanti la relazione umana, ottenute da tutti i terapeuti (qualunque siano le tecniche specifiche usate e che forse poco riguardano l'efficacia della terapia) che consapevolmente o no si sforzino di comprendere, "accogliere" e "accudire bene" i propri pazienti. La teoria dell'attaccamento (scientificamente fondata) spiega tale effetto terapeutico con la correzione degli originari modelli operativi interni di attaccamento insicuro, responsabili della patologia (molte indagini scientifiche della developmental psychopathology mirano a dimostrare questo). Tale confutazione è ottenuta, secondo questa spiegazione alternativa, grazie all'esperienza di attaccamento sicuro che si genera nella relazione con un terapeuta "accogliente". Che invece i "fattori comuni" siano da collegarsi ad esempio al fatto che tutti i terapeuti "efficaci" consapevolmente o no "lavorano in O", è una tesi da dimostrare. Avendo come vedi una spiegazione alternativa scientificamente fondata, perché dovrei credere alla tua tesi "mistica"?

Inoltre: posso insegnare ai miei allievi come facilitare un'esperienza di "base sicura" (Bowlby) nella relazione terapeutica forse meglio di quanto possa loro insegnare come "lavorare in O", o come entrare in uno stato mentale definito come indefinibile (Wittgenstein: "di ciò di cui non si può parlare, è opportuno tacere"). Un caro saluto, Gianni Liotti

Tullio Carere, 14 Marzo 2002:

At 22:46 +0100 13-3-02, Paolo Migone wrote:
>Caro Tullio, grazie della mail. Rimango però sempre più convinto che il tuo paradigma
>dialogico-dialettico si riduce a proporre qualcosa che poi di fatto non va
>più in là di quello che facciamo già, nel senso che tutti sappiamo da sempre
>che nella psicoterapia vi sono livelli diversi, ad esempio quello
>scientifico e quello cosiddetto mistico, e che questi livelli diversi devono
>in un qualche modo essere tutti considerati (se non lo sapessimo saremmo del
>tutto scemi!), e non vedo come possa risolvere le cose un "nuovo" aggettivo
>(es. "dialettico"). Rimane il fatto che il modo di procedere scientifico è
>diverso e basta, e ha una sua utilità, così pure come il modo mistico o
>intuitivo o comunque lo si voglia chiamare.

Caro Paolo, tutta questa discussione non sarebbe nemmeno iniziata, se al mio invito a definire un "terreno comune" non fosse stata data la risposta (da Gianni, poi appoggiato da te e da Giorgio) che questo terreno comune dobbiamo trovarlo dalla parte della scienza, e non in un'integrazione dialettica dei due lati (secondo il tipico bias della mente occidentale). A questo proposito riporto (non a te, che lo hai già ricevuto, ma agli altri) il mio ultimo messaggio alla lista SEPI:

At 9:32 -0500 13-03-02, Bob Sollod wrote:
>I may be criticized for being overly simplistic, but it seems to me that
>the two sides or two approaches can and should work together - so long
>as either one does not claim hegemony.
>We often act based on intuition and feelings. These provide spontaneity
>and quickely take into account many factors which the mind would take a
>long time to sort out. We also have the capacity to analyze and think about our experiences
>In friendship and relationships, we do both.
>Perhaps all of the above is a reflection of the way our brains (and minds) are constructed

Yes, "so long as either one does not claim hegemony" is the key. This is why I insist so much on dialectics. The Western mind is culturally biassed to claim hegemony for the left hemisphere/analytic/scientific side ("the mind"), to the detriment of the right hemisphere/synthetic/intuitive side ("the heart"). A dialectical attitude is meant to correct this bias, in favor of an integration of the two sides in which the "dominant hemisphere" is no longer dominant. Tullio

Tullio Carere, 14 Marzo 2002:

At 0:51 +0100 14-03-02, Giovanni Liotti wrote:
>La replica riguarda quelle affermazioni di Tullio che si richiamano ad
>un'importante ricerca scientifica (la meta-analisi di Luborsky) per confutare le
>tesi a favore della logica scientifica avanzate da Paolo, Giorgio e me (però: non
>è lievemente paradossale usare la logica scientifica per confutare la logica
>scientifica?). Mi sembra, caro Tullio, che tu sia veramente troppo affascinato
>dagli outcome studies e dal Dodo verdict, e che ne tragga conclusioni affrettate.
>Ammettiamo (for the sake of the argument) che la meta-analisi di Luborsky
>riguardi anche studi di efficacia per specifici protocolli di terapia rivolti a
>specifici disturbi come quelli sui borderline (1) di Marsha Linehan e (2) di
>Bateman e Fonagy, o quelli sugli ossessivi di Salkovskis (e non mi pare che le
>meta-analisi di Luborsky li riguardino). Non ne seguirebbe affatto, come affermi,
>che ne risulti dimostrata l'efficacia di stati mentali di tipo "mistico" nella
>terapia. I "fattori comuni" potrebbero riguardare non stati mistici della mente
>del terapeuta, refrattari all'indagine scientifica, ma (scientificamente
>indagabili, e di fatto così indagate dal San Francisco Psychotherapy Research
>Group) confutazioni di credenze patogene riguardanti la relazione umana, ottenute
>da tutti i terapeuti (qualunque siano le tecniche specifiche usate e che forse
>poco riguardano l'efficacia della terapia) che consapevolmente o no si sforzino di
>comprendere, "accogliere" e "accudire bene" i propri pazienti.

Ho riletto i miei recenti interventi per vedere dove ho scritto che 'ne risulti dimostrata l'efficacia di stati mentali di tipo "mistico" nella terapia, ma non ho trovato affermazioni così temerarie. Io ho scritto che le meta-analisi, e soprattutto la meta-meta-analisi di Luborsky, confermano concordemente l'importanza prevalente dei fattori relazionali comuni, a scapito delle tecniche specifiche previste dai vari metodi. Ma quali sono questi fattori comuni? La ricerca ancora è ben lontana dal dircelo. Ammettiamo (for the sake of the argument) che l'efficacia dell'offrire al paziente un'esperienza riparativa di attaccamento sicuro, indipendentemente dal metodo impiegato, sia stata chiaramente dimostrata. Credo che la gran parte dei terapeuti, di qualsiasi estrazione, confermerebbe oggi questa convinzione che si è largamente affermata nella comunità degli shrink, del tutto indipendentemente dalle ricerche empiriche che per lo più gli shrink tranquillamente ignorano.

Ma poi qualsiasi terapeuta, basandosi non sulla ricerca, ma sul semplice buon senso, potrebbe confermare l'osservazione dialettica di Marsha Linehan: che in ogni terapia l'offerta (materna) di base sicura deve essere bilanciata dal confronto (paterno) con la realtà spiacevole che deve essere affrontata. Non solo: oltre che in questa polarità di tipo riparativo/parentale, l'attaccamento va inserito in un'ulteriore polarità, di tipo verticale o culturale quanto la prima è orizzontale/naturale: attaccamento/distacco, fondamentale in ogni relazione sana. Il giusto attaccamento, insegnava già il Buddha, deve essere bilanciato dal giusto distacco. Dobbiamo prenderci cura dei nostri legami, ma anche non farcene condizionare; aver care le nostre teorie, ma anche saperle mettere da parte per affidarci all'intuizione e alla spontaneità (come hanno osservato Giorgio qui, e Robert Sollod sulla lista SEPI).

Quanto precede, che mostra (non "dimostra") la qualità essenzialmente dialogico-dialettica di qualsiasi relazione terapeutica, professionale o meno, è basato su un'evidenza euristica, non su evidenze empiriche. Come hai notato, Gianni, io tengo in alto e debito conto la ricerca empirica, ma non penso che debba essere il "fondamento" del nostro lavoro. Ancora una volta, il fondamento non può che essere dialettico, essendo qui la polarità in questione quella tra ricerca euristica e ricerca empirica (ce ne parlerà Freni al congresso). Che poi io preferisca la prima e tu la seconda, va benissimo, ci dividiamo i compiti. Purché evitiamo di cadere nella trappola, segnalata da Sollod, di pretendere l'egemonia per l'una o per l'altra. Come invece regolarmente accade, da una parte e dall'altra della barricata. Non è allora un atteggiamento costantemente dialogico e dialettico il rimedio a questa caduta nell'uno o nell'altro fosso che fiancheggiano la strada che tutti assieme percorriamo? Tullio

Giorgio Gabriele Alberti, 14 Marzo 2002:

Caro Tullio, sono compiaciuto del fatto che Tu non possa che dichiararTi d'accordo che <<una "prevalenza di processi artistici e mistici" è accettabile nella terapia, dove "molto spesso è giusto o meglio non sapere", ma non nell'attività scientifica, in cui "è l'elemento irrazionale che viene incorporato nella costruzione razionale e non il contrario">>.

Se, come mi sembra, ribadisci anche in questa Tua lettera che si deve usare, con pari rilevanza, la ragione e l'intuizione mistica tanto nel fare quanto nel parlare di psicoterapie, deduco che non consideri quest'ultima un'attività scientifica, ma qualcosa d'altro. Non capisco però bene se Tu la consideri diversa dal fare psicoterapia. In questo caso devono esistere per Te tre diverse cose: l'attività scientifica, il fare terapia, e il parlare di psicoterapie, con tre diversi statuti epistemologici. Forse però pensi che parlare di psicoterapie sia una delle tante forme di psicoterapia, allora le cose si riducono a due sole: la scienza da un lato, la psicoterapia dall'altro, comprensiva del "parlare di psicoterapie". Vuol dire che al San Carlo il 16.3. faremo tutti una super seduta di una psicoterapia detta "Parlare di Psicoterapie".

Altro tema: la mia definizione di terapia, che sarebbe "tipicamente comportamentista". Non credo che altri psicoterapeuti non abbiano a cuore un cambiamento in meglio del paziente - dove il meglio può essere discutibile e opinabile, ma è certamente un qualcosa di diverso dallo stato iniziale. E Tu indirettamente me lo confermi quando asserisci che uno psicoanalista ".si aspetta che il cambiamento sia la conseguenza automatica della conoscenza". Infatti per quale motivo lo psicoanalista aumenta la conoscenza del suo paziente, dandogli interpretazioni ecc., se non per farlo migliorare ? D'altro canto, basta consultare un qualche studio, ad esempio quello classico di Malan sulla terapia breve, per vedere diverse definizioni dello stato finale di una psicoterapia analitica, del risultato cioè del cambiamento ad essa dovuto, dalla diminuzione dei sintomi, o del punteggio di test, come l'MMPI, a criteri più idiografici come la migliorata capacità di vivere le relazioni interpersonali, l'aumento dell'adattamento sociale e altre ancora. Tutto ciò attesta che non solo viene perseguito un qualche cambiamento anche da psicoterapeuti dinamici, ma che se ne tenta anche una misurazione.

Altro tema ancora: ho notato, in questa seconda parte della nostra discussione, un rigoglioso fiorire di dissensi, che non sto a citare uno per uno, ma che ho visto esprimere anche a Te. Dissensi che Tu, forse con un mega-koan durato mesi, hai contribuito ad alimentare nonostante dichiarassi continuamente che volevi evitare le contrapposizioni radicali, temendo la scissione degli antiscientisti: per cui, a furia di cercar di unire hai diviso - ironia della sorte, non un narrativista che si sia staccato, tutti scientisti quelli in aspro dissenso - ma, va riconosciuto alla Tua abilità di Coordinatore, hai anche animato, vitalizzato, spronato, e ultimamente anche un po' provocato (lo dico affettuosa-mente). Però ciò che più mi preme di evidenziare è che nonostante questo risultato un po' paradossale il nostro incontro avverrà ugualmente e, credo, nulla succederà di grave se anche ci sarà una differenziazione delle posizioni: fa parte delle cose umane, ed anche del metodo di ogni scienza, il discutere e disputare su diverse posizioni, e applicarvi regole di risoluzione dei conflitti (tra cui una è quella dell'appello all'evidenza, un'altra è quella della coerenza logica delle costruzioni teoriche) e ciò migliora il prodotto finale.

Molti dubbi ho invece che modi di pensiero in cui l'intuizione mistica ha lo stesso peso della ragione (e spesso proprio per quella sua irruenza da processo primario, se ne prende anche di più di quanto concessole) possano trovare un'intesa con la stessa facilità. Anzi, non volermene, aggregazioni di uomini in cui forte è sempre stata la componente irrazionale detta "fede" si sono particolarmente distinte per l'intolleranza e la necessità di distruggere, in ultima istanza, l'avversario. A presto, ancora, Giorgio

Tullio Carere, 14 Marzo 2002:

Caro Giorgio, questo sarà, salvo imprevisti, il mio ultimo contributo a questa discussione precongressuale - mancano al congresso poco più di 24 ore, e almeno un giorno di pausa telematica, prima del convegno, mi sembra il minimo. Solo due brevi risposte:

Tu scrivi:
>...devono esistere per Te tre diverse cose: l'attività scientifica, il fare terapia, e il
>parlare di psicoterapie, con tre diversi statuti epistemologici.

C'è uno statuto dialogico-dialettico, comune al fare psicoterapia e al parlare di psicoterapia (come anche a diverse altre attività umane). L'attività scientifica è un termine di una polarità dialettica fondamentale, che si può indicare in vari modi: per esempio ricerca scientifica/ricerca euristica.

>...non volermene, aggregazioni di uomini in cui forte è sempre stata la componente 
>irrazionale detta "fede" si sono particolarmente distinte per l'intolleranza 
>e la necessità di distruggere, in ultima istanza, l'avversario.

La fede di per sé non è mai stata distruttiva, solo le credenze possono diventarlo. La comunicazione diventa veramente dialogica solo quando tutte le credenze sono sospese, comprese quelle scientifiche: la religione della scienza mi sembra a volte, oggi, altrettanto esclusiva e intollerante delle religioni di ieri. Arrivederci a sabato, Tullio


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