Il doppio e l'estraneo nella costituzione dell'identità
Brigitte Allain-Dupré (Paris) e Giuseppe Maffei (Lucca).
(conferenza tenutasi a Napoli il 19-20 febbraio 1999, in occasione del Convegno "Teoria e prassi in psicoterapia nei paesi mediterranei", organizzato dal prof. Antonio Vitolo e promosso dall'Istituto di Studi Filosofici)
"L'étranger te permet d'être toi-même, en faisant de toi un étranger"
(E. Jabès)
Introduzione.
L'invito che ci è stato fatto di riflettere sul tema dell'"appartenenza, di origine o acquisita, nell'area mediterranea" in relazione alla nostra pratica di terapeuti, ci invita naturalmente a parlare di ciò che conosciamo come analisti con maggiore specificità e cioè dell'acquisizione dell'identità.
Rifletteremo così su questa acquisizione dell'identità come trasformazione psichica che costituisce un momento essenziale nella costituzione del soggetto. Ci riferiremo in particolare a due passaggi chiave nell'acquisizione dell'identità, che possono essere descritti come "momenti, giochi di doppio" e come "momenti, giochi dell'estraneo". Diciamo "momenti" e non "stadi" per indicare una loro non precisa collocazione cronologica. Vorremmo infine collegare questa idea dell'acquisizione dell'identità e dell'alterità con la problematica dell'origine del pensiero e con l'interesse che abbiamo a pensare insieme con altri colleghi dell'area mediterranea. Vorremmo anche dire, prima di tutto, che non siamo affatto specialisti del Mediterraneo né siamo al corrente di ricerche particolari, vuoi psicoanalitiche vuoi antropologiche che siano state, a questo proposito, recentemente compiute. Siamo semplicemente due analisti, uno, di origine psichiatrica, che lavora a Lucca, in Italia e l'altra, di formazione psicologica clinica, che lavora a Parigi e che ha operato per una decina d'anni, come psicoterapeuta, con i figli dei lavoratori immigrati e con le loro famiglie nelle città della periferia parigina. Ambedue lavoriamo sia con bambini e adolescenti che con adulti. La nostra formazione junghiana ci ha resi indubbiamente sensibili e vigili rispetto ai rischi che si possono correre quando si pensi all'individuo in rapporto alla sua appartenenza collettiva. Presentiamo un contributo a quattro mani in quanto abbiamo condiviso, ormai da anni, nell'ambito delle attività dell'Associazione Internazionale di Psicologia Analitica, diverse esperienze istituzionali volte da un lato a facilitare scambi culturali e formativi tra le varie associazioni junghiane nazionali europee e dall'altro a interrogarsi, a proposito di un fondo comune, su ciò che fa e ciò che non fa differenza, sull'esistenza cioè di una o di più psicologie analitiche. Se abbiamo risposto favorevolmente all'invito del professor Antonio Vitolo è a causa di un piacevole fenomeno di transfert di transfert; un percorso già compiuto di amicizia, di desideri, di fantasmi si è aperto a un nuovo spazio di pensiero utile a organizzare nuovi interrogativi a proposito dell'individualità psichica, della costituzione dell'identità e della capacità di riconoscere l'altro nella sua alterità radicale, un nuovo spazio che oggi il prof. Vitolo ha chiamato Mediterraneo e che amplia gli spazi abitualmente utilizzati. E' evidente che per noi questo incontro ha senso solo se i suoi contenuti possono essere federati, se lo si può mettere in relazione, cioè, con il compito di pensare insieme l'inconscio, altra grande tinozza, oltre il nostro mare, in cui tutti ci bagniamo.
Il nostro ideale, a questo proposito, è del resto rappresentato non dal fantasma di poter giungere a conclusioni comuni ma dalla fantasia, invece, di poter giungere a un pensare insieme (e questo a molteplici livelli, l'uno irrimediabilmente metaforico dell'altro). Come dal rapporto duale con la madre si può o meno uscire verso l'acquisizione di una capacità di pensare la vita insieme al padre e tramite di lui agli altri, così si può uscire dal rapporto con la comunità di base (geografica o di scuola) sviluppando o meno una capacità di pensare insieme agli altri.
E' proprio perché pensiamo che il problema dell'appartenenza rinvia senza fine il soggetto alla sua origine che noi, come analisti, abbiamo forse qualcosa da dire. Ci sembra in effetti che se la psicoanalisi fa ostacolo all'idea di un'appartenenza acquisita o anche socio-culturale, è perché essa lavora a partire da universali di appartenenza che sono ancora più larghi e slegati dal particolare di quelli che appartengono all'ambito socio-culturale (l'Edipo, ad es., è più slegato dal particolare della propria nazionalità). Questi grandi universali sono, per il soggetto, il legami inconsci che ha con la sua storia e con se stesso come con la madre e il padre da cui è stato concepito. E se la psicoanalisi ha anche scoperto che le angosce dell'uomo sono universali, essa non si pone pertanto essa stessa come universale, ma indica piuttosto come universale il proprio metodo. E con metodo intendiamo qui le condizioni teoriche e tecniche che permettono di comprendere i legami, consci ed inconsci, che esistono tra ciò che ha prevalso nella storia del soggetto e la costituzione della sua attuale identità. Per noi, le qualità del sentimento di appartenenza a una comunità, a una cultura, a una geografia o a una storia hanno cioè a che fare con le qualità del sentimento di appartenenza a se stessi e alla prima comunità duale e sono pertanto indissolubilmente legate, per ogni soggetto, ai processi psichici che hanno condotto alla costituzione del sentimento della propria identità durante il periodo più precoce di costruzione del suo apparato di relazione e di comprensione di se stesso e del mondo. Quanto detto non ci impedisce comunque naturalmente di pensare che le modalità con cui le persone esprimono il loro malessere hanno a che fare non soltanto con la loro individualità, ma anche con i mezzi che ogni cultura di origine mette di fatto a disposizione. Insistiamo dunque sul fatto che la psicoanalisi può soltanto dire che i problemi di appartenenza sono indissolubilmente connessi alle caratteristiche dei legami del soggetto con la sua origine, quali che siano le forme culturali in cui tali legami possono manifestarsi.
In Francia, dalla fine degli anni 1960, la ricerca in psico-sociologia e in psicopatologia nel campo dell'immigrazione si è attivamente focalizzata, per cercare di rispondere alle difficoltà di integrazione reciproca delle comunità francesi e straniere, sul concetto di "identità culturale". Oggi si comprende che nonostante modalità indubbiamente generose e che volevano essere altruiste e rispettose dell'altro, questo concetto è servito anche a costruire dei ghetti. Si potrebbe dire che i fatti ci hanno attualmente condotti a interrogarci sulla nozione di identità "tout court" senza concederle alcun aggettivo, ad accettare cioè che l'idea di identità interroghi se stessi nello stesso modo, innanzitutto, in cui interroga l'identità degli altri. A proposito della nozione di identità che utilizziamo per esprimere il rapporto che l'uomo stabilisce con i sentimenti legati alla propria esistenza, è interessante constatare che, in linea generale, questa parola possiede due sensi, un primo che indica la comunità, l'accordo, la somiglianza, la similitudine e un secondo che indica ciò che fa sì che una persona sia riconosciuta e/o si riconosca essa stessa, senza alcuna possibile confusione con un altro. E' piuttosto questo secondo senso che guiderà la nostra esposizione.
Iniziare da quella unità con l'altro che molti autori descrivono come identità primordiale nella relazione tra madre e neonato ci permetterà poi sia di introdurre le nozioni di doppio e di sdoppiamento sia di giungere all'idea che la costituzione dell'identità passa attraverso il momento dell'estraneo in cui "se stesso" e "altro" sono percepiti e vissuti nella loro radicale differenza: la propria identità da una parte e l'alterità dell'estraneo dall'altra.
Una difficoltà a parlare di questi momenti di duplicazione risiede nel fatto che essi non avvengono lungo una continuità lineare costituita da una serie di rapporti, l'un l'altro successivi, fra cause ed effetti, ma, molto di più, all'interno di giochi di rapporti energetici che costituiscono e integrano, nello stesso movimento, i diversi stadi della relazione detta d'oggetto.
Unità primaria e perdita.
Nella teorizzazione psicoanalitica più recente viene data sempre maggiore importanza alle modalità attraverso le quali viene elaborata la perdita di quella unità che si presume esistere in ciò che dall'esterno appare come una diade primaria madre/neonato, ma che dall'interno, per il neonato, si può immaginare essere vissuto appunto come totalità indistinta. Useremo la parola perdita per significare l'esperienza vissuta che dà origine alla mancanza e intenderemo invece con quest'ultima parola l'esistenza di un'elaborazione psichica, per così dire primaria, della perdita e della sua inevitabilità. La perdita dell'unità-totalità primaria è inevitabile: la maturazione biologica del neonato e il desiderio e/o bisogno della madre di riprendere la propria vita istintuale, rispetto al figlio, eterodiretta, rendono improponibile la sopravvivenza di questa unità. Il neonato sperimenta così una perdita per così dire costitutiva del suo essere che condurrà a diverse conseguenze a seconda delle circostanze e della possibilità o meno di trasformarsi in mancanza.
L'apertura-duplicazione
Perché l'esperienza della perdita della madre divenga un'esperienza di mancanza e sia costitutiva e costruttiva, occorre che la totalità iniziale si apra operando un passaggio dall'uno al due, si duplichi cioè, inizialmente, in un "doppio di madre-doppio di sé", momento inaugurale in cui il neonato non sa ancora distinguere l'altro da sé e non ha ancora rinunciato alla fusione che regna nella diade primaria. Occorre soffermarci dunque, con particolare attenzione su queste precoci esperienze di duplicazione di sé, pensabili come originari della costituzione della differenza tra sé e l'altro, che nascono dall'impossibilità di mantenere la simbiosi iniziale e che danno origine a una serie di ulteriori differenziazioni. Che accade dunque, nella psiche del neonato, quando la madre si allontana da lui e quando è giunto quel periodo della sua maturazione psicologica che gli permette di iniziare a dare un senso a questo allontanamento che gli fa necessariamente perdere l'iniziale vissuto unitario? Il tempo di questo stato unitario è cronologicamente limitato e permette alla madre e al bambino di riconoscersi reciprocamente in una completa familiarità sensoriale. Parliamo qui, prevalentemente, di sensorialità. Usando questo termine aderiamo a tutta una serie di studi e di riflessioni contemporanee riguardanti le primissime relazioni oggettuali. Da questa serie di riflessioni emerge l'esistenza di processi psichici precedenti il gioco pulsionale, processi psichici pre-rappresentativi e riguardanti appunto la sfera sensoriale. Ci riferiamo, in questo, a vari Autori, alla Aulagnier con le sue proposte di un processo originario distinto dal primario e di un oggetto-zona complementare, alla Tustin con le sue shapes, a Nicolaïdis con il suo oggetto referente, a Bléger con la sua posizione gliscocarica e a molti altri ancora. Tutti questi Autori concordano sul fatto che il gioco pulsionale faccia sì tutt'uno con la sensorialità primitiva ma che questa possa comunque esserne distinta. Ci sarebbero cioè dei grossi vantaggi teorici nell'ammettere l'esistenza di una problematica sensoriale. Il neonato, all'origine della sua vita psichica, proverebbe un vissuto chiamato fame, ma questo implicherebbe già una rottura di una unità verso cui egli potrebbe conservare un'attrazione fonte di possibili regressioni.
Questa unitarietà sensoriale del bambino con la madre, nel fondo di sé, non deve essere mai perduta ed è la permanenza di questa traccia che gli rende possibile restare intero, unitario e raccolto anche se colei che è stata la precoce organizzatrice di questa interezza, si allontana e lo lascia solo. Tanto più ci sarà differenziazione e individualità quanto più la perdita della madre sarà stata elaborata come mancanza. Nell'operazione psichica di differenziazione "sensoriale" su cui stiamo richiamando l'attenzione possono essere distinti due momenti.
Il primo è rappresentabile come creazione di un doppio nel momento in cui la parte madre facente tuttuno con il neonato nell'unità iniziale, si allontana dalla parte figlio. Questa prima figura di differenziazione può essere utilmente definita come "doppio di madre-doppio di sé". Sotto la spinta dell'insopportabile angoscia che nasce dalla presa di contatto con la sensorialità di questa perdita, un primo movimento di trasformazione è quello di vivere ciò che si allontana come questo "doppio di madre-doppio di sé" di cui stiamo parlando. E' così che la perdita si trasforma in mancanza psichica, qualcosa cioè di meno radicale, di meno essenziale, di meno reale della perdita e che è capace di costituire questa prima forma di alterità "doppia" come qualcosa che può essere rievocata e richiamata nel modo mostrato da Freud nella descrizione del gioco della bobina. Un'angoscia intollerabile e non elaborata la si ritrova spesso nel lavoro con i bambini psicotici; la perdita, non trasformata in mancanza, è sempre catastrofica. Il doppio rappresenta comunque una sorta di soluzione di fronte a due angosce universali, quella della perdita con il suo corollario, l'angoscia di non essere che uno, e quella derivante dalla coscienza, sia pure iniziale, della propria finitudine (César e Sara Botella).
Quali ne sono le condizioni? Perché questa apertura dell'unità fusionale primaria accada occorre che l'esperienza iniziale sia stata, come abbiamo detto, l'esperienza di un pieno, un pieno di relazione fusionale con la madre, "follia a due" ben descritta da Winnicott. Quali ne sono le conseguenze? A questo proposito si potrebbe dire che l'esperienza di duplicazione della totalità che abbiamo descritto sia a fondamento del sentimento di sicurezza di sé. Questo altro "doppio di madre-doppio di sé" inizia infatti ad essere altro senza perdere il contatto con il sé (senza annullare l'altro nel sé o viceversa il sé nell'altro) e, in quanto pieno e mancanza vi sono compresenti, prefigura nel mondo interno ciò che dall'esterno potrà essere poi chiamata, seguendo Winnicott "madre buona quanto basta". Questo iniziale sdoppiamento finirà poi per portare a una distinzione tra una propria ed una altrui identità, condizione necessaria affinché possano esistere pensieri di sé, dell'altro e del mondo. L'acquisizione dell'identità si fa dunque, quindi, prima di tutto, attraverso il costituirsi di un doppio, da considerarsi, per quanto riguarda l'inizio della vita psichica, come una struttura organizzatrice fondamentale. Questa struttura organizzatrice dà cioè inizio a un cammino di differenziazioni di sé dall'altro sempre più evidenti. Si può anche affermare che queste successive strutture differenziate cercheranno di ricreare punti di equilibrio in cui l'estraneo, origine di interessi centrifughi, e il sé, origine di interessi centripeti, manterranno sempre una traccia di quell'iniziale vissuto unitario che all'inizio della vita non permetteva appunto di distinguere l'esterno e l'interno. Se la duplicazione iniziale è stata sufficientemente buona, l'estraneo non potrà più essere totalmente estraneo e ciò che è invece proprio non potrà più essere totalmente tale: ci sarà sempre un equilibrio funzionale di due presenze contemporanee.
Da dove ha preso origine questa serie di pensieri?
Possiamo oggi essere abbastanza certi che siano i vissuti controtransferali degli analisti a fornire interessanti informazioni relative agli stati d'animo delle madri nei rapporti con i loro figli. Tutto quanto ora detto lo si deduce cioè sia dall'esperienza diretta con i bambini deprivati, sia dall'analisi dei pazienti che, nella realtà della loro infanzia, hanno conosciuto una deprivazione importante prima che l'esperienza dell'iniziale unità abbia costituito una base, appunto, di sicurezza. In questi casi, nei pazienti che non hanno potuto godere cioè della mancanza di una presenza piena (di una presenza di qualità tale da consentire di poter trasformare l'esperienza di una perdita in un'esperienza di mancanza), l'inconscio fa di tutto, durante la cura, per ricreare nel transfert quel poco di fusionalità che era stata sperimentata. Si tratta di persone in cui l'esperienza della perdita è stata troppo dolorosa o troppo precoce e per le quali, all'interno della cura, ciò che più conta è un tentativo di riattualizzazione, il più possibile, di una adesività fusionale precedente, per così dire, l'esperienza non metabolizzabile della perdita e di cui uno degli effetti è quello di far rivivere del non-pensato e del non pensabile, al limite, quindi, del fisico e dello psichico. In certi pazienti si può incontrare un "doppio di madre-doppio di sé" le cui caratteristiche ripetono quelle di un persecutore perseguitato, ripetente cioè dei precoci vissuti molto dolorosi. Questa particolare coloritura per così dire preverbale del transfert si riverbera spesso in una difficoltà a pensare anche da parte dell'analista. L'analista e il pazienti possono anche essere presi come certe madri con certi neonati, da una sorta di fascinazione meravigliata, non pensabile che determina una stagnazione, una fissazione nell'"entre-deux" del doppio, come se una differenziazione tra il sé e l'altro non potesse esistere (vedi le problematiche di tipo narcisistico).
Dal doppio originario al "non-sé". Dal doppio all'alterità.
Il secondo momento chiave che possiamo ipotizzare è rappresentabile come una nuova operazione di differenziazione che permette al neonato di cominciare a vivere e a riconoscere come "non sé", maggiormente "altro" da sé, questo "doppio di madre-doppio di sé" che si allontana. L'operazione che gli permette di vivere la figura che si allontana come estranea consisterebbe così in un nuovo (?) doppio-sdoppiamento-duplicazione e finirebbe col giungere alla costituzione di un oggetto interno differenziato dall'oggetto esterno. La figura della madre "non sé" sempre più esterna ed estranea verrebbe duplicata ora da una figura interna della madre "sé" che conserva quelle tracce di unitarietà necessarie allo sviluppo, che è segnata dalla nostalgia dell'unità e è garante, proprio per questo, della sicurezza interna. Dopo questo momento, la madre potrebbe essere richiamata dall'esterno come oggetto altro ma questo movimento porterebbe sempre con sé un sentimento di nostalgia della madre "sé". Quando cioè la madre ormai divenuta "non sé" si riavvicina, essa non sarà più vissuta dal neonato come una parte di sé, ma come un'"altra" che nello stesso tempo lo rinvia al suo proprio essere "se stesso". Si vede così che la vita simbolica (la sostituibilità dell'oggetto d'amore) nasce nella stessa matrice che dà nascita, per ogni soggetto, all'esperienza della propria identità e a quella del riconoscimento dell'alterità. La ripetizione di queste esperienze, i piaceri e dispiaceri che vi sono associati e le parole che li accompagnano, permetteranno al bambino di integrare sempre di più l'esistenza autonoma e separato dell'altro e di differenziare in modo per così dire definitivo il "familiare" e l'"estraneo".
In questo percorso che non avviene senza angoscia, l'angoscia appunto dell'estraneo dell'ottavo mese e tutte le angosce e terrori notturni e/o fobie diurne che accompagnano la maturazione del bambino hanno a che fare con ogni probabilità non soltanto con la proiezione nell'estraneo di propri aspetti psichici pericolosi, ma anche con un richiamo all'esperienza del doppio, fonte di angoscia sia in quanto permette una rimemorazione della primitiva esperienza della perdita sia in quanto evoca, implicitamente, tramite l'imprevedibilità dell'intrusione, la possibilità di perdere le tranquillizzanti differenziazioni raggiunte e il pericolo di un ritorno all'indifferenziazione tra sé e l'altro. L'angoscia dell'estraneo sarebbe connessa cioè al dolore dell'inevitabilità della duplicazione. Uno sviluppo "buono quanto basta" dovrebbe condurre a un'esperienza dell'estraneo non troppo carica di un richiamo all'aspetto doloroso dell'esperienza del doppio. L'esempio dei bambini psicotici, presi senza fine nel "doppio" dello specchio (ecolalie, ecoprassie etc.) ci mostra che l'accesso allo stadio dell'estraneo è necessario per organizzare in maniera strutturante la rinuncia alla perdita dell'unità.
L'onnipotenza del bambino finirebbe dunque, parzialmente, quando esiste una rinuncia ad essere tutto nella e con la madre; è in questo momento che nascerebbe l'esperienza della mancanza che gli permetterebbe di viversi come "sé quanto basta" e di considerare ciò che non è sé (la madre, poi il padre e il mondo) come dei soggetti quali se stesso e non come parti di sé che gli sarebbero state strappate. E' la nascita appunto dell'"altro" e del "sé". César e Sàra Botella hanno descritto una sorta di progressione nel passaggio dal "doppio" all'"altro". Hanno cioè distinto un doppio animico, un doppio auto-erotico secondario (in cui l'oggetto sarebbe "soltanto dentro-anche fuori") e un doppio narcisistico (in cui l'oggetto sarebbe riconosciuto come esterno ma porterebbe le tracce della proiezione di se stessi). Si tratta di distinzioni molto interessanti a livello della clinica, ma il cui approfondimento appesantirebbe il nostro testo. Preferiamo pertanto cercare di esaminare ancora il problema dell'alterità. Tutti gli "altri" da sé, lo abbiamo visto, porteranno sempre le tracce del "doppio di madre-doppio di sé". All'interno della psiche si creerà così una sorta, potremmo dire, di impregnazione, combinazione, integrazione, punto di equilibrio tra ciò che ne è del familiare, che rinvia all'unità originaria con la madre, e ciò che ne è dell'estraneo, che rinvia alla necessità di avere intrapsichicamente acquisito l'esistenza di un'irriducibile alterità. Trattasi di un punto di equilibrio che riesce a far mantenere al soggetto il sentimento della propria identità e questo grazie appunto a un richiamo all'unità originaria e, contemporaneamente, alla necessaria "alterità".
Possiamo mettere in evidenza questo punto di equilibrio riferendoci a un particolare periodo dello sviluppo infantile, quello che può essere situato tra il momento in cui un bambino inizia a stare in piedi e a camminare e quello in cui inizia ad acquisire la capacità di un linguaggio costruito. In questo periodo si può infatti osservare la costituzione di un rapporto con gli altri bambini fondato su una sorta di particolare specularità. L'osservazione dei bambini all'asilo nido in questo periodo del loro sviluppo li mostra infatti, spesso, in atteggiamenti, stupefacentemente pacifici, di apertura, di riconoscenza e di partecipazione con gli altri, atteggiamenti che fanno appunto pensare che questi altri siano come ancora impregnati del proprio "doppio", impregnazione che sarebbe capace di attutire le differenza a vantaggio delle somiglianze e di permettere di conseguenza di diminuire la traumaticità dell'incontro con l'estraneo. La comparsa di un linguaggio costruito che segna concretamente l'esistenza di una chiara differenziazione tra il sé (ormai "Io") e l'"altro" pone fine a questo periodo pacifico a profitto di un periodo di confronto più aggressivo e all'interno del quale i limiti e le differenze possono disegnarsi in modo più preciso.
Le modalità con cui viene sperimentato l'altro risultano pertanto impregnate delle modalità con cui è stato sperimentato il "doppio di madre-doppio di sé". Abbiamo affermato che l'estraneo porta le tracce del doppio che, a sua volta, porta le tracce dell'originaria fusione. Facciamo un passo avanti nelle nostre riflessioni se pensiamo che questa unità originaria non può essere pensata come un'esperienza unica; nella realtà non possono che esistere varie modalità di unità ed ognuna di queste non può non avere peculiari e singolari caratteristiche. Dire unità tra madre e bambino non significa che le diverse unità madre-bambino siano tra loro identiche. Si può infatti pensare che i diversi stati psichici della madre, le modalità del suo rapporto al padre, le qualità dell'investimento sensoriale cui il bambino è soggetto così come il suo equipaggiamento fisiologico (e indubbiamente molte altre cose) influenzano e qualificano specificamente le diverse esperienze unitarie. Le diverse costituzioni dell'altro saranno segnate insomma dalle qualità delle esperienze fusionali originarie. Sarà cioè ben diverso se la metà-madre della fusione della diade originaria, metà-madre che si distacca dalla diade e costituisce le prime avvisaglie dell'"altro", prima di allontanarsi dal neonato, sarà stata fredda o calorosa, comunicativa o sideralmente distante. La presenza originaria nella diade di una metà poco comunicativa non potrà non avere conseguenze sui vissuti della metà "sé". Pensiamo di poter sostenere così l'esistenza, a questo livello, di fusioni benigne e di fusioni maligne. Se un bambino avrà vissuto delle prime esperienze troppo negative, tutti i doppi dei quali la sua vita psichica sarà costituita, porteranno il segno di un eccesso di dolore. Anche il "doppio di madre-doppio di sé" potrà essere vissuto come allontanantesi solo per sue cattive intenzioni. Sarà anche ben diverso se i bambini dell'asilo, primi "altri" ancora impregnati di "doppio di sé" accoglieranno il nuovo venuto con gentilezza o con violenza. L'estraneo ormai radicalmente "altro" sarà così vissuto come amichevole o come ostile anche a seconda di come saranno stato vissuti sia l'unità originaria che questo primissimo "doppio di madre-doppio di sé" di cui abbiamo finora parlato. Le caratteristiche negative di questo "doppio" si riattiveranno poi facilmente nell'esterno definitivamente costituito.
L'acquisizione della possibilità di costituire un "altro" radicalmente esterno al sé va poi di pari passo con la costituzione, anche, di un doppio interno che finisce per configurarsi come alterità interna. Il punto di arrivo di questo sviluppo è l'esistenza cioè, all'interno della psiche, di una parte di sé osservante e di una parte di sé osservata. La figurazione dell'altro (ciò che abbiamo finora descritto) implica anche la figurazione di un sé come diverso dall'altro. Questa possibilità di osservarsi dal punto di vista dell'altro dà origine così a una duplicazione tra un sé osservante e un sé osservato. Nel momento in cui l'"altro" è tale, è giocoforza viverlo come provvisto delle stesse caratteristiche di sé ed è giocoforza vivere pertanto se stessi come "altri" da lui. Si può pertanto proporre l'ipotesi che l'io osservante sia anch'esso collegato a quel movimento che dà inizialmente origine all'oggetto interno/esterno "doppio di madre-doppio di sé". Le qualità dello sdoppiamento tra una parte osservante e una parte osservata, primo sdoppiamento interno su cui si basano tutti gli sdoppiamenti interni successivi, ad esempio quelli legati alle pulsioni, potrebbero portare così, anch'esse, le tracce delle qualità dell'originario sdoppiamento tra neonato e proprio doppio. Le qualità delle relazioni tra la parte osservante e la parte osservata di ogni bambino come quelle tra le varie parti interne geneticamente successive saranno segnate così anch'esse dalle qualità delle prime relazioni fusionali.
Il "gioco degli sdoppiamenti" tende, a nostro avviso, nello sviluppo psichico, a ripetersi all'infinito: gli "altri" finiscono per essere sempre portatori di tracce dei "doppi" come i doppi interni finiscono per essere sempre portatori di tracce degli "altri" originari. Alla fine della sua analisi una donna sogna ad esempio una specie di coppia un po' indistinta di fratelli siamesi. Nel sogno la coppia si disunisce, una persona si allontana di spalle verso l'orizzonte, ciò che viene interpretato dalla paziente come l'analista che scompare. L'altra persona non è più visibile, ma ciononostante è ancora presente. La paziente si domanda se la parte "osservatrice" di se stessa, attiva nell'analisi e investita nel transfert, non abbia condotto a una raffigurazione di ciò che lei chiama il suo "Io ordinario", non più tanto vivamente occupato, come prima, nel lavoro analitico.
Quando Winnicott sviluppa le sue idee sulla capacità del bambino di essere solo in presenza della madre, ci sembra che descriva con grande precisione questo processo che permette al bambino di viversi, vedersi, ascoltarsi internamente intero, senza aver bisogno di mantenersi per tutta la vita come un complemento dell'onnipotenza fusionale, unitaria materna. La capacità di "essere soli in presenza" si costituisce a nostro avviso a partire dalla capacità di costruire questa realtà-finzione di sé e dell'altro (madre, padre e poi mondo esterno).
Nella vita adulta il rapporto con gli altri, gli "urti" anche reali che caratterizzeranno gli scambi comunicativi quotidiani, avranno caratteristiche correlate sempre, a nostro avviso, alle modalità degli sdoppiamenti descritti.
Come nasce il pensiero. Lo stesso, la madre e il pensiero.
"L'atto del pensiero e l'oggetto del pensiero si confondono"
(Parmenide, citato da Houellebecq in "Le particelle elementari").
Nello stesso modo in cui l'embrione è portato, e poi ne nasce, dall'utero della madre, la psiche del bambino è inizialmente portata, e poi ne nasce, con il suo potenziale di autonomia, dalla sua psiche. Questa affermazione che un bambino è frutto tanto dei pensieri che dell'utero della madre implica, come sua conseguenza, che un bambino possa nascere, a livello psichico, solo se la madre è in grado di pensarlo (e quindi, prima, come vedremo, se è in grado di pensare se stessa). Implica anche che la capacità di pensare del bambino si costruisce a partire dalla capacità della madre di pensarlo diverso da sé e di essere in grado di trasformare anch'essa l'esperienza della perdita in un'esperienza di mancanza.
Occorre dire che, per quanto riguarda le madri, la clinica ci mette in contatto con diverse modalità di vivere la propria ed altrui alterità e che queste diverse modalità si riattivano nel corso della gravidanza e della nascita di figli. Modalità ormai silenziose di vivere l'alterità, sopite nella vita adulta, riaffiorano e durante questi periodi ritornano a farsi evidenti. In un modo un po' semplice ma efficace, possiamo distinguere ad esempio identità materne sostanzialmente basate sulla ricerca della fusione presente nella diade originaria e identità basate invece sull'elaborazione magari nostalgica della perdita e per le quali l'inevitabilità della perdita della completezza originaria è riconosciuta e assunta come mancanza.
Quelle madri che nel loro profondo continuano a desiderare una riedizione della fusione originaria rischiano naturalmente di non dare spazio alla possibilità di autonomia del figlio. Il "doppio di madre-doppio di sé" del figlio finisce in questi casi per essere portato da madri che non desiderano affatto che il figlio sia appunto "altro". La loro onnipotenza di madri impedisce loro di negativizzarsi e di lasciare spazio all'ancora necessaria onnipotenza del figlio, che è invece implicitamente invitato a vivere secondo quanto la madre desidera.
Nel secondo caso c'è invece spazio per la comparsa di un "terzo", prima figurazione paterna che è essenziale alla fantasmatizzazione della perdita come mancanza: la perdita per così dire "reale" della madre trova un senso nella triangolazione edipica in cui una perdita assoluta non può più esistere ma può esistere invece una mancanza per la quale ciò che manca appare come fantasmaticamente non mancante al terzo della serie. A partire da questa seconda posizione, il figlio potrebbe comunque essere invitato a vivere secondo i propri desideri. "Vivi come tu vuoi" può apparire un comando paradossale, può cioè nascondere un "Vivi come io voglio, che tu viva cioè come vuoi". Ma questo è solo un gioco logico. Nella vita la differenza tra i due inviti è costituita dal fatto che il primo è basato su una possibilità di fusione, mentre il secondo è basato sulla triangolazione edipica.
Si potrebbe immaginare che, per un bambino, tanto il sentimento della propria identità quanto la figurabilità di se stesso necessiti del fatto che la madre si viva e si raffiguri come separata (si ritroverebbero qui gli stessi componenti paradossali della madre buona quanto basta, ad un tempo "folle amorosa" del suo bambino e viventesi come separata da lui). Sarebbe di fronte a una madre che è capace di viversi e raffigurarsi come separata che il neonato non potrebbe che svilupparsi verso un'autonomia e una figurabilità di sé. Se una madre riesce a raffigurarsi, questo fatto implica che essa si negativizzi, che non si viva cioè come fonte soltanto di totalità e assolutezza. Quando il bambino inizia a rappresentarsi lo fa in una dimensione di onnipotenza che la madre gli consente accettando di negativizzarsi e lasciandogli credere di essere stato lui ad averla winnicottianamente creata.
A questo proposito è molto importante che una madre, dopo il parto, provi il desiderio di tornare a vivere, a fare ancora esperienza nel rapporto con il suo uomo. Dopo alcune settimane o anche due, tre mesi, la madre non può più soddisfarsi con ciò che le offre il figlio e le diviene pertanto necessario determinarne un distacco. Questo ritorno verso la sessualità adulta è di grande importanza ed è altrettanto importante che la madre avverta che questo distacco dal figlio non è frutto di un suo volere particolare (che potrebbe essere diverso) ma che è invece necessario perché ogni bambino ha bisogno, per poter vivere, di fare esperienza della mancanza e di pensare, di conseguenza, con la propria mente. Occorre che la madre sappia che questo vissuto non è soltanto lei a sperimentarlo ma è un vissuto per così dire specie-specifico, di cui lei non è l'unica responsabile e di cui è fondamentale garante il padre. Il padre, attraverso il benessere che la madre gli procura, di fatto decolpabilizza la colpevolezza della madre. Perchè un bambino possa crescere nell'acquisizione della necessità di pensare è necessario che la madre non ritenga di essere onnipotente, di essere l'unica persona in grado di far sviluppare il figlio, ma abbia invece piena consapevolezza che suo figlio è figlio anche del suo uomo e che la presenza, nella sua mente, di questo terzo è assolutamente essenziale. La psiche materna deve essere in grado di rappresentarsi il bambino come diverso da sé. Le duplicazioni, esterna ed interna, di cui abbiamo prima parlato sono rese possibili dall'esistenza nella stessa madre di questi stessi doppi.
Altrimenti detto, affinché esista un vuoto, un intervallo nel quale la perdita della madre possa divenire un vissuto di mancanza e possa permettere al figlio un'esperienza creatrice di senso e di pensiero, occorre che per la madre, simmetricamente, l'assenza del figlio, la sua necessaria mancanza sia anch'essa creatrice di senso.
Dopo questi diversi preliminari possiamo giungere a riflettere così, più approfonditamente, sulla nascita e la funzione del pensiero. Abbiamo già visto che è a partire dal superamento della perdita dell'unità originaria che, per il bambino, si crea uno spazio vuoto (uno spazio di mancanza) che non è occupato dalla madre, ma dalla prefigurazione di un senso e di un "terzo" padre. Il pensiero, intrecciatissimo con lo sviluppo del "padre", si sviluppa in questo stesso spazio. All'inizio l'atto del pensiero e l'oggetto del pensiero si confondono, ma, alla fine, la mancanza, la propria e l'altrui alterità saranno divenute pensabili. Una madre "normale" non vuole introdurre a forza il figlio né alla verità dei propri contenuti mentali né a una loro totale assenza. "Sa" che è necessario pensare liberamente, "sa" che il pensare insieme lega il pensiero a qualche legge e, nello stesso tempo, lascia ognuno libero dai contenuti del pensiero dell'altro. Un non saper rinunciare all'esistenza di pensieri condivisi con una modalità di assolutezza può essere l'ultimo resto della fusione originaria.
Possiamo renderci conto delle modalità della nascita di un pensiero "pensante quanto basta" riflettendo a situazioni cliniche in cui la capacità di pensare appare difficile o impossibile.
La prima di queste situazioni può essere rappresentata da una madre che si impone al figlio con un'intensità eccessiva attraverso una preoccupazione materna invasiva, un'angoscia esistenziale o una tristezza, modalità conseguenti tutte a una sua non accettazione della necessità di trasformare la perdita in mancanza (altrimenti detto alla speranza di poter ricostituire col figlio la fusione magari tragica esistita all'interno della propria diade originaria). Si dà anche il caso di una negazione della perdita. Una madre può anche comunicare inconsciamente al neonato, magari preverbalmente cosciente della perdita della situazione fetale, che, con la nascita, niente è accaduto; il figlio può continuare a vivere come se fosse ancora dentro di lei.
Il bambino rischierà di non poter sperimentare così lo spazio della mancanza, rischierà di non compiere l'esperienza, fonte di creatività, dello spazio, prima descritto, in cui possono sorgere la dimensione del terzo, del "padre" e del pensiero. Non potrà utilizzare l'esperienza della mancanza della madre come qualcosa che gli permetta di scoprire nuovi spazi sia nel suo mondo interno che in quello esterno. Per adattarsi all'eccessiva presenza della madre, dovrà porre invece in atto delle difese particolari. Il bambino non aiutato a procedere nella direzione dell'autonomia, potrà mettersi così ad ascoltare invece il canto della sirena chiamata fusione che vorrebbe farlo restare adeso alla madre e ai suoi pensieri vissuti come indifferenziati dai propri. Pensare gli stessi pensieri della madre può pertanto rappresentare una soluzione all'incapacità di elaborare la perdita. Questo sistema di difesa consistente nell'essere ciò che gli altri vogliono, dà origine alle personalità dette "as if" o "falso sé", termini che indicano bene, ambedue, l'annullamento del sentimento di essere se stessi che sappiamo oggi essere in relazione con un tentativo di conservazione di un legame fusivo con la madre.
E' interessante rilevare che il tipo di conoscenza della madre che questi bambini possono acquisire è di un tipo particolare. Veronique Lemaitre l'ha chiamata conoscenza abusiva e l'ha inserita nel contesto di una patologia depressiva della madre. Questa conoscenza sarebbe abusiva in quanto raggiunta non tramite una elaborazione della perdita e della differenziazione, ma per così dire direttamente. La conoscenza della madre e, tramite di essa, la conoscenza dell'altro non è cioè vissuta come conoscenza di una madre e di un altro differenziati, ma come una conoscenza soltanto di questo "doppio" invasivo che abbiamo cercato di descrivere. Il sentimento della propria identità rischia di rimanere completamente fuso con l'identità della madre. C'è anche il rischio che questo bambino giunga a ritenere che la conoscenza del mondo interno della madre abbia, in quanto esperienza reale, uno statuto di verità assoluta. La conoscenza non si aprirebbe infatti su uno spazio di incertezza, di non-sé, preludio di un riconoscimento dell'estraneità dell'altro. Il legame duale può essere cioè assolutista e spesso anche terrorista. Vogliamo dire che, nella prima vita psichica, è la comparsa di uno spazio, di un terzo "padre" a portare di fatto alla perdita di una verità assoluta. Una volta che è stata raggiunta una situazione triadica, la conoscenza delle cose è giocoforza complessa. Per evidenziare il rischio di una conoscenza diretta, senza mediazioni, della realtà, possiamo citare il caso estremo di un bambino psicotico che ebbe una crisi di panico quando un terapeuta divise imprudentemente in due un bastoncino di plastilina conteso tra lui e un altro bambino. Sembrò proprio che questo bambino non possedesse la minima distanza dalla propria esperienza, avesse una conoscenza diretta della rottura e della separazione e mancasse invece assolutamente di una capacità di rappresentarsele. Ne soffrì moltissimo come se ad essere spezzato in due fosse stato il suo corpo "vero" e ancora indifferenziato dalla madre.
Nei casi in cui esiste una posizione della madre come quella descritta, il fatto che i problemi della madre non lascino la possibilità, al bambino, di esercitare la sua curiosità verso se stesso, il proprio corpo e i propri pensieri, altrimenti detto, di costituirsi come un sé separato, può essere anche considerato sul terreno dell'incestuosità. Il legame fusivo con la madre rischia di condurre anche la vita pulsionale verso la stessa figura materna. La vita pulsionale potrà cioè seguire le vie precostituite di questa fusione imprigionante e ripetitiva. Véronique Lemaitre ha anche rilevato che questi bambini possono non avere altra via di uscita che quella di divenire depressi come erano state depresse le loro madri.
La seconda delle situazioni in cui la capacità di pensare appare difficile o impossibile è rappresentata da quei casi opposti in cui le madri, a differenza di quelle ora descritte, sono caratterizzate da un eccesso di assenza. Si tratta di bambini che sono posti dalla loro madre di fronte a una sorta di vuoto di rappresentazione. I lavori sulla figurabilità di César e Sara Botella ci sono stati molto utili per comprendere che in certi casi, e riteniamo in particolare in alcuni bambini psicotici, il più grande pericolo è quello della non rappresentazione per esaurimento della capacità di investimento della rappresentazione di oggetto. Questo può essere talmente assente dal rapporto che l'unica modalità di farvi fronte non può costituirsi che come identificazione alla sua posizione: il bambino può giungere cioè a disinvestire la madre così come è stata la madre a disinvestirlo. La perdita di ogni investimento della rappresentazione d'oggetto conduce alla perdita dell'investimento della rappresentazione di sé, quindi di ogni rappresentazione e infine a una vera e propria incapacità di rappresentare. E' l'orrore assoluto, l'abisso della psicosi.
Noi riteniamo che in ambedue le situazioni descritte (un eccesso di presenza e un eccesso di assenza) ciò che avviene possa essere anche indicato come "perdita dell'esperienza della mancanza". Vogliamo dire che ciò che rende impossibile il pensare è costituito, in ambedue le situazioni, da una non consapevolezza dell'importanza vitale della perdita. Potrebbe essere andata perduta la vitalità dell'elaborazione della perdita. Abbiamo infatti mostrato come la vitalità dell'esperienza della mancanza conseguente all'elaborazione della perdita, conduca il bambino, per rimediarvi, a inventare, a creare dei sostituti simbolici. Se la perdita è invece vissuta come inelaborabile, come una prova troppo grave e difficile da essere contenuta, il bambino non saprà farvi fronte e integrerà a sé l'esperienza come esperienza catastrofica di una propria totale impotenza. Se un bambino vive invece la perdita come un'esperienza di mancanza, potrà costruire una finzione retrospettiva, potrà ritornare su di sé attraverso una sorta di autoerotismo autoconservatore ed elaborare così l'esperienza di una sicurezza che gli permetterà di allargare i suoi limiti e di esercitare la sua curiosità verso il mondo.
Idee per una conclusione.
Trovarsi tra colleghi che appartengono a varie culture e che parlano diverse lingue suscita di fatto, crediamo in tutti, una fantasia, una speranza di poter giungere, dopo giorni di appassionate discussioni, a conclusioni condivise. E questa speranza non può non condurre, nell'inconscio, a un tentativo di giungere a idee che possano diventare verità comuni. Il richiamo al Mediterraneo potrebbe essere uno dei canti della sirena chiamata fusione. Ma la coscienza sa che deve stare attenta a non lasciarsi portare in questa direzione, che la via dello sviluppo è quella della separazione e della differenziazione. Abbiamo la convinzione che sia oggi molto importante aver ben chiaro nella mente che il relativismo implicito nella posizione che abbiamo descritto, un relativismo legato alla convinzione che non possa esistere una conoscenza diretta del reale, non è affatto pericoloso. Può essere invece considerato come primo spunto, come origine di un pensiero che riesca a fondare bene una teoria e una pratica delle differenze.
Diciamo questo a ragion veduta in base a una delle esperienze che abbiamo condiviso, quella di un Workshop Internazionale che dura ormai da molti anni, che raggruppa analisti di diversi paesi e nel quale le radicali e insuperabili differenze di scuola hanno messo spesso a rischio la prosecuzione del Workshop stesso. E questa esperienza ha potuto continuare proprio in quanto, al suo interno, in un certo momento, non si sono tanto creati pensieri comuni quanto uno spazio comune per pensare. E questo spazio per pensare è nato quando, per dirla con Umberto Eco, ci siamo convinti della necessità di una "antropologia reciproca".
Di fronte all'esistenza di differenze, una loro pratica teoricamente fondata non può non condurre che a un reciproco studio per così dire, appunto, antropologico. Ci piace iniziare questa ultima parte del nostro lavoro indicando comunque una specificità del lavoro analitico che mette in qualche modo a riparo da tentazioni di facile universalismo. Gli analisti possano condividere certamente tutti una stessa teoria, uno stesso oggetto teorico, ma questa teoria sarà sempre in scacco rispetto alla clinica. Nel campo psicoanalitico la teoria è sempre scavalcata e superata dalle difficoltà della clinica e queste difficoltà determinano la necessità di una continua rielaborazione. Il nostro lavoro è a nostro avviso centrato sulla soggettività (ogni paziente deve essere pensato come capace di mettere in discussione i fondamenti del nostro pensiero) e di conseguenza costitutivamente "mancante" di verità assolute.
Abbiamo visto che quando il neonato perde la madre, egli costruisce allora una finzione di "doppio di madre-doppio di sé" a misura dei suoi bisogni. Quando la madre reale giunge a mancare, questo "doppio" si svela sufficientemente funzionale per consentirgli di vivere. In altri termini, ci sembra che occorra insistere sul fatto che il neonato, in assenza della madre, in qualche modo riesce a ricostruirla. La madre che ne risulta alla fine di un buon sviluppo non è una madre verità, ideale, dogma, ma una madre che con la madre-verità degli inizi ha solo un rapporto di derivazione.
Le teorie analitiche vanno a nostro avviso considerate tenendo conto di quanto ora detto. L'analista, se è tale, non può considerarsi in possesso di una verità universale, ma deve piuttosto pensare questa come un oggetto psichico ormai perduto e l'elaborazione della cui perdita può però condurre a costruire propri utili pensieri. Ciò significa che i suoi pensieri sono delle creazioni personali, soggettive, a partenza dalla comune cultura analitica, ma che non hanno per funzione quella di rimpiazzare l'oggetto teorico ideale perduto nello stesso modo con cui il gioco della bobina non ha la funzione di rimpiazzare la madre, ma quella invece di rendere possibile la vita psichica anche in sua assenza.
All'origine delle diversità esiste sempre un'esperienza di perdita. Anche le diversità di scuola e le diversità teoriche collegate alle diverse nazionalità vanno a nostro avviso pensate tenendo sullo sfondo queste stesse considerazioni. Vanno cioè pensate come vari tentativi di riparare la perdita di una visione comune. Fa cioè parte del modo di pensare psicoanalitico collegare il pensiero con la sua nascita all'interno del dramma della perdita.
Ci sembra che un confronto pluralistico non possa che nascere dalla rinuncia a un oggetto teorico universale. Non può nascere però anche senza un'accettazione del fatto che il "pensare insieme" è irrinunciabile, che è cioè irrinunciabile l'atteggiamento reciprocamente "antropologico". Il bisogno di incontri e di scambi che proviamo nella comunità psicoanalitica (e che talora appare anche eccessivo) permette di compensare, a nostro avviso, la rinuncia a questo oggetto teorico universale attraverso l'instaurarsi di un oggetto di una molto strana qualità, costituito cioè ad un tempo di piacere e di inquietudine condivisi. Piacere di essere insieme a condividere i modi di procedere della nostra potente impotenza. La rescissione del contratto distruttore con un ideale teorico universale deve avvenire all'interno di una comunità-matrice sufficientemente capace di far sì che il lavoro possa continuare. Dire che la speranza di una stessa verità ha a che fare, da un punto di vista psicoanalitico, con la nostalgia dell'unità originaria è comunque un'affermazione altrettanto forte quanto quella dell'esistenza di una verità universale. Siamo di nuovo in un paradosso. Ma l'affermazione di una rinuncia ad una verità assoluta ha il vantaggio di essere basata, come abbiamo visto, su un fondamento triadico. Il nostro mestiere non è proprio quello, del resto, di sapere abitare i paradossi?
I fantasmi di verità assoluta si stabiliscono a partire da una richiesta identificatoria assolutista, se non terroristica. Cornelius Castoriadis, in un articolo su "Le monde" del 9.1.1999 sostiene che l'altro in quanto estraneo, quando entra in risonanza interna con un'angoscia, è vissuto come "essenzialmente non convertibile"; ne consegue che la differenza tra "sé" e "non sé" stabilisce uno spazio fantasmatico insormontabile che permette, nei termini di Castoriadis, di eliminare ogni rischio di confusione tra il sé e il suo oggetto. Quest'ultima riflessione ci permette di aggiungere che la coscienza dell'altro, in quanto estraneo, è garante della coscienza di sé e che nello stesso tempo questa coscienza dell'altro come estraneo, affinché questo non diventi persecutore, deve restare tinta di una colorazione di identificazione personale sufficientemente sensibile. Altrimenti detto, si deve poter riconoscere nell'estraneo quel certo grado di identità con se stessi che eviti di ripiegarsi in una posizione persecutore/perseguitato.
Perchè abbiamo portato questo contributo e perché ci interessano tanto questi problemi legati alla costituzione dell'identità e dell'alterità? Ci interessano molto per motivi clinici, perché si tratta di riflessioni che ci aiutano nel nostro lavoro quotidiano. Ma ne abbiamo parlato in questa sede perché ci sembra che queste riflessioni psicoanalitiche ci possano aiutare in un tentativo di fondare un pluralismo correttamente inteso e che non può appunto fondarsi che su un "pensare insieme". Una posizione pluralista può procedere a nostro avviso solo a partire da una strutturazione triadica. L'estraneo si costituisce necessariamente come inquietante ma è la creatività del pensiero che può cercare di mettere in breccia questa inquietudine facendo intervenire dei pensieri come quelli che abbiamo cercato di sviluppare e che riguardano l'intreccio dell'altro con il doppio, l'importanza dell'altro per la percezione della propria identità, il gioco delle identificazioni reciproche. Come si è visto a proposito dell'elaborazione dell'identità del neonato, essere capace di costituire l'estraneo costituisce nello stesso momento l'"essere se stessi".
Se si ha bisogno di mettersi insieme per pensare è per ricreare artificialmente le condizioni del doppio e per far funzionare una nuova fusione (questa volta gruppale) all'uscita dalla quale la fabbricazione dell'estraneo dovrà essere spostata almeno un po' più lontano. Essere pluralisti è, in effetti, essere in un'organizzazione psichica nella quale è mantenuto il legame tra l'estraneo e il doppio.
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