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PSYCHOMEDIA
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    Atti del Congresso - a cura di Ermete Ronchi:

    Università degli Studi di Brescia - Cattedra di Psicologia Clinica
    in collaborazione con SINOPSIS - COIRAG - PSYCHOMEDIA


VUOTO DI IDENTITÀ E RISCHI DEL VIRTUALE

RELAZIONE

Renato de Polo

Psicoanalista SPI, Psicoterapeuta, Gruppoanalista, Past President Associazione Psicoterapia di Gruppo (COIRAG), Segretario del Centro Studi e Ricerche COIRAG. President elect COIRAG


Introdurrò il tema esponendo alcune idee-preliminari valide come punti di riferimento per il suo sviluppo successivo.

  • Rilevo un fenomeno: un mondo come il nostro, sempre più ricco di stimoli e di oggetti, curiosamente sollecita l’analista ad occuparsi della diffusione di stati mentali dove il vuoto … predomina.
  • Come dare ragione di questo fenomeno: penso la mente come un contenitore simile ad un setaccio, dove i buchi si allargano in modo progressivo al passaggio del flusso di sostanze liquide, perché il suo tessuto è troppo debole rispetto alla velocità e potenza del flusso stesso, così che la trama non regge e si allarga;
  • La mente, in altri termini, non riesce più a contenere o a filtrare l’esperienza in modo adeguato alle proprie necessità di funzionamento. Dice a questo proposito Graziano Martignoni: “Il soggetto tardo moderno è ormai posto di fronte ad un mondo che privilegia più l’esperienza immediata e veloce che la storia, più il controllo e la sicurezza che il progetto, più l’adattamento al presente e alla realtà mondana che la ricerca di un senso che esce da se stessi, più il consumo di un tempo libero-feticcio che la creazione e l’impegno trasformativo.” (1998, 108).
  • La ricchezza di produzione di oggetti è enormemente superiore al passato, ma gli oggetti decadono molto più rapidamente perché sono meno solidi e le strutture mentali si adattano specularmente agli oggetti con cui trattano: possono permettersi di essere meno forti e resistenti.

E dove si pone allora il vuoto come problema?

Occorre intendersi a quale concezione ci riferiamo. Infatti:

  • c’è il vuoto mentale determinato dalla rimozione: una rappresentazione scompare dalla mente perché incompatibile e cade nell’inconscio. Si creano buchi o vuoti nei processi di pensiero che non possono essere tollerati troppo a lungo e in questa misura nascono processi transferali: ciò che è stato rimosso rivive inconsapevolmente assumendo la forma di una persona o di un oggetto presente nella realtà esterna. In questo modo i vuoti della coscienza e della razionalità vengono “riempiti”.
  • C’è il vuoto che si crea nei momenti in cui l’individuo o il gruppo sono avviati ad una trasformazione. Nel passaggio dal “vecchio al nuovo” c’è uno spazio vuoto, transizionale necessario per l’assimilazione del passato e per la costruzione del progetto nuovo. Questo tipo di vuoto può essere riempito da allucinazioni.

Neri, Correale e Fadda in “Letture bioniane” (1987) riportano una notizia tratta da Karl H. Pribram, particolarmente significativa per quanto riguarda il nostro problema del vuoto.

    "In una zona emarginata di New York, per diverse notti la polizia, i pompieri, l’ospedale del quartiere ricevettero numerose telefonate di richiesta di aiuto da parte di molte persone, le quali riferivano che stava avvenendo qualcosa di strano e di indefinibile. Le prime ricerche dimostrarono la “non consistenza” di queste impressioni. Fu poi notato che le telefonate si concentravano tutte intorno a determinate ore della notte; solo in un secondo momento fu possibile ricostruire che le chiamate erano iniziate proprio la notte successiva alla chiusura della ferrovia sopraelevata. Per molti anni nella Third Avenue era passata una ferrovia sopraelevata notturna che faceva un gran fracasso; la ferrovia era stata tolta il giorno prima dell’inizio di queste chiamate. “Le chiamate avvenivano in corrispondenza degli orari dei treni che una volta facevano tanto baccano. Gli strani avvenimenti altro non erano […] che il silenzio ‘assordante’ che ora sostituiva il previsto rumore” (1971, 72)

    Secondo Bion, l’individuo tende ad escludere la consapevolezza di queste esperienze terrifiche (l’immenso silenzio, gli spaventosi spazi infiniti), saturandole con una rassicurante quotidianità; se questa viene a mancare egli tenterà allora di colmare il vuoto con percezioni sensoriali allucinosiche. Lo psicoanalista – rinunciando alla prima forma di difesa, e prevenendo la saturazione del vuoto con allucinazioni – può promuovere la trasformazione dell’”assenza” in pensiero."

C’è il “grande vuoto” della società normalmente operatoria di cui ci parla Graziano Martignoni (1998, 116-117, op.cit.). Egli si rifà a concezioni della scuola di psicosomatica di Pierre Marty, Michel Fain, Christian David e Michel De M’Uzan , che hanno individuato in alcune patologie somatiche un particolare tipo di “pensiero o funzionamento operatorio”, in cui il “corpo sostituisce totalmente o parzialmente lo stesso funzionamento mentale” (ibidem). I soggetti possono anche essere normalmente ben integrati socialmente ma il loro corpo è privato della corporeità soggettiva e funziona in modo perlopiù autonomo, “come una sorta di automa su cui il soggetto ha perso ogni controllo e ogni emozione” (ibidem).

L’inconscio è isolato rispetto ai processi secondari, così che si può sviluppare un investimento fortissimo nell’ordine della realtà del lavoro, del pragmatismo, del successo-carriera. Scompaiono i sogni, i ricordi, le nostalgie. “L’adattamento non è più strumento dell’identità ma è divenuto finalità della stessa” (op. cit. 115). In una “società normalmente operatoria” l’adattamento come fine non è niente altro che la modalità di aderire, più facilmente, sul piano del funzionamento psichico e comportamentale, alle esigenze di questa stessa società in una specularità immobile. In una strutturazione individuale e sociale di questo tipo il “vuoto” è pensabile nei termini di una tendenziale scomparsa del preconscio, il momento della vita mentale che permette la organizzazione o rappresentazione di sé e del mondo, la costruzione e la posizione della propria identità. La nientificazione del preconscio, contratto e isterilito dall’accelerazione temporale dei collegamenti stimolo-risposta, desiderio-soddisfazione, così che scompare quell’area intermedia che permette la transizione dai fantasmi inconsci alle simbolizzazioni, richiede un qualche surrogato o sostituto che “incolli” le parti di sé destinate altrimenti alla frammentazione. La “colla” possono essere le identificazioni di gruppo, le mode sociali, gli apparati tecnologici e multimediali.

Personalmente preferisco pensare al vuoto nei termini di un “buco” o di “buchi” in quello schermo che ci permette durante la notte di sognare: lo schermo del sogno (de Polo, 1993). Esso viene costruito attraverso le prime esperienze infantili e contiene la matrice primordiale del pensiero. In occasione di esperienze traumatiche può subire delle lacerazioni o, più semplicemente, non svilupparsi così che non risulta possibile una rappresentazione completa di personaggi significativi per la propria vita mentale. Per un mio paziente per esempio questa specifica mancanza era rappresentata attraverso un personaggio che, sulla scena onirica, non aveva un volto. Nel contesto analitico risultò con chiarezza essere il volto di un padre come modello per la propria identificazione. E non era, ovviamente, mancanza da poco. Mi sono ormai decisamente convinto che le diverse forme di angoscia collegate a spazi vuoti debbano essere considerate come segnali di un vuoto nello schermo onirico in cui il pensiero può cadere ed essere assorbito in maniera analoga a come un corpo celeste può essere assorbito nel “buco nero” studiato dagli astronomi e dai fisici.

E il virtuale? Come possiamo collegare i vuoti nell’identità al mondo virtuale? Dice Cagossi, a proposito del virtuale:

    "Il potere di attrattiva della manipolazione del computer e delle sue potenti grafiche dipende anche dal “piacere del gioco”, dal fatto di trattare con “copie del reale”, attenuando i vincoli che la realtà pone. Questa è la discriminante principale dei sistemi della simulazione e degli “oggetti virtuali”. Essi operano tramite “copie”! La libertà di azione che il soggetto sociale concede a se stesso quando tratta con copie è incommensurabile, e apre la possibilità di tentare esperienze che la realtà restringe prepotentemente, e di ripeterle, modificarle, intensificarle a piacere" (1998, 168).

Per condensare in una metafora gli ultimi pensieri esposti utilizzerò un film che può esprimerli in maniera efficace. Nel film “La Rosa purpurea del Cairo” il protagonista che assiste a sua volta ad un film viene inarrestabilmente attratto da esso così da diventare egli stesso un personaggio sullo schermo, da cui però ad un certo punto riesce ad uscire tornando ad occupare il suo posto nella platea. Il gioco virtuale o meglio il gioco col virtuale attrae così che la fantasia diventa realtà e alla realtà si ritorna arricchiti dalla fantasia. E dove sta il rischio?: ovviamente che tale ritorno per qualche motivo sia impedito. La finzione diverrebbe in questo modo il supporto per una costruzione allucinatoria, di cui diverrebbe l’alimento. Ma in questo modo è il film responsabile dell’allucinazione? Non credo proprio che di ciò lo si possa imputare. Anzi potrebbe addirittura essergli attribuito il merito di aver permesso un’organizzazione di pensiero allucinatorio, là dove vi erano solo frammenti dispersi alla ricerca di un pensatore. Più verosimilmente, se si tratta di cercare un responsabile, esso è da rintracciare nello schermo onirico del sognatore-spettatore che cerca sulla scena del regista la possibilità di riparare le proprie assenze, i propri vuoti, le proprie lacerazioni, senza poter ricevere adeguata risposta, perché il regista è troppo lontano o troppo vicino, così che non è possibile costruire con lui una nuova scena (non è possibile in altri termini costruire e conservare l’area preconscia dalla quale alimentare un pensiero nuovo).

Lo spazio preconscio, inteso come uno spazio dialogico può essere immaginato visivamente come uno spazio occupato dal regista e dallo spettatore, dove quest'ultimo, desideroso di essere accolto sulla scena, discute col regista tale possibilità e in particolare le opportune modifiche alla storia così che possa trovare posto anche la personale fantasia dello spettatore.

Il virtuale è nell’ambito del transizionale, del territorio intermedio e quindi, propriamente, nel territorio del sogno, di un sogno dal quale normalmente è possibile svegliarsi. Normalmente, non necessariamente. Di solito basta schiacciare il pulsante di spegnimento del computer, ma proprio questo atto può diventare sempre più difficile, così che per esempio si dice che relazioni matrimoniali sono state distrutte da Internet oppure che la vita personale è stata a tal punto assorbita da Internet da trasformarsi in una relazione tossicofilica. Posto così il problema però sarebbe come attribuire ad un letto e ad una stanza confortevole la responsabilità di una narcolessia o ad una sigaretta la responsabilità di una dipendenza da nicotina.

Nel 1984 Frederic Jameson scrisse un articolo sulla postmodernità dove, nel delinearne le tendenze, includeva la "precedenza della superficie sulla profondità”, della simulazione sulla realtà, del gioco sulla serietà (v. Cagossi, op.cit., 169). Contemporaneamente accusava la mancanza di oggetti in grado di rappresentare la postmodernità. Oggi abbiamo finalmente l’oggetto adeguato alla sua rappresentazione: il personal computer, gli ologrammi, i sistemi di simulazione, che tuttavia producono anche oggetti che sono una sfida alla rappresentazione stessa.

Il problema che pone tale nuovo oggetto è che sembra richiedere una trasformazione della mente del suo creatore per poter essere usato o meglio, pensato. È come se lo stregone improvvisamente diventasse solo un apprendista stregone, che rischia di perdere il controllo sugli oggetti che ha creato. Avevamo l’idea di una mente che guida dall’alto il corpo e che si apre, se vuole, sull’infinito, in rapporto alla sua capacità di estendere i confini della sua visione, reale o mentale, creando saperi che hanno al vertice le idee più generali e alla base i “dati” fenomenici. Ma la convinzione forse più salda era che la mente fosse dentro il corpo. Ora ci viene presentata una mente che sta fuori dal corpo e che non ha un suo centro, essa è presente e può essere rintracciata nelle operazioni che compie. Anzi addirittura questa “mente” fuori dal corpo mette in comunicazione persone che hanno un rapporto di comunicazione sensoriale pressoché nullo. La mente non è concentrata in una parte del sistema, ma è distribuita nel sistema, viene dal basso e non dall’alto e inoltre non ha un corpo a cui affidare la funzione di contenere le immaginazioni. Il virtuale richiede solo un supporto esterno sul quale riprodurre le proiezioni delle proprie rappresentazioni. Ammetto di provare una certa nostalgia dei tempi passati in cui ci si poteva cullare nella fantasia che la cosa importante fosse un’idea chiara, perché la comunicazione efficace sarebbe risultata quasi automatica. “Rem tene, verba sequentur” (abbi chiaro l’argomento, l’idea, le parole seguiranno). Nostalgia dei tempi in cui “virus”, corti circuiti, sbalzi di tensione non potevano certo impedire la comunicazione; essa poteva essere impedita dalla perdita per esempio di funzioni neurofisiologiche. Oggi è tutto il contrario: deficit nel funzionamento fisico che impedirebbero la comunicazione possono essere rimediati proprio dallo strumento e dalle operazioni informatiche, così che lo strumento pretende un posto sempre più importante alla tavola dei valori sociali. E a buon diritto, perché se lo è meritato, dato che continua ad offrire la possibilità di raggiungere mondi sempre più distanti, superando grandi spazi. Ma in questo modo costringe la mente ad una continua messa a fuoco dei suoi punti di vista non solo su di sé, ma anche sull’altro. È come se una pellicola cinematografica fosse proiettata sempre più velocemente, così da avvicinarsi al momento in cui i personaggi possono perdere i contorni che li definiscono e le relative sfumature di colore. Tuttavia quando la pellicola va troppo veloce è possibile fermarla o fermarsi. Il rimedio rimane ancora a portata di mano: è tra le scelte possibili. Più inquietante è interrogarsi, in prospettiva, sul destino di un sistema di relazione con l’altro dove non è possibile un contatto fisico attraverso la gamma delle sfumature sensoriali. Tale tipo di contatto è importante per l’orientamento e l’elaborazione affettiva. Che cosa potrà sostituirlo? Costruiremo mondi dove perderà importanza la realtà fisica e prevarrà il valore della copia, dell’immagine bidimensionale, un mondo dove sarà importante l’atto di creazione-produzione e non tanto ciò che si crea?

Alcuni mesi fa mi suscitò curiosità il dato statistico secondo il quale il nostro paese si situava ai livelli infimi per quanto riguarda il tasso di natalità. Sempre meno figli! Accanto ad altre considerazioni proposi l’ipotesi che il basso indice di natalità potesse rilevare uno spostamento di interesse dalla generazione di figli in carne ed ossa alla generazione di “figli” tecnologici e in particolare multimediali (intendendo con ciò la prodigiosa creazione di prodotti tecnologici ed in particolare telematici). Il figlio ha una funzione importante nella trasmissione della memoria sociale e culturale. Ma nel nostro mondo tale funzione sembra poter essere in gran parte sostituita dalla memoria informatica, apparentemente molto più efficiente della memoria umana. Le “memorie” informatiche possono espandersi in maniera vertiginosa e necessitano certamente di minore cura di quanto comporti la memoria di un figlio. L’immortalità del gruppo o in termini più modesti la sua sopravvivenza sembra poter essere garantita più dallo sviluppo dell’apparato tecnologico che dall’incontro di corpi. Nella corsa verso realizzazioni importanti avrà allora ancora valore generare la vita?

Ne nasce il paradosso di un mondo che crea in maniera incessante prospettive che significano sopravvivenza e che mettono a rischio la sopravvivenza stessa.

Vari interrogativi si debbono porre anche a livello gruppale. Affinché un gruppo si possa articolare in maniera vitale occorre che definisca i suoi confini, i suoi oggetti, un dentro e un fuori, il numero dei suoi membri, il suo organismo progettuale e organizzativo. Tutto ciò è fondato su una matrice simile ad un corpo e tale rappresentazione deriva dalla storia di ciascuno nel rapporto con altri corpi, oltre che con il proprio.

Un mondo che basa la sua comunicazione su oggetti di pensiero invece che su oggetti sensoriali ed affettivi come potrà riuscire a creare un senso di condivisione affettiva che non sia del tutto effimera? Dove in altri termini andrà a finire l’idea di un corpo che contiene una mente e che dà consistenza, sia pur ineffabile, alle aggregazioni sociali umane? Dovremo cambiare totalmente l’immagine di noi stessi e avviarci a pensarci sempre in viaggio in un mondo che non ha più confini perché è simile ad una galassia e la mente è identicamente simile a una galassia dove il piccolo pensiero si aggira migrando dall'una all’altra costellazione?

Fuor di metafora la possibilità offerta da Internet di avviare contatti con persone sconosciute realizzando anche gruppi che vivono in luoghi virtuali e che ampliano o restringono incessantemente i loro confini pone le basi per una profonda rivoluzione nel nostro modo di pensare ai gruppi umani, una rivoluzione dalle caratteristiche ancora imprevedibili. Si può solo supporre che, in assenza di una base sicura offerta dai confini del gruppo di riferimento e dalla sua organizzazione basata su corpi reali, la lotta per il potere sull’informazione diventerà il motivo di conflitto fondamentale nel nostro futuro.

Se infatti il corpo gruppale diventa un corpo esteso all’infinito, il potere di controllo non potrà che essere cercato all’infinito per potere realizzarsi. Rimarrà ancora spazio per porre qualche domanda sul senso delle cose che avvengono, rimarrà ancora uno spazio dove tali domande da “vecchia generazione”, possano alimentarsi ascoltando le vibrazioni, le parole, le sensazioni, le idee che improvvisamente affiorano dal nostro preconscio? Con queste riflessioni ho cercato di offrire un mio personale tentativo di mantenere aperto tale spazio.

Bibliografia

  • Cagossi M. (1998), “Epistemologie del profondo ed estetiche del virtuale”, Psiche, Borla, VI, 1.
  • de Polo R. (1993), “Lo schermo del sogno”, Relazione letta al Centro Milanese di Psicoanalisi, anno scientifico 1993.
  • Martignoni G. (1998), “La felicità e il grande vuoto. Paesaggi di una ‘società normalmente operatoria’”, Psiche, Borla, VI, 2.
  • Neri C., Correale A., Fadda P. (1987), Letture bioniane, Borla, Roma.
  • Pribram K.H. (1971), I linguaggi del cervello. Introduzione alla neuropsicologia, Franco Angeli, Milano, 1979.

Bibliografia generale di questo congresso

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Renato de Polo
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