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Psicoterapia e Scienze Umane, 1999, XXXII, 1

La storia intellettuale della psicoanalisi, 1973-1998

John E. Gedo

 
"L'autore presenta un'ampia rassegna delle monografie psicoanalitiche più significative prodotte dall'ultima generazione di autori; da ciò sembra emergere che le attuali differenze teoriche all'interno del campo si basano su un disaccordo fondamentale circa l'individuazione della metodologia più appropriata ai fini del raggiungimento della conoscenza. La più rigida di queste dispute epistemiche è quella che contrappone coloro che indicano come centrale il bisogno di empirismo a coloro che invece seguono un percorso prevalentemente razionale. Il primo gruppo concepisce la psicoanalisi come una branca delle scienze naturali; gli autori del secondo, viceversa, ripudiano in modo esplicito tale appartenenza, oppure si limitano a riconoscerla in modo superficiale, dando comunque priorità all'approfondimento di qualche dottrina filosofica. A differenza delle scienze naturali, le discipline che impiegano un'epistemologia razionalista mancano di una griglia di standard condivisi che confermino la validità della disciplina stessa; di conseguenza, le scuole psicoanalitiche che aderiscono al razionalismo possono mantenere i loro punti di vista in modo aprioristico, prescindendo da qualunque tipo di prova empirica che possa nel frattempo venire alla luce" (Gedo, 1999).

Il lavoro di Gedo (che comparirà come capitolo conclusivo del volume Psychoanalysis 1973-1988, in corso di pubblicazione presso la casa editrice newyorkese The Other Press) è un interessante tentativo di riassumere gli ultimi 25 anni di psicoanalisi, richiamando la necessità di confrontarsi, come sta facendo l'avanguardia intellettuale di questa disciplina, con la più centrale delle questioni epistemiche, tuttora irrisolta, quella riguardante la natura stessa della psicoanalisi in quanto disciplina intellettuale, in rapporto con le ricerche e con le scoperte delle attuali scienze empiriche.
Con ciò, ci ritroviamo nel cuore della dibattuta questione mente/corpo.
Gli studi sul cervello, qui si dice, sono "in grado di invalidare molti degli assunti biologici che Freud aveva posto alla base della costruzione della sua metapsicologia" (Gedo, 1999, p. 8). In particolare, il "principio di costanza" si è rivelato insostenibile, tanto che si è affermato da parte di alcuni (B.B. Rubinstein,1997) che non è più possibile considerare valido il concetto di "energia psichica", privando in tal modo la teoria pulsionale della sua base logica e svuotando del tutto anche la teoria strutturale freudiana del 1923 (ibid., p. 9).

In contrapposizione a questa opinione, va qui ricordato che alcuni autori (Pribram e Gill, 1978) hanno recentemente riletto il Progetto di una Psicologia di Freud, dimostrando che il suo concetto di energia è vicinissimo all'attuale neurofisiologia (per uno studio critico approfondito sull'intera questione, personalmente ritengo illuminante una lettura di Mancia, 1998, pp. 157-168) Appare quindi quanto meno imprudente concludere sbrigativamente, come in questo saggio fa Gedo, che "l'abbandono del costrutto teorico dell'energia priva la teoria pulsionale della sua base logica e dunque svuota del tutto anche la teoria strutturale freudiana del 1923" (ibid, p. 9).
Inoltre, questa lapidaria conclusione, a mio modo di vedere, non scorre così pianamente come potrebbe sembrare. Intanto Freud, in base ai principi della chimica e della fisica del suo tempo, meno della neurologia, in crisi per le nuove acquisizioni di psichiatria e pediatria riguardo le più gravi patologie psichiche infantili, ha inteso nel tempo il principio di costanza in maniera non univoca, andando dall'invarianza quantitativa dell'energia psichica, nonostante i diversi spostamenti e trasformazioni, alla tendenza all'equilibrio delle differenze di livello energetico all'interno di un sistema chiuso, all'ipotesi di una autoregolazione degli scambi con l'ambiente esterno, onde mantenere costante la differenza di livello energetico. Sappiamo inoltre che la formazione neurologica di Freud non si poteva nutrire di certezze incrollabili, essendo a cavallo tra due corpus di conoscenze, quello pediatrico e quello psichiatrico, in quegli anni in rapida crescita (per un approfondimento di questo aspetto importante della vita di Freud, vedi Bonomi, 1998).

Sulla base di sfide alla metapsicologia freudiana, avanzate da Rubinstein e Holt, Gedo qui caldeggia "il ripudio di tali antichi assunti così screditati" (ibid., p. 9). Personalmente ritengo che, prima di buttare con tanta facilità a mare gli "antichi assunti", bisognerebbe pensarci due volte, come si suol dire, anche perché non si capisce bene perché si debba buttar via "il vecchio", per smania del "nuovo", come se improvvisamente esso non servisse più, e "tutta la verità" stesse solo ed unicamente nel "nuovo". Secondariamente, mi pare che si sottovaluti il fatto che il valore della metapsicologia freudiana, al di là dell'attuale validità specifica o meno dei suoi assunti di base, sta proprio nel fatto di mostrarci, attraverso le successive vicissitudini di pensiero sulle quali si è nel tempo costituita, come la scienza non sia fondata su certezze, ma si strutturi su un continuo divenire, le cui radici affondano sempre nella clinica, humus fecondo che segue e accompagna il processo nel suo divenire, aprendo nuove e spesso inaspettate prospettive. E la clinica della psicoanalisi ha una sua specificità, che non è quella delle neuroscienze, ad esempio.
Dunque, che senso avrebbe distruggere la specificità della psicoanalisi, il suo originale ed unico progetto, facendone un discorso a fondazione neuroscientifica, ad esempio? Sarebbe davvero un arricchimento, o non piuttosto un appiattimento, per la smania (rassicurante, deresponsabilizzante) di convergere in una voce univoca, priva di salutari incertezze?
Nell'attuale momento storico di grandi revisioni, non sempre tuttavia così sostanziali come sembrerebbe, in cui dagli stessi scienziati si sottolinea la continuità metodologica tra diversi settori della conoscenza umana, e si assiste a un grande sforzo di superare il vecchio dualismo cartesiano tra res cogitans e res extensa, appare sempre più imprescindibile, sia da parte di chi fa ricerca, sia da parte di chi ne usufruisce, il ricorso ad una pacata e razionale attitudine critica, che vagli attentamente i nuovi apporti di conoscenza.

Torniamo quindi con più calma alla questione di partenza, il dualismo o il monismo riguardo la vexata quaestio mente/cervello, per "distinguere il grano dal loglio", come dice Gedo. Così troviamo che, accanto a un Edelman che ha in tempi recenti parlato del cervello come di un "sistema aperto", altri continuano a sostenere che si tratta di un sistema chiuso, il che validerebbe la teoria della conservazione dell'energia. Dunque, disparità di vedute, anche se è presumibile che nessuno possa oggi negare che il modello della mente vada comunque inscritto nell'area relazionale e interattiva: persino le neuroscienze si stanno molto interessando alla realtà emotivo-affettiva.
Ma fermiamoci un momento a riflettere su alcune di queste nuove acquisizioni, che renderebbero vetusto gran parte del nostro attuale patrimonio di conoscenze su base psicodinamica. Non è certo una novità che l'apprendimento, a cominciare da quello inconscio, generato dal rapporto con la realtà, sia di natura affettiva e cognitiva insieme. Quando, parlando di Schore (1994), nel saggio di Gedo si sottolinea che "le ricerche più recenti sul cervello hanno dimostrato il ruolo delle esperienze infantili nell'influenzamento della strutturazione del sistema nervoso centrale" (ibid, p. 11), non si allude a nulla di nuovo, a meno che non si intenda il "dimostrare" come una misurazione, una "visualizzazione", un de-monstrare, un addurre quindi delle nuove prove perché qualcosa che già si sapeva risulti chiara attraverso nuovi strumenti tecnologici che permettono nuove informazioni espresse in modo diverso (penso ad esempio allo studio dei codici elettrici dell'informazione evidenziabili nell'attività cerebrale) su fenomeni clinicamente già da tempo noti e verificati. Ma tali strumentazioni, ad esempio nell'area computazionale, non mi pare rispondano alla domanda su come si forma una rappresentazione, nel senso di esperienza interna; questo, senza nulla togliere al tentativo forte di Gedo di legare psicoanalisi e neurobiologia.

Voglio qui ricordare che in una conferenza del 1995, "Working through come metafora e come modalità terapeutica", Gedo, per autodefinizione "eterodosso teorico", chiarisce il suo pensiero, a mio parere, con maggior chiarezza di quanto non avvenga in questo capitolo conclusivo del suo più recente libro (probabilmente la lettura integrale del libro consentirebbe di mettere più precisamente a fuoco il pensiero dell'autore). Dopo aver ricordato che nel 1926 "Freud attribuì la necessità dell'elaborazione a fattori biologici che trascendano i contenuti mentali" (ibid., p. 5) , egli osserva che "gli psicoanalisti contemporanei non si accontentano più di formulazioni teoriche totalmente incorniciate nei termini di supposte pulsioni o loro vicissitudini, cosicché ogni risorsa o spiegazione su base costituzionale deve essere supportata da dati presi in prestito più direttamente dalle neuroscienze" (ibid., p. 6). Agli psicoanalisti resta il compito di identificare aree di funzionamento mentale primitivo, onde promuoverne, tramite una riorganizzazione delle reti neurali, la maturazione delle funzioni: ma, sottolinea Gedo, per essere duratura, tale riorganizzazione può aver luogo solo come risultato di processi intrapsichici.
Sembra qui che la clinica, estromessa dalla porta come vecchia e fuori moda, rientri con un peso non indifferente dalla finestra.

In un successivo importante lavoro del 1997, Gedo ribadisce la necessità da parte dell'analista di occuparsi di fattori che vanno al di là dei semplici contenuti mentali per arrivare a cambiamenti strutturali, dato che lo stesso Freud aveva riconosciuto il superamento della patologia come "collegato alla possibilità di alterare la maniera in cui i contenuti mentali vengono processati." (Gedo, 1997, p. 15), presumendo l'Io e l'Es "dotati di organizzazioni energetiche diverse, tali per cui il fatto di trasformare lo stile di processazione dei contenuti dalla modalità tipica dell'Es a quella tipica dell'Io significava, ai suoi occhi, produrre quell'alterazione biologica che in seguito sarebbe stata definita "neutralizzazione" (Hartmann, 1964)" (ibid., p. 15). A detta di Gedo, il vecchio artista deve imparare nuovi trucchi; la nuova istruzione "corrisponde alla messa in opera di una nuova organizzazione funzionale nel cervello" (ibid., p. 16).
Condivisibile o meno, la posizione di Gedo appare chiara, a mio parere più che in questo capitolo conclusivo del suo ultimo libro, forse, come ho già detto, gravato da troppi rapidi riferimenti di materiale probabilmente trattato più diffusamente nel corso dell'opera.
Avanzo tuttavia seri dubbi sul fatto che sia possibile una utopica ricerca di un oggetto unico del sapere, come da molti autori oggi viene propugnato. D'altronde, è altrettanto vero che ogni contrapposizione fra principi non può che condurre lontano dalla conoscenza, precostituendo giudizi ed opinioni, soprattutto se veicolate da confusive lotte e scelte di campo.

Il fermarsi ad osservare l'hic et nunc, senza preconcetti, senza aspettative, né riguardo all'altro da sé, né riguardo a se stessi, continuando a formulare ipotesi, può permetterci di guardare veramente le cose, e di avvicinarci il più possibile ad esse. Ancora una volta, la clinica sembra costituire terreno privilegiato per un avvicinamento meno approssimativo e più diretto alla più profonda realtà dell'uomo e, in generale, alle tematiche epistemiche. Neuroscienze, cognitivismo, etologia e biologia evoluzionistica, con il loro ricco apparato sperimentale restano in tutto il loro valore di sperimentazione e verifica, senza contrapposizioni o giudizi di valore, ma come coordinate che, da diverse angolazioni, mirano ad allargare e ad approfondire il campo della conoscenza.
In questo senso, il lavoro di Gedo, al di là di pesantezze e ambiguità espositive, appare teoricamente come un tentativo forte di agganciare psicoanalisi e neuroscienze, partendo dalle posizioni freudiane.

Bibliografia
Bonomi, C. (1998). Sigmund Freud: un neurologo tra sapere pediatrico e sapere psichiatrico del XIX secolo. Psicoterapia e Scienze Umane, 1: 51-91.
Gedo, J.E. (1995 ). La elaborazione ( working through) come metafora e come modalità terapeutica. Il ruolo terapeutico, 67: 4-11.
Gedo, J.E. (1997). Riflessioni su ermeneutica e biologia. Psicoterapia e Scienze Umane, 4: 5-20.
Gedo, J.E. (1999). La storia intellettuale della psicoanalisi, 1973-1998. Psicoterapia e Scienze Umane, 1: 5-29
Mancia, M. (1998). Il modello mente-cervello di Sigmund Freud: il Progetto di una Psicologia del 1895. Appendice a: Coscienza Sogno Memoria. Borla: Roma, pp. 157-168.

John E.Gedo
680 North Lake Shore Drive, apt.1201
Chicago IL 60611

 

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