Una ragazza di quasi diciotto anni, Valeria, si è uccisa
a Milano nello scorso marzo, gettandosi da una finestra, dopo essere stata
stuprata da tre uomini. Prima, ha scritto ai familiari, dicendo che non
riusciva più a guardarsi allo specchio senza ripensare all'accaduto
Il volto riflesso nello specchio - osserva l'autore - "vale come la nostra
identità, che lo specchio ci aiuta a valutare: esso ci mette a tu
per tu con il nostro sé, non riproduce soltanto la nostra figura,
ma in qualche modo anche l'entità imponderabile che in essa si estende.
Un altro sé, che è ancora il nostro sé, ci giudica
dallo specchio " (p. 101). Un trauma psichico, dice l'autore che nel vissuto
delle donne è irrimediabile: si tratta di una vera e propria onta,
un disonore incancellabile rispetto a un "rudere ideologico", il "concetto
di integrità fisica come criterio di valutazione e come presupposto
di accettazione sociale della donna." (p. 102), proveniente dall'assolutizzazione
del valore di integrità sessuale, secondo le categorie di giudizio
del violentatore, nella "furia d'impossessamento del maschio", di cui è
il complemento speculare. Il perdurante carattere di "infamante" viene
poi da un coinvolgimento ancestrale per cui, una volta violato in
tal modo il sesso, alla donna non resta più spazio per esistere,
come già testimoniato dalla vicenda di virtù romana, narrata
da Livio, della stoica Lucrezia, violentata da Sesto Tarquinio, che, pur
ritenendosi innocente, non volendo vivere nel disonore, si trafigge il
cuore. Atto non dissimile da quello della ragazza di Milano.
L'A esprime qui la preoccupazione che iI gesto di Valeria possa assumere,
per altre donne nella medesima situazione, anche alla luce di certi vissuti
femministi, la medesima funzione «pedagogica» che Lucrezia,
profondamente umiliata, intendeva dare al suo gesto, mantenendo in tal
modo alto il livello della tensione, senza elaborazione del trauma. La
vergogna da stupro - sostiene l'A - è totalmente esente da colpa,
ed è pure la meno fondata tra le varie forme di vergogna.
Viene qui ricordato un passo autobiografico del giovane Freud decenne,
cui il padre narrò un episodio della sua gioventù: un sabato,
a passeggio per le vie del paese, ben vestito, con in testa un berretto
di pelliccia nuovo. Viene apostrofato da un cristiano, che gli butta il
berretto nel fango urlando: "Giù dal marciapiede, ebreo!". Il padre
di Freud andò in mezzo alla via e raccolse il berretto, comportamento
all'epoca considerato assai remissivo da Sigmund: episodio certo meno drammatico
dello stupro, ma che mostra una vergogna elaborata con prudenza e pazienza.
Nella donna che subisce lo stupro nulla può, a detta dell'A,
oggettivamente giustificare la vergogna.
Viene a questo punto ricordato il mito di Aiace, ripreso da Sofocle:
l'eroe, il più forte dei Greci, offeso, dopo la morte di Achille,
per non averne avuto le armi, vorrebbe vendicarsi uccidendo Ulisse, il
beneficiario, e gli Atridi, ingiusti giudici. Fuorviato da Atena, in stato
di allucinazione, fa strage di pecore, credendo di ammazzare i nemici.
Uscito dalla follia, si rende conto dell'impresa ridicola e, non riuscendo
a sopportare la vergogna, si uccide gettandosi sulla sua spada. Si tratta
di una vergogna oggettivamente priva di fondamento, in quanto l'eroe ha
agito privo delle facoltà mentali, a somiglianza della colpa d'incesto
dell'ignaro Edipo. E'una sofferenza che non trova un'adeguata giustificazione
e che per questo mette in crisi il senso del mondo, da cui la tragedia,
dato che Aiace rappresenta il guerriero teso alla manifestazione della
forza, cui conseguono nome e onore. "Siamo, come si vede, all'interno di
quella che è stata definita la «civiltà di vergogna»
(shame culture) che caratterizza la fase più arcaica ed elementare
dell'organizzazione sociale, anteriore all'insorgere del sentimento della
colpa (guilt culture) e delle istanze propriamente etiche " (p.
105).
Aiace è rappresentazione del concetto di hamattl, in
relazione ad Ate, traviamento mentale che subentra dall'esterno ad opera
degli dèi, esempio di incapacità di superare il trauma che
lo porterà all'annullamento di sé.
Due - a detta dell'A - le strade oggi di fronte a noi relativamente
all' analoga situazione dello stupro e conseguente coinvolgimento della
vittima: o una differenziazione dal sesso, col considerarlo parte di noi
come qualsiasi altra e come qualsiasi altra suscettibile di ricevere violenza
- strada della modernità e della ragione che non porta a provare
onta e di conseguenza sofferenza psichica; oppure consideriamo il nostro
sesso parte non del nostro corpo, bensì del nostro sé, per
cui una offesa così grave al nostro sesso significa essere noi stessi
sporcati - questa, afferma l'A, è "una strada che conduce in un
vicolo cieco. Infatti ricevendo non soltanto nella carne, ma anche assumendo
e convalidando nel sé la violenza dell'integralismo maschilista,
ci portiamo appresso il marchio d'infamia ... Lo stupro allora diventa
condizione di vissuto permanente, diuturna memoria dell'umiliazione patita.
Dalla violenza fisica, per sua natura circoscritta, può uscire qualsiasi
forma, anche la più grave, di devastazione psicologica" (p.106).
Per questo, forse, Valeria, come già Aiace, ha lavato il proprio
disonore con la morte.Fin qui il saggio di Guido Bonelli, arricchito da nutrite, assai interessanti
note cui si rimanda chi volesse approfondire l'argomento, riguardo soprattutto
ai concetti di colpa e vergogna.
Ritengo utile tuttavia riproporre alcuni interrogativi, per stimolare
la riflessione, aggiungendo nel contempo poche note, spero chiarificatrici,
principalmente di carattere storico.
L'onta conseguente allo stupro per la donna è un relitto di
organizzazione maschile o qualcosa di intrinseco all'essere donna?
Il luogo della ferita per la donna è una parte di sé come qualsiasi altra, oppure è una parte del proprio sé?
Credo che il fatto che la violenza subita nello stupro sia spesso vissuta
dalla donna come condizione di grave vergogna sia un dato indubitabile,
indipendentemente da età, razza o latitudine: questo è un
primo dato su cui riflettere.
Prima però di affermare che "bisogna contrastare questo atteggiamento
con cui la vittima assume, e quindi convalida, il sistema di valori dello
stupratore: l'"onta" della donna stuprata è un relitto (purtroppo
ancora patogeno) di organizzazioni sociali arcaiche e maschiliste" (p.
106), bisogna, a mio parere, capire fino in fondo perchè per qualsiasi
donna lo stupro costituisce un'onta, e per far questo non si può
prescindere da una considerazione di come è evoluto nel tempo questo
vissuto sia individuale che collettivo.
Scopriamo allora che tale vissuto è antico quanto la storia
stessa dei rapporti uomo-donna, e spesso è stato condiviso e rinforzato
dalla reazione emotiva dell'ambiente in cui la violenza si è perpetrata.
Per la cultura maschilista (e quale altra ha avuto il diritto di essere
riconosciuta e validata, per lunghissimo tempo?), civile o religiosa che
fosse, la donna è (stata) oggetto soprattutto sessuale, sia che
venisse "rispettata" come moglie o usata come concubina, tanto nel mondo
greco che in quello romano.
I miti delle Menadi e delle Amazzoni della cultura greca potrebbero
essere stati frutto di un tentativo di affrancamento e ritorsione da parte
delle donne.
Nella cultura romana, un uomo troppo dedito alla moglie veniva criticato.
Per certi versi, non molto difforme la situazione presso gli Ebrei
poligami, quale ci viene tramandata dal Talmud:
Sempre a Roma, le giovinette, spose non infrequentemente prima dei
12 anni, in seguito alla precoce deflorazione si dice diventassero donne
violente o frigide. La repressione sessuale era comunque interiorizzata:
la casta matrona "filava la lana, e teneva la casa", come si legge su una
lapide funeraria sull'Appia antica. Ogni desiderio sessuale, soprattutto
rivolto a uomini che non fossero il marito imposto e subito, si configurava
come degradazione morale. Dunque Lucrezia, pugnalatasi per non sopravvivere
all'onta dello stupro, era secondo Tito Livio un modello di virtù
femminile, poiché in tal modo aveva protetto il buon nome della
discendenza. La donna non aveva/ha timore di affrontare la morte,
pur di non cedere ad un'azione vergognosa; così pure va letta la
storia delle vergini martiri del Cattolicesimo..
Ancora nel Medioevo, per quanto, nascoste spesso nell'ombra dei monasteri,
donne illuminate rifulgano di luce vivissima, ispiratrici e cercate consigliere
di re e pontefici, la donna , anche di alto lignaggio, generalmente
subisce. E lo stupro, evidenziandone l'aspetto di maggior umiliazione (quello
sessuale come area di possibilità e libertà di essere e porsi
come persona di pari dignità rispetto all'uomo), continua ad arricchirsi
di nuove valenze umilianti ed offensive, una ferita del sé profondissima.
Andrea Cappellano, nella sua Ars Amandi relativa al fin'amors, "De
Amore",
pure considerata all'epoca opera di grande raffinatezza e sensibilità
nell'illustrare i rituali dell'amore cortese, non esita ad esortare il
cavaliere, qualora si trovi in luogo e situazione opportuna, ad abusare
anche con la forza della dama dal cuore. E se allora, come oggi, le cure
degli uomini sono soprattutto volte a protegger le donne più giovani,
c'è il fondato sospetto che ciò avvenga soprattutto per questioni
pecuniarie legate al matrimonio ed alla dote.
Il sessuale, inteso come magma incandescente e vitale di pulsioni,
viene violentemente represso e bloccato dalla cultura del maschio (poi
tramandata generalmente anche dalle femmine, una volta divenute a loro
volta madri di altre femmine), la sessualità, quando non totalmente
repressa, viene incanalata per un'unica strada, predeterminata e imposta
dalla più giovane età, e la donna in ogni modo violentata
aumenta il proprio disprezzo verso se stessa, identificandosi sempre più
con l'aggressore di un oggetto svalutato e abusato. Lo stupro è
frequentemente subito, su una strada di campagna, in una bettola fumosa,
nelle stalle di un convento, tra le cortine damascate del letto in un castello,
anche ad opera del legittimo marito, spesso di 40, 50 anni maggiore di
una sposa bambina o giovinetta.
Con tali profonde radici nel vissuto individuale e collettivo, rinforzate
nel tempo dal perpetuarsi della violenza, ritroviamo senza stupircene nel
bel mezzo del Novecento questa osservazione di Simone de Beauvoir, a proposito
del corpo delle donne, per l'uomo "una resistenza da abbattere, e penetrandovi
il maschio si realizza come attività" (De Beauvoir, 1961, p. 49).
Trattandosi di "una storia infinita", si potrebbe quasi parlare di
una sorta di coazione a ripetere transgenerazionale, sia per l'uomo sia
per la donna, in cui la donna è sempre votata a passività,
a sottomissione all'uomo; e l'uomo sempre all'aggressività. Non
è certo con un atto di volontà cosciente, quindi, che si
potrà mutare, da parte della donna, come qui si ipotizza, il vissuto
di onta conseguente allo stupro. La razionalizzazione, si sa, porterebbe
solo ad un ulteriore rafforzamento della difesa (vedi a questo proposito
certe prese di posizione estreme del movimento femminista, per la verità
segnalate anche dall'autore, non certo a un'elaborazione del lutto conseguente
alla violenza, né ad alcun vero insight. Con un puro atto di volontà,
le funzioni integratrici dell'Io non potrebbero mettersi all'opera, né tanto meno condurre a un'integrazione del Sé, e si perpetuerebbe,
immodificato, e magari rafforzato, il vissuto di onta.
Ancora una volta, quindi, il metodo psicoanalitico appare poter essere
la forma elettiva di aiuto, in grado di promuovere una rifondazione dell'identità
della donna come persona, cogliendo anche le attuali contraddizioni nel
suo stesso modo di essere e di porsi, nonché quelle dell'uomo, e
permettendo una storicizzazione di vicende e vissuti, e quindi un nuovo
approccio al rapporto uomo-donna e alla realtà dello stupro. Bibliografia aggiuntiva del recensore
De Beauvoir S., (1949), Il secondo sesso, Milano: Il Saggiatore, 1961
Cappellano A:, (1200), Trattato d'Amore, Roma: Perrella, 1947 Indirizzo dell'autore:
Facoltà di Scienze della Formazione, Via S. Ottavio 20, 10124
Torino.
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