Lo scritto riguarda modificazioni attuali della cornice terapeutica
in psicoterapia psicoanalitica e loro implicazioni nello strutturare il
rapporto col terapeuta; si pongono poi interrogativi sull'individuazione
dei fattori terapeutici che inducono cambiamento nel paziente, col consentirgli
di discriminare tra realtà esterna e proprio mondo interno.
Un primo fattore è costituito dall'incontro relazionale tra
paziente e terapeuta, pregno di aspetti affettivi e genuinità, che
successivamente darà luogo allo sviluppo del transfert.
Secondo fattore è l'interpretazione, intesa come rendere cosciente
il materiale inconscio nel senso di Strachey (interpretazione mutativa).
Sul quid che si verifica tra paziente e terapeuta, come è
noto, si sono avute varie teorizzazioni, tra le quali Rocco cita:
la teoria del campo bipersonale (Baranger); la dinamica contenitore/contenuto (Bion); la teoria del depositario e del deposito
(Bleger). Viene anche
ricordato che, dopo le fondamentali osservazioni di Bion su reverie,
contenimento e restituzione riguardo alla relazionalità, e quelle
susseguenti di Brazelton, ultimamente Lichtenberg, Samerosff, Stern ed
Emde si sono focalizzati, più che sulla teoria strutturale delle
pulsioni, su quella degli affetti e sull'importanza della relazione, delle
rappresentazioni interne e delle aspettative rispetto al mettersi in relazione
con gli altri, sottolineando il ruolo dell'autoconsapevolezza degli stati
interni per il riconoscimento di se stessi tra gli altri.
L'autore passa poi al punto centrale del suo lavoro, analizzando la struttura
della relazione terapeutica nella situazione particolare delle psicoterapie
psicoanalitiche con una seduta alla settimana.
Un concetto apparentemente condiviso recita che le psicoterapie monosettimanali
non possano dirsi psicoanalitiche in quanto impossibilitate a lavorare sull'inconscio hic et nunc della relazione. La realtà attuale,
invece, testimonia che una cospicua parte della richiesta di trattamento
si indirizza verso una seduta alla settimana, per motivi vuoi di tempo
vuoi economici. Occorre dunque capire -dice l'autore- cosa avviene in relazioni
terapeutiche così strutturate e se esse possano essere considerate
psicoanalitiche, dato che, a parte la frequenza settimanale, restano salve
tutte le altre caratteristiche del modello psicoanalitico.
Vengono allora passate in rassegna alcune prese di posizione riguardanti
questa variazione del setting.
Martha Harris (1971) sottolinea la preoccupazione del terapeuta per
tale tipo di trattamenti, comparati con quelli a frequenza classica (tre
o più sedute settimanali), segnalando iI pericolo di tendere a compensare
con iperattività, con alto rischio di regressione e scissione, venendosi
a creare un ristretto spazio mentale in cui si struttura un rapporto collusivo
scisso e previlegiato col terapeuta.
O'Shaughnessy (1993) ha chiamato siffatti spazi "enclave"; la terapia
viene trasformata cioè in un rifugio della mente senza sbocchi;
il non riconoscere questa collusione può essere estremamente rischioso,
essendo in atto un'dentificazione proiettiva del paziente sul terapeuta,
della quale spesso il terapeuta non è cosciente.
Steiner (1997) parla di "rifugi della mente", cioè di spazi
mentali in rapporto con relazioni d'oggetto arcaiche permanentemente interiorizzate,
caratterizzate da meccanismi di difesa di negazione e proiezione, popolati
da fantasie e idee scarsamente aderenti alla realtà, strutturati
dal paziente onde evitare angoscia e vuoto esistenziale, con connotati
psicotici in strutture psicotiche e più evoluti in strutture nevrotiche.
Riguardo alla struttura della relazione, nelle sedute monosettimanali,
a detta dell'autore, viene affrontato "il problema della dimensione relazionale
come luogo espressivo della realtà interna" (ivi, p.128). Diversamente
dalla cadenza plurisettimanale, che produce nel paziente materiale riferibile
al mondo interno, al transfert e ai nuclei psicopatologici, la cadenza
monosettimanale, secondo l'autore, dà luogo ad esperienze discontinue
di contatto e distacco, con difficoltà a tenere un filo conduttore. C'è inoltre il rischio che essa divenga il luogo della cronaca settimanale,
col risultato che il terapeuta si ritrova ad essere troppo vigile, rinunciando
a un tipo di attenzione liberamente fluttuante, e presumibilmente intervenendo
direttivamente, il che dovrebbe avvenire solo preliminarmente, allo scopo
di mostrare aI paziente le "regole del gioco".
Successivamente si viene a strutturarsi una situazione in cui lo spazio
diventa un luogo della mente, ben differenziato dal mondo esterno, in cui
è possibile il confronto con proprie parti infantili. La regressione
è al servizio di una crescita e, per quanto sia più lento,
in termini di tempo, l'accesso alle parti inconsce, comincia da acquisire
particolare valore il tempo, sia quello della seduta, sia quello intercorrente
tra le sedute stesse, come spazio in cui avvengono movimenti affettivi
che il paziente può più attivamente elaborare; "la relazione
con ilterapeuta assume la connotazione di un rifugio della mente, rifugio
in cui è riconosciuto e valorizzato lo spazio del pensiero e lo
spazio di separazione tra il. Sé e l'altro" ( ivi p129).
Tale spazio/rifugio permette lo sviluppo di una comunicazione terapeuta
- paziente in un clima disteso, favorendo l'aumento della consapevolezza
di sé e consentendo, in un clima protetto e condiviso, la riflessione
su aree del Sé mai esplorate.
L'autore si chiede come si costituisca questo genere di relazione terapeutica
in una terapia ad una seduta alla settimana. Ricorda che Stern, Sander
e Nahum sottolineano il fatto fondamentale che l'uomo possiede una "conoscenza
relazionale implicita", indipendentemente da fattori esterni, già
evidente nel bambino in età preverbale. Una modalità innata
di porsi in relazione, caratterizzata da aspettative, da anticipazioni
e da rappresentazioni simboliche. Per primo Bowlby (1973) ha messo in luce
nel piccolo bambino modelli preverbali innati di attaccamento e comunicazione
cogli altri come capacità di riconoscere cosa l'altro si aspetta,
cosa da lui ci si può attendere. Nell'adulto sopravvengono sovrastrutture
e filtri ideativi e affettivi, conseguenza della propria storia personale.
Anche in una terapia monosettimanale, è possibile una relazione
interattiva con mutua regolazione, dotata di requisiti spazio/temporali
tali da poter costituire un ambito protetto in cui provare nuovi tipi di
relazione. Naturalmente, da parte del terapeuta si richiede una spiccata
sensibilità controtransferale, accanto al saper ben modulare la
neutralità. L'uso del lettino , proprio come nelle terapie "classiche",
appare importante per facilitare l'accesso alle realtà più
arcaiche delle relazioni con gli oggetti interni, con ovvia esclusione
di pazienti con struttura psicotica.
A proposito della neutralità del terapeuta, l'autore menziona Anna
Alvarez (1983) che, in un lavoro sui problemi nell'uso del controtransfert
nel trattamento di bambini, ne parla come di un delicato equilibrio emotivo
in continuo riaggiustamento, sulla base di empatia e controtransfert.
Ciò appare più difficile quando il trattamento si svolge
ad una seduta alla settimana, e forse la "classica" neutralità psicoanalitica
è impraticabile o inopportuna. Di conseguenza, secondo l'autore la funzione
del terapeuta, in un trattamento monosettimanale, dovrebbe essere quella
di un Super-Io ausiliario, non veramente neutrale, facendo ben attenzione
però a non appropriarsi delle funzioni dell'Io del paziente.
Rocco segnala che Betty Joseph (1975) avverte del rischio per il terapeuta
di cecità analitica per una sua troppo intensa risposta emotiva.
Al contrario, "la risposta affettiva (equilibrata) del terapeuta può
essere... il momento di incontro che dà luogo ad un nuovo ambiente
intersoggettivo" (ivi, p.131); momento altamente specifico in cui ambedue
i membri dell'interazione contribuiscono a creare un quid unico
e significativo, al di là di teoria e tecnica.
L'incontro avviene tra due personalità e individualità,
con mutuo riconoscimento cognitivo e affettivo, in una nuova diade
relazionale, ed è questo che potrebbe modificare la conoscenza relazionale.Fin qui lo scritto di Rocco: non intendo entrare nel merito delle sue
considerazioni riguardanti quanto avviene dinamicamente in un trattamento
a cadenza monosettimanale, accennando solo al fatto che, a mio parere,
molto dipende dal terapeuta, dalla sua capacità di creare una sorta
di "rete" che funga da contenitore e dia continuità alle sedute.
Piuttosto, lo scritto offre lo spunto per una serie di osservazioni
a latere, che potrebbero essere utili ai colleghi più giovani, e
forse ignari delle vicende storiche che ha attraversato non solo la storia
della psicoanalisi, ma anche della psicoanalisi in Italia.
E' ormai incontrovertibile che la realtà socio-economica in
cui ci troviamo ad operare come terapeuti sia ben diversa da quella che
poteva essere fino a pochi anni fa, quando richiesta e offerta analitica
generalmente rientravano nei canoni per così dire "classici" del
trattamento, connotato da un setting tanto sperimentato quanto ormai "canonico"
e, quindi, per definizione intoccabile e indiscutibile, quello che imponeva
un minimo di tre (meglio quattro) sedute settimanali perché si potesse
parlare di analisi.
Poiché nel lavoro di Pier Luigi Rocco si parla di rischio di
clandestinità, tanto più grave in quanto ostacolo ad una
serena elaborazione della grossa mole di lavoro costituita dai numerosi
trattamenti di psicoterapia psicoanalitica con sedute a cadenza monosettimanale,
non sarà inopportuno un ulteriore momento di informazione e di riflessione.
Uno dei "cardini" dell'analisi, costituito da un ben preciso ed indiscutibile
numero di sedute settimanali, è stato messo in forse da anni da
parte di una significativa fascia di analisti seri, meno dipendenti da
quelle che sono le parti formali dall'ortodossia.
Già da tempo il discorso relativo ad "analisi o non analisi"
in rapporto al numero delle sedute, come pure quello di "lettino o non
lettino" è apparso superato ai più liberi mentalmente (non
a tutti, però, ed è per questo che non sarà inutile
riprendere l'argomento, anche perché si ha l'impressione che il
discorso di Rocco si muova ancora con un certo impaccio al riguardo).
Indubbiamente, discorsi legati ad interessi associazionistici (di potere,
quindi, e/o economici, come ad esempio quello che si riferisce alle Assicurazioni
e ai loro criteri costrittivi di valutazione e pagamento delle sedute),
soprattutto nei paesi dell'area anglosassone, hanno contribuito non poco
a rendere meno chiara la dibattuta questione, mantenendo una comoda ambiguità
di fondo, al servizio di una tanto rigida, quanto monopolistica gestione
della psicoanalisi.
I veri punti fermi, al di là di certi aspetti del setting, importante
certo, ma non così restrittivamente, mi pare restino quelli relativi
alla teoria e alla tecnica psicoanalitiche, le sole atte a garantire lo
svolgimento di un corretto lavoro analitico.
Vorrei in chiusura arricchire queste brevi osservazioni rileggendo
con voi per sommi capi un intervento a due voci, Galli e Rigon, del 1988,
intitolato: "Dall'interpretazione al setting: I fattori terapeutici in
psicoanalisi" (Caserta, Centro Praxis). Già all'epoca, gli AA stigmatizzavano
come "ozioso"il dibattito italiano sul "setting nei pubblici servizi"
e
sottolineavano le teoriche e cliniche questioni di lana caprina riguardanti
la "psicoanaliticità" riguardo al numero di sedute settimanali effettuate,
ricordando che la caratteristica distintiva della psicoanalisi era da sempre
stata considerata, a partire dallo stesso Freud, l'interpretazione,
fattore terapeutico per eccellenza, nonché procedura metodologicamente
fondante della psicoanalisi. Si osservava poi che Freud non aveva mai dedicato
una riflessione particolare alla situazione analitica (il termine setting
fu introdotto nel 1950 da Macalpine), per lui semplice insieme di condizioni
fattuali atte a permettere lo svolgimento del trattamento. Nei suoi scritti
sulla tecnica, infatti, Freud indica nell'attaccamento del paziente al
terapeuta e nella presa di coscienza cognitiva della propria emozionalità
i fattori terapeutici in psicoanalisi. Il resto è dogma.
I legami tra setting e interpretazione sono dunque di ordine "logico-strutturale",
non banalmente circostanziale, come chiaramente indicava Codignola nel
saggio Il vero e il falso (1977), tentativo forte di cogliere i nessi
tra teoria e prassi nella concretezza dell'agire psicoanalitico.
Solo la persistenza, strenuamente difesa dalle varie Società,
di una teoria rigida e chiusa, rende ragione , dal punto di vista storico,
di una trasmissione ormai dogmatica di concetti al posto dell'apertura
vivificante e progressiva della ricerca, pena la scomunica e l'esclusione
dalla comunità degli psicoterapeuti psicoanalisti. Gli AA citano
come esempio illuminante l'esperienza dei diversi psicoanalisti alle prese
con analisi infantili, in cui si è dovuto inventare un setting,
al di là di quanto indicato da Freud, arrivando a prassi differenti,
a seconda appunto dei vari terapeuti, riguardo la cadenza delle sedute, l'ambizione sugli obiettivi, la regola fondamentale e la neutralità.
La reazione della psicoanalisi ufficiale, sottolineano Galli
e Rigon, è però sempre stata quella di bollare come non "psicoanalisi"
tali trattamenti, denominandoli ad esempio "psicoterapia psicoanalitica"
o "psicoterapia ad orientamento psicoanalitico" (per inciso, ricordo qui
con una certa emozione quelli di noi, freschi di analisi o appena entrativi,
che cominciavano ad avere pazienti in trattamento alla fine degli anni '60, non poco imbarazzati quando dovevano definire se stessi e il proprio
lavoro, chiedere con una certa apprensione lumi ai loro supervisori. La
situazione si complicava nel caso di terapeuti non medici).
Commentano gli AA: "E' questo un esempio di come una impostazione
astratta riguardo al setting, quella stessa criticata da Codignola, possa
condurre ad una chiusura verso la realtà clinica che comporta un
impoverimento della teoria" (ibid., p. 61).
"Di fatto - proseguono - è stato tramandato come derivato dalla
teoria il sistema di consenso di un gruppo sociale: pertanto, la dizione "tecnica classica"
esprime soltanto l'indice di credibilità che quel
determinato gruppo sociale è riuscito ad ottenere quale risultante
di fattori che poco hanno a che fare con la validità del sistema
teorico" (ibid, p. 64). Infatti, quando si sono accantonati certi concetti
considerati superati a favore di altri, non vi è stata però
alcuna variazione della relazione acritica e improntata a dogmatismo con
la proposizione teorica. La relativizzazione del concetto forte di interpretazione
ha causato uno spostamento a favore di quello ben più debole di setting, usato quindi in sua vece per definire il metodo, e connotare gli "addetti ai lavori". Ma,
"anche se le 'verità' cambiano, difficilmente
entra in crisi il rapporto con la 'verità' degli psicoanalisti: l'istituzione assicura la persistenza della possibilità di sicurezza
dogmatica" (ibid, p. 65).
Tutto questo veniva detto nel 1988. A volte, però, sembra necessario
ripeterlo, comunque non dimenticarlo. Bibliografia aggiuntiva del recensore
Galli P.F. & Rigon G. (1988). Dall'interpretazione al setting: I
fattori terapeutici in psicoanalisi. Centro Praxis, Caserta.
Indirizzo dell'Autore: Via Mercatovecchio 28, 33100 Udine
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