Benvenuto trae spunto, per alcune sue riflessioni sull'analisi, dalla
storia "esemplare" di Kathy , trentennale amica cinquantenne di New York,
ripetitiva nei racconti su di sé, e nei mediocri tentativi in professioni
parallele, pittura e psicoterapia, che da un lustro cerca di intraprendere.
Teoricamente , è un caso da manuale.
Figlia illegittima, Kathy ha conosciuto il padre a trentacinque
anni. Uno zio materno, artista, ha costituito la sua figura paterna e un
modello per la sua strada artistica. e la prima vocazione di Kathy fu appunto
la pittura. A vent'anni a New York, piena di aspettative, finì convivente
con una artista lesbica, per "obbligo", per quanto non le piacessero le
donne.
Allieva di un grande artista, al momento di emergere era preda di un
breakdown, con stati allucinatori e gesti compulsivi, e fu così
che nel corso di 15 anni fu in analisi con tre prestigiosi psicoanalisti,
di cui serba un pessimo ricordo. Iniziò comunque un training come
psicoanalista, mentre la sua carriera da artista non le consentiva di mantenersi.
Bella, ma rigida come una maschera del teatro Noh, come le sue case perfette
ma gelide, quasi incarnazioni del sogno di una vita estetica indipendente
dalla madre, simile tuttavia a una "monaca di casa", cioè
la figlia che che non si sposa e resta a casa Apparentemente dolce, nasconde
invece un'anima di acciaio, che si rivela alla prima dissonanza con l'altro.
E' evidente a tutti coloro che la conoscono che è aggrovigliata
in un rapporto simbiotico con la madre egocentrica, cosa che però
lei nega, riuscendo tuttavia a riconoscere che ha sacrificato sè
alla madre. Una delle due doveva morire. Così, le crisi di Kathy
sono per far vivere la madre, che altrimenti è sommersa dall'alcolismo.
Ma la presa di coscienza dura poco, e lei razionalizza psicoanaliticamente.
L'A trova un tratto comune in tante storie come questa: si tratta di
figlie uniche di madre nubile, soprattutto di una madre che ha scelto di
vivere così. Le figlie ruotano attorno a loro. L'A trova esemplare
il caso di Kathy, perché connotato da lunghe analisi, e dall'essere
essa stessa analista.
Non si tratta solo di un fallimento dell'approccio analitico, ma di
"un problema di fondo, sostanzialmente irrisolto, della pratica analitica:
lo iato, il gap tra ciò che la psicoanalisi pretende di sapere
e ciò che essa fa" (ibid., p. 30).
Benvenuto si chiede se il problema dell'analista sia puntare sull'insight
del paziente, o farlo uscire concretamente dalla sua forma di vita nevrotica,
anche senza passare per un insight completo delle ragioni della sua nevrosi.
Secondo lui, l'analista sembra optare per una pratica socratico-platonica
basata sul «conosci te stesso», ma forse persegue una quasi
behaviorista ristrutturazione della vita del paziente. Il fallimento
analitico di Kathy deriva dal non voler conoscere , con lei si sarebbe
solo dovuto agire.
Allora la domanda è: quando l'analisi funziona, forse l'analista,
sia pur inconsapevolmente, ha anche agito.
Afferma Benvenuto: "Un agire possibile dell'analisi può essere
paragonato ad un processo di svezzamento, che a sua volta rinvia
ad un legame imprescindibile, ad una dipendenza, prima di tutto al seno
materno. Che cosa infatti la psicoanalisi, nei confronti di nevrosi e stati
narcisistici, di solito fa, aldilà di quello che essa pretende
di dire o far dire? Favorisce uno svezzamento lungo" (ibid., p.
31).
Il problema di fondo di Kathy, quel rissoso tango inseparabile con
la madre, è noto anche a lei, ma come descrizione oggettiva,
dotta e distaccata di sé. Donde il sospetto che la psicoanalisi
abbia in mano verità inutili, troppo simili a quelle filosofiche,
prive di effetti direttamente controllabili, mentre la psicofarmacologia
non detiene verità, ma porta ad utili risultati. In una nota
l'A sostiene che "ribattere che la comprensione indotta dall'analisi non
è solo intellettuale, ma anche affettiva, è di una desolante
superficialità. Tutto il setting analitico è an-affettivo
...: niente contatto fisico ... tra analista e analizzante, severo primato
dato alla parola..., rinuncia ad ogni pressione prescrittiva, tempo rigorosamente
scandito e limitato... passioni... continuamente filtrate, rielaborate,
riflesse attraverso l'autorevole parola interpretativa, facendo appello all'Io del paziente. E che
cos'è il famoso Io (della seconda topica)
se non le istanze intellettualizzanti del soggetto? Di converso, appare
patologico tutto ciò che non è stato cognitivamente rielaborato
dall'Io." (ibid., p. 32) Che la verità psicoanalitica sia veramente
liberatoria, è , secondo Benvenuto, ancora da dimostrare, tanto
più che gli psicoanalisti, eliminando la questione degli effetti
, ammettono un fallimento. Oggi la cultura filosofica sostiene che la verità
vera si riduce a potere. Ergo, se la psicoanalisi si proclama impotente,
che ne è delle sue verità?
Dunque, la psicoanalisi potrebbe connotarsi come una forma di esercizio
spirituale, simile a quello a cui si dedicavano i filosofi antichi, mirando,
come la psicoanalisi, ad una separazione dall'Io passionale, tramite una
tecnica mentale, che ricreasse l'eutimia, un benessere mentale, che è
sempre stato proprio del vero filosofo. Pertanto, l'esame di coscienza
si configurava come una tecnica per liberarsi da una dipendenza psichica
che ostacolava il buon umore. "Se quindi la psicoanalisi è
una versione moderna di esercitazione spirituale, deve ancora mostrare
in modo inoppugnabile gli effetti pratici di questa esercitazione." (ibid., p.
34).
D'altronde, secondo l'A, è proprio la pretesa di produrre certi
effetti concreti a rendere concettualmente interessante la psicoanalisi.
Ma gli effetti terapeutici?, si chiede Benvenuto. Non vi sono prove scientifiche
nei suoi enunciati , eppure credere ad alcune verità analitiche,
alla "buona interpretazione", può portare ad una remissione dei
sintomi, anche se alla fin fine la psicoanalisi riveste di un'aura di teoria
scientifica semplici credenze o interpretazioni del senso comune.
Prosegue Benvenuto: "Talvolta queste interpretazioni seducono anche
il soggetto, che così slitta ... ad un'altra dipendenza (cioè
ad un'altra nevrosi) che Freud chiamò transfert, e che consiste
nel dipendere dal sapere e dalla presenza dell'analista, nel supporre cioè
che l'analista abbia accesso alla verità su di sé. La nevrosi
di transfert è di fatto una dipendenza che sostituisce un'altra
dipendenza." (ibid., p. 36). Freud parlava di resistenza del transfert .In
seguito, ci si accorse che il transfert era uno strumento preziosissimo
dell'analisi, il che poi è avvenuto anche per il controtransfert,
ma questa evoluzione ha screditato ancor più l'analisi sul piano
scientifico, riducendola ad una dinamica intersoggettiva
Dunque, alla dipendenza dai genitori si sostituisce quella dall'analista,
ma - si chiede l'A- cosa fa sì che essa aiuti ad venir fuori dalla
dipendenza infantile originaria? Bisognerebbe meglio mettere a fuoco il
problema della dipendenza, e a tale scopo B. suggerisce l'approfondimento
della psicopatologia nevrotica, intesa come forma di dipendenza, a partenza
dalla forma meno «psichica» di dipendenza, quella delle
tossicodipendenze. Dopo aver ricordato come la descrizione della nevrosi
come dipendenza non sia nuova, e la visione dell'anti-psichiatria degli
anni 1960, secondo cui l'alternativa non è tra dipendenza nevrotica,
tossicodipendenza e autonomia dell'Io, ma tra una dipendenza bollata
come patologica e un'altra accettata come buona ed utile dalla società,
osserva come le tesi di Winnicott sulla creatività abbiano fornito
una risposta al problema delle due dipendenze: la creatività, novella
cartina di tornasole, è lo spartiacque che divide dipendenza nevrotica
da dipendenza sana. Ma, prosegue l'A, "i criteri di distinzione tra patologia
e non, ...coinvolgono un problema più drammatico ...: in che cosa
consiste l'attività analitica? Perché essa, pur senza avere
fini terapeutici - il fine sarebbe piuttosto la promozione della creatività
- comporta ...effetti terapeutici? Cioè, che cosa di fatto fa
l'analista, una volta creata una dipendenza transferale, per permettere all'analizzando
l'uscita dalla dipendenza originaria? (ibid., pp. 39-40).
L'analisi, come pratica medica, è simile ad una cura riabilitativa
, che ha il suo fulcro nella ripetitività delle sedute (numero,
tempo, durata), che divengono parte integrante della personale routine
quotidiana. Le interpretazioni dell'analista, offrendo uno squarcio di
verità, o un nuovo insegnamento su come interpretare la vita (nuovo,
in quanto già i genitori ne avevano offerto uno), danno piacere
e possono fruttificare solo in una buona, continuativa holding, anche
se non più così lunga e rigida come un tempo, dato che le
persone non accettano più tempi lunghi.
Inoltre, l'analista funziona come una specie di surrogato dei genitori,
sicchè l'analisi può essere vissuta dal paziente come una
specie di remake della vita infantile, che può aiutarlo a liberarsene
definitivamente, a svezzarsi, in una parola. Una seconda dipendenza, che
dovrebbe liberare dalla prima producendo un definitivo disincantamento
nei confronti delle figure di autorità. Paradossalmente, l'analista
vince quando non conta più nulla.
E tuttavia, dice B., ancora non è chiaro in che cosa consista
veramente la dipendenza nevrotica a modelli infantili. "Abbiamo l'impressione
che la psicoanalisi, concentrandosi sugli epifenomeni immaginari, manchi
la faccia reale della nevrosi, il fatto che essa sia una forma di vita" (ibid., p.
44)
qualcosa in comune fra le varie patologie: la persona sembra ripetere
sempre gli stessi errori, "destini nevrotici " e pulsione di morte, a detta
di Freud, girando attorno ad un tipo di dipendenza infantile da figure
genitoriali che interpretano. In un delirio di onnipotenza, la psicoanalisi
ritiene che sia sufficiente dare corrette interpretazioni per sciogliere
tale dipendenza, che lo psicoanalista, per deformazione professionale,
pone solo nell'area del detto. Invece, la tossicodipendenza dimostra una
dipendenza da sostanze, che solo inizialmente dà piacere: poi, il
"programma-droga" deve andare avanti, fine a se stesso. Ma neanche nel
caso della nevrosi, la coazione a ripetere si riproduce, indipendentemente
dagli interessi della persona, sicché la nevrosi, secondo B., si
connota come una eteroregolazione, tal quale l'addiction. Del resto,
AA come Winnicott, Lacan o Mahler hanno reintrodotto l'altro in veste di
regolatore della soggettività: " il soggetto ha una storia psichica
perché è regolato dal suo rapporto con gli altri o con l'Altro...come
trascinato da una forza irresistibile, quasi materiale. Nessuno finora,
nemmeno la psicoanalisi, è riuscito davvero a dirci in che cosa
consista veramente questa forza che struttura la forma di vita nevrotica,
e che ha l'autorità perentoria che la droga ha per il drogato". (ibid., p.
46)
La psicoanalisi ritiene che essa abbia a che fare con i rapporti infantili
, ma non sa dirci perché e come questa forza agisce. Freud ha parlato
di Todestrieb. Ma non tutti i sintomi nevrotici sono modi sostitutivi
di soddisfazione di pulsioni, e la psicoanalisi, limitandosi alle produzioni
immaginarie e verbali, non riesce a spiegare la vischiosità nevrotica.
Le fantasie fondamentali della dipendenza originaria del soggetto non
possono essere dette direttamente, anche se le modalità possono
essere descritte verbalmente. Allora l'analisi scioglie la dipendenza
in modo indiretto, creando una dipendenza transferale, mettendo la persona
in grado di cambiare di fatto la sua forma di vita nevrotica: "quindi ciò
che la psicoanalisi pretende di sapere ha solo un rapporto indiretto con
il suo agire" (ibid., p. 46)
Intanto, l'analista implicitamente si propone come modello di vita
riuscita; inoltre, col suo essere vicino empaticamente, ma a volte ritrarsi,
agevola l'uscita dalla dipendenza; ancora, aiuta il paziente a vedersi
da un altro punto di vista, a cambiare la sua forma di vita, anche a dar
spazio e voce al bambino dipendente che resta in ognuno di noi." Perché
la psicoanalisi resta una strategia che si basa su questo paradosso: che
per diventare uomini e donne responsabili, affidabili, insomma non eccessivamente
dipendenti da altri e dagli idoli theatri o merchati, occorre
lasciar esprimere il bambino che è in noi, e concedergli quel tanto
di soddisfazione che ci renderà meno schiavi dei suoi capricci." (ibid., p.
49)
La prima cosa che colpisce leggendo lo scritto di Benvenuto è
la sua (implicita) preoccupazione di evitare i metalinguaggi e l'assunzione
di un punto di vista per così dire pluralista.
Il discorso scorre col ritmo delle libere associazioni , non disdegnando
il paradosso.
Un passaggio centrale del saggio, a mio parere, è il porsi
la questione, tuttora irrisolta, dello iato tra ciò che la psicoanalisi
pretende di sapere, e ciò che fa.
La "buona interpretazione", dice B., porta alla remissione dei sintomi,
offrendo un nuovo insegnamento su "come interpretare la vita", per giungere
infine al totale disincantamento rispetto alle figure di autorità,
ultima ma non meno importante, quella dell'analista stesso.
'evocazione della "buona interpretazione" è estremamente interessante.
Mi richiama alla mente certi riti aborigeni, in cui , in particolari
occasioni, ci si riunisce per esaminare insieme certe problematiche comuni,
fonte di collettiva oltre che di individuale sofferenza, dando vita ad
un "remake" in gran parte agito, sia conscio che inconscio, che porta ad
una nuova formulazione del problema e allo scioglimento del nodo di sofferenza
stesso, senza residui di dipendenza dal gruppo o dal rito, una volta che
il nodo è stato sciolto.
Quando ero giovane specializzanda, mi aveva molto colpito il caso di
un'adolescente, che d'improvviso aveva preso a zoppicare vistosamente
e con reale sofferenza, tanto da indurre l'ortopedico, convinto, oltre
che dagli esami anche dalla circostanza che la ragazza frequentava una
scuola di danza ( a suo dire, fonte di simili disturbi articolari)
a programmare un intervento chirurgico.
Un semplice intervento verbale di un'amica di famiglia, medico anch'essa,
dubbiosa della diagnosi e della terapia, aveva focalizzato sulla preoccupazione
della ragazza per la prossima maturità (la scuola di danza le sottraeva
tempo indispensabile per completare la preparazione).Non osando dirlo alla
madre, aveva "causato" il sintomo; una volta chiaritane verbalmente la
motivazione, il doloroso zoppicamento scomparve. Potenza di una "corretta
interpretazione"!
Ovviamente, nel corso di un'analisi, la riformulazione da parte dell'analista
deve basarsi sul materiale fornito dal paziente, non essere frutto di aprioristica
convinzione individuale.
Qui il pensiero corre alla psicoanalisi postmoderna, uno dei cui grossi
rischi è, secondo me, che i significati delle convinzioni individuali
vengano scambiati per comunicazioni significative dal punto di vista analitico,
falsando l'intero trattamento rispetto all'originale dasein del paziente.
Addirittura, facendo piazza pulita dell'importanza ed imprescindibilità
dell'esistenza e conoscenza del mondo interno del paziente, l'aspetto
relazionale sta penetrando tutte le principali scuole di pensiero, usando
a tal fine assunti della teoria dell'attaccamento di Bowlby, della teoria
della relazione d'oggetto di Fairbairn e dell'interpretazione metafisica
della teoria degli istinti di Hans Loewald (secondo cui anche gli istinti
hanno una natura relazionale), come messo recentemente in luce dall'ultima
opera di Mitchell (Preface, p. XIV).
Il concetto di interpretazione strutturante (da parte del terapeuta
) , in quanto permette al paziente una nuova visione interpretativa della
vita, richiama poi quello di "esperienza emozionale correttiva"
di Alexander (vedi "La esperienza emozionale correttiva" di Franz
Alexander), nel suo aspetto saliente di preoccupazione, da parte dell'analista,
per l'esame di realtà del paziente.
Oggi noi ci siamo resi conto che la visione originaria di Alexander
(tra l'altro, generalmente male interpretata dagli analisti ed attualmente
perciò rifiutata a priori), pecca di ingenuità, soprattutto
perché nessuna patologia è semplice a tal punto da poter
essere "guarita" da un controatteggiamento da parte del terapeuta.
Tuttavia, una qualche "azione" da parte del terapeuta, al di là
dell'interpretazione, sicuramente sussiste in ogni trattamento, anche in
quello più "asettico". Lo stesso Benvenuto suggerisce che, quando l'analisi funziona, è probabile che l'analista, sia pur inconsapevolmente,
abbia anche agito . La forza strutturante, dell'analista può in
gran parte essere veicolata anche da questi ultimi. Ma anche da questo,
alla fine, dovrà "svezzarsi" il paziente.
La strategia della psicoanalisi, postulata da Benvenuto, è quella
che , per favorire l'adultizzazione del paziente, gli permette di lasciar
uscire il bambino, concedendogli le necessarie soddisfazioni.
Winnicot , una quarantina di anni fa, sosteneva con grande preveggenza
che le interpretazioni non sono la verità, ma qualcosa con cui il
paziente, proprio come un bambino, può giocare, per ricrearle a
modo suo, trovando, lui, la sua verità.
L'impulso creativo, alla base di questo, per Winnicott, è
una cosa in sè , un guardare o fare deliberatamente in modo sano
qualcosa
Ne discende, io credo, che questa interpretazione sia un oggetto-cosa-in-sé,
esistente indipendentemente dal soggetto, e non, come direbbe Winnicott,
un "fascio di proiezioni" .
Ma Winnicott è andato ancora oltre, ritenenedo che ogni
terapeuta debba " dare spazio alla capacità del paziente di giocare,
cioè di essere creativo nel lavoro analitico" (Winnicott, 1971, p.
107)
Soltanto qualche anno prima aveva detto: "Se solo si riesce ad aspettare,
il paziente arriva alla comprensione in modo creativo e con immensa gioia....
Secondo me, io interpreto principalmente affinché il paziente possa
rendersi conto dei limiti del mio comprendere. Il concetto è che
è il paziente e solo il paziente a conoscere le risposte" (Winnicott,
1969).
BIBLIOGRAFIA AGGIUNTIVA
ALEXANDER F. (1946), La esperienza emozionale correttiva, In: Problemi di
psicoterapia, a cura di Paolo Migone, http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/alexan-1.htm.
MITCHELL S.A. (2000), Relationality: From Attachment to Intersubjectivity,
NY, The Analytic Press
WINNICOT D.W. (1969), The use of an object, International Journal of Psycho-Analysis, 50:, 711-716. Nuova traduzione di A. Novelletto, in
Adolescenza
e Psicoanalisi, Periodico on line a cura di Arnaldo Novelletto (http://www.psychomedia.it/aep/2001/numero-1/winnicott.htm)
WINNICOT D.W. (1971), Gioco e realtà, Armando, Roma,
2001. Sergio Benvenuto,
Via Dandolo 24, 00153 Roma
|