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Psicoterapia e Scienze Umane, 2000, XXXIII, 4

La svolta post-moderna in psicoanalisi

Morris N. Eagle

 
Eagle indaga su come il post-modernismo si sia infiltrato nel pensiero psicoanalitico, prendendo in considerazione Owen Renik e Stephen Mitchell, e poi Roy Schafer e Donald Spence, osservando come la comparsa di punti di vista post-moderni negli scritti psicoanalitici pare indicare che le formulazioni psicoanalitiche sono il prodotto di un certo clima culturale. Ci si può chiedere se questo sia il portato di mode culturali, o di modificazioni della natura della mente e della patologia , dato il variare della cultura nel tempo, o di una summa delle due. 
Il post-modernismo segna la caduta di quella che Searle ha chiamato la "visione illuministica" e delle "posizioni difettuali" tra cui il presupposto-base di un mondo reale che esiste indipendentemente dalla nostra esperienza, pensieri e linguaggio, e quello che che quanto asseriamo sia vero o falso a seconda che corrisponda al modo in cui le cose stanno.
Gli attacchi a queste posizioni difettuali vanno sotto il nome di post-modernismo, prospettivismo, pragmatismo, costruzionismo sociale, decostruzionismo, relativismo.
L'A chiarisce a questo punto il concetto di "visione illuministica", di cui la teoria di Freud sulla natura e trattamento  della patologia  rappresentano l'articolazione psicoanalitica più chiara, postulando col concetto di rimozione il fallimento della possibilità di venire "illuminati" riguardo a se stessi, e sottolineando la convergenza tra la conoscenza di sé e la terapia stessa. Quindi, un legame strettissimo fra "visione illuministica", cioè conoscenza della o di una qualche verità riguardo a se stessi, e  terapia e salute. Il che , come sottolineato a più riprese da Freud, è il contrario della suggestione.
Proprio questo progetto illuminista è stato messo attaccato dai teorici dei nuovi paradigmi della psicoanalisi. 
Indubbiamente , molte delle critiche della psicoanalisi post-moderna sono legittime , come la critica alla visione dell'analista come uno schermo bianco; o quella a certe visioni caricaturali della neutralità analitica; o l'accentuare che la situazione analitica è bi-personale, con reciproca interazione e azione, e quindi con diversa valutazione delle reazioni transferali del paziente, non necessariamente distorsioni o proiezioni su schermo bianco.
Similmente per certe critiche alla teoria freudiana delle pulsioni da parte della teoria delle relazioni oggettuali, per cui ora la ricerca dell'oggetto e l'attaccamento agli altri vengono visti correlati a  predisposizioni intrinseche e innate e non sulla gratificazione del derivato secondario della pulsione.
Su questo, psicologi dell'area relazionale come Mitchell sono pervenuti ad un costruzionismo sociale estremo , in cui pare non esistere più una mente individuale. 
Eagle comincia ad analizzare la concezione della mente secondo Mitchell, a partenza di un saggio del 1998, in cui viene rifiutato il punto di vista tradizionale di una conoscenza scientifica e da esperto della mente del paziente da parte dell'Analista, sulla base di una particolare concezione filosofica della natura della mente, per cui essa, nei suoi processi consci e inconsci,  viene compresa, sia dal paziente che dall'analista,  solo attraverso un processo di costruzione interpretativa. Inoltre Mitchell nega che le dinamiche centrali importanti ai fini del processo analitico siano preorganizzate nella mente del paziente, e che l'analista possa avervi accesso; infine, la coscienza viene alla luce attraverso una serie di atti di costruzione frutto di etero- o autoriflessione.
Gli analisti, in questa visione, sono esperti nella costruzione di significato, riflessione su di sé e e organizzazione e riorganizzazione dell'esperienza del paziente in una direzione di massimo vantaggio e minimo danno.
Nulla dunque è da scoprire nella mente, poiché essa viene costruita interpretativamente, organizzando e riorganizzando nuove esperienze, per costruire nuovi significati , adottare nuove prospettive, rinarrare, costruire vantaggiose narrative .
Ma, come si scelgono e come si valutano i sistemi di significato?
Non tutte le versioni sono egualmente valide o perseguibili, se vengono contraddette dai fatti noti e se non sono vantaggiose, osserva Mitchell. 
In realtà, è noto che la "grande bugia" e i sistemi di significato che ne derivano  a volte servono adattivamente ad organizzare esperienze e sistemi di pensiero, e che talvolta  un certo grado di auto-inganno possono servire per elevare l'autostima e proteggere dalla depressione.
Inoltre, è strano che si dia importanza solo agli accadimenti fisici e si eliminino invece quelli psicologici, le relazioni interpersonali complesse, forse perché di difficile valutazione.
Sembrerebbe piuttosto di trovarsi dinanzi a confusione tra questioni epistemologiche ed ontologiche.
Ironicamente, il fatto che fenomeni psicologici come coscienza ed esperienza conscia non possiedano una "esistenza tangibile" era già alla base dell'argomentazione dei comportamentisti per negare loro lo status di "avvenimenti fattuali" da prendere in considerazione da parte della psicologia.
Presupponendo che Mitchell non voglia assumere un atteggiamento comportamentista, Eagle si chiede il senso della sua affermazione per cui "comprendere i processi mentali inconsci (...) non significa portare alla luce qualcosa dotato di un'esistenza tangibile e dunque è qualcosa di diverso dall'operazione con cui si solleva un sasso e si portano alla luce gli insetti che vi stanno sotto" (pp. 17-18, Influenza e autonomia in Psicoanalisi). Lo stesso si potrebbe allora dire riguardo ai processi consci. Mitchell sembra non considerare che realtà e mondo non sono riducibili a sassi e insetti.
Non sono le narrative a rendere migliore la vita di un paziente. Invece, per i teorici del narrativismo,  l'efficacia terapeutica sottolineata da Freud delle interpretazioni concordanti con ciò che è reale nella vita del paziente, è irrilevante. Infatti, per Mitchell, non esiste alcuna realtà costituente la mente di un paziente con cui le interpretazioni debbano o no concordare, ma solo "costruzioni interpretative" della mente del paziente,  negoziate tra i due della coppia analitica. Questo, anche in contesti non terapeutici. Osserva Eagle che delle due l'una: o postuliamo l'esistenza di avvenimenti mentali "reali", come pensieri, sentimenti, desideri ecc., relativamente indipendenti e nel confronto coi quali sia possibile misurare le interpretazioni, o tutto diviene un fatto di "costruzioni interpretative", il che è insostenibile, pur con le dovute limitazioni che Mitchell apporta. 
l'A si chiede poi se lo scopo della psicoanalisi sia scoprire nuove verità o nuovi sistemi di significato.
Secondo Mitchell e Renik , la sola limitazione alle interpretazioni e l'unico criterio di valutazione sono rappresentati dalla loro efficacia terapeutica, anche se esse sono contraddette da un "fatto noto" o da una "esperienza reale". Quindi, non ci si fonda più sul presupposto che apprendere qualche verità su di sé costituisce il mezzo critico per produrre il cambiamento terapeutico; i veri agenti di cambiamento sono i nuovi sistemi di significato, quindi compito della psicoanalisi è la costruzione di nuovi sistemi di significato.
Infatti, il progetto terapeutico consiste nell'offrire al paziente la costruzione o la co-costruzione di sistemi di significato o di narrative o di prospettive che gli assicureranno una vita migliore. A questo punto, è irrilevante che l'analista abbia o no una conoscenza competente della mente del paziente Inoltre, la conoscenza di sé non è più la via maestra. Ma allora, non si dovrebbe parlare di verità e conoscenza, ma solo di qualità della vita. E anche in questo caso occorrerebbero prove, anche per sapere se veramente il paziente ha attinto una qualità di vita migliore, dato che tutto è interpretazione.
Osserva Eagle: "Sicuramente, vivere una vita migliore ha qualcosa a che fare con ciò che una persona pensa, sente e sperimenta circa se stessa, gli altri e il mondo. Sono dunque costruzioni interpretative anche queste, o non sono piuttosto stati mentali fondamentali aventi luogo nella mente del paziente?" (ibid., p. 22).
Tuttavia, né Mitchell né Renik sfuggono al bisogno di ridefinire l'oggettività della verità e Mitchell chiarisce che i sistemi di significato produttivi non funzionano bene se contraddetti dai fatti noti, il che , osserva Eagle, è - colmo di ironia- assai simile alla dichiarazione di Freud che dice che sono terapeutiche "soltanto le interpretazioni che concordano con quanto è reale nella vita del paziente", con la differenza che Freud si preoccupava degli stati mentali, e Mitchell di quelli fisici.
Da parte sua,  Renik ridefinisce la verità di modo che il vero è quello che funziona, da un punto di vista soggettivo, e questo basta per l'oggettività, confondendo soggettivo ed oggettivo. 
Anche nel caso di Spence, il concetto di verità narrativa riflette l'accentuazione postmoderna sul fatto che vanno eliminate tutte le distinzioni tra verità e falsità, e che le verità supposte in realtà si basano sulla retorica e sul potere di persuasione.
Similmente Schafer (1992) nella sua definizione pregiudiziale di insight, che dalla tradizione accetta che l'insight, quale consapevolezza accresciuta, produca benefici vantaggi,lo ridefinisce tuttavia come una qualsivoglia narrativa dai benefici effetti. Si tratta però di una ridefinizione che capovolge il concetto tradizionale di insight, perchè in questa ottica l'insight non conta, quel che conta è una qualsiasi rinarrazione benefica nei suoi effetti. Si tratta in definitiva di una variante della verità narrativa di Spence e del "ciò che è vero è ciò che funziona" di Renik.
Mitchell, Renik, Spence e Schafer, i teorici del "nuovo paradigma", pensano che il compito della psicoanalisi sia generare durante il trattamento nuovi sistemi di significato, nuove narrative "benefiche" per una vita migliore, senza preoccuparsi che corrispondano o meno a qualche verità, e che diano luogo a qualche insight o siano frutto di suggestione. Addirittura, Renik ritiene che l'analista debba abbandonare qualsiasi pretesa di neutralità e riconoscere l'importanza della sua influenza personale. Ma questa, dice Eagle, è "persuasione benevola", priva di finalità di scoperta. 
Un post-moderno vero - osserva poi Eagle - saprebbe riconoscere che la scelta dei resoconti psicoanalitici, viene compiuta sulla base di un potere persuasivo e retorico, non su una dimostrazione della verità. 
Chiarisce Eagle: "Ho il sospetto che oltre al desiderio di non apparire dei relativisti irresponsabili, un'altra ragione per cui i teorici del nuovo paradigma affermano di voler continuare a occuparsi della verità e dell'oggettività dipende dal fatto che l'assunto secondo cui la psicoanalisi è fatta per aiutare le persone ad acquisire una migliore conoscenza di sé e ad apprendere qualche nuova verità circa se stesse, è un assunto che praticamente tutti i pazienti hanno in testa quando cominciano un trattamento" (ibid., p. 31). Se i pazienti sapessero che l'analista non ha interesse a scoprire verità, ma vuole solo fare delle "costruzioni estetiche", o nuovi "sistemi di significato", accetterebbero questo?
In realtà, nella prassi di questi teorici c'è una disgiunzione tra atteggiamento concettuale e materiale clinico da loro presentato.
Sempre a proposito della discrepanza tra discussioni teoriche e materiale presentato, l'A. cita Renik e la tìeutralità analitica. In una sua vignetta analitica, Renik desidera contrapporre il suo coinvolgimento emotivo e la sua attenzione, ad un certo stile analitico basato sulla freddezza (neutralità analitica), per dimostrare l'utilità del coinvolgimento. "Ma c'è una differenza fondamentale tra la neutralità dello stile e dei modi dell'analista (che possono essere scambiati per freddezza) e la neutralità nel senso di non prendere posizione rispetto ai conflitti del paziente, cioè a dire, di non dargli consigli diretti" (ibid., p. 36).  E prosegue: "Si può senz'altro difendere e sostenere un'idea più saggia e flessibile di neutralità analitica che non comporti la necessità di equiparate questo concetto a uno schermo bianco ma che piuttosto sottolinei l'utilità generale del fatto di evitare di essere troppo direttivi e, ancor più importante, di evitare di sostituire gli scopi del paziente con gli scopi personali dell'analista" (ibid., p. 36). Senza contare che neutralità non significa certo aderire ad un comportamento ripetitivo rigidamente stereotipato. E che molte supposte forme di neutralità, compreso il silenzio verbale o l'autodisvelamento,  non lo sono per nulla.
A questo punto Eagle si domanda se sia sempre possibile stabilire una differenza netta tra la scoperta delle verità e lo sviluppo di nuove prospettive, e perché mai ambedue  non siano da considerarsi come componenti importanti del trattamento psicoanalitico. Si chiede poi quale sia la relazione tra insight, conoscenza di sé e scoperta di verità su se stessi, e sviluppo di nuove prospettive e di nuovi sistemi di significato.
Spesso - egli dice- una nuova prospettiva comporta la scoperta di qualcosa di totalmente sconosciuto riguardo a se stessi, che quasi sempre provoca un cambiamento significativo nel modo di vedersi. E d'altra parte, non si tratta di fare ipotesi interpretative campate per aria: "se nella mente del paziente non vi fossero già dei sentimenti critici rimossi, l'interpretazione non risulterebbe valida. Il punto, dunque, è che non esiste nessuna dicotomia necessaria tra nuove prospettive o nuovi sistemi di significato, da un lato, e la scoperta di ciò che si trova nella mente del paziente, dall'altro (o tra quelli che Friedman [1996] chiama "segnalazione di un sentiero" e "scoperta di un passaggio"). ...Inoltre, ...i nostri due fattori rimarranno mescolati l'uno con l'altro e continueranno a essere schiacciati non soltanto dagli avvenimenti fattuali, secondo la ristretta concezione di Mitchell, ma anche dai contenuti e dai processi mentali che si può prevedere continueranno a svilupparsi nella mente del paziente"  (ibid., p. 41).
Eagle conclude sottolineando come abbia cercato di mostrare che nella loro reazione nei riguardi del  punto di vista classico sulla situazione analitica, alcuni autori contemporanei abbiano assunto posizioni insostenibili e non valide per una comprensione della situazione analitica, della mente del paziente,e per lo sviluppo della teoria psicoanalitica.
In particolare, tra i postmoderni, Mitchell e Renik sostengono che l'autorità dell'analista non viene dalla sua conoscenza della mente del paziente ( non vi sarebbe nulla da scoprire nella mente del paziente). L'importante è saper sviluppare nuovi sistemi di significato, per riorganizzare l'esperienza del paziente, dato che la mente non ha esistenza e organizzazione propria, ma viene costruita interpretativamente. Concezioni della mente, della verità e dell'oggettività insostenibili. 
Conclude Eagle: "Dovrebbe esserci un modo per confrontarsi con le manchevolezze della teoria tradizionale che non comporti quel tipo di oscillazione radicale del pendolo suggerita da questi autori, la quale genera un numero di difficoltà almeno altrettanto grande quanto quello delle difficoltà presenti nel punto di vista tradizionale. Infine, non esiste nessuna prova che le posizioni caldeggiate da questi autori conducano a forme di trattamento più efficaci. La loro discussione, infatti, viene portata avanti senza fare il minimo accenno a questa questione" (ibid., p. 42).

Come di consueto, vorrei aggiungere alcune considerazioni personali. La lyotardiana "incredulità verso la metanarrativa" e il conseguente decadere dei grandi sistemi interpretativi, ha permeato soprattutto la psicoanalisi nordamericana, come testimoniato dal saggio di Eagle.
Va chiarito però che il termine modernismo ha nel mondo anglosassone un significato ben preciso, differente da quello di altri paesi europei, riferendosi a un'epoca ormai conclusa, cronologicamente a cavallo delle due guerre mondiali,  per esempio in campo letterario quella che si identificava in autori quali T.S. Eliot , o Aldous Huxley, o il poeta Ezra Pound.
Similmente a quanto avviene nei media, attraverso i quali le immagini artificiali diventano il vero, così anche nel processo analitico, affermano le correnti di pensiero postmoderno, è auspicabile una pluralità di racconti, e quindi di significati, da dare alla storia individuale, rifiutando ogni modello della mente. 
Per comprendere questo sovvertimento, bisogna tenere ben presente che, nel momento in cui, per ragioni socio-politiche, sorge la necessità di manipolare la storia, quella globale come quella individuale,  ne consegue che la tradizione razionalistica occidentale di verità e oggettività va eliminata: non più fatti, ma interpretazioni, un certo modo di comprendere la realtà su cui ci si accorda, e sulle cui basi procederà la ricerca,  per seguire Kuhn (1962). Derrida poi pensa di poter decostruire l'integrità della tradizione razionalista occidentale.
In campo psicoanalitico, la visione postmoderna  pone grossi dubbi sui concetti classici di verità e realtà e sull'importanza del riflettere sui significati.
Il Winnicott che diceva che è impossibile essere originali se non sulla base della tradizione appare assai lontano, in questa nuova visione del mondo.
Si tratta, come ricordato da Eagle, di un attacco alla visione illuministica, per usare una terminologia del filosofo americano John Searle:  vengono minate le basi della tradizione razionalista occidentale, come il fatto che la realtà esista indipendentemente dalle sue rappresentazioni umane; che nella comunicazione si faccia talora riferimento a fatti che esistono indipendentemente dal linguaggio e da coloro che comunicano; che un'affermazione sia vera in quanto corrispondente ai fatti reali; che la conoscenza sia oggettiva, ecc. 
Si tentano nuove teorizzazioni. Il concetto di Sé , quale tradizionalmente inteso, viene messo in discussione: come costrittivo, nella clinica,  della libertà di esplorare i molteplici aspetti della personalità. In una prospettiva di tipo narrativo, si afferma invece il concetto di Sé relazionale: il che significa che il senso del Sé si forma attraverso il dialogo e la cultura , non dall'interno. Esso appare multiplo e discontinuo, come illustrato da Mitchell (1991), a partenza da Sullivan e dalle teorie delle relazioni oggettuali. Scrive Mitchell: "Nuove forme di esperienza di Sé non possono essere insegnate all'analizzando in un qualche modo didattico. Piuttosto, esse sono apprese solo vivendole, attraverso la partecipazione al processo analitico...attraverso le interpretazioni dell'analista, la curiosità... l'atmosfera creata dalla struttura della situazione analitica...il modello del senso che l'analista ha di sé, nel controtransfert, come contenitore di multiple versioni del Sé e nel suo mettere a disposizione uno strumento atto alla comprensione ...dell'essere in relazione; attraverso la profonda forma di intimità creata e protetta dalla struttura della relazione analitica" (ibid., p. 27). Mitchell afferma poi che la "esperienza di Sé generata dal processo analitico ...non è un ritorno alla normalità, ...ma piuttosto una modalità di essere che ha le sue proprie ed uniche qualità", anche se, aggiunge, "nemmeno io penso sia sufficiente designare ciò che l'analizzando acquista in termini di una funzione particolare, come la capacità di autoosservazione o autoriflessione o autoanalisi. Piuttosto, la psicoanalisi,...rende possibile un'esperienza di Sé più variegata: ...la fenomenologia del Sé... è illuminata da una coscienza dell'essere il Sé inserito all'interno di una matrice relazionale" (ibid., p. 27).
Non c'è più traccia quindi dell'interpretazione psicoanalitica, quella che Berthold Rotschild aveva definito come far luce su qualcosa per aumentare la conoscenza, quindi interpretazione nel senso illuministico, ma con una sua connotazione precisa, la finalità intenzionale, quella di capire.
Prendiamo atto del fatto che la tecnica intepersonale pura non tiene più conto del conflitto intrapsichico, ma si focalizza sull'hic et nunc e sul correggere l'esperienza nel corso dell'evolversi della relazione analitica, dato che la realtà viene costruita dalle parti interagenti, momento per momento . Nella prefazione alla sua ultima opera, da alcuni considerata la nuova teoria psicoanalitica del XXI secolo, Mitchell (2000) sottolinea che "la teoria freudiana degli istinti rimane sempre, necessariamente, un genere di teoria delle relazioni d'oggetto, in cui sono cruciali le fantasie riguardo agli altri piuttosto che le azioni degli altri e che il processo clinico della psicoanalisi è sempre stato fondamentalmente relazionale" (traduzione a cura del recensore).
Fondamentalmente quindi le strade divergono, con la critica di Mitchell alla teoria psicoanalitica, in quanto basata definitivamente sui processi intrapsichici, e con secondaria attenzione all'importanza della relazionalità per la vita mentale.
Qualche anno fa, Mitchell (1993) si era già espresso con chiarezza: "La maggior parte delle persone oggi credono ancora nella razionalità, ma il razionalismo di Freud e dei suoi contemporanei, la fiducia che la razionalità ci collochi in una posizione potente, unica e indiscutibile nei confronti del resto dell'universo, sono tramontati" (ibid., p. 32).
Dunque, inconscio e fantasia inconscia, tutta la parte pulsionale,  vengono definitivamente tagliati fuori, spingendo al limite l'interesse della scuola interpersonale per gli aspetti sociali e relazionali anche se, secondo me, a questa visione postmoderna della psicoanalisi va dato il merito di aver posto particolarmente l'accento sulla marginalità e sulla diversità (vedi ad esempio le lotte per la de-patologizzazione dell'omosessualità e per la sua corretta collocazione nell'ambito delle normali varianti dell'orientamento sessuale), anche multiculturale, recuperando pure aspetti importanti precedentemente messi in luce dall'etnopsicologia.
A sua volta il conflitto, pur mantenendo una posizione centrale anche nell'ottica relazionale, diventa però altra cosa, configurandosi come conflitto tra diverse costellazioni relazionali
Ma allora,  viene da chiedersi,  se togliamo fuori inconscio, conflitto e rimozione, possiamo continuare a dire che è presente il paradigma della psicoanalisi, o siamo in presenza di un altro modello concettuale, di una prospettiva diversa, che guida la nostra attenzione verso una prospettiva relazionale, volta alla mutua soddisfazione e ad un buon o e costruttivo mantenimento della relazione dei due partner analitici? Certamente ricca di aspetti validi, ma altra cosa rispetto alla psicoanalisi freudianamente intesa.

BIBLIOGRAFIA AGGIUNTIVA
KUHN T.S. (1962),  The structure of scientific revolutions, University of Chicago Press, Chicago 
MITCHELL S.A. (1991), Prospettive contemporanee sul Sé: verso un'integrazione, Psicoterapia e Scienze Umane, 3, 1991, 4-30
MITCHELL S.A. (1993),  Hope and Dread in Psychoanalysis, Basic Books, New York (trad. it: Speranza e timore in psicoanalisi, Bollati Boringhieri Torino, 1995)
MITCHELL S.A. (2000), Relationality: from Attachment to Intersubjectivity, The Analytic Press.

Edizione Internet dell'articolo in italiano: http://www.pol-it.org//ital/riviste/psicouman/eaglepost.htm
Edizione Internet dell'articolo in inglese: http://www.psychomedia.it/rapaport-klein/eagle00.htm

Morris N. Eagle, Derner Institute, Adelphi University, Garden City, N.Y. 11530, USA. Traduzione di Fabiano Bassi

 

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