Eagle indaga su come il post-modernismo si sia infiltrato nel pensiero
psicoanalitico, prendendo in considerazione Owen Renik e Stephen Mitchell,
e poi Roy Schafer e Donald Spence, osservando come la comparsa di punti
di vista post-moderni negli scritti psicoanalitici pare indicare che le
formulazioni psicoanalitiche sono il prodotto di un certo clima culturale.
Ci si può chiedere se questo sia il portato di mode culturali, o
di modificazioni della natura della mente e della patologia , dato il variare
della cultura nel tempo, o di una summa delle due.
Il post-modernismo segna la caduta di quella che Searle ha chiamato
la "visione illuministica" e delle "posizioni difettuali" tra cui il presupposto-base
di un mondo reale che esiste indipendentemente dalla nostra esperienza,
pensieri e linguaggio, e quello che che quanto asseriamo sia vero o falso
a seconda che corrisponda al modo in cui le cose stanno.
Gli attacchi a queste posizioni difettuali vanno sotto il nome di post-modernismo,
prospettivismo, pragmatismo, costruzionismo sociale, decostruzionismo,
relativismo.
L'A chiarisce a questo punto il concetto di "visione illuministica",
di cui la teoria di Freud sulla natura e trattamento della patologia
rappresentano l'articolazione psicoanalitica più chiara, postulando
col concetto di rimozione il fallimento della possibilità di venire
"illuminati" riguardo a se stessi, e sottolineando la convergenza tra la
conoscenza di sé e la terapia stessa. Quindi, un legame strettissimo
fra "visione illuministica", cioè conoscenza della o di una qualche
verità riguardo a se stessi, e terapia e salute. Il che ,
come sottolineato a più riprese da Freud, è il contrario
della suggestione.
Proprio questo progetto illuminista è stato messo attaccato
dai teorici dei nuovi paradigmi della psicoanalisi.
Indubbiamente , molte delle critiche della psicoanalisi post-moderna
sono legittime , come la critica alla visione dell'analista come uno schermo
bianco; o quella a certe visioni caricaturali della neutralità analitica; o l'accentuare che la situazione analitica è bi-personale, con
reciproca interazione e azione, e quindi con diversa valutazione delle
reazioni transferali del paziente, non necessariamente distorsioni o proiezioni
su schermo bianco.
Similmente per certe critiche alla teoria freudiana delle pulsioni
da parte della teoria delle relazioni oggettuali, per cui ora la ricerca dell'oggetto e
l'attaccamento agli altri vengono visti correlati a
predisposizioni intrinseche e innate e non sulla gratificazione del derivato
secondario della pulsione.
Su questo, psicologi dell'area relazionale come Mitchell sono pervenuti
ad un costruzionismo sociale estremo , in cui pare non esistere più
una mente individuale.
Eagle comincia ad analizzare la concezione della mente secondo Mitchell,
a partenza di un saggio del 1998, in cui viene rifiutato il punto di vista
tradizionale di una conoscenza scientifica e da esperto della mente del
paziente da parte dell'Analista, sulla base di una particolare concezione
filosofica della natura della mente, per cui essa, nei suoi processi consci
e inconsci, viene compresa, sia dal paziente che dall'analista,
solo attraverso un processo di costruzione interpretativa. Inoltre Mitchell
nega che le dinamiche centrali importanti ai fini del processo analitico
siano preorganizzate nella mente del paziente, e che l'analista possa avervi
accesso; infine, la coscienza viene alla luce attraverso una serie di atti
di costruzione frutto di etero- o autoriflessione.
Gli analisti, in questa visione, sono esperti nella costruzione di
significato, riflessione su di sé e e organizzazione e riorganizzazione
dell'esperienza del paziente in una direzione di massimo vantaggio e minimo
danno.
Nulla dunque è da scoprire nella mente, poiché essa viene
costruita interpretativamente, organizzando e riorganizzando nuove esperienze,
per costruire nuovi significati , adottare nuove prospettive, rinarrare,
costruire vantaggiose narrative .
Ma, come si scelgono e come si valutano i sistemi di significato?
Non tutte le versioni sono egualmente valide o perseguibili, se vengono
contraddette dai fatti noti e se non sono vantaggiose, osserva Mitchell.
In realtà, è noto che la "grande bugia" e i sistemi di
significato che ne derivano a volte servono adattivamente ad organizzare
esperienze e sistemi di pensiero, e che talvolta un certo grado di
auto-inganno possono servire per elevare l'autostima e proteggere dalla
depressione.
Inoltre, è strano che si dia importanza solo agli accadimenti
fisici e si eliminino invece quelli psicologici, le relazioni interpersonali
complesse, forse perché di difficile valutazione.
Sembrerebbe piuttosto di trovarsi dinanzi a confusione tra questioni
epistemologiche ed ontologiche.
Ironicamente, il fatto che fenomeni psicologici come coscienza ed esperienza
conscia non possiedano una "esistenza tangibile" era già alla base
dell'argomentazione dei comportamentisti per negare loro lo status di "avvenimenti
fattuali" da prendere in considerazione da parte della psicologia.
Presupponendo che Mitchell non voglia assumere un atteggiamento
comportamentista,
Eagle si chiede il senso della sua affermazione per cui "comprendere i
processi mentali inconsci (...) non significa portare alla luce qualcosa
dotato di un'esistenza tangibile e dunque è qualcosa di diverso dall'operazione con cui si solleva un sasso e si portano alla luce gli
insetti che vi stanno sotto" (pp. 17-18, Influenza e autonomia in Psicoanalisi).
Lo stesso si potrebbe allora dire riguardo ai processi consci. Mitchell
sembra non considerare che realtà e mondo non sono riducibili a
sassi e insetti.
Non sono le narrative a rendere migliore la vita di un paziente. Invece,
per i teorici del narrativismo, l'efficacia terapeutica sottolineata
da Freud delle interpretazioni concordanti con ciò che è
reale nella vita del paziente, è irrilevante. Infatti, per Mitchell,
non esiste alcuna realtà costituente la mente di un paziente con
cui le interpretazioni debbano o no concordare, ma solo "costruzioni interpretative"
della mente del paziente, negoziate tra i due della coppia analitica.
Questo, anche in contesti non terapeutici. Osserva Eagle che delle due
l'una: o postuliamo l'esistenza di avvenimenti mentali "reali", come pensieri,
sentimenti, desideri ecc., relativamente indipendenti e nel confronto coi
quali sia possibile misurare le interpretazioni, o tutto diviene un fatto
di "costruzioni interpretative", il che è insostenibile, pur con
le dovute limitazioni che Mitchell apporta.
l'A si chiede poi se lo scopo della psicoanalisi sia scoprire nuove
verità o nuovi sistemi di significato.
Secondo Mitchell e Renik , la sola limitazione alle interpretazioni
e l'unico criterio di valutazione sono rappresentati dalla loro efficacia
terapeutica, anche se esse sono contraddette da un "fatto noto" o da una
"esperienza reale". Quindi, non ci si fonda più sul presupposto
che apprendere qualche verità su di sé costituisce il mezzo
critico per produrre il cambiamento terapeutico; i veri agenti di cambiamento
sono i nuovi sistemi di significato, quindi compito della psicoanalisi
è la costruzione di nuovi sistemi di significato.
Infatti, il progetto terapeutico consiste nell'offrire al paziente
la costruzione o la co-costruzione di sistemi di significato o di narrative
o di prospettive che gli assicureranno una vita migliore. A questo punto,
è irrilevante che l'analista abbia o no una conoscenza competente
della mente del paziente Inoltre, la conoscenza di sé non è
più la via maestra. Ma allora, non si dovrebbe parlare di verità
e conoscenza, ma solo di qualità della vita. E anche in questo caso
occorrerebbero prove, anche per sapere se veramente il paziente ha attinto
una qualità di vita migliore, dato che tutto è interpretazione.
Osserva Eagle: "Sicuramente, vivere una vita migliore ha qualcosa a
che fare con ciò che una persona pensa, sente e sperimenta circa
se stessa, gli altri e il mondo. Sono dunque costruzioni interpretative
anche queste, o non sono piuttosto stati mentali fondamentali aventi luogo
nella mente del paziente?" (ibid., p. 22).
Tuttavia, né Mitchell né Renik sfuggono al bisogno di
ridefinire l'oggettività della verità e Mitchell chiarisce
che i sistemi di significato produttivi non funzionano bene se contraddetti
dai fatti noti, il che , osserva Eagle, è - colmo di ironia- assai
simile alla dichiarazione di Freud che dice che sono terapeutiche "soltanto
le interpretazioni che concordano con quanto è reale nella vita
del paziente", con la differenza che Freud si preoccupava degli stati mentali,
e Mitchell di quelli fisici.
Da parte sua, Renik ridefinisce la verità di modo che
il vero è quello che funziona, da un punto di vista soggettivo,
e questo basta per l'oggettività, confondendo soggettivo ed oggettivo.
Anche nel caso di Spence, il concetto di verità narrativa riflette l'accentuazione postmoderna sul fatto che vanno eliminate tutte le distinzioni
tra verità e falsità, e che le verità supposte in
realtà si basano sulla retorica e sul potere di persuasione.
Similmente Schafer (1992) nella sua definizione pregiudiziale di insight,
che dalla tradizione accetta che l'insight, quale consapevolezza accresciuta,
produca benefici vantaggi,lo ridefinisce tuttavia come una qualsivoglia
narrativa dai benefici effetti. Si tratta però di una ridefinizione
che capovolge il concetto tradizionale di insight, perchè in questa
ottica l'insight non conta, quel che conta è una qualsiasi rinarrazione
benefica nei suoi effetti. Si tratta in definitiva di una variante della
verità narrativa di Spence e del "ciò che è vero è
ciò che funziona" di Renik.
Mitchell, Renik, Spence e Schafer, i teorici del "nuovo paradigma",
pensano che il compito della psicoanalisi sia generare durante il trattamento
nuovi sistemi di significato, nuove narrative "benefiche" per una vita
migliore, senza preoccuparsi che corrispondano o meno a qualche verità,
e che diano luogo a qualche insight o siano frutto di suggestione. Addirittura,
Renik ritiene che l'analista debba abbandonare qualsiasi pretesa di neutralità
e riconoscere l'importanza della sua influenza personale. Ma questa, dice Eagle, è "persuasione benevola", priva di finalità di scoperta.
Un post-moderno vero - osserva poi Eagle - saprebbe riconoscere che
la scelta dei resoconti psicoanalitici, viene compiuta sulla base di un
potere persuasivo e retorico, non su una dimostrazione della verità.
Chiarisce Eagle: "Ho il sospetto che oltre al desiderio di non apparire
dei relativisti irresponsabili, un'altra ragione per cui i teorici del
nuovo paradigma affermano di voler continuare a occuparsi della verità
e dell'oggettività dipende dal fatto che l'assunto secondo cui la
psicoanalisi è fatta per aiutare le persone ad acquisire una migliore
conoscenza di sé e ad apprendere qualche nuova verità circa
se stesse, è un assunto che praticamente tutti i pazienti hanno
in testa quando cominciano un trattamento" (ibid., p. 31). Se i pazienti sapessero
che l'analista non ha interesse a scoprire verità, ma vuole solo
fare delle "costruzioni estetiche", o nuovi "sistemi di significato", accetterebbero
questo?
In realtà, nella prassi di questi teorici c'è una disgiunzione
tra atteggiamento concettuale e materiale clinico da loro presentato.
Sempre a proposito della discrepanza tra discussioni teoriche e materiale
presentato, l'A. cita Renik e la tìeutralità analitica. In
una sua vignetta analitica, Renik desidera contrapporre il suo coinvolgimento
emotivo e la sua attenzione, ad un certo stile analitico basato sulla freddezza
(neutralità analitica), per dimostrare l'utilità del coinvolgimento.
"Ma c'è una differenza fondamentale tra la neutralità dello
stile e dei modi dell'analista (che possono essere scambiati per freddezza)
e la neutralità nel senso di non prendere posizione rispetto ai
conflitti del paziente, cioè a dire, di non dargli consigli diretti" (ibid.,
p. 36). E prosegue: "Si può senz'altro difendere e sostenere un'idea più saggia e flessibile di neutralità analitica che
non comporti la necessità di equiparate questo concetto a uno schermo
bianco ma che piuttosto sottolinei l'utilità generale del fatto
di evitare di essere troppo direttivi e, ancor più importante, di
evitare di sostituire gli scopi del paziente con gli scopi personali dell'analista"
(ibid., p. 36). Senza contare che neutralità non significa certo aderire
ad un comportamento ripetitivo rigidamente stereotipato. E che molte supposte
forme di neutralità, compreso il silenzio verbale o l'autodisvelamento,
non lo sono per nulla.
A questo punto Eagle si domanda se sia sempre possibile stabilire una
differenza netta tra la scoperta delle verità e lo sviluppo di nuove
prospettive, e perché mai ambedue non siano da considerarsi
come componenti importanti del trattamento psicoanalitico. Si chiede poi
quale sia la relazione tra insight, conoscenza di sé e scoperta
di verità su se stessi, e sviluppo di nuove prospettive e di nuovi
sistemi di significato.
Spesso - egli dice- una nuova prospettiva comporta la scoperta di qualcosa
di totalmente sconosciuto riguardo a se stessi, che quasi sempre provoca
un cambiamento significativo nel modo di vedersi. E d'altra parte, non
si tratta di fare ipotesi interpretative campate per aria: "se nella mente
del paziente non vi fossero già dei sentimenti critici rimossi, l'interpretazione non risulterebbe valida. Il punto, dunque, è che
non esiste nessuna dicotomia necessaria tra nuove prospettive o nuovi sistemi
di significato, da un lato, e la scoperta di ciò che si trova nella
mente del paziente, dall'altro (o tra quelli che Friedman [1996] chiama
"segnalazione di un sentiero" e "scoperta di un passaggio"). ...Inoltre,
...i nostri due fattori rimarranno mescolati l'uno con l'altro e continueranno
a essere schiacciati non soltanto dagli avvenimenti fattuali, secondo la
ristretta concezione di Mitchell, ma anche dai contenuti e dai processi
mentali che si può prevedere continueranno a svilupparsi nella mente
del paziente" (ibid., p. 41).
Eagle conclude sottolineando come abbia cercato di mostrare che nella
loro reazione nei riguardi del punto di vista classico sulla situazione
analitica, alcuni autori contemporanei abbiano assunto posizioni insostenibili
e non valide per una comprensione della situazione analitica, della mente
del paziente,e per lo sviluppo della teoria psicoanalitica.
In particolare, tra i postmoderni, Mitchell e Renik sostengono che l'autorità
dell'analista non viene dalla sua conoscenza della mente
del paziente ( non vi sarebbe nulla da scoprire nella mente del paziente). L'importante è saper sviluppare nuovi sistemi di significato,
per riorganizzare l'esperienza del paziente, dato che la mente non ha esistenza
e organizzazione propria, ma viene costruita interpretativamente. Concezioni
della mente, della verità e dell'oggettività insostenibili.
Conclude Eagle: "Dovrebbe esserci un modo per confrontarsi con le manchevolezze
della teoria tradizionale che non comporti quel tipo di oscillazione radicale
del pendolo suggerita da questi autori, la quale genera un numero di difficoltà
almeno altrettanto grande quanto quello delle difficoltà presenti
nel punto di vista tradizionale. Infine, non esiste nessuna prova che le
posizioni caldeggiate da questi autori conducano a forme di trattamento
più efficaci. La loro discussione, infatti, viene portata avanti
senza fare il minimo accenno a questa questione" (ibid., p. 42).
Come di consueto, vorrei aggiungere alcune considerazioni personali. La lyotardiana "incredulità verso la
metanarrativa" e il conseguente
decadere dei grandi sistemi interpretativi, ha permeato soprattutto la
psicoanalisi nordamericana, come testimoniato dal saggio di Eagle.
Va chiarito però che il termine modernismo ha nel mondo anglosassone
un significato ben preciso, differente da quello di altri paesi europei,
riferendosi a un'epoca ormai conclusa, cronologicamente a cavallo delle
due guerre mondiali, per esempio in campo letterario quella che si
identificava in autori quali T.S. Eliot , o Aldous Huxley, o il poeta Ezra Pound.
Similmente a quanto avviene nei media, attraverso i quali le immagini
artificiali diventano il vero, così anche nel processo analitico,
affermano le correnti di pensiero postmoderno, è auspicabile una
pluralità di racconti, e quindi di significati, da dare alla storia
individuale, rifiutando ogni modello della mente.
Per comprendere questo sovvertimento, bisogna tenere ben presente che,
nel momento in cui, per ragioni socio-politiche, sorge la necessità
di manipolare la storia, quella globale come quella individuale,
ne consegue che la tradizione razionalistica occidentale di verità
e oggettività va eliminata: non più fatti, ma interpretazioni,
un certo modo di comprendere la realtà su cui ci si accorda, e sulle
cui basi procederà la ricerca, per seguire Kuhn (1962). Derrida
poi pensa di poter decostruire l'integrità della tradizione razionalista
occidentale.
In campo psicoanalitico, la visione postmoderna pone grossi dubbi
sui concetti classici di verità e realtà e sull'importanza
del riflettere sui significati.
Il Winnicott che diceva che è impossibile essere originali se
non sulla base della tradizione appare assai lontano, in questa nuova visione
del mondo.
Si tratta, come ricordato da Eagle, di un attacco alla visione illuministica,
per usare una terminologia del filosofo americano John Searle: vengono
minate le basi della tradizione razionalista occidentale, come il fatto
che la realtà esista indipendentemente dalle sue rappresentazioni
umane; che nella comunicazione si faccia talora riferimento a fatti che
esistono indipendentemente dal linguaggio e da coloro che comunicano; che
un'affermazione sia vera in quanto corrispondente ai fatti reali; che la
conoscenza sia oggettiva, ecc.
Si tentano nuove teorizzazioni. Il concetto di Sé , quale tradizionalmente
inteso, viene messo in discussione: come costrittivo, nella clinica,
della libertà di esplorare i molteplici aspetti della personalità.
In una prospettiva di tipo narrativo, si afferma invece il concetto di
Sé relazionale: il che significa che il senso del Sé si forma
attraverso il dialogo e la cultura , non dall'interno. Esso appare multiplo
e discontinuo, come illustrato da Mitchell (1991), a partenza da Sullivan
e dalle teorie delle relazioni oggettuali. Scrive Mitchell: "Nuove forme
di esperienza di Sé non possono essere insegnate all'analizzando
in un qualche modo didattico. Piuttosto, esse sono apprese solo vivendole,
attraverso la partecipazione al processo analitico...attraverso le interpretazioni
dell'analista, la curiosità... l'atmosfera creata dalla struttura
della situazione analitica...il modello del senso che l'analista ha di
sé, nel controtransfert, come contenitore di multiple versioni del
Sé e nel suo mettere a disposizione uno strumento atto alla comprensione
...dell'essere in relazione; attraverso la profonda forma di intimità
creata e protetta dalla struttura della relazione analitica" (ibid., p.
27).
Mitchell afferma poi che la "esperienza di Sé generata dal processo
analitico ...non è un ritorno alla normalità, ...ma piuttosto
una modalità di essere che ha le sue proprie ed uniche qualità",
anche se, aggiunge, "nemmeno io penso sia sufficiente designare ciò
che l'analizzando acquista in termini di una funzione particolare, come
la capacità di autoosservazione o autoriflessione o autoanalisi.
Piuttosto, la psicoanalisi,...rende possibile un'esperienza di Sé
più variegata: ...la fenomenologia del Sé... è illuminata
da una coscienza dell'essere il Sé inserito all'interno di una matrice
relazionale" (ibid., p. 27).
Non c'è più traccia quindi dell'interpretazione psicoanalitica,
quella che Berthold Rotschild aveva definito come far luce su qualcosa
per aumentare la conoscenza, quindi interpretazione nel senso illuministico,
ma con una sua connotazione precisa, la finalità intenzionale, quella
di capire.
Prendiamo atto del fatto che la tecnica intepersonale pura non tiene
più conto del conflitto intrapsichico, ma si focalizza sull'hic
et nunc e sul correggere l'esperienza nel corso dell'evolversi della relazione
analitica, dato che la realtà viene costruita dalle parti interagenti,
momento per momento . Nella prefazione alla sua ultima opera, da alcuni
considerata la nuova teoria psicoanalitica del XXI secolo, Mitchell (2000)
sottolinea che "la teoria freudiana degli istinti rimane sempre, necessariamente,
un genere di teoria delle relazioni d'oggetto, in cui sono cruciali le
fantasie riguardo agli altri piuttosto che le azioni degli altri e che
il processo clinico della psicoanalisi è sempre stato fondamentalmente
relazionale" (traduzione a cura del recensore).
Fondamentalmente quindi le strade divergono, con la critica di Mitchell
alla teoria psicoanalitica, in quanto basata definitivamente sui processi
intrapsichici, e con secondaria attenzione all'importanza della relazionalità
per la vita mentale.
Qualche anno fa, Mitchell (1993) si era già espresso con chiarezza:
"La maggior parte delle persone oggi credono ancora nella razionalità,
ma il razionalismo di Freud e dei suoi contemporanei, la fiducia che la
razionalità ci collochi in una posizione potente, unica e indiscutibile
nei confronti del resto dell'universo, sono tramontati" (ibid., p. 32).
Dunque, inconscio e fantasia inconscia, tutta la parte pulsionale,
vengono definitivamente tagliati fuori, spingendo al limite l'interesse
della scuola interpersonale per gli aspetti sociali e relazionali anche
se, secondo me, a questa visione postmoderna della psicoanalisi va dato
il merito di aver posto particolarmente l'accento sulla marginalità
e sulla diversità (vedi ad esempio le lotte per la de-patologizzazione
dell'omosessualità e per la sua corretta collocazione nell'ambito
delle normali varianti dell'orientamento sessuale), anche multiculturale,
recuperando pure aspetti importanti precedentemente messi in luce dall'etnopsicologia.
A sua volta il conflitto, pur mantenendo una posizione centrale anche
nell'ottica relazionale, diventa però altra cosa, configurandosi
come conflitto tra diverse costellazioni relazionali
Ma allora, viene da chiedersi, se togliamo fuori inconscio,
conflitto e rimozione, possiamo continuare a dire che è presente
il paradigma della psicoanalisi, o siamo in presenza di un altro modello
concettuale, di una prospettiva diversa, che guida la nostra attenzione
verso una prospettiva relazionale, volta alla mutua soddisfazione e ad
un buon o e costruttivo mantenimento della relazione dei due partner analitici?
Certamente ricca di aspetti validi, ma altra cosa rispetto alla psicoanalisi
freudianamente intesa. BIBLIOGRAFIA AGGIUNTIVA
KUHN T.S. (1962), The structure of scientific revolutions, University
of Chicago Press, Chicago
MITCHELL S.A. (1991), Prospettive contemporanee sul Sé: verso
un'integrazione, Psicoterapia e Scienze Umane, 3, 1991, 4-30
MITCHELL S.A. (1993), Hope and Dread in Psychoanalysis, Basic
Books, New York (trad. it: Speranza e timore in psicoanalisi, Bollati Boringhieri
Torino, 1995)
MITCHELL S.A. (2000), Relationality: from Attachment to
Intersubjectivity,
The Analytic Press. Edizione Internet dell'articolo in
italiano: http://www.pol-it.org//ital/riviste/psicouman/eaglepost.htm
Edizione
Internet dell'articolo in inglese: http://www.psychomedia.it/rapaport-klein/eagle00.htm Morris N. Eagle,
Derner Institute, Adelphi University, Garden City, N.Y. 11530, USA. Traduzione di Fabiano Bassi
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