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Psicoterapia e Scienze Umane, 2002, XXXV, 4

Dinamiche psichiche nel tentativo di conciliazione

Giampaolo Muntoni

 
Giampaolo Muntoni, magistrato a Firenze, con autentica sensibilità psicologica avverte in questa relazione come, nella prassi giuridica, accanto alla ovvia necessità di studiare con scrupolo le questioni tecnico-giuridiche con approccio razionale, sia importante l'attenzione allo snodo relazionale umano di ogni vicenda giudiziaria, particolarmente delicato, in quanto personale, affettivo ed emotivo.
L'oggetto-tipo scelto è quello del tentativo di conciliazione in un processo del lavoro tra due persone fisiche, come nel caso di un lavoratore che fa ricorso con richieste pecuniarie contro il datore di lavoro. Sul come tentare la conciliazione della lite e sul tipo di risultato da raggiungere, nessuna indicazione dal Codice: il giudice è libero di procedere come vuole.
Escludendo i casi di conciliazione impossibile, in quelli restanti l'A ritiene utile analizzare il versante psicodinamico della vicenda processuale.Gli aspetti emergenti da lui evidenziati in questo lavoro sono diversi.
Il primo è il desiderio negato. Quando un conflitto si cristallizza a tal punto che le parti avverse decidono di portarlo davanti a un giudice, è segno che " una parte "desiderante" della personalità di ciascuno dei contendenti teme di subire, ha subìto o subisce, una frustrazione, una ferita che chiede a noi di prevenire o di sanare" (ibidem, p. 58). Il desiderio negato infligge a chi lo subisce una ferita narcisistica, e poiché anche un giudice non è esente da memoria e desiderio, facilmente l'altrui conflitto viene ad evocare in lui proprie, magari inconsce, tematiche conflittuali.
Segue la neutralità in crisi. Data l'impossibilità di nostri echi interni all'emotività conflittuale di coloro che abbiamo dinanzi, dell'operare di rimozione, identificazione, proiezione e compensazione e delle proiezioni sul giudice delle parti in causa, è umana l'eventualità di provare più "simpatia" o "antipatia" per una parte piuttosto che per l'altra. Occorre prestare attenzione a queste dinamiche emotive, per non essere parziali.
Considerata poi la varietà di tipologie psicologiche, giudizi e pregiudizi morali ecc, è palese che il giudice neutrale, sereno, equilibrato, imparziale, è solo un ideale cui tendere; invece, molto si gioca sulla base delle variabili personali di tutte le parti in causa, giudice compreso.
L'A individua una sorta di triangolo che ha per vertici il giudice e le due parti in causa, non facile da gestire.
Si deve poi tener conto di emozioni e decisioni, per decifrare se dietro a certe mosse "tecniche" del giudice vi siano in realtà motivazioni ben più inconsce, anche nei confronti di colleghi a vario titolo implicati nel procedimento giudiziario.
Pertanto, il giudice deve tener conto anche della propria psiche assente, cioè delle caratteristiche personali e attitudini relazionali da affrontare già in fase di personale formazione, e poi con periodiche "messe a punto psicologiche".
Questo attualmente non esiste; si è verificata, in Italia, un'unica "esperienza di psicodramma e autoformazione" di un gruppo di magistrati minorili milanesi , condotta da uno psicoterapeuta specializzato. Una sensibilizzazione di questo tipo appare all'A importante tanto nel campo della giustizia minorile, che in diritto penale, civile e del lavoro.
Importante pure il giusto contatto con gli interlocutori , né troppo coinvolgente né insensibile alle ragioni di chi tace, ma attento che il rapporto evolva "dal conflitto al consenso", col far sì che gli aspetti emotivi ed affettivi inconsci siano tenuti sempre presenti e non agiscano sotterraneamente, col mantenere aperto un canale interno con le personali parti ferite del proprio Io, per non fare confusione tra sé e l'altro. A tutt'oggi, nota l'A, in Italia non esistono riflessioni sulle dinamiche psichiche di giudici, avvocati o consulenti tecnici, forse sintomo di una sorta di "cattiva coscienza"" rimossa degli addetti ai lavori, con la complicità degli psicologi.
Qualora poi si abbia a che fare con aggressività e processo, i temi connessi della colpa e della responsabilità spesso si esasperano in una lotta competitiva in cui la distorsione percettiva interpersonale è fortemente disturbata, e irrigidita , anche in considerazione del fatto che il compito dell'avvocato non è quello di un mediatore di conflitti, ma di un difensore degli interessi del proprio assistito.
Vanno altresì tenuti presenti i desideri de/giudice, cioè le sue motivazioni personali da un punto di vista psicologico e il significato emotivo che può rivestire per lui la conciliazione delle parti, pena un senso di sconforto e di frustrazione che rischia di innescare una reazione difensiva aggressivo-vendicativa.
Quanto alla direttività nella mediazione, se ne possono verificare vari gradi, ovviamente con esiti diversi per quanto riguarda le parti in causa.
Riguardo a complessità e simboli, l'A sottolinea la complessità di ciò che ci si trova ad affrontare in fase di conciliazione, dato che nel processo, come in una rappresentazione teatrale, sono in causa cinque soggetti, che danno vita a una figura policentrica assai complessa: giudice, ricorrente, difensore del ricorrente, convenuto, difensore del convenuto, il che " genera un ricchissimo reticolo di rapporti in continuo movimento, con linee di forza interagenti che danno luogo a una complessa dinamica psichica e relazionale. Ogni soggetto infatti è al centro di una raggiera i cui raggi rappresentano il rapporto che egli ha con ciascuno degli altri quattro" (ibidem, p. 66); senza contare che una sorta di gioco proiettivo-introiettivo degli specchi , oltre alle gruppalità interiori che ciascuno porta con sé, complica ulteriormente la situazione. Un giudice consapevole delle dinamiche psichiche scatenate e consapevole del suo ruolo ha invece la possibilità di controllare la situazione, facendola evolvere positivamente, non tanto in base al potere di decidere la controversia, bensì col riuscire a capire il tipo di investimento emotivo di ciascuno dei contendenti. L'A porta l'esempio del denaro, spesso solo apparentemente oggetto del contendere , in realtà sostituto simbolico di una ferita dolorosa nel rapporto con l'altro, magari a livello inconscio, per un desiderio profondo di riparazione affettiva.
Alle prese con autorità e accettazione, compito del giudice è la creazione di un rapporto emotivamente positivo con le parti, di modo che l'altro si senta quasi aprioristicamente accettato e compreso da una persona di autorità, il che sovente provoca un disinnesco delle dinamiche fuorvianti , con una ricaduta benefica su un eventuale accordo. A volte però capita di innescare un effetto opposto, in seguito allo sbigottimento, frustrazione e aggressività reattiva iniziale di chi si era interiormente preparato alla battaglia, sotto le insegne del giudice, e ora si trova davanti a una proposta di non belligeranza. In tal caso, occorre da parte del giudice un' accettazione tollerante e paziente per condurre la questione in porto tranquillo e sicuro.
Queste dinamiche possono verificarsi con risvolti positivi anche con l'avvocato, se si sente confermato dal giudice, oltre cha dal cliente, nella propria autostima, per esempio essendo impegnato in discussioni sugli argomenti relativi al dibattimento.
Riguardo a conciliazione e processo, l'A si pone il quesito riguardante l' ammissibilità di effettuare un tentativo di conciliazione in separata sede..Anche se il Codice di procedura civile non lo prevede, non vi è dubbio che la fase del tentativo di conciliazione possa configurarsi sia come processuale che pre-processuale, per tentare di evitare il processo in virtù dell'accordo preventivo tra le parti, scopo sostanziale perseguito dal legislatore , il che sarebbe fondante riguardo alla sua legittimità.
L'ascolto separato, dopo accordo preventivo delle parti, è utile pure nel rito del lavoro, anche per demistificare in loro un vissuto di partigianeria da parte del giudice. e permettere uno sfogo senza un inasprimento reciproco che sarebbe inevitabile, qualora le parti fossero contemporaneamente presenti, oltre che per concedere maggior libertà di espressione al giudice stesso. Con tali premesse, la soluzione proposta dal giudice sarà più facilmente accettata , proprio perché ciascuno avrà vissuto l'esperienza di un autentico ascolto.
Ultima, ma non di minore importanza, la riscrittura. Proprio come si verifica in ambito psicoanalitico, "il tentativo di conciliazione ha il suo non necessario ma più profondo successo quando, al di là di due firme sotto delle clausole, risulta "riscritta" la storia della relazione fra le parti...quando troviamo insieme alle parti uno sbocco conciliativo alla vicenda conflittuale, in realtà noi le aiutiamo anche a "riscrivere" la loro storia in qualche modo con un finale diverso" (ibidem, p. 70).
E poiché anche i giudici, a livello profondo, sono implicati a vari livelli nella vicenda giudiziaria su cui si trovano a dover esprimere un verdetto, la storia riscritta è anche la loro, un'occasione di ripensare e "riscrivere" la storia personale.

La relazione di Giampaolo Muntoni è esaustiva oltre che competente e suggestiva riguardo al delicato tema trattato.
Il problema della preparazione dei giudici è un tema scottante sia per lo psicologo che, a vario titolo, si trova a cooperare in ambito giuridico, che, ovviamente, per tutte le persone coinvolte in un procedimento giudiziario.
E' dato di osservazione comune che le competenze dei giudici ( e degli avvocati) sono nella quasi totalità esclusivamente tecnico-giudiziarie. Il piano di studi curricolari stabilito dalla Facoltà delle attuali Scienze giuridiche presso l'Università di Genova, almeno per quanto è a mia conoscenza, non prevede discipline psicologiche, se non, probabilmente, a titolo opzionale, mutuandole dal corso di Laurea in Servizio Sociale.
La connotazione del processo come "anche" luogo di accadimento di importanti ed estesi aspetti relazionali, sembra pertanto ignota, o quanto meno estranea, all'ambiente giudiziario, soprattutto nelle sue più profonde dinamiche.
A maggior ragione, questa carenza si evidenzia dolorosamente quando il giudice sia chiamato a comporre un conflitto. E il conflitto, si sa, e in maniera universale e inevitabile quello intrapsichico, fa parte integrante della natura umana, per cui si potrebbe anche dire che, sempre, e non solo da parte dei giudici, si è chiamati in causa, pubblicamente o privatamente, nel segreto della propria coscienza, a dirimere un conflitto.
Correttamente e con competenza l'A svela con chiarezza l'intreccio inestricabile tra conflitto intrapsichico e intersoggettivo, portando l'attenzione del referente (in primis, gli addetti ai lavori) sulla lotta tra desideri istintuali e barriere poste dal mondo esterno, per cui, oltre ai meccanismi di difesa, vengono altresì mobilitate forti angosce, talora si formano sintomi anche somatici , e nuovi, non sempre positivi, adattamenti.
Non di rado, poi, occorre occuparsi di aspetti di cui il conflitto è solo la punta dell'iceberg, onde poter avere tutti gli elementi per arrivare alla formulazione di un corretto giudizio. Sarebbe opportuno quindi che il giudice avesse, non la competenza per occuparsene in prima persona, che va delegata a persone con preparazione specifica in campo psicologico, ma almeno una preparazione di base che gli consentisse di prefigurarsi nella mente l'esistenza di problemi di carattere dinamico soggiacenti all'oggetto manifesto del contendere, onde poter procedere con più sana problematicità, accortezza e competenza, se necessario, affiancato dall'esperienza di uno psicologo, e non solo nei casi di perizie.
Vantaggio secondario, accanto ad una maggior competenza e pregnanza dell'atto del giudicare, ma non certamente di minor significatività, la riscrittura della intera storia personale e relazionale , in cui tutti, giudici compresi, siamo parti in causa.

Relazione tenuta a Roma il 28 maggio 2001 all'Incontro di studio per i magistrati organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura sul tema "I processi soggetti al rito del lavoro". L'Autore è Presidente della Sezione Lavoro del Tribunale di Firenze. Ha una formazione da psicoanalista derivante da lunghi training e dalla frequenza della Scuola quadriennale della Società di Gruppo-Analisi Italiana (SGAI) di Milano.

Giampaolo Muntoni
Via di Terzano, 27/c
50012 Bagno a Ripoli (FI)

 

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