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PSYCHOMEDIA
RISPOSTA AL DISAGIO
Dipendenze



Modifiche comportamentali e della personalità prodotte dalle agenzie terapeutiche per tossicodipendenti da eroina

di Gianfranco Mele



La nascita delle comunità per tossicodipendenti si fa risalire comunemente alla fondazione nel 1958 da parte di Charles Dederich, ex alcolista, della "Synanon", comunità sorta negli Stati Uniti e "basata sulla esclusione di ogni tipo di intervento medico e su riunioni di gruppo (synanon game) nell’ambito di una rigida gerarchia interna all’organizzazione" (1).

Il moderno modello farmacologico di trattamento delle dipendenze da oppiacei non si è ancora sviluppato; il modello Synanon si propone come uno dei primissimi trattamenti strutturati della tossicodipendenza. Anche nelle varie comunità che sorgeranno sulla scia di quella fondata da Dederich, ci sarà un limitatissimo (se non assente)impiego di farmaci: questa caratteristica peculiare delle comunità terapeutiche per tossicodipendenti si protrarrà fino ai giorni nostri. L’approccio farmacologico sarà esplicitamente rifiutato o concepito come mero supporto (attraverso l’impiego una tantum di medicinali blandi) ai programmi di tipo comportamentale. Nessun impiego, ovviamente, di farmaci sostitutivi sarà concesso.

La terapia comunitaria delle tossicodipendenze si compie per lo più attraverso programmi di destrutturazione e ricostruzione della personalità dell’individuo (2), che consistono nella messa in atto di una serie di semplici ma efficaci tecniche di addomesticamento delle menti e dei corpi degli ospiti.

Elemento caratterizzante del tossicodipendente secondo la filosofia della Synanon (e di tutte le comunità che da lì a poco sorgeranno a sua imitazione) è la stupidità: il tossicodipendente è un individuo immaturo, e incapace di prendere da solo decisioni sensate e produttive (3). Egli verrà quindi rieducato attraverso l’imposizione di una serie di rigide regole e punizioni: dal vecchio io dell’uomo che è entrato a far parte del programma dovrà fuoriuscire un uomo nuovo (4), che sarà invitato, terminato il percorso, a riproporre i contenuti dell’esperienza vissuta e gli ideali introiettati in comunità nella società ove verrà reimmesso.

Modello, quello comunitario, radicalmente differente da quello farmacologico che si affermerà (non senza fatica) negli anni successivi e che si basa (ove non sia contaminato dai presupposti terapeutico-comportamentali ed etici tipici di queste organizzazioni) sulla concezione di tossicodipendenza da eroina come risultato, quali che siano state le cause della dedizione originale alla sostanza, di uno squilibrio metabolico provocato dall’assunzione ripetuta dell’eroina, per cui l’organismo inibirebbe la sua produzione naturale di endorfine (gli oppiodi naturali presenti nel nostro organismo): da questo punto di vista la dipendenza non consisterebbe altro che nel bisogno di mantenere in equilibrio (pena uno stato di sofferenza corporea ingestibile ) la funzionalità perduta. Da qui, il desiderio continuo e irrefrenabile (craving) di sostanze oppiacee, che si manifesta anche una volta superata la vera e propria crisi d’astinenza, e che porta la maggioranza dei soggetti alla ricaduta. Non si tratterebbe quindi di una questione di volontà da rafforzare o di valori da riconquistare, ma di un problema appunto di squilibrio metabolico da affrontare con l’ausilio di farmaci oppioidi sostitutivi delle endorfine (metadone) e con l’attivazione di una serie di risorse e di programmi di supporto (sostegno sociale, auto-aiuto, reinserimento scolastico o lavorativo, colloqui psicologici se necessari) utili anche a controbilanciare l’insorgere di stress nel difficile momento del divezzamento dal farmaco; divezzamento, che però non deve necessariamente essere perseguito se il paziente trae danno anzich´ beneficio dalla sottrazione degli oppioidi. E che comunque, va preso in considerazione solo dopo un certo periodo di mantenimento con il farmaco: il tempo necessario, quantomeno, a sviluppare stili di vita alternativi a quelli messi in atto durante l’esperienza tossicomanica (5).

Questi brevi cenni ad un’altra modalità terapeutica del trattamento dell’eroinismo sono finalizzati ad evidenziare come partendo da un presupposto totalmente differente di concezione della malattia si possano mettere in atto strategie che non coinvolgano il "trattamento" e il rifacimento della personalità e dell’ego dell’individuo, ma semplicemente (o almeno in primo luogo) le sue risposte biologiche alle modifiche apportate al suo organismo dalla sostanza d’abuso.

Il modello comunitario , con tutta l’ideologia che gli sta da contorno, prende però il sopravvento nella gestione delle problematiche della tossicodipendenza sugli altri modelli, e si sposa bene con la visione di senso comune del problema. Per la quale, appunto, la tossicodipendenza è un problema di incapacità di gestione della volontà, di immaturità, di stupidità dell’individuo. Da qui, l’importanza assegnata a strategie che si dedichino al rafforzamento della volontà, alla manipolazione della mente dell’individuo attraverso la prescrizione/imposizione del "giusto" modo di essere e di vivere, della "verità" (dalla "lettera di accoglienza della Comunità e impegno del giovane" della Comunità "Avvenire": "ti invitiamo ad essere sincero, a liberarti da tutto quello che ti impedisce di accogliere la verità, di essere umile… ci aiutiamo gli uni gli altri, sostenuti dai nostri educatori, che ci indicano gli impegni da prendere, le scelte da fare, i mezzi da usare… impegnati, ora, ad accettare le nostre regole comunitarie…" (seguono nel testo una serie di regole che vanno dal divieto di fumare, a quello di avere con s´ danaro, di spedire o ricevere posta, di uscire, di ricevere visite, alla proibizione di abbigliamenti e tipi di musica non ritenuti idonei dall’educatore, e una serie di impegni da rispettare; seguono poi le sanzioni previste per il mancato rispetto delle regole) (6).

In alcuni casi vengono messe in atto palesi tecniche di coercizione fisica, giustificate dal fatto che " si ritiene che il tossicodipendente, superata l’astinenza, abbia un istinto alla fuga che va soppresso, anche con la forza" (7); ma caratteristica costante di tutte le comunità è la messa in atto di una serie di tecniche di pressione psichica e di addomesticamento corporeo che modificano radicalmente la coscienza dell’ospite. Qualora egli trasgredisca una delle regole (es. bere solo due tazze di caffè al giorno, o fumare non più di cinque sigarette e in orari stabiliti) può essere sottoposto a sanzioni; deve inoltre comunicare non la semplice trasgressione, ma il senso di colpa per averlo fatto. Con molta probabilità il fatto commesso verrà a conoscenza dell’educatore: difatti, anche se non venisse comunicato da chi lo ha commesso, potrebbe essere riferito da chiunque fra gli ospiti avesse assistito alla trasgressione o ne avesse avuto conoscenza (gli ospiti sono tenuti a riferire all’educatore ogni trasgressione di cui vengano a conoscenza).Agli inizi del percorso terapeutico, l’ospite potrebbe comunicare un senso di colpa che in realtà non sente, solo e semplicemente nel tentativo di evitare sanzioni e comunque per il semplice fatto di essere stato scoperto a trasgredire.Con l’andare del tempo, tuttavia, egli interiorizzerà fortemente le regole della comunità e tenderà a rispettarle; quand’anche vi contravvenisse, comunicherebbe stavolta un senso di colpa vissuto e interiorizzato come tale: comunicherebbe "n´ più n´ meno ciò che realmente sente" (8).

L’educatore dispone della mente e del corpo dell’ospite, che verrà svuotato di qualsiasi possibilità di gestione del proprio pensiero e del proprio comportamento, e completamente assoggettato alle regole morali e comportamentali della comunità : dapprima tale assoggettamento sarà ottenuto esercitando pressioni sull’ego non ancora destrutturato dell’individuo, man mano l’individuo ( a meno che non scappi via) interiorizzerà il modo di vita e la filosofia della comunità, che entreranno a far parte del suo essere. C’è però ovviamente chi scappa via, e chi addirittura preferisce il carcere alla comunità: "… è un mese oggi che sono qui, già dalla prima settimana ho chiesto che mi revocassero gli arresti domiciliari, voglio tornare a San Vittore, cosa assurda, vero? Forse non è normale pensare alla cella come se fosse un’isola felice, eppure è ciò che mi sta succedendo. Ho il cervello in acqua, mi parlano a turno tante, troppe persone, sono componenti del reparto dove lavoro, la pellicceria. Si prodigano di mettermi al corrente dei loro trascorsi, pare che ognuno di loro sia passato dalla fase di rigetto iniziale all’assuefazione, sembra sia normale, strano sarebbe il contrario, mi metto le mani sulle orecchie, basta, non voglio più sentirvi, lasciatemi in pace, voglio andarmene, mollatemi !!! … Forse vi parrò pazza, forse galeradipendente, ma ora mi sento più libera che mai… ORA SONO IN CELLA" (9).

Specialmente nelle prime fasi del percorso, è esplicitamente ricercata la dipendenza incondizionata del soggetto dall’operatore: " 1^ fase: setting intensivo altamente strutturato e iperstimolato. Il soggetto è posto in uno stato di dipendenza totale dall’operatore a cui viene affidato pur muovendosi all’interno di un gruppo di riferimento ben definito, la squadra a cui è assegnato" (10).

Non sarà concesso all’ospite mettere in discussione l’educatore, le imposizioni e le regole della comunità, anche se tali regole si palesano come assurde: "una regola fondamentale è che durante la tua vita in comunità, quando non si è in un incontro di gruppo, tu ti devi gestire i tuoi sentimenti. Comunque una persona ti faccia sentire, tu non gli devi rispondere. Non ti puoi permettere di mandare a quel paese una persona, perch´ ti ha fatto arrabbiare. Ti devi tenere dentro tutte queste cose. Hai la possibilità, invece, durante gli incontri di gruppo, di tirar fuori tutto quello che hai sentito nei confronti di questa persona. Il gruppo è il momento dedicato all’emozionalità, il resto è dedicato invece ad imparare a tenere ogni cosa sotto controllo. Se io ti dico di pulire un bagno dieci volte, perch´ sono in un ruolo per cui ti posso dare qualsiasi comando, tu lo fai, e comunque tu ti senta, non puoi rispondermi o uscirtene fuori in una maniera alterata – è una regola fondamentale della comunità – ma devi tenertela dentro la tua rabbia e poi hai diritto di tirarla fuori nei confronti di chiunque, del direttore, dello staff, di tutti quanti, nel momento del gruppo. " (11). Solo negli spazi e nei momenti appositamente previsti, dunque, l’ospite può esprimere i suoi reali sentimenti: in tali occasioni, il gruppo provvederà a scongiurare e destrutturare le attitudini "destabilizzanti " dell’ospite, ribadendo le regole e i valori della comunità.

Al comando di pulire le intercapedini delle mattonelle del bagno e della cucina per ore con uno spazzolino da denti, o all’imposizione di trasportare pesanti massi da una parte all’altra del cortile, operazioni che pure (almeno inizialmente) agli occhi dell’ospite appaiono prive di senso e di reale utilità, non si deve disobbedire. Attraverso queste ed altre tecniche messe in atto dalle comunità terapeutiche si riafferma la proprietà assoluta del corpo e delle azioni dell’ospite da parte della comunità.

Si è detto che il modello comunitario di spiegazione della tossicodipendenza è quello che (almeno in Italia) ha preso il sopravvento sulle altre teorie, specialmente nei confronti di gran parte dell’opinione pubblica, che continua a sostenerlo; mentre la spiegazione della tossicodipendenza come squilibrio metabolico non gode di altrettanta popolarità. Molto hanno pesato nell’imporsi del modello comunitario le spinte di carattere politico e ideologico, assieme alla messa in moto di una grossa macchina pubblicitaria che a partire dagli anni ’70 ha presentato le comunità come l’unica risposta possibile al problema. D’altra parte, la cattiva fama di cui ancora oggi sono investite le cure con farmaci sostitutivi è causata da una serie di pesanti limitazioni, anche legislative, poste a questo approccio terapeutico sin dalla sua comparsa sullo scenario italiano. La teoria che sta alla base dell’approccio farmacologico-sostitutivo, quindi, viene invalidata da quelli che sarebbero i suoi (apparentemente) deludenti risultati. In realtà, nella storia dei trattamenti delle dipendenze in Italia, le resistenze al corretto uso del farmaco sostitutivo persino da parte degli operatori dei servizi pubblici (medici compresi), hanno giocato un ruolo determinante: la tendenza degli operatori medici italiani a somministrare dosi di metadone inadeguate è persino oggetto di attenzione delle vigenti Linee-guida ministeriali sull’uso dei farmaci sostitutivi, che evidenziano: "gli studi esteri ed italiani pubblicati hanno dimostrato che molti pazienti ricevono dosi sub-ottimali di metadone, inadeguate a prevenire l’uso continuativo di droghe illecite". Sino al 1993, anno della vittoria del referendum sulle droghe, era inoltre in vigore un decreto ministeriale, il DM 445/90, conosciuto anche come "decreto De Lorenzo", che limitava in modo ascientifico le possibilità di intervento con farmaci sostitutivi. Decaduto il decreto ad effetto del referendum, molti operatori dei servizi pubblici hanno continuato a conformarvisi.

Mentre quindi il modello metabolico ha faticato ad imporsi, il modello comunitario e quello psicologico hanno avuto vita facile e adeguata propagazione: si sono anzi sostenuti a vicenda. Luigi Cancrini, ispiratore di gran parte degli psicologi italiani nell’approccio alla tossicodipendenza, è uno dei principali (e dei primi) legittimatori del modello comunitario. Ma appare quanto mai ingenua e fuorviante la vecchia analisi cancriniana delle comunità terapeutiche come organismi dotati di potenziale rivoluzionario e umanistico. Cancrini nel suo libro "Quei temerari sulle macchine volanti" paragona le comunità a quei movimenti nati nel periodo medioevale sia all’interno che all’esterno della chiesa, che sarebbero stati espressione di un rinnovamento e di una messa in discussione del potere politico ed ecclesiale dominante , "per l’odore acre e vivo di rivolta che si respira nei confronti di una cultura (scientifica e politica oltre che ecclesiastica) dominante ma percepita come vecchia per l’astrattezza delle sue formule e per la vanità priva di speranza delle sue affermazioni" (12), e giunge persino ad asserire che le comunità terapeutiche sono parte "di un movimento più generale di contrasto verso l’organizzazione attuale della società e del potere" (13). Di fatto, le comunità cosiddette terapeutiche legittimano, ribadiscono e rivitalizzano i valori e la morale dominante, e apportano alla cultura ecclesiale nuovi (o momentaneamente "persi") sostenitori; e sono espressione, anche nel loro dichiarato e intransigente sostegno alle politiche proibizioniste, del più rigido conservatorismo.

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

  1. Pesce,A., "La Comunità Terapeutica" in AA.VV., Realtà, orientamenti e prospettive del fenomeno droga, Ed. Dehoniane, Roma, 1986, pag. 117
  2. Cfr. Toschi,D., I sensi di colpa nei programmi terapeutici delle comunità di recupero, Univ. Degli studi di Siena, Fac. Di Lettere e Filosofia, Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione, Siena, 1997, pp. 4-5; vedi anche Pesce,A., op. cit., pp. 117-118
  3. v. Pesce,A., cit., pp. 117-118
  4. Cfr. Toschi,D., cit., pag. 4
  5. v. Dole,V., Nyswander,M., La riabilitazione dei tossicomani di strada, Archivies of Environmetal Healt, 14(1967), trad.it. a cura del Gruppo Sims in PCA News, n° 9, 1996, pp. 2-5; vedi anche Maremmani I, Castrogiovanni P., Manuale del trattamento ambulatoriale con metadone, SIMS-CN.MCP, Pisa, 1992
  6. Comunità Terapeutica Avvenire, depliant informativo, Italgrafica edizioni, Brindisi
  7. Cancrini,L., "La comunità di San Patrignano", in Quei temerari sulle macchine volanti, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1982
  8. Toschi,D., cit., pag. 9
  9. "Facce e Maschere", opuscolo a cura di un gruppo di detenuti di S. Vittore, stampato in proprio, 1997>
  10. Associazione Saman, Metodologia e strumenti utilizzati per le attività psicoergoterapiche nelle strutture Saman, cicl. in pr., s.d.
  11. Cancrini, L., op. cit., pp. 177-178
  12. Cancrini,L., op. cit., pag. 165
  13. Cancrini,L., op. cit., pag. 166

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