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PSYCHOMEDIA
RISPOSTA AL DISAGIO
Dipendenze



Comunicazione e Affetti in relazione al virus HIV

di Marialori Zaccaria



                  "The Hearth cannot forget
                  Unless it conteplate
                  What is declines."
                  (E. Dickinson "Complete Poems)

                  (Il cuore non sa dimenticare
                  se non ciò che sa conteplare
                  nel momento in cui vi rinuncia.)

Quest'articolo mi dà l'opportunità di parlare di alcuni interrogativi o quesiti in cui mi sono imbattuta trattando, nel corso della mia esperienza professionale, con adolescenti, con pazienti che assumono sostanze psicoattive, con omosessuali, sia nel campo della prevenzione, sia in quello della psicoterapia. A tali quesiti, che riguardano alcuni aspetti della comunicazione e degli affetti in relazione all'infezione HIV, ho tentato di dare risposte attendibili.

Il primo interrogativo che mi sono posta è questo. Perché alcuni individui - soprattutto adolescenti - nonostante abbiano ricevuta una corretta ed adeguata informazione sulle precauzioni da adottare per scongiurare il rischio del contagio dell'infezione HIV, si espongono a tale rischio?
Il secondo interrogativo è, perché gli omosessuali e i tossicodipendenti sono le categorie più a rischio e le più contagiate?
Terzo quesito. Perché tra gli appartenenti alle categorie a rischio, solo alcuni si infettano?

Torniamo al primo quesito che qui vorrei trattare dal punto di vista generale della comunicazione e dell'informazione tralasciando le storie personali dei singoli individui o anche l'analisi delle strutture di personalità dell'adolescente. Riformulerò quindi la prima domanda che mi sono posta, in questo modo: perché l'informazione anche se adeguata, corretta ed esauriente può risultare scarsamente efficace o addirittura inutile? Proverò a dare risposte attendibili utilizzando postulati linguistici ed epistemologici.

Faccio un esempio. Se pronuncio la parola "cane", sicuramente ho ristretto il campo sul tipo di animale di cui intendo parlare. Ma nella comunicazione con l'Altro non ho specificato a quale "cane" in particolare mi sto riferendo. E poiché ognuno di noi ha una sua propria immagine di riferimento corrispondente alla parola "cane" - pur intendendo tutti lo stesso tipo di animale a quattro zampe che scodinzola e abbaia - ci ritroviamo a parlare di "cani" diversi. Il mio cane, il cane del vicino, il cane di quando eravamo bambini, quello nero, quello a macchie, quello che ci ha spaventato, quello che ci ha morso. Con le immagini di "cane" che ognuno di noi ha si potrebbe allestire una mostra canina, tanto sono molteplici.
L'immagine di "cane" che ognuno di noi ha è strettamente legata a un'esperienza. L'esperienza è impregnata di "affetti", intesi nel senso di emozioni, sensazioni, percezioni, all'interno di una relazione con l'Altro e nell'ambito di eventi cognitivi. "Le affezioni e le cognizioni" - scrive Corrao - "sono ambedue costrutti relazionali che , in base ed alla luce di esperienze successive, possono rivelarsi attendibili o inattendibili e quindi possono avere il destino di durare e stabilizzarsi o scomparire".
Cosicché se io ora mi accingessi a dare informazioni e a descrivere il mio "cane" - a meno di non avere prodotta un'esperienza significativa in chi legge - una volta terminato l'articolo e sentendo nuovamente la parola "cane", alla mente di ognuno riapparirebbe la propria immagine di "cane", poiché a tale immagine è legata l'esperienza di un affetto e di un concetto.

Potrei aggiungere che il termine "cane" - come qualsiasi altro termine, per esempio "tavolo", oppure "droga", o "HIV", o "AIDS" etc. - "..è impiegato per impedire la dispersione dei fenomeni .. il nome è un'invenzione per rendere possibile pensare una cosa e parlare prima che si sappia che cosa essa è ... una volta dato un nome e perciò impedita la dispersione, il significato può cominciare ad accumularsi. (Bion, 1979)
Ognuno di noi ha quindi un proprio accumulo di significati più o meno saturati, determinati dall'esperienza affettivo-cognitiva. Se vogliamo apportare un cambiamento nei significati accumulati, se vogliamo cioè sostituirne alcuni con altri, la comunicazione deve essere recepita, il messaggio deve cioè collocarsi all'interno di una nuova esperienza affettivo-cognitiva, deve quindi utilizzare il linguaggio dell'affettività.
All'interno di una relazione significativa come quella psicoanalitica, A. Green, a proposito del linguaggio dice: "Il linguaggio 'senza affetto' è morto; l'affetto senza linguaggio è incomprensibile e non ha accesso all'esistente".

A proposito di linguaggio "senza affetto", pensate agli avvertimenti terribili che si leggono sui pacchetti delle sigarette, che dovrebbero convincere a smettere di fumare ma che sono totalmente inefficaci, e lo sono proprio perché viaggiano su un linguaggio morto e "anaffettivo" che nella mente del fumatore - saturata dal lato piacevole del fumo, ed anche, se vogliamo, da un sano fatalismo - non rimuove nemmeno uno dei significati che lo fanno continuare a fumare.
Per finire, secondo gli ultimi contributi epistemologici, la turbolenza emotiva, la passione, giudicate un tempo elementi disturbanti dalla teoria dell'informazione, oggi acquistano rilevanza di "fattori ordinatori". La formula costruttivista "order from noise" do E. von Foerester, nella ricerca di H. Atlan si modifica in "Complexity from noise". Gli affetti, prima considerati di disturbo e di scarto nell'ambito della comunicazione, oggi assurgono al livello di percetti o concetti, in una relazione reciproca e complessa come quella interpersonale.

Quanto detto succintamente sinora, se riportato nel campo della prevenzione HIV e della droga, vuole suggerire un ripensamento, un'inversione di tendenza sull'uso che si fa dell'informazione ; quanto detto può essere utilizzato come trama per pensare un modello di prevenzione non più basato, appunto, sul rifornire semplicemente di informazioni i destinatari, ma in grado di promuovere un'esperienza comunicazionale affettivo-cognitiva.
Un modello basato sui presupposti fin qui esplicitati viene adottato, da alcuni anni, da operatori dei servizi per la tossicodipendenza, con gli adolescenti in ambito scolastico utilizzando lo strumento del gruppo-classe. All'interno del gruppo-classe si attiva il gruppo di lavoro che promuove un confronto e una discussione su temi proposti dai partecipanti e soprattutto si realizza un'esperienza trasformativa sia sul piano affettivo che su quello cognitivo.
Il lavoro finora effettuato si è rivelato soddisfacente a detta degli stessi ragazzi, anche se non si è ancora in grado di fornire statistiche probanti, e un tale modello di prevenzione andrebbe esteso, visto anche l'estendersi dell'uso di sostanze psicoattive e della sieropositività, anche in fasce di età molto giovani.

Il secondo interrogativo che mi ponevo era il seguente: perché gli omosessuali e i tossicodipendenti risultano le categorie più a rischio di contagio HIV e perché sono le più contagiate?
La spiegazione secondo le logiche canoniche deduttive-induttive e secondo il calcolo delle probabilità è la seguente : dato che il virus si trasmette attraverso il sangue ed avendo i membri dei due gruppi - a causa dell'uso delle siringhe e coi rapporti sessuali - maggiori probabilità di altri di venire a contatto col sangue, automaticamente diventano le categorie più esposte al rischio e in pratica le più contagiate dall'infezione HIV.
Tale spiegazione è confortata in maniera inoppugnabile dai dati statistici che si basano su classificazioni sociologiche dei gruppi sociali; classificazioni che hanno anche la funzione di stabilire dei limiti, dei confini, dando la possibilità ad ognuno di autoidentificarsi dentro o fuori quei limiti e quei confini.

Ma i virus in generale e il virus HIV in particolare tengono conto delle categorie sociologiche? Il virus contagia omosessuali e tossicodipendenti in quanto tali? Non sembrerebbe, perché le stesse statistiche dicono che non tutti gli omosessuali e non tutti i tossicodipendenti, a parità di rischio, vengono contagiati. Tempo fa un giornale riportava una notizia curiosa; in una regione del Sud Africa opera, da una decina di anni, un gruppo di prostitute, sieronegative nonostante che i due terzi della popolazione sia sieropositiva. Come può succedere un fatto del genere?
E' evidente che sto ponendo nel discorso un'iperbole, e questo per aprire a nuovi orizzonti l'approccio al problema. Pur ritenendo valide, infatti, utili e inoppugnabili le verità statistiche da cui si evince che omosessuali e tossicodipendenti sono i gruppi più a rischio del virus HIV, ciononostante non reputo tali verità sufficienti ed esaurienti per la comprensione di un problema così drammatico e quindi per l'elaborazione di piani di intervento preventivo, tanto più che il virus si va espandendo anche ad altri gruppi sociali.

Vorrei aggiungere che le classificazioni sociologiche nella loro funzione difensiva, proprio in riferimento all'espandersi del virus agli altri gruppi sociali, possono rappresentare un pericolo perché inducono ad abbassare la guardia; gli individui infatti dicono, non sono omosessuale, non sono tossicodipendente e quindi, in maniera onnipotente, si collocano al di fuori di tali classificazioni e possono tendere a credere che loro non corrono più pericoli.
Conosco bene la rabbia e la disperazione di chi è sieropositivo e non sa come sia potuto accadere, e soffre anche del sospetto degli altri che tendono ad inserirlo all'interno di quelle due categorie. Un sospetto che lacera e ferisce che lo subisce ma che nuovamente e arbitrariamente mette al di fuori del rischio, mette in salvo, chi lo formula.

Proverò un approccio semiotico tra il termine contagio, che etimologicamente significa "comunicazione o trasmissione" da un individuo ad un altro di una malattia, e la significazione che nella struttura mentale cosiddetta narcisistica ha la comunicazione. La struttura narcisistica di personalità è propria sia dei tossicodipendenti sia degli omosessuali.
Il principio regolatore di tali struttura mentale è il "principio dell'autosufficienza". Un principio che tende al non rapporto con l'Altro perché il rapporto è avvertito come pericoloso. Nella mente narcisista c'è la fantasie di essere ingoiato o mangiato e di essere scoperto. Nell'individuo narcisista c'è il bisogno di "non comunicare" perché c'è il desiderio di ripristinare il legame primitivo madre-bambino, all'interno del quale si può essere compresi senza la fatica di dover comunicare gli affetti. Sebbene le persone sane comunichino e godano di questo comunicare, è pur vero, come dice Winnicott, che "ogni individuo è isolato, costantemente non comunicante, costantemente ignoto, di fatto non scoperto". E con i pazienti con nuclei narcisistici si struttura una comunicazione che, sempre Winnicott asserisce essere "un gioco raffinato di nascondino in cui è una gioia nascondersi ma è un disastro non essere scoperti". Aggiungerei che è anche spaventoso essere scoperti prima di essere disposti ad esserlo.

Un altro autore, A. H. Modell, che si è adoperato nella cura di pazienti narcisisti, per descrivere la condizione in cui il paziente comunica silenziosamente, propone l'immagine della "sfera nella sfera", cioè "la sfera del bozzolo autosufficiente del paziente contenuta dalla più ampia sfera del setting analitico".
L'individuo con personalità narcisistica tende all'isolamento, che da una parte ha una funzione difensiva dalla paura della vicinanza e del contatto con l'Altro, ma dall'altra riflette il profondo desiderio di una dipendenza fusionale; c'è quindi non solo la paura ma anche il desiderio di essere ingoiato.

Un altro analista degli anni cinquanta, W. R. Fairbain, riscontrava che "la libido non va verso il piacere" - come affermato da Freud - "bensì verso l'oggetto", nel tentativo e nella ricerca di quella relazione particolare che si stabilisce nei primi mesi di vita.
Rimandando ad altro momento l'approfondimento delle strutture mentali del narcisismo, possiamo però dire che "l'isolamento", il "non contatto", la "non comunicazione" o la "comunicazione silente", sono prerogative dell'individuo con strutture mentali narcisistiche, che uniti al desiderio e alla nostalgia di un rapporto fusionale determinano una profonda disperazione nel corso della sua vita.

Accostando quanto detto finora al significato del termine contagio - che vuol dire comunicare, trasmettere l'uno all'altro -, potremo dire che il contagio è una comunicazione muta e silente, ovvero potremmo definirlo il massimo della comunicazione "non comunicata". Ne consegue un terribile paradosso che può essere letto in due modi :

1) Il narcisista raggiunge il suo desiderio di comunicare attraverso la comunicazione muta del contagio.
2) L'isolamento in cui l'individuo si colloca per timore del contatto con l'Altro - pur andandone alla disperata ricerca -, lo espone maggiormente al rischio di essere contagiato.

In più, se l'individuo è anche tossico o omosessuale, deve patire un isolamento sia da parte della famiglia, sia da quella della società, e se resta contagiato per motivi di sicurezza viene ulteriormente isolato.
Sembrerebbe che maggiore è l'isolamento in cui l'individuo vive, maggiore è il rischio di contagiarsi - nel tentativo disperato di comunicare -; ma la comunicazione per contagio si rivela oltremodo pericolosa e mortale perché produce altro isolamento andando a confermare tutta la paura verso il rapporto, il contatto e la comunicazione che l'hanno indotto ad isolarsi dal mondo esterno.
L'isolamento risulta così la causa e l'effetto del contagio, in una circolarità paradossale. Quest'ipotesi mi fa tornare alla mente l'immagine dell'astronauta alla deriva nel vuoto cosmico del film di S. Kubrick "2001, Odissea nello spazio", dopo che Hal 9000 - il computer ribelle - ha tagliato il cordone. Questo credo sia il vissuto di questi pazienti.

Perché a parità di rischio solo alcuni individui si infettano? - Questo è il terzo punto -. Ed infine, perché costoro contraggono il virus solo in un dato momento della loro esistenza?
In che misura elevata pazienti tossicodipendenti e omosessuali non adottano le precauzioni necessarie o hanno incidenti di percorso, l'ho potuto verificare nel corso della mia quasi decennale esperienza con pazienti di questo tipo; ma ho potuto verificare anche che solo alcuni di loro, e solo in certe fasi particolari dell'esistenza contraggono il virus. Perché?

Come già detto, questi soggetti hanno strutture narcisistiche della personalità, più o meno strutturate, ma se a queste si aggiunge una fase depressiva dell'umore il pericolo aumenta a dismisura.
Anche la medicina più tradizionale ha riscontrato che ad un umore depresso corrisponde un abbassamento della soglia immunitaria. Ma cosa accade nell'individuo, quali affetti si muovono in una fase depressiva?
La depressione, nel suo lato normale, è parte integrante del processo maturativo dell'individuo. Nella depressione entra il gioco l'odio, e la difficoltà, probabilmente consiste nell'accettare quest'odio. In più la depressione è in stretta relazione il lutto e con la capacità di provare sensi di colpa. E se l'individuo non acquisisce la capacità di provare il senso di colpa, che nasce quando ci si separa dall'oggetto, se non si assume, come dice Winnicott "la piena responsabilità della distruttività che è personale e intrinseca a un rapporto con un oggetto sentito come buono, in altre parole, la distruttività collegata all'amore", il pericolo è che la distruttività e l'odio si veicolino contro lo stesso individuo pur di non separarsi dall'oggetto d'amore. In questa fase i pazienti depressi sono a rischio di suicidio ed i pazienti di cui stiamo trattando sono più esposti al rischio del contagio.

"Cosa fa lei" - chiese a Francesco Corrao in partecipante ad un convegno di psicoanalisi - "se durante la seduta il paziente si alza e va alla finestra e fa il gesto di buttarsi?". "Lo afferro per la vita" - rispose il dottor Corrao. Sento che questa risposta è profondamente vera e mi guida nel mio lavoro psicoterapico con pazienti così disperati. Vivono a fondo il conflitto tra la vita e la morte, in senso mentale e reale, si dibattono tra l'esistere e il non esistere. Mi è capitato il caso di un ragazzo sieropositivo che non sapeva come aveva contratto l'infezione. L'ho conosciuto proprio nel periodo in cui era venuto a conoscenza della sua siero positività, e quel ragazzo era sprofondato in un abisso depressivo più che mai giustificato. Dopo alcuni mesi sembra essere tornato in vita, ha riscoperto gli affetti familiari e ha scoperto, con immensa sorpresa e gioia, "il profumo del mare".

Conclusioni

Ho cercato di tracciare per sommi capi la psicologia degli individui che potenzialmente rischiano l'infezione del virus HIV. Ovviamente l'argomento necessita di maggio approfondimento, di una ricerca più sistematica ma anche di altri contributi.
Uno studio in tal senso può essere di grande aiuto nella comprensione del contagio di una patologia così devastante quale è l'AIDS, da cui tutti rifuggiamo o con un atteggiamento onnipotente o con un terrore cieco. Potrebbe essere utile nella comprensione e nell'approccio con pazienti sieropositivi, ma anche e soprattutto per l'ampliamento delle possibilità di comprensione nel campo della prevenzione.

Bibliografia.

1.) H. Atlan, Ecologia ed autonomia, Feltrinelli, Milano 1988 ;
2.) W.R. Bion, Gli elementi della psicoanalisi, Armando, Roma 1979 ;
3.) F. Corrao, Modelli psicoanalitici, Laterza, Bari 1992;
4.) W.R. Fairbain, Il piacere e l'oggetto, Astrolabio, Roma 1992;
5.) M. von Foerster, Sistemi che osservano, Asrolabio, Roma 1987;
6.) M. von Foerster, Costruire una realtà, tratto da 'La realtà inventata' a cura di P. Watzlawick, Feltrinelli, Milano 1988;
7.) S. Freud, Pulsioni e loro destini (1915) da 'Opere di S. Freud, Boringhieri, Torino 1967, vol. 8;
8.) S. Freud, Introduzione al narcisismo (1914), Id, OSF cit, vol. 7;
9.) A. Green, Psicoanalisi degli stati limite, Cortina, Milano 1991 ;
10.) A.H. Model, Psicoanalisi in un nuovo contesto, Cortina, Milano 1992;
11.) C.S. Pierce, Semiotica, Einaudi, Torino, 1980 ;
12.) D. Winnicott, Sviluppo affettivo e ambiente, Armando, Roma 1970 ;
13.) D. Winnicott, Gioco e realtà, Armando, Roma 1970 ;
14.) D. Winnicott, Dal luogo alle origini, Cortina, Milano, 1994.


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