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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: RISPOSTA AL DISAGIO
Area: Disturbo da Attacchi di Panico


Paolo Roccato (1)

Funzioni della paura: per un'introduzione agli attacchi di panico (2)




PAROLE CHIAVE: Paura, Attacchi di panico, Funzioni delle emozioni, Intelligenza emotiva, Soggetto, Sé, Relazione, Donazione di senso, Riconoscimento di senso, Identità.

Non è sensato occuparsi di attacchi di panico senza prima avere chiarito quali siano le funzioni della paura. Solo dopo è possibile cogliere gli attacchi di panico in una prospettiva chiara e utilizzabile. In questo lavoro cercherò di puntualizzare quali siano le funzioni della paura, lasciando sullo sfondo la clinica, la psicodinamica e la terapia degli attacchi di panico, che rimando ad altro mio articolo.

Nella nostra cultura, purtroppo, tutto il mondo delle emozioni tende a essere ignorato, svalutato, contrastato, oppure arbitrariamente enfatizzato, ma quasi mai preso adeguatamente sul serio. E, fra tutte, una delle emozioni più bistrattate è la paura, assieme all'invidia e al dolore depressivo.

Generalmente la paura non gode di buona reputazione. È sentita come un ostacolo, come un accadimento psichico negativo. Sentiamo parlare di persone "attanagliate" dalla paura; di persone "prigioniere", che dovrebbero "liberarsi" delle loro paure; di persone ammirate perché impegnate a "vincere" o a "superare" la paura. Ed è frequente che chi ricorre alla psicoterapia abbia l'aspettativa di essere, appunto, "liberato" dalle proprie paure o, addirittura, dalle emozioni in quanto tali.

Spesso il terapeuta, in quanto ricettacolo delle proiezioni idealizzanti di ciò che il paziente vorrebbe essere o diventare, è immaginato come "libero" da ogni emozione penosa, soprattutto dall'invidia, dal dolore depressivo e, appunto, dalla paura. In tali casi, il senso di essere soggetto e di essere efficace nelle interazioni, spesso viene realizzato o recuperato dai pazienti attraverso la scoperta di essere in grado di suscitare nel terapeuta proprio quelle emozioni spiacevoli o dolorose, che danno garanzia di autenticità, dato che sono più difficili da essere recitate, come invece potrebbe accadere per quelle piacevoli. "Se gli faccio paura (o invidia, o lo faccio arrabbiare, o lo addoloro), vuol dire: primo, che io esisto; secondo, che io posso essere autore di attivazioni relazionali, cioè che, nelle interazioni, posso essere e sono un soggetto; terzo: che il mio pormi in rapporto con lui non è irrilevante, ma ha degli effetti: io sono efficace nel rapporto con lui". Il paziente, allora, non sta soltanto mettendo alla prova il terapeuta, soprattutto per vedere se ce la fa e, soprattutto, come ce la fa (in modo, anche, da poter imparare da lui) a sopportare le emozioni spiacevoli; ma mette alla prova anche se stesso, per verificare, appunto, se esiste, se è soggetto e se è efficace nelle interazioni. È ovvio che sarebbe un imperdonabile errore intendere questi movimenti relazionali come espressione di distruttività, e non, come invece sono, quali espressioni del bisogno di strutturare, di percepire e di integrare i vari aspetti di sé e del senso di sé.

Non si tratta, in questo caso, di una funzione della paura, ma di una utilizzazione della paura per scopi relazionali o per scopi riguardanti la strutturazione o il recupero di aspetti del senso di sé.

La paura è fortemente temuta, nella nostra cultura, tanto che nell'Introduzione alla Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo è indicata la libertà dalla paura fra le libertà fondamentali che devono essere garantite a tutti. Mi piace, a questo proposito, ricordare che uno degli ultimi scritti che Norberto Bobbio ci ha lasciato è stato proprio su questo tema, su mia richiesta, per la rivista Psiche, di cui allora ero redattore.(3) È ovvio che il diritto sancito non riguarda l'emozione in sé, ma concerne la libertà dalle condizioni che possono determinare la paura.

Della paura, però, come di ogni altra emozione, non riusciamo a capire gran che se non riusciamo a individuarne le funzioni.

Due parole preliminari sulle emozioni in generale.

Le emozioni non sono "cariche energetiche" che spingono per essere "scaricate", come riteneva la prima psicoanalisi. L' "energia psichica" non esiste: è soltanto una metafora, che, in quanto tale, può piacere o non piacere. Io trovo che sia totalmente fuorviante, soprattutto quando nel pensarla si opera un'equazione simbolica. Quando, cioè, si reifica la metafora e la si tratta come fosse la descrizione fedele di qualcosa di reale.

Ma le emozioni non sono neppure accadimenti psichici "quasi somatici", grezzi, confusi e insensati ("elementi beta"), che attendono la rêverie attivata da parte di qualcuno per poter essere "trasformati" (da una specifica "funzione alfa") e acquisire così sensatezza (trasformazione in "elementi alfa"), attraverso una "attribuzione" o "donazione" di senso che viene dall'esterno del soggetto, come pretenderebbero le, più recenti, teorie bioniane.

Fin dall'inizio, e per tutto il corso della vita psichica, le emozioni sono sensate, sensatissime per il soggetto che le esperisce. L' "attribuzione di senso" è sempre, poco o molto, patogena, perché è alienante: a un'esperienza - che, in quanto tale, è sempre soggettiva - viene attribuito il senso che essa ha per un'altra persona. Cosa totalmente differente è il riconoscimento del senso che quell'emozione lì ha, in quell'esperienza lì, in quel momento lì, per quella persona lì, adulto, adolescente, bambino o neonato che sia.

Solo attraverso il riconoscimento del senso dell'emozione vissuta, infatti, può realizzarsi l'indispensabile evento relazionale della validazione dell'esperienza.

Non menti colonizzate ed ammaestrate da un buonismo partecipe, ma menti ascoltate, percepite e validate nelle loro esperienze, di qualunque tipo esse siano.

Precisato che cosa le emozioni non sono, bisogna ora dire che cosa sono.
Le emozioni sono processi psichici complessi (non entità), specificamente deputati alla conoscenza non di noi stessi, non della realtà esterna in quanto tale, ma della relazione (bidirezionale), attuale o possibile, fra la realtà e noi.(4)

L'emozione spavento (e così ritorniamo al nostro specifico tema della paura) si presta bene a illustrare questo aspetto fondamentale della natura delle emozioni.

Verso sera, al ritorno da una lunga gita in montagna, costeggiando una zona di alti cespugli, a pochi passi da me sento, improvviso, un grugnito, mentre una massa scura balza fuori dai cespugli e attraversa il sentiero. Fulmineo, mi vien da fare un balzo indietro, prima ancora di aver colto la mia stessa percezione, che vi ho appena detto. Tutto accade in un tempo minimo, infinitamente più piccolo del tempo che mi ci è voluto allora a capire che un cinghiale mi ha attraversato la strada e più piccolo ancora del tempo che mi ci vuole ora a descrivere gli accadimenti, o anche semplicemente a ricordarli.

Se uno avesse avuto una telecamera e la potesse ora far girare al rallentatore, potrebbe farci vedere molte cose: che io, immediatamente, quasi in automatico, mi sono arrestato nelle attività che stavo compiendo (in quel caso: camminare; in altri casi: parlare, studiare, mangiare, far l'amore...);(5) che in un istante io sono impallidito; che ho irrigidito la muscolatura scheletrica, assumendo una postura intermedia tra flessione ed estensione, ma un po' più coordinata verso la flessione: schiena un poco incurvata, gambe e braccia un po' flesse, collo un poco incassato nelle spalle un poco sollevate; che, invece, ho portato il capo in posizione un poco estesa e che ho sbarrato gli occhi, come ad aumentare le mie possibilità di cogliere con lo sguardo, con l'udito e con l'olfatto qualunque forma e movimento. Sempre "automaticamente", ho bloccato il respiro in una fulminea inspirazione a poco più di tre quarti della massima dilatazione polmonare. Mi si sono rizzati tutti i peli, ma soprattutto quelli della parte superiore del corpo: capo, schiena e braccia. Il battito cardiaco è partito al galoppo in tachicardia (e la pressione arteriosa è improvvisamente aumentata; ma questo non lo si potrebbe vedere nel filmato).

Che cosa è successo?

Prima ancora che il mio sistema cognitivo propriamente detto avesse potuto capire che cosa stesse accadendo, l'efficientissimo mio sistema delle emozioni si è attivato e mi ha segnalato, in modo perentorio, inequivocabile e attendibile: "Attenzione! Pericolo!".

Ha, cioè, colto immediatamente la relazione attuale o possibile fra la realtà rilevata e me.

Ma non si è limitato a questo. Velocissimamente, quasi senza che io lo volessi e quasi senza che io me ne avvedessi, ha anche attivato tutto il mio organismo psicobiologico perché si apprestasse ad affrontare attivamente la situazione pericolosa. Il sistema delle emozioni non solo ha fulmineamente individuato la relazione intercorrente fra quella realtà e me ("Pericolo!"), ma ha anche fatto concentrare tutta l'attenzione della mia mente e del mio corpo su ciò che era o avrebbe potuto essere pericoloso per me in quel momento.(6) Inoltre, subitaneamente, quasi in automatico, mi ha indotto ad apprestarmi ad affrontare la situazione di emergenza. E, cosa meravigliosa, in un istante, mi son trovato pronto ad affrontare adeguatamente l'emergenza. L'attivazione dell'organismo psicobiologico è stata conseguente e del tutto adeguata ai contenuti della cognizione emotiva.

"Pericolo", infatti, vuol dire che si sta attivando o si è attivata o è molto probabile che stia per attivarsi una qualche noxa, cioè una qualche cosa che per me è, o può essere, nociva.

Sono cinque i modi fondamentali che gli organismi psicobiologici hanno a disposizione per affrontare una noxa:

1: la fuga. Sovente è il modo più efficace, almeno nell'immediato. Può realizzarsi con la pura velocità, con l'agilità e l'astuzia, col cambiamento di mezzo (il volo in aria, il tuffo in acqua), ma anche con il nascondimento. Anche sul piano psicologico, relazionale e sociale, la fuga è un modo efficace e rispettabilissimo. Anche qui, essa può realizzarsi per mezzo della velocità, dell'astuzia, del cambiamento di ambiente e del nascondimento.

2: la controaggressione. È efficace soltanto se le forze sono impari e vantaggiose per il soggetto. Può realizzarsi con la forza fisica agita o anche solo minacciata,(7) ma anche con l'aggressione su piani simbolici, quali l'umiliazione. Può essere attuata anche attraverso l'attivazione di alleati più forti ("Lo dico a mio fratello!"), o concordemente deputati all'esercizio della violenza ("Lo dico alla maestra!"). Bisogna ricordare che lo sviluppo della civiltà si è attuato ed è progredito attraverso la proibizione dell'uso della violenza per i singoli e per i piccoli gruppi, e il progressivo accentramento del diritto e del compito di esercitare la violenza, fino alla creazione di istituzioni apposite, centralizzate e sottoposte a vincoli concordemente prestabiliti (magistratura, polizia).

3: l'immobilizzarsi, nel tentativo di riuscire a passare inosservato, magari mimetizzandosi. È efficace solo se riesce a distogliere l'aggressore dai propri intenti. Può realizzarsi volontariamente, o involontariamente, come nello svenimento. L'animale ferito ha più probabilità di sopravvive se sviene, perché l'abbassamento della pressione arteriosa limita la perdita di sangue per emorragia. Il predatore, poi, se non è particolarmente affamato, può perdere l'interesse verso un corpo inerte, o può considerarlo una preda già catturata e gettarsi contro altre possibili prede in fuga. Questo tipo di reazione alla noxa può essere considerato a volte come una specie di "fuga" estremamente specifica (il mimetismo, per esempio), e a volte come una azione specifica distraente sull'aggressore (fargli perdere interesse). Nelle situazioni relazionali e sociali spesso viene suggerito ("Fa finta di niente, e vedrai che la smettono!"), e spesso viene adottata, con l'assunzione di atteggiamenti più o meno "autistici" o compiacenti. Gran parte della strutturazione di un cosiddetto Falso Sé si colloca in questi ambiti.

4: Il venire a patti con la noxa medesima. È efficace solo se si ha la forza di far rispettare i patti (per esempio: due animali che marcano territori limitrofi). Può realizzarsi solo se viene riconosciuta una convenienza condivisa, che può realizzarsi sia come evitamento o limitazione di un danno (per esempio, per una reciproca non aggressione) sia come reciproco vantaggio (per esempio: garanzia dell'esclusività dei territori alimentari). Sui piani psicologico (nella gestione e nell'integrazione dei vari differenti aspetti del Sé), relazionale e sociale, questo modo dovrebbe, col tempo, progressivamente arrivare a prevalere su tutti gli altri.

5: Non so per gli altri mammiferi, ma per gli umani esiste un quinto modo di affrontare una noxa, ed è il cercare di spostare di livello il conflitto con l'agente della noxa, attraverso l'attivazione della creatività. Il processo di questo tipo più studiato è senza dubbio il sogno, ma vi rientrano le varie manifestazioni artistiche, soprattutto quelle in qualche modo collegate a pratiche rituali e cultuali proprie di ogni cultura. Per certi versi, questo modo è una forma particolare del venire a patti con la noxa. Ci si può spostare di livello anche al di fuori dei campi simbolici, nella concretezza delle interazioni dirette con l'agente della noxa, come quando si passa dalla guerra armata alla competizione mercantile o sportiva (per esempio: l'educatore che sfida a braccio di ferro l'adolescente ribelle).

Possiamo, dunque, vedere che l'organismo psicobiologico e gli aggregati umani ai vari livelli (gruppo, famiglia, comunità, cultura, società... fino all'umanità intera) si trovano a coltivare cinque particolari forme di "strategie" per fronteggiare una noxa:

1 - L'arte della fuga;

2 - L'arte della guerra;

3 - L'arte della difesa;

4 - L'arte della negoziazione;

5 - L'arte.

Il sistema delle emozioni, come abbiamo visto nell'esempio del cinghiale, ha attivato l'intero me stesso, l'intero mio organismo psicobiologico. Le attivazioni fisiologiche descritte (contrazione dei muscoli in flessione, rapida inspirazione, accelerazione del battito cardiaco, ecc.) hanno lo scopo di rendermi pronto a innescare "d'un balzo" efficacemente le prime tre risposte fondamentali al presentarsi di una noxa: fuga, controaggressione, immobilizzazione. La scelta effettiva di quale strategia verrà di fatto adottata dipenderà molto dai processi successivi, basati sull'integrazione del (rapidissimo) sistema cognitivo delle emozioni con il (molto più lento) sistema cognitivo propriamente detto. Il che equivale a dire: sui processi di integrazione neurologica del sistema limbico con le aree prefrontali, frontali e, successivamente, con le altre aree dell'intera corteccia cerebrale. Queste integrazioni (e molte altre ancora) sono necessarie perché sia adottata la quarta strategia, quella del venire a patti con l'agente della noxa. Il che comporta che i processi - relazionali! - del venire a patti esigono molto, ma molto più tempo degli altri tre fondamentali processi. In compenso, però, spesso sono quelli che proteggono più a lungo e più stabilmente, in quanto viene chiamato a impegnarsi a cooperare lo stesso agente della possibile noxa. Ma vallo a far capire a Bush, a Blair e alla destra nostrana!

Per quel che riguarda la selezione biologica di noi esseri umani, il tempo intercorso dall'età del neolitico ai giorni nostri è pressoché irrilevante. Il che equivale a dire che noi siamo animali biologicamente adattati a vivere negli ambienti del neolitico. E così, se noi ci esponiamo, per esempio, al vuoto, il nostro sistema emotivo fa scattare un allarme di pericolo; mentre, se viaggiamo a 130 chilometri all'ora in autostrada, ce ne stiamo del tutto tranquilli, anche se siamo a conoscenza delle statistiche che segnalano in Italia almeno cinquanta morti sulle strade ogni fine settimana. È molto più pericoloso mettersi in automobile in un italico week-end che non camminare su un sentiero esposto nelle Dolomiti. Ma il nostro sistema limbico non lo sa. Ed è difficile farglielo sapere.

Il sistema cognitivo propriamente detto, contrariamente al sistema cognitivo delle emozioni, è in grado di darci informazioni attendibili sulla realtà: su come essa è fatta, su come essa agisce o non agisce (in quali modi è pericolosa, quanto è pericolosa, quanto è eludibile, quanto è influenzabile, quanto è veloce, quanto è subdola, quanto è prevedibile, quanto è ingannabile...). Parimenti, esso può darci informazioni su come noi siamo fatti (quanto siamo veloci, quanto resistenti, quanto fragili, quanto astuti, quanto visibili, quanto forti, quanto pazienti...). Ci può dire, quindi, con un certo grado di precisione per l'apporto di molti dati "obiettivi", che cosa possiamo aspettarci dall'incontro di quella realtà con noi e di noi con quella realtà.

L'integrazione fra i due sistemi ("cognitivo emotivo" e "cognitivo in senso stretto") può permetterci di elaborare piani e strategie adeguate al massimo grado. Sempre che ne abbiamo il tempo, però. Se, udendo un ruggito dietro le spalle, ci mettiamo a valutar questo e quello, per stabilire, poniamo, se si tratta di un leone o di una leonessa, di un puma o di un giaguaro, potremmo non avere più il tempo per utilizzare le nostre conclusioni, ancorché acute e sofisticate. È per questo che il sistema delle emozioni è rimasto nella selezione naturale come sistema che, in un tutto unico, mentre segnala il significato vitale della relazione fra la realtà e il soggetto e fra il soggetto e la realtà, provvede a impostare risposte immediate (cioè non mediate: dalla riflessione, per esempio) molto pertinenti ed efficaci.

Siamo "fabbricati" bene, tutto sommato. Molto bene. I guai nascono spesso perché ci dimentichiamo di come siamo fatti, o perché pretendiamo di prescinderne. O perché pretendiamo che i nostri pazienti o i nostri figli ne prescindano.

Ecco, quindi, delineate le prime due funzioni della paura.

Innanzitutto, la funzione cognitiva: la paura mi segnala che si è attivato qualche cosa nel mondo che per me è o può essere pericoloso. Non si sottolineerà mai abbastanza che questa segnalazione, che potremmo chiamare "percezione emotiva", non mi dice nulla, ma proprio nulla, su come è costituita la realtà da me colta come pericolosa (se è un cinghiale, un bandito, un fantasma...); né mi dice nulla, ma proprio nulla, su come io sono costituito; ma mi dice, in modo inequivocabile, con precisione e veemenza, che cosa significa o che cosa può significare - soggettivamente - per me quella realtà che il mio organismo psicobiologico ha colto.

La paura è un'emozione, e, in quanto tale, è soggettiva.

Non esistono paure "obiettive".

Mai.

È assurdo pretendere obiettività da una paura (o da una qualunque emozione).
Non è di nessun aiuto rilevare che una paura non è obiettiva: semplicemente, non può esserlo. È sempre soggettiva. In quanto emozione, mi dice sempre solo e soltanto in che cosa una data realtà è rilevante per me per quel che riguarda gli aspetti vitali dell'esistenza. Della mia esistenza.

La seconda funzione individuata è quella motivazionale: di spingere, cioè, il soggetto all'azione. Questo comporta che la paura, come ogni altra emozione, esige di essere gestita. Per vivere bene, quindi, non basta percepire le emozioni, né è sufficiente integrare le percezioni emotive con le percezioni cognitive in senso stretto, ma bisogna anche saperle gestire. Imparare a gestirle. Questo è particolarmente rilevante nel discutere della patologia e, soprattutto, della terapia.

Prima di passare alle altre funzioni della paura, bisogna precisare bene alcuni aspetti di queste due prime fondamentali sue funzioni.

a) La cognizione emotiva che l'emozione paura ci dà non è affatto "confusa", "imprecisa", "erronea", "mendace". Al contrario: essa è esatta e veritiera. Veritiera ed esatta, se teniamo conto del fatto che segnala un significato soggettivo. Io so che quella realtà è o
potrebbe essere un pericolo per me, prima di tutto per come sono "fabbricato" (per esempio: siamo fabbricati in modo che si attiva un "allarme" al variare improvviso di qualche stato, ambientale o interno), ma anche per le conoscenze che ho potuto realizzare e consolidare apprendendo dalle esperienze reali che io personalmente ho fatto nel corso dell'intera mia vita.(8) E il mio sistema delle emozioni, puntuale e sicuro, me lo segnala in modo chiaro, esplicito ed efficace. A nulla serve che qualcuno cerchi di confutare la mia percezione emotiva, mettendosi a confrontarla con la "realtà" obiettiva, prescindendo dalla mia esperienza. Prescindendo, cioè, dall'unica base che io ho per orientarmi nel mondo. Come ben sanno tutti gli operatori che ingenuamente ci hanno provato, questi interventi sono vissuti come (e hanno effettivamente il valore di) una squalificazione dell'esperienza del paziente e come una istigazione al disprezzo di sé o di aspetti vitali di sé. Non si può pretendere di avere un alleato nella terapia quando ci si accosta squalificandolo. Ben che vada, in quelle condizioni relazionali, egli potrà cooperare con noi soltanto come "suddito". O come fanatico adepto di una setta messianica. Mai, però, come alleato, come soggetto vivo e pieno, in relazione con altri soggetti vivi e pieni, incamminato verso il consolidamento delle capacità di esercitare autonomamente le proprie funzioni.
Credo vediate, attraverso queste mie parole, che cominciano già a delinearsi in filigrana degli elementi essenziali della relazione fra terapeuta e paziente che vive attacchi di panico.

b) L'attivazione dell'organismo psicobiologico determinata dalla paura è sufficientemente generica, per essere adeguata ad affrontare la maggior parte delle possibili noxae, in modo da favorire che il soggetto sia pronto ad affrontarle, comunque esse si presentino e qualsiasi esse siano. Certo, potrebbe venire da considerare questo come grossolanità, ma, così facendo, si correrebbe il rischio di non cogliere adeguatamente la apertura verso più possibili, che è cosa preziosa, trattandosi di noxae che potrebbero essere (e che sovente sono) biologicamente, psicologicamente, o socialmente fatali.
Il paziente potrà accostarsi a un'adeguata gestione delle proprie emozioni solo se riesce ad attivare un atteggiamento di profondo rispetto per esse. E come possiamo noi pretendere che lui rispetti se stesso, la propria esperienza e le proprie emozioni, se noi (terapeuti, o genitori, o comunque partner relazionali) ci accostiamo a lui squalificando proprio ciò di cui siamo chiamati ad occuparci? Forse vale la pena sottolineare che qui io sto parlando di rispetto vero, non di "atteggiamento" di rispetto. "Rispetto vero" vuol dire dar credito all'esperienza del paziente, cercare di comprendere i come e i perché. Ci vuole l'umiltà di stargli due passi indietro e di seguirlo passo passo, facendo solo ogni tanto qualche puntatina in avanti, a vedere com'è il panorama che ci si prospetta, ma lasciando sempre, in definitiva, a lui la competenza e la possibilità di verificare e falsificare le eventuali nostre ipotesi.

c) Il paziente potrà accostarsi a un’adeguata gestione delle proprie emozioni solo se riesce ad attivare un atteggiamento di profondo rispetto per esse. E come possiamo noi pretendere che lui rispetti se stesso, la propria esperienza e le proprie emozioni, se noi (terapeuti, o genitori, o comunque partner relazionali) ci accostiamo a lui squalificando proprio ciò di cui siamo chiamati ad occuparci? Forse vale la pena sottolineare che qui io sto parlando di rispetto vero, non di “atteggiamento” di rispetto. “Rispetto vero” vuol dire dar credito all’esperienza del paziente, cercare di comprendere i come e i perché. Ci vuole l’umiltà di stargli due passi indietro e di seguirlo passo passo, facendo solo ogni tanto qualche puntatina in avanti, a vedere com’è il panorama che ci si prospetta, ma lasciando sempre, in definitiva, a lui la competenza e la possibilità di verificare e falsificare le eventuali nostre ipotesi.

d) Se il paziente ha paura, ha tutte le sue brave ragioni per avere paura. Cercare “le ragioni” della sua paura non significa cercare “le cause”, più o meno “bizzarre”, più o meno “risibili”, della sua paura. Significa: cercare di mettere in luce come e perché egli ha ragione, ha proprio davvero ragione ad avere paura. L’istigazione a “pensare positivo”, nelle sue infinite variazioni sul tema, dalle più mimetizzate e buoniste alle più esplicite e becere, non è, né più né meno, che una radicale squalificazione della soggettività del paziente e della sua esperienza. Gli si dà, in sostanza, dell’imbecille: “Su con la vita, idiota!”. Sistematicamente, anche nelle espressioni di maggiore entusiastica adesione a questa ingiunzione perversa, il paziente segnala che certi aspetti di lui vivono l’ingiunzione di “pensare positivo” come una effettiva umiliazione, quale in effetti essa è. È bene che i supervisori siano attenti e delicati nel facilitare che i terapeuti se ne accorgano e riescano a cogliere queste indicazioni dei loro pazienti, soprattutto quando sono espresse indirettamente, con allusioni, “per derivati”.

Le funzioni della paura non si limitano alla segnalazione di un pericolo e all'attivazione delle risorse per affrontarlo, secondo i cinque modi sopra accennati. Fondamentali sono anche le funzioni comunicative. Attraverso le sue valenze espressive, la paura comunica agli astanti la presenza di un pericolo, e induce in loro sia l'attivazione della medesima emozione di paura (funzioni elicitative) sia l'attivazione degli atteggiamenti psicocorporei per affrontare il pericolo (funzioni performative).

Le funzioni elicitative non si limitano a suscitare negli astanti un'emozione corrispondente (di paura verso la medesima possibile noxa), ma possono suscitare anche emozioni complementari (per esempio: di protezione verso il soggetto medesimo) o simmetriche (per esempio: la mia paura di te suscita in te una corrispondente paura di me). Allo stesso modo, le funzioni performative possono condurre gli astanti ad attivarsi contro la possibile noxa non solo in modi corrispondenti, ma anche in modi complementari (per esempio: ti prendo in braccio; ti faccio scudo col mio corpo) o simmetrici (per esempio: il tuo metterti in guardia verso di me, suscita il mio mettermi in guardia verso di te; il tuo aggredirmi spaventato suscita in me un corrispondente spaventato aggredirti).

L'attivarsi di queste funzioni relazionali della paura (espressive, comunicative, elicitative e performative) è particolarmente evidente negli animali sociali, come per esempio i cavalli, e nei gruppi di bambini. Sempre che siano lasciati sufficientemente liberi in spazi adeguati.

Nel considerare le sue funzioni, bisogna ricordare che la paura è un potente organizzatore del Sé, individuale e di gruppo.

Il Sé, infatti, si struttura e si ristruttura, continuativamente, dalla nascita fino alla morte, sulla base delle esperienze reali che il soggetto va compiendo. In questa prospettiva, fra tutte le esperienze, le più importanti sono quelle relazionali, esperendo le quali il soggetto struttura "mappe mentali" di sé, della realtà e delle interazioni fra se stesso e la realtà e fra la realtà e se stesso. Ormai sappiamo bene che in questi processi gli aspetti di base sono per l'appunto quelli emotivi. In quanto emozione, dunque, la paura è imprescindibile nel determinare le esperienze reali, e quindi nel determinare la strutturazione e la ristrutturazione del Sé e dei suoi differenti aspetti, oltre che della realtà.

Per questa via, la paura può assumere anche la funzione di uno degli elementi attorno al quale può strutturarsi l'identità, individuale e di gruppo. Vi sono gruppi che addirittura hanno il pericolo come massimo elemento identitario, quali quelli, fondamentalmente razzisti, che si strutturano sulla base della paura dell'estraneo pensato come "invasore" o come elemento socioculturale che farebbe tendere la popolazione verso un "meticciato", temuto come fosse "inquinante". Ma vi rientrano anche i gruppi che si strutturano sulla base della paura di per se stessa o di specifiche paure, quali, per dirne alcuni, i pompieri, la polizia, l'esercito, gli ospedali, il soccorso alpino; le fabbriche e le catene di distribuzione di antifurti e serrature; le compagnie di assicurazione; gli istituti di prevenzione degli infortuni sul lavoro; molte associazioni di auto-mutuo-aiuto...

A queste connesse, vi sono altre funzioni della paura, sovente misconosciute: quelle di catalizzare, per così dire "a pronto soccorso", una coesione del Sé, sia individuale, sia del gruppo, sia della comunità.

Instillate una qualche paura, e il gruppo si compatterà come un sol uomo.

Però, allorquando è vissuta come insopportabile, la paura può portare, invece, a una frammentazione del Sé, sia individuale sia del gruppo, quale tentativo di "salvare il salvabile", come fa la lucertola che lascia la coda fra le zampe del predatore. Se mi spezzetto e mi scindo, qualche parte di me forse potrà salvarsi, o, quanto meno, potrà non trovarsi annichilita dall'angoscia impotente. Ma qui, per quel che riguarda la frammentazione del Sé, così come per quel che riguarda la strutturazione di scissioni all'interno del Sé, siamo nel campo della gestione della paura, e non in quello delle sue funzioni.

Per concludere questa ricognizione sulla paura e le sue funzioni, dobbiamo riconoscere che la paura è un'emozione vitale, assolutamente indispensabile. Chi non ha avuto paura una volta, potrebbe non averne mai più bisogno...

La paura, come ogni altra emozione, deve essere accolta, con attenzione e con rispetto, osservata e utilizzata per quello che è.

Decisiva, per l'efficacia dell'esercizio delle sue specifiche funzioni, è la gestione della paura. Dalla gestione della paura deriva gran parte degli elementi dell'esperienza determinanti benessere o malessere, psichico e relazionale, come si può vedere bene, per esempio, negli attacchi di panico.

E anche quando la paura sembra sovrastarci, non è la paura da rifuggire. Sarebbe come se uno, all'accendersi di una spia sul cruscotto dell'automobile, si mettesse a urlare e scappasse via a più non posso. O implorasse il meccanico di estirpare quella spia luminosa; o chiedesse a un allenatore di aiutarlo a temprare il proprio carattere, fino al punto da riuscire a sopportare l'accensione della spia luminosa come se niente fosse. Insensatezze, certo, che però, oltre a essere talvolta perseguite dai pazienti, dai loro parenti e dagli educatori, vengono patrocinate dagli stessi terapeuti più spesso di quanto non si immagini, quando, per esempio, suggeriscono di non dare importanza, di non dare ascolto all'ansia, alla paura o all'angoscia. Bisogna, invece, cercare di sapere che cosa segnala l'accendersi di quella spia; e poi, conseguentemente, valutare il da farsi più adeguato.

Avviandoci alla conclusione, possiamo affermare che la paura non è un qualche cosa che "ci assale" dall'esterno, né qualche cosa "da vincere" o "da superare", come spesso si pensa nelle piccole ma tenacissime teorie private che le persone (operatori compresi!) strutturano e si tramandano; ma è un preziosissimo dispositivo, vivo e vitale, che innesca un processo di autoregolazione, indispensabile per garantire la sopravvivenza, l'integrità e l'evolutività
biologiche, psicologiche, relazionali e sociali.

Un'ultima cosa. Se c'è paura, c'è speranza. Solo chi è convinto di avere qualche possibilità di potersela cavare può attivare l'emozione paura. Altrimenti, soprattutto se il nocumento è grave ed è certo, è probabile che si attivi la disperazione, che è lo stato mentale di perdita di ogni speranza. Al di là della disperazione, per quanto grave sia il nocumento e per quanto certo esso possa essere, rimane pur sempre, come ultima chance, come ultimissima possibilità, la rassegnazione consapevole, che, se non può annullare il danno, può perlomeno attutire un poco l'impatto con la sofferenza estrema e l'angoscia.


Riassunto

La paura è un'emozione indispensabile per la sopravvivenza, l'integrità e l'evolutività biologiche, psichiche, relazionali e sociali. Per comprenderla, conviene partire dall'analisi delle sue funzioni: cognitive, che segnalano un pericolo, attuale o possibile, nelle relazioni fra la realtà e il soggetto o tra differenti aspetti del soggetto medesimo; motivazionali, che attivano immediatamente il soggetto ad affrontare adeguatamente la minaccia, secondo cinque modelli fondamentali; espressive e comunicative, che tendono a informare gli astanti sullo stato d'animo, sul pericolo soggettivamente percepito e sulla necessità di provvedervi; elicitative, che tendono a indurre negli astanti emozioni, corrispondenti, complementari o simmetriche; performative, che suscitano nei presenti l'attivazione del loro organismo psicobiologico verso l'azione, corrispondente, complementare o simmetrica. Inoltre, la paura può assumere le funzioni di potente organizzatore del Sé, individuale e di gruppo, fino a divenire un elemento identitario. Aver presenti le funzioni della paura è indispensabile per l'impostazione e la gestione della psicoterapia di disturbi che si strutturano attorno alla paura, quali le fobie e gli attacchi di panico.


Note

1) Medico Psicoterapeuta, Psicoanalista Associato alla Società Psicoanalitica Italiana (S. P. I.) e all'International Psycoanalytical Association (I. P. A.), Torino, Italy roccatop@inrete.it paolo.roccato@fastwebnet.it
2) Presentato al IX Convegno "La paura. Paure, fobie, attacchi di panico", organizzato dall'Associazione Itinerari Psicoanalitici, Verona 8 ottobre 2005 itineraripsico@libero.it
3) Norberto Bobbio, "La libertà dalla paura", in Psiche, anno VIII, n° 1, gennaio-giugno 2000, Numero Unico su "La paura", Borla Editore, Roma.
4) O tra differenti aspetti di noi stessi, nell'ambito della pluralità del Sé.
5) Bisogna ricordarlo e tenerlo sempre ben presente questo blocco, questa inibizione dell'azione che era in corso, determinati dall'attivarsi della paura. Per fare solo un esempio: come sanno bene i sessuologi (e tutti noi, anche senza bisogno che ce lo dicano i sessuologi) non è possibile continuare a fare l'amore in modo partecipe se si attiva una paura. È necessario che la paura venga riconosciuta e adeguatamente gestita.
6) Per concentrare immediatamente tutta l'attenzione sul pericolo, l'organismo psicobiologico deve distogliere subitaneamente l'attenzione da ogni altro ambito. Bisogna ricordarlo e tenerlo sempre ben presente che l'attivarsi della paura distoglie l'attenzione della mente e del corpo da ciò cui eravamo intenti o avremmo voluto essere intenti. Gli operatori, invece, sembrano dimenticarsene. Per fare solo un esempio: un ragazzo impaurito non può avere disponibilità della propria attenzione per studiare. Prima deve riconoscere e gestire la specifica propria paura, e solo in seguito gli diverrà possibile concentrare l'attenzione su questo e quello, compreso ciò che ha da studiare. Quanti bambini, impropriamente ritenuti "svagati" o "iperattivi", sono bambini impauriti, perché invischiati in relazioni spaventose!
7) L'orripilazione (il rizzarsi, cioè, dei peli) ha un duplice significato: da un lato favorisce che il soggetto percepisca il minimo alitare dell'aria, che potrebbe segnalare pericolosi movimenti della noxa; dall'altro lato fa apparire il soggetto come fosse un animale più grosso, e quindi più minaccioso.
8) Le esperienze sono sempre e soltanto soggettive.


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