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PSYCHOMEDIA
RISPOSTA AL DISAGIO
Psicosomatica



Un caso di sclerosi multipla: approccio psicosomatico secondo il modello somatologico

di Riccardo Marco Scognamiglio



Istituto di Psicosomatica Integrata
Via B.Verro 17 - 20141 Milano
E-mail: psicosom@tin.it


Giulio ha 26 anni e mi chiede un appuntamento nel Novembre del 2001, dopo un anno che frequenta la Scuola di Somatologia Professionale del nostro Istituto(1) , cui si è iscritto senza rivelare ad alcuno il suo problema, per studiare della risposte alternative alla sua malattia: la sclerosi multipla.

I sintomi fisici
Dai 6 ai 22 anni ha giocato a calcio, finché una distorsione alla caviglia sinistra, con lesione del legamento crociato, non lo ha obbligato ad un’artroscopia e a un riposo forzato di 6 mesi.
Alla ripresa, la mancanza di forza muscolare e lo sfocamento del campo visivo lo obbligano a desistere.
Sei mesi dopo, un attacco di Diplopia lo porta ad un primo ricovero e 8 mesi dopo il quadro si fa più netto e viene prodotta la diagnosi. I sintomi sono: parastesia e mancanza di sensibilità agli arti; sensazioni di scosse elettriche flettendo il corpo. Inizia la terapia cortisonica. Alcuni mesi dopo, un’altra poussée, che interessa soprattutto la perdita totale di movimento al piede sinistro, porta, alla fine del ’99, ad iniziare la terapia interferonica, che tuttavia, a distanza di 2 anni non produce alcun risultato.
Le poussées si presentano sempre più lunghe (possono durare alcuni mesi) e sempre più invalidanti. L’ultima poussée, prima del nostro incontro, continuava da tre mesi, condannandolo, nei suoi picchi, all’immobilità degli arti a sinistra e a parestesia diffusa nello stesso emicorpo.

La posizione del soggetto
Giulio è quello che si potrebbe definire proprio “un bravo ragazzo”, di buona famiglia, educato, pulito, generoso, onesto, sembra un giovane eroe virtuoso, che non si lamenta, che affronta a “testa alta” il suo destino con grande coraggio. Mi colpisce molto il fatto di essersi iscritto alla Scuola di Somatologia per voler imparare direttamente come leggere il suo problema e non nega che, per quanto faccia un lavoro molto gratificante, la prospettiva della terapia lo abbia da sempre affascinato.
La limpidezza e trasparenza di Giulio tuttavia mi fanno un duplice effetto: da una parte di grande ammirazione per il suo darsi da fare, che mi porta a garantirgli tutta la mia disponibilità ad aiutarlo; dall’altra, tuttavia, questa assenza di lamento, questa fredda lucidità rispetto al suo “male” me lo fa percepire in una sorta di adesione identificatoria alla sua causa, come l’eroe, appunto, che è pronto a morire per essa, mettendo in luce una particolare aporia che è propria dell’eroe tragico. In effetti si percepisce una “Ubris” che presuppongo racchiuda il modo tragico del suo rapporto col sintomo.

Alessitimia e olofrase
Precisamente, il nostro non mostra alcun segno di nevrotizzazione, né lascia intravvedere buchi nella struttura che orientino una diagnosi in senso classico. Tuttavia il senso di stabilità narcisistica non riesco a pensarlo al di là della sua sindrome che sembra avere un effetto di nominazione soggettiva. E’ quello che con Lacan chiameremmo condizione olofrastica, dove il soggetto si trova rappresentato nella serie discorsiva del discorso sociale, da un significante che condivide con l’Altro (Lacan, 1953, pp. 278-279; 1964, pp. 239-241). E’ come se, insomma, anziché avere un nome proprio con cui presentarci nel sociale, dessimo per scontata una marca di appartenenza che condividiamo con qualcun altro, il che, però, rende la nostra soggettività particolare, superflua (vd. Scognamiglio, 1994).
Su un versante più descrittivo potremmo inscrivere Giulio nel costrutto alessitimico (Taylor, Bagby, Parker, 2000), se non fosse che la connotazione di deficit sembra contrastare con il suo tono nobile: e, tuttavia, mancanza di espressività emozionale; contenuto di pensiero associato più con gli eventi esterni che con la fantasia o i sentimenti; scarso onirismo; metapensiero molto razionale senza riferimenti agli affetti propri o altrui, ne definiscono il quadro.
Per quanto interessante, il costrutto alessitimico è orientato verso la struttura, mentre quello olofrastico verso il processo e mi sembra più esplicativo, benché sia un modello prettamente clinico e non empirico, nell’orientarci in un aldilà, tutto da scoprire, che si può celare dietro la cristallizzazione olofrastica.
L’olofrase indica una posizione soggettiva e non una struttura di fondo. La posizione olofrastica è una posizione cristallizzata nel processo di alienazione nella relazione con l’Altro primario, come se il tempo della separazione simbolica dell’Altro primario fosse rimasto evolutivamente sospeso. Questa ipotesi ci mostra, in prospettiva, l’evoluzione di un progetto di terapia volta a riattivare un tempo di separazione-individuazione, rimasto cristallizzato, avendo come posta in gioco la disgregazione del corpo stesso del soggetto.

Il modello medico
Faccenda molto delicata, dunque, che invita anche a fare qualche riflessione sulle metafore che il modello medico non si cura di indurre nei trattamenti di sindromi così psicosomaticamente complesse. Ad esempio l’approccio considerato dal modello medico, in assoluto, prioritario, anche se non confermato scientificamente, è quello, nelle sindromi degenerative, di abbattere il sistema immunitario con immunodepressori (per es. cortisone, interferone). Nell’orientamento somatologico, invece, leggiamo tutto lo sforzo conflittuale negli attacchi autoimmuni per gestire la dialettica alienazione/separazione dell’Altro internalizzato. L’immunodepressione condanna a priori il soggetto a perdere ogni difesa interna contro la componente invasiva dell’Altro, fino a soccombere alla possessione alienante. E’ infatti incredibile osservare, durante le fasi di psicoterapia, la correlazione tra le poussés e i punti di svolta elaborativi, in cui il soggetto riapre il gioco dialettico con l’Altro. Lo scatenamento può essere letto, anziché come aggravamento fine a se stesso, come rappresentazione somatica della riapertura del conflitto. Il risultato: l’intervento medico mira a togliere il soggetto da questo dinamismo vitale e a condannarlo, con una violenza considerevole, e in una logica di connivenza con l’Altro primario, a perdere tutte le sue forze al fine di stabilizzare il quadro. La logica è, cioè, quella della cronicizzazione, come garanzia di stabilizzazione. Per capirci, potremmo dire: “Per evitarti il pericolo di cadere, sarebbe meglio che tu ti piazzassi, da subito, su una sedia a rotelle”.

L’etica e il transfert
Questo lo scenario della lotta in cui Giulio muoverà i primi passi incerti nella psicoterapia, comprendendo, nel giro di poche sedute, che la partita si gioca su un piano etico. Citando Freud, che diceva, a proposito della Psicoanalisi: “Meglio un cretino felice o un Socrate infelice?” —, la metafora tragica qui, implicando il corpo, sembra ancora più scabrosa, perché si confronta con la minaccia della morte e della menomazione in cambio della salvezza dell’anima. Giulio sceglierà a caro prezzo, morire per morire, di salvarsi l’anima con la psicoanalisi.
Non ci arriviamo certo nell’immediato. Anzi, inizialmente Giulio mi chiede una terapia, perché nel percorso della Scuola comprende che, ciò che conta, non sono le tecniche che insegniamo, ma ciò che ci sta dietro. Il transfert si apre su questa supposizione: che io abbia un sapere che va ben al di là di ciò che insegno, ma non ha la più pallida idea in cosa consista.
Si aspetta che accada qualcosa di magicamente terapeutico, e poiché mi trova esitante a procedere, anzi, perfino “eccessivamente” cauto, cerca di sedurmi con la sua fiducia nella mia causa. I colloqui iniziali, con una cadenza piuttosto lenta, hanno una funzione di assessment e servono più che altro a raccogliere dati sul decorso clinico: aspettiamo l’esito della prossima risonanza magnetica; Giulio mi porta degli articoli sull’Interferone e commentiamo insieme delle letture alternative alla visione medico-classica della sindrome.

Il campo di battaglia è il Suo stesso corpo
I colloqui si susseguono da novembre a marzo senza produrre, di fatto, alcun materiale che riesca ad interrogarlo sulle implicazioni soggettive in ciò che gli è accaduto. Il discorso si svolge ad un livello di totale adesività alla malattia e al suo contesto terapeutico, come se questa ricerca fosse il suo nuovo hobby appassionante: la sfida contro un nemico che lo ha sfrattato dal suo stesso corpo. Lentamente, però, questo nemico prende, nel corso dei colloqui, una forma differente: non è più la malattia in quanto tale, ma la cura medica. Il fatto che io abbia inizialmente deluso l’aspettativa di seguirlo con trattamenti somatici, spinge la riflessione verso l’analisi di una conflittualità fra i codici della medicina convenzionale e quelli che lui va cercando nella sua ricerca alternativa. Si tratta di orientamenti che risuonano incompatibili nella filosofia e nell’etica. Giulio comincia a comprendere che, se il suo corpo è un campo di battaglia - come nel modello medico classico - allora la sconfitta del nemico-malattia non sarà priva di conseguenze sul suo stesso organismo. Si comincia a chiedere quale possa essere il rapporto fra la sua parte sana e quella malata e quindi ad intravedere la malattia non come un’invasione dall’esterno di un nemico, ma come una scissione di una parte interna di sé.
Solo a questo punto, accetto di andare insieme a “vedere”, attraverso questa prospettiva, qual è l’organizzazione funzionale del suo corpo in relazione a questa possibile scissione.
Nel frattempo giunge la risonanza magnetica che rivela, rispetto a quella dell’estate precedente l’inizio della terapia, nuove alterazioni di segnale nel peduncolo cerebellare medio a destra, nel pavimento del IV ventricolo, nella circonvoluzione postcentrale e nel lobo temporale di sinistra, e nella sostanza bianca periventricolare; tuttavia accanto all’aumento delle lesioni, rispetto a due anni prima, si assiste ad una curiosa diminuzione di diametro delle alterazioni precedenti.

Il setting somatologico
Impostiamo un setting somatologico allargando l’intervento a un team di operatori: una naturopata, un neurologo e un compagno di Giulio della Scuola di Somatologia che, avendo seguito alcuni nostri corsi base di una tecnica di Integrazione Neurostrutturale che abbiamo importato dall’Australia, lo potrà seguire per alcuni trattamenti nel paese dove abita.
Cominciamo quindi con un test Vega di Biorisonanza che ci darà i livelli di carico tossinico, lo stato allergico e le risposte di intolleranza alimentare, lo stato di disbiosi intestinale e, in generale, i deficit del sistema emuntoriale, i livelli di stress endogeno, la misura dell’astenia, gli organi massimamente stressati e il livello acido/basico dei tessuti, fondamentale monitor della degenerazione cellulare(2) . Da questo test, una cura naturopatica gli permetterà di cominciare a drenare gli organi dal carico tossinico. Test di intolleranza alimentare permetteranno, poi, anche un inquadramento dietetico. Il tutto con lo scopo fondamentale di sgravare il sistema immunitario e, ovviamente, in contraddizione aperta con la terapia immunodepressiva. La scelta di affidare la metodica di Biorisonanza Vega-Test a un naturopata anzichè a un medico, emerge dopo lunghi anni di sperimentazioni e di collaborazioni con medici “alternativi”, che hanno messo in evidenza tutte le difficoltà di modificare, nonostante le buone intenzioni, i loro codici di appartenenza. Quando uno studente si forma al modello medico classico, per quanto successivamente si possa avvicinare alle medicine complementari, con estrema difficoltà accetta di cambiare i propri paradigmi (vd. su questo problema Scognamiglio, 2002).

La valutazione “ somato-logica”
Insieme, procediamo a un’analisi posturale, kinesiologica (Walther, 1988; Leaf, 1998), del sistema neuromotorio e di palpazione del sistema fasciale viscerale (Barral, 1998). L’analisi somatica, in sintonia con le altre rilevazioni, indica un quadro di forti tensioni strutturali probabilmente già pregresso rispetto alla sindrome, attraverso cui il corpo mostre le brecce per l’instaurarsi del processo morboso. L’emicorpo sinistro presenta tutto un processo di torsione e invaginamento intorno all’asse mediano, che per noi è indice di un’attitudine somatica difensiva di grande importanza verso una lesione primaria che riscontriamo nell’emicorpo controlaterale, all’interno di una catena che si svolge ad arco dalla pelvi sinistra, passa attraverso le strutture viscerali dell’emicorpo destro (all’altezza della valvola ileo-cecale) con epicentro sul Fegato, nella sua articolazione col colon, e ritorna a sinistra posteriormente a livello delle vertebre C 3, 4 e 5 (con implicazioni del Nervo Frenico), per salire al IV ventricolo, fino al lobo temporale sinistro.
Peraltro, una precedente risonanza magnetica conferma la posizione mediana e paramediana destra delle vertebre cervicali, possibile causa di irritazione del Frenico e, quella più recente, le alterazioni intracraniche corrispondenti, rilevate mediante valutazione manuale del cranio (Barral, 1998) mentre lo stesso esame Vega individuava il Fegato come l’organo con Stress prioritario. E non c’è da dubitarne, vista l’elevatissima tossicità della cura farmacologica. Anche il ritmo del fluido cefalorachidiano, in diretta connessione, secondo l’approccio della Terapia Cranio Sacrale (Upledger, 1996; 1998, ) , col sistema immunitario, risulta fortemente alterato. Alla valutazione kinesiologica, tutta la muscolatura pelvica risulta scarica, in sintonia con l’oggettività dell’esame neurologico medico.
Decidiamo, quindi, di manipolare il Fegato a livello della fessura epatica del colon, che mostra, effettivamente, alla palpazione, una notevole rigidità nella mobilità e motilità articolare con l’intestino crasso e successivamente col Rene destro, peraltro evidenziato anch’esso dal Vega test.
Lavoriamo anche sul ginocchio sinistro, primo relais della catena, avendo anche ricostruito che la lesione alla caviglia, da cui si è scatenato il quadro sindromico — attenzione: non parliamo di causa scatenante, ma di segnale di scatenamento — aveva avuto un precedente all’età di 13 anni nello stesso punto. E’ un rilievo importante, perchè il quadro posturale così analizzato, mette in evidenza una correlazione etiologica fra i processi di adattamento posturale - per esempio questo ripiegamento dell’emicorpo sinistro sul destro, peraltro con distribuzione inversa dei segni di sofferenza, da destra a sinistra, come se l’emicorpo sinistro funzionasse da protettore, da schermo assorbente, di ciò che accade a destra, che è l’emicorpo muto - e la costruzione in sordina della sindrome morbosa (vd. anche Scognamiglio 2002).

Il primo sogno
Dopo solo due sedute di lavoro sul corpo, a distanza di quindici giorni l’una dall’altra, il ritmo cranio-sacrale si è normalizzato fino alle estremità inferiori e la muscolatura pelvica è tornata normotonica. Una liberazione del plesso brachiale sinistro nella seduta successiva permette il ripristino della tattilità nella mano. Il corpo di Giulio risponde splendidamente, ma la cosa straordinaria è che emerge un sogno: “Ero con dei ragazzi sconosciuti e mi dovevo spogliare per fare il bagno in piscina. Toltami la maglietta, mi sono accorto che avevo un secondo capezzolo, un po’ più grande, sotto quello destro. Poi ce n’era un altro che stava iniziando a crescere, sempre a destra, vicino al pube. Ho pensato che fosse colpa delle iniezioni di Interferone. Poi c’erano due ragazze, di cui una molto carina, con cui mi trovavo a parlare da solo in grande intimità. Era stupenda e, per quanto mi venisse dietro l’altra, era lei che mi piaceva”.
L’emicorpo destro si sta dunque svegliando, attraverso quest’atto simbolico di “denudamento” per la terapia corporea, e il sogno mostra un processo di mentalizzazione del corpo, che darà una svolta essenziale al trattamento. Peraltro i capezzoli coincidono con le stazioni dell’emicorpo destro della catena lesionale “muta” ricostruita dall’esame fasciale.

I deficit di iscrizione simbolica
W. Bucci, criticando costruttivamente il modello alessitimico di Sifneos, Taylor e altri, nota come in alcuni disturbi somatici, non manchino soltanto le parole per esprimere le emozioni sottese, ma sia proprio il processo di simbolizzazione in carenza. Da cui, l’obiettivo del trattamento dovrebbe essere quello di costruire connessioni nel Sistema Non Verbale, fra l’attivazione somato-viscerale subsimbolica e le immagini degli oggetti, prima che possa avvenire una comunicazione verbale emozionalmente significativa (Bucci, 1997a).
A seconda di quanto l’attivazione fisiologica associata a una forte emozione avvenga in assenza dell’attivazione dei contenuti cognitivi — cioè senza focus simbolico e quindi senza regolazione — essa rimarrà fissata nel “mutismo somatico” con più di o meno significativi effetti lesionali sui sistemi fisiologici.
Ciò che in molti autori è riferito come “processo di mentalizzazione”, come reiscrizione simbolica del corpo, o interiorizzazione dell’imago corporea (Sami-Ali, 1995; Taylor, 1993; e altri), in risposta al sovvertimento libidico “diabolico” (Dejours, 1989), mostra così nel sintomo somatico dei buchi processuali che riflettono, per la Bucci, dissociazioni gravi negli schemi Non Verbali, caratterizzati da livelli più elevati di attivazione fisiologica degli schemi emotivi che occupano gli stessi canali di elaborazione specifici per modalità attivate dagli eventi fisici (Bucci, cit.).

Una nuova configurazione del sintomo
La focalizzazione prima verbale sui sintomi fisici, d’altra parte, come è avvenuta in questa prima fase del trattamento e, successivamente, la mappatura dinamica del corpo, ci serve a recuperare schemi emotivi sepolti, nella speranza di introdurre nuovi oggetti negli schemi dissociati, fino ad includere in essi anche l’analista, come operazione fondativa di un transfert simbolico.
Il punto in cui siamo arrivati profila, effettivamente, una nuova configurazione del sintomo. Facendo perno sulla duttilità dell’analista a far da sostegno transferale alle aspettative magiche-medicalistiche del paziente, ma al contempo presentificando uno spazio di pensabilità “altro”, del “continuum funzionale” (Gaddini, 1953-1985), in rapporto alla complessità esistenziale del soggetto e alla posizione “tragica” da lui assunta, riusciamo così a riaprire un processo d’iscrizione simbolica che dia un posto anche al soggetto, sulla scena del corpo.
In particolare il Sogno è un esempio per eccellenza di “Processo Referenziale”, che per la Bucci è il ponte di collegamento tra il mondo emozionale, che affonda le sue radici nei Sistemi Subsimbolici Non-Verbali, con funzionamento “in parallelo” e il codice Simbolico-Verbale (Bucci, 1997b).
Il nostro approccio somatologico fa appunto da anello collettore che propone al corpo un primo approccio categoriale al continuum somato-viscerale, al fine di facilitare il Processo Referenziale.
Nel nostro modello, ciò che vogliamo “costruire” attraverso un enactment corporeo, è una topologia del sintomo, che includa il soggetto quale agente e l’analista.

L’attrattore
Questa costruzione, segue il principio freudiano di “Costruzioni nell’analisi” (Freud 1937), in alternativa alle “interpretazioni” che, nel nostro caso, non essendo formalizzato il transfert, sarebbero state premature.
Si tratta di costruire una metafora pretestuale, che consenta, però, di integrare gli elementi scissi del corpo in una forma simbolica che funzioni da “operatore”. E’ qualcosa di simile a ciò che in Fisica Matematica, per analizzare i fenomeni “caotici”, si costruisce come “attrattore strano”, cioè un modello matematico, una sorta di Gestalt virtuale che viene “gettata” sopra un fenomeno caotico, per vedere se è in grado di orientarlo verso una dimensione più ordinata e quindi computabile o intelligibile. “L’attrattore” introduce, quindi, nell’insieme caotico, una “geometria invisibile” che attrae gli elementi che descrivono i mutamenti nel sistema e può arrivare a funzionare come algoritmo personale (vd. Hooper; Teresi, 1986; Hofstadter; 1984).
Dal punto di vista della cura, “l’attrattore” ha un potere fondativo del transfert simbolico, che produce un effetto di “Destituzione soggettiva”, cioè di cambiamento di posizione del soggetto rispetto al suo discorso sul sintomo, al fine di riaprire i processi referenziali interrotti.
Possiamo riassumere il processo con lo schema seguente:

A. PROCESSO DI ANDATA

STEP 1: raccolta dati anamnestici- inquadramento del sintomo
_ il/i sintomo/i appare in una nebulosa di elementi scissi ed estranei fra loro, che convivono in un corpo “disabitato” dal soggetto.
STEP 2: lettura interpretativa del sintomo come un insieme che faccia “corpo” e ricerca di un
“attrattore strano” da “gettare” sulla struttura caotica dei fenomeni somatici al fine di “riorganizzare”, trovare un ordine e un’interconnessione fra gli elementi.
STEP 3: individuato il “Modello di Rete”, occorre trovare lo/gli switch/es biomeccanici, bioelettrici,
neurologici, nutrizionali, emozionali o altro che permettano di sperimentare “virtualmente” un Reset del sistema.
STEP 4: verifica, mediante feedback corporei, dell’efficacia dell’interpretazione.


B. PROCESSO DI RITORNO

STEP 5: valutazione dell’effetto di “Destituzione Soggettiva” o di un cambiamento di posizione del
paziente rispetto al sintomo, dopo i feedback corporei. Il processo di “restituzione di Senso” parte da un’interrogazione più radicale del sintomo nella nuova versione di rete, che mette in evidenza una responsabilità diretta del soggetto rispetto al suo “corpo disabitato”.
STEP 6: esplorazione analitica della “Metafora Sintomatica” che investe un soggetto nella sua
globalità esistenziale. La terapia si potrà muovere su un doppio binario (quello somatico e quello psichico) riproponendo ritmicamente il processo di Andata e Ritorno, monitorando costantemente i due fronti della dimensione soggettiva.

Cessare l’Interferone?
La successiva fase di terapia accentua in Giulio la lotta contro il modello medico: come risvegliatosi da un lungo sonno, egli realizza che due anni di Interferone non hanno prodotto il ben che minimo mutamento sintomatico, se non nel senso dell’aggravamento, mentre soggettivamente ha avuto riscontri veramente significativi nella performance e in rapporto alla mobilità e al dolore, da quando ha iniziato la psicoterapia. Decide dunque di cessare l’assunzione dell’Interferone. Il vissuto del rapporto con la struttura ospedaliera è veramente alienante: lui è un numero che non ha alcuno spazio di parola. Ogni volta che ha provato durante le poussés a richiedere un appuntamento fuori dal ritmo semestrale previsto, gli è stato scortesemente negato.
Per riuscire ad avere un appuntamento deve ripetutamente mandare una lettera di denuncia all’Amministrazione dell’Ospedale e, una volta ricontattato formalmente al telefono, gli viene detto che non c’è niente da fare, che la malattia è fatta così e la terapia è quella.
Ovviamente stiamo parlando del più importante centro ospedaliero italiano di riferimento per questa sindrome Ha provato a volte a chiedere un parere su metodi di cura alternativi e, naturalmente, è stato deriso.
Gli propongo la seconda figura di riferimento del nostro team: un neurologo, con formazione assolutamente tradizionale e ospedaliera, ma con un significativo percorso di analisi personale. Ritengo che sia essenziale per Giulio avere un interlocutore del tutto negli standard convenzionali, ma che sia in grado non di fargli esclusivamente una visita protocollare, ma di dargli uno spazio di parola. Facciamo un primo incontro a tre e successivamente lui potrà avere un rapporto diretto col medico. La questione, ovviamente, è quella dell'Interferone. Giulio vorrebbe una garanzia ufficiale sulla sua inefficacia. Il nostro neurologo, naturalmente, se ne guarda bene dal colludere con la sua domanda, ma gli permette di articolarla e gli offre onestamente anche tutta la documentazione - assai scarsa, ahimè - sull'efficacia del farmaco e su eventuali alternative farmacologiche comunque standard (il cortisone, ad esempio). Gli offre inoltre l'indicazione anche di un altro collega ospedaliero, con cui ulteriormente confrontarsi durante le crisi.

A chi serve la malattia?
Ciò che ne ricaviamo, però, da tutto questo, è l'emergere di un "conflitto di autorità" che permette l'esplorazione della scena familiare, fino ad ora esclusa dal discorso. In effetti, Giulio comincia a realizzare di trovarsi preso in mezzo ad un gioco in cui vede che la malattia appartiene più agli altri, che a se stesso.
I genitori si rivolgono a lui attraverso il sintomo e gli organizzano, senza consultarlo, ogni sorta di disperato tentativo terapeutico, che va dall'Interferone, fino ad esorcismi di paese, mischiati alla fede per Padre Pio.
L'iniezione di Interferone si evidenzia come un rituale familiare, per controllare che lui non eviti la dose.
Tutti gli affetti vengono veicolati dal farmaco in un'atmosfera di iperprotezione: lo trattano come un bambino, ma nessuno gli chiede mai come sta, né cosa stia vivendo.
"A chi serve, dunque, questa malattia?" - si chiede. La battaglia per la scelta della terapia diventa così una strada verso un processo di individuazione, in cui però Giulio cerca di opporre, all'autorità familiare, anziché la sua autorità di individuo adulto, quella dell’analista e dell'équipe, facendo leva sulle medesime armi. Ripercorrendo alcune tappe della sua vita, Giulio realizza che le scelte le hanno sempre fatte i suoi "per il suo bene": la scuola, i vari lavori, gli amici, le ragazze; il calcio stesso era, in realtà, la passione di suo padre. Realizza di non essersi iscritto a Psicologia a Padova, per non "abbandonarli" e aver optato per un lavoro che soddisfacesse suo padre e li aiutasse economicamente. Così, fin nelle più piccole cose: i vestiti, il cibo, i divertimenti. Già, i divertimenti erano comunque stati assorbiti per anni dall'attività agonistica del calcio, che forse non aveva mai scelto, ma rispetto alla quale dava sempre il massimo. Ma mai una volta che suo padre l’avesse gratificato per la sua eccellenza: “Hai fatto solo il tuo dovere!” – gli diceva. Cosa che Giulio ha sempre considerato con gratitudine, perché lo “spingeva a dare sempre di più”.

Una profezia autoavverantesi
Riporto l'elaborazione sulla fase scatenante: la ripetizione di una distorsione alla caviglia dopo 13 anni da una precedente alla stessa articolazione; l'interruzione del calcio, che sembrava essere la passione della sua vita e poi la ratificazione di questo “gettare la spugna”, con l'apparizione della sindrome.
In effetti, fin da bambino il calcio era stato scelto dal padre, che lo accompagnava ad ogni allenamento e partita. Fin da piccolo sentiva la fatica di questa aspettativa paterna nei suoi confronti e gli ritorna in mente come lo colpivano, quasi con attrazione e timore al contempo, i bambini sulla sedia a rotelle, rispetto a cui aveva fantasie di potere, in un futuro, fare la stessa fine.
Ci colpisce molto la potenza di questa profezia "autoavverantesi", come via d'uscita dalla domanda paterna e cominciamo a ipotizzare che anche la prima distorsione della caviglia, a 13 anni, agli esordi dell’adolescenza, fosse un agito inconscio di sottrazione. All'epoca della seconda e decisiva distorsione, in realtà, si era aperto un conflitto d'autorità, fra il calcio, cioè suo padre, e la prima fidanzata importante, quella che non piaceva ai suoi e che lo aveva messo di fronte alla scelta: "O me, o il calcio". Quando la lesione lo tolse dall'imbarazzo della scelta, tuttavia, lasciò la ragazza comunque, mentre il padre, visto che lui s'era fermato, spostò tutte le attenzioni sull'altro figlio, minore di 5 anni, anch'egli avviato al calcio agonistico, per cominciare a seguirlo a tempo pieno.
Inconsciamente, Giulio deve aver vissuto questo voltafaccia del padre tutt'altro che come liberazione, bensì come l'effetto di una punizione severa, come una ritorsione per un’irrimediabile delusione paterna. Dopo 20 anni di primato, aveva venduto come Esaù, per un piatto di lenticchie, la sua corona di primogenito, per l'amore di una ragazza.
Tutto questo disvelamento, in realtà, prenderà forza nella cura soltanto dopo un altro intervento sul corpo, poichè la modalità denegatoria e scotomizzante di Giulio lo rende come impermeabile alle interpretazioni, di cui si appropria in una forma di fuga razionalizzante (Ad esempio, in relazione al primo sogno, le sue associazioni si erano limitate a: "La destra è la parte maschile, i capezzoli sono un elemento femminile; la mia parte sinistra è quella più malata, la destra è più forte. L'una invade l'altra". Al di là del fatto che la parte destra del suo corpo non è affatto la più forte, ma la più "muta", è indubbio che Giulio abbia colto questo gioco di splitting e di ripiegamento difensivo nel corpo. Anche la sua interpretazione simbolica della parte destra e sinistra mira alla comprensione di un processo di defallicizzazione immaginaria che ha comportato lo scatenamento della sua malattia, in rapporto al conflitto fra la richiesta della ragazza e quella implicita del padre. Le due ragazze del sogno mettevano in scena il tema della scelta spostandolo dal personaggio del padre, mentre il contesto dei ragazzi e l'idea del bagno richiamava la cornice della squadra e dello spogliatoio. L'effetto dell'essere "lasciato cadere" dal padre durante la sua convalescenza, vero e proprio impatto con la castrazione immaginaria, ha una ricaduta nachträglich — come direbbe Freud — sulla reale distorsione, che sarà senza soluzione di continuità con l'apparire, sul medesimo arto distale, dei primi sintomi di sclerosi.
Nel frattempo, tuttavia, Giulio comincia ad accorgersi che le crisi hanno un ritmo collegato alla vicinanza dei suoi, in particolare di sua madre, che tiene tutto il controllo della situazione e usa il padre come guardia del corpo della malattia del figlio.
Dopo questa fase di elaborazione il nostro cambia lavoro e riprende con grande entusiasmo e gratificazioni: viene spesso inviato in missione in varie parti d'Italia affrontando ritmi molto stressanti e tuttavia reagisce con grande energia, che contrasta le emorragie energetiche e gli stati astenici e di prostrazione, accompagnate dalla dolenzia e dalle parestesie del corpo di quando è a casa.

Un "ricordo-schermo"
Il nuovo punto di svolta avviene lavorando nuovamente sul Fegato, con una tecnica che combina la manipolazione osteopatica viscerale con una "recessione d'età". La sollecitazione dei processi somato-viscerali può infatti riattivare della memorie guidandoci verso ricordi-schermo in modo preciso, come se sfogliassimo un archivio-dati. Il corpo ci dà dei feedback subliminali del riaffiorare di memorie emotivamente significative attraverso la micromotricità viscerale, oppure in forma più macroscopica interrompendo momentaneamente il ritmo cranio-sacrale, o modificando estemporaneamente la normotonicità di un qualsiasi muscolo utilizzato come indicatore di feedback (Scognamiglio, 2003).
In quella seduta il corpo di Giulio ci ha guidati in una scala cronologica all'età di 17 anni, e prontamente ne è emerso un ricordo: un amico che ha lo stesso nome del fratello e che lui stesso presenta come "fratello", viene a casa sua con una ragazza, in una notte d'estate in cui i suoi erano in villeggiatura e fa l'amore con lei nel letto dei genitori. Emerge col “complesso fraterno”, tutta la gelosia e l'invidia del suo essere ancora "vergine", mentre il coetaneo, sfrontatamente consumava, sul sacro talamo dei genitori, il suo primato virile. L'effetto sulla fascia viscerale è eclatante: c'è un vero e proprio "rilascio somato-emozionale" (il termine è di J. Upledger, anche se il nostro contesto analitico se ne distanzia fortemente. Vd. Upledger, 1998).
Emerge l'impossibilità di sperimentare il vissuto di rabbia e di violenza, che autori come Dejours (1989) o Cremerius (1976) riscontrano nei quadri somatici, che non è mai riuscito ad incanalarsi verso l'esterno nella sua vita ed affiorano vissuti autolesionisti dell'infanzia in relazione alla gelosia per il fratello, che erano stati rimossi. Da bambino aveva talvolta l'impulso di strangolarsi come reazione alla gelosia.

L'isterizzazione del sintomo
Dopo questa apertura Giulio comincia a leggere gli aggravamenti e i miglioramenti come segnali: forme di “angoscia-segnale”, quando le sue relazioni quotidiane minacciano la sua integrità narcisistica, facendogli intendere di perdere una sfida. Sta molto meglio e riesce ad affrontare intere notti divertendosi in discoteca, o lavorando molto, correndo sotto la pioggia o giocando a calcetto per divertirsi quando sente di essere lui a deciderlo. Il sintomo ha quindi preso una piega isterica che può consentire una lettura simbolica. Le crisi, cioè, possono essere concepite in un movimento di riorganizzazione evolutiva. E' ciò che, ad es. Dejours (cit.) definisce "somatizzazioni simbolizzanti" dove il corpo malato diviene strumento di mentalizzazione, in contrasto alla concezione di "disorganizzazione progressiva" con cui Marty definisce il processo di demolizione dei meccanismi di difesa e la neutralizzazione dei processi preconsci (Marty, M'Uzan, David, 1963).
In realtà è come se si trattasse di un medesimo crinale con i due processi contrapposti. Il corpo sta sul crinale e funziona, nella costruzione del sintomo, come punto di rottura, "diabolico", dei processi rappresentazionali, di fronte ad una scena irrappresentabile. Dall'altro lato il corpo, può essere concepito, in psicoterapia somatologica, come elemento rivelatore, dalle possibilità simboliche feconde per poter riattivare i processi di simbolizzazione. L'approccio somatologico si rivela, allo stesso modo, molto fecondo anche nell’approccio alle psicosi basali (vd. Scognamiglio 2003) dove sul piano della struttura psichica, ma non somatica, si sono interrotti dei ponti essenziali (vd. "processo referenziale") verso la simbolizzazione.
A questo punto del percorso psicoterapeutico Giulio è in grado di parlare delle proprie crisi e l'elaborazione fantasmatica può appoggiarsi proprio alla lesione, entrando in un dinamismo che si rivela anche nel decorso oscillatorio della malattia.

L’Unterdrückung e l’alterazione delle vie motorie
Ritornando al nucleo fantasmatico emergente, troviamo nel processo di somatizzazione un meccanismo omeomorfico alla Unterdrückung, alla “repressione”, in senso freudiano, della reazione di violenza. Questo concetto dinamico che Dejours (cit., p.39) riprende per distinguerlo dalla Verdrängung, dalla “rimozione”, in quanto quest’ultima agisce, di fatto, solo su pensieri rappresentati e simbolizzati, mi sembra in sintonia, anche se si riferisce ancora a un modello energetico, con gli altri costrutti che parlano di “non compimento” dei processi di simbolizzazione, come quello della Bucci. Dejours interpreta, infatti, la degradazione della violenza non espressa, come un residuo di eccitazione attivo che conduce alla somatizzazione, sulla linea di Alexander (1951) e della psicosomatica classica. Abbandonare totalmente la metafora energetica, come invita a fare la Bucci, lascia in sospeso le ipotesi interpretative sulla “scelta d’organo”, mantenendo il modello piuttosto astratto. Probabilmente è solo questione di tempo perchè la teoresi di un costrutto così fecondo si approfondisca anche nella sfera della clinica psicosomatica.
Al momento e per il nostro caso ci sembra di qualche interesse tenere buona la metafora interpretativa del modello energetico. Per Dejours, in effetti, che riprende Fain e Marty (Fain, 1966; Fain, Marty, 1964) la “violenza” è il nucleo basale del fenomeno psicosomatico: essa nasce quando il soggetto è costretto ad affrontare una situazione reale che riesce ad oltrepassare la barriera della Verleugung, della “sconfessione” (vd anche, per una disquisizione filosofica dei termini freudiani, Scognamiglio, 1991, pp. 190 e sg.), producendo uno stato d’angoscia attuale (nevrosi d’angoscia) che la psicoterapia dovrebbe facilitare, fino al disvelamento di una “verità essenziale. Il fenomeno alessitimico che si presenta per lo più nei casi di malattia organica verrebbe così tradotto, nel costrutto di Dejours, come un effetto transferale difensivo che mira a “pietrificare” l’Altro per difenderlo o difendersi dalla violenza relazionale, variante concettuale della cristallizzazione olofrastica dove il Soggetto e l’Altro fanno “Uno”, un solo corpo. In ambito psicosomatico, l’olofrase implica effettivamente una posizione da cui non è interrogabile la posizione dell’Altro che tuttavia parassita il corpo del soggetto, fa sintomo, in quanto il soggetto lo suppone senza poterlo valutare (vd. GREPS).
Per Dejours il soggetto deve mantenere l’Altro in uno stato di “non-esistenza” psichica (Dejours, cit., pag. 46) come contro polarità della propria scissione. L’interpretazione del nucleo di violenza comporta, evidentemente, il mettere il soggetto alle strette con i propri meccanismi di omeostasi patologici e quindi rischiare di rinfocolare di continuo la crisi.
Sul piano della patologia somatica parliamo di “omeomorfismo”, poiché la demielinizzazione del sistema nervoso bene rappresenta la tensione interna del sistema funzionale che si autoconsuma come un motore che gira a vuoto vorticosamente. L’attività rimane potenzialmente all’interno del sistema anziché esplicitarsi nella manifestazione motoria. Sappiamo ormai, da numerose ricerche in ambito neurologico, che la sola immagine mentale di un’azione è in grado di coinvolgere le aree premotorie e attivare l’aumento dei potenziali muscolari (ricerche su immagine mentale); tanto più, il coinvolgimento emozionale è in grado di generare schemi d’azione-inibizione a livello cerebrale, monitorabili sul piano neuromuscolare (Scognamiglio, 1998). Ancora più interessante è notare come l’irrigidimento tetanico e la prostrazione, contrastino, in Giulio, con la fluidità motoria e l’energia di quando decide di correre, ballare, guidare per i lunghissimi viaggi di lavoro, esprimere cioè, liberamente, una fallicità che non sente minacciata.
Cremerius citando, tra l’altro, vari autori che si sono occupati di artrite reumatoide, analizza l’etiologia somatica della sindrome come fenomeno di usura (in effetti anche nella storia della medicina comportamentale, il termine “stress” introdotto da Cannon, deriva dal linguaggio della meccanica, riferito proprio all’usura della macchina) dovuto ad “archi riflessi patologici che agiscono sulle articolazioni con un eccesso di eccitazione neurale attraverso il midollo spinale e il cordone limitante” (Cremerius., 1976, pag. 217). Il che, per esempio nel caso della poliartrite inverte il processo etiologico fra causa ed effetto: non sarebbe, cioè la poliartrite causa dell’aumento patologico della tensione muscolare, ma il contrario, cosa riscontrabile a livello macroscopico dal cointeressamento, nelle forme di reumatismo cronico, delle guaine tendinee e delle borse mucose delle articolazioni colpite. Cito questo studio, per quanto datato, per gli spunti interessanti a riflettere sul fatto che il modello medico non ha interesse per le dinamiche processuali e questo è fortemente limitante sul piano terapeutico, mentre noi ci muoviamo con l’obiettivo di non sconfiggere il sintomo ma, dove è possibile, di cavalcare il processo. Non ci è di utilità alcuna partire dalla sclerosi multipla come un dato, quanto esplorarne le dinamiche evolutive. E’ qui che vediamo, nella storia di Giulio, un arto che dà dei segnali attraverso le due lesioni, una al tempo dell’ingresso nell’adolescenza e un’ altra correlata alla prima relazione affettiva significativa. Nella nostra esperienza, un trauma non è mai accidentale, ma rivela sul piano somatico tutta una “predisposizione” all’incontro con l’evento, di punti di rottura strutturali (Scognamiglio 1998) cui si somma o con cui interagisce la dinamica psicoaffettiva.

La minaccia narcisistica
Che si tratti, ad esempio di un “No!” agito nel corpo (Cremerius, cit.), o di un nucleo di violenza sopraffatto (Dejours, cit.) indubbiamente il fallimento del processo di simbolizzazione (Bucci, cit.) sospende, da allora, il soggetto psichico in una dimensione limbica, olofrastica (Lacan, cit.) rispetto a processi che nel corpo continuano il loro percorso evolutivo subliminalmente rispetto alla coscienza del soggetto, senza possibilità di riagganciarsi a una temporalità psichica in evoluzione.
Nel nostro caso, al momento, è riconoscibile solo il tratto della violenza edipica relativa al fratello che, a partire dalla sua nascita, fissa Giulio in un debito fallico incolmabile delle aspettative genitoriali, agendo retroattivamente su probabili fantasmi arcaici legati alle relazioni con le cure primarie. Questa minaccia narcisistica si incarna non solo nella patologia somatica che disgrega l’imago corporea, ma trova anche a livello psico-mentale, in senso topico, una difesa che ne assicura l’omeostasi patogena, in uno splitting fra l’esperienza percettiva cosciente e quella elaborativa inconscia saltando il livello di vigilanza preconscia che apre alla dimensione della réverie, cioè del processo rappresentazionale referenziale.
L’organo o meglio la funzione colpita è in questo caso il sistema nervoso centrale, ossia la radice stessa della motricità e quindi dell’espressione più radicale del registro volitivo della soggettività.

Un conflitto d’autorità
Giulio comincia a realizzare che la malattia risponde a un’economia affettiva familiare che soddisfa tutti: il fratello ha riconquistato il padre, ma lui non l’ha perduto definitivamente, perché ora lo segue, risarcendosi, in tutte le vicissitudini ospedaliere. Riflette anche sul fatto che la madre si nutre della sua sofferenza, che diventa l’alibi per poter mantenere un controllo affettivo sul “bambino” che non diventerà mai adulto e che lei potrà accudire per tutta la vita. Giulio comincia a realizzare di avere esigenze che, fino ad ora, non aveva mai visto incompatibili con quelle genitoriali, con cui ha sempre condiviso tutto e ciò mette in allerta il sistema: la madre comincia a dare segni d’angoscia e a somatizzare, giustificandosi con il dolore che prova per la malattia del figlio e progetta una casa in montagna dove ricomporre la “Sacra famiglia” col figlio handicappato.
La battaglia si gioca scopertamente sull’Interferone. Solo dopo un certo tempo Giulio riesce a rivelarmi che la sua volontà di dichiarare al medico ospedaliero di non volere più assumere il farmaco, è venuta meno a causa della presenza di suo padre al colloquio. Ci rendiamo conto a questo punto che l’unico luogo dove i suoi genitori non sono ancora penetrati fisicamente è quello analitico, ma che a questo punto anche la terapia corporea che l’aveva inizialmente orientato verso l’Istituto, poteva giocare come una polarità del conflitto fra autorità.
In effetti lui utilizzava gli argomenti imparati alla Scuola di Somatologia e tutta la filosofia dell’Istituto per contrastare l’autorità medica e genitoriale e ne usciva ogni volta ancora più sconfitto e fisicamente prostrato. Il suo corpo doveva dare ragione alle potenti minacce affettive dei suoi, che non avrebbero tollerato alcuna perdita di controllo.
Decisi di radicalizzare ancora di più la neutralità dello spazio analitico togliendomi da quella posizione transferale che aumentava la scissione. Convenimmo che, poiché riconosceva “giustamente” l’autorità di suo padre, non fosse proficuo continuare ad alimentare il conflitto all’interno del suo corpo, con cure che lui stesso aveva colto antitetiche per operatività e per principi.
Poiché la cura “alternativa” non si peritava di offrirgli alcuna garanzia di efficacia e in più risultava antidotata, nei suoi deboli processi, dalla potenza del farmaco chimico, lo scoraggiai a continuare qualunque tentativo su questa via, con me o con altri.

La ritirata
L’équipe si ritirò discretamente dal caso, fatta eccezione per le sedute di psicoterapia che erano state giudicate luogo “neutro”, laboratorio di idee, di parole, senza alcun oggetto immaginario specifico in campo, che potesse minacciare scopertamente la potenza e l’autorità altrui. L’effetto pacificante fu immediato e sufficiente a ridare energia per un’altra svolta. Il setting, infatti, fu salvato perché non era collocabile nell’immaginario parentale su un piano di competitività, che nella cultura familiare, evidentemente si può giocare solo sul corpo: un corpo da accudire, curare, rimpinzare, amare, coccolare nell’immaginario materno; un corpo atletico, lavoratore indefesso, in quello paterno. Un corpo però disabitato: è questo che chiede, implicitamente, il patto; un corpo svuotato da istanze soggettive; un corpo oggettivato dal godimento morboso, ma non interrogabile del genitore.
Emerge, a partire da un inizio di poussée che riusciamo a collegare alla contingenza dell’acquisto di un auto, il ricordo di un imbroglio molto serio subito per un acquisto precedente, che coinvolse anche suo padre che, ingenuamente, aveva dato fiducia ai truffatori. Emerge una rabbia determinata dal senso di impotenza di fronte all’autorità altrui rivestita di affetto e ragionevolezza, ma non di infallibilità.
Sul versante medico, nel frattempo, le dosi di Interferone, poiché nei due anni precedenti non avevano sortito alcun effetto sono state addirittura raddoppiate e adesso è stata aggiunta una terapia cortisonica. Di fronte ai cambiamenti di performance e ai curiosi ridimensionamenti dei foci cerebrali, è prevalsa comunque l’autorità assoluta dei protocolli che non sono interessati a variazioni soggettive, magari fondate su una semplice autosuggestione. Giulio comincia a percepire di essere oggetto di una “truffa” ben più radicale, che coinvolge i suoi affetti primari e, mentre non riesce a dire “No” all’Altro, ha violente recrudescenze sintomatiche.

Che vuoi?
Questo porta però a radicalizzare la sua domanda d’analisi: “Cosa vuole, dal momento che ciò che credeva di trovare, non è qua?” – gli chiedo. Mi rendo conto che, spostandomi completamente dall’asse immaginario del transfert, dove avevo accettato di recitare fino a quel momento il copione di Giulio e proponendogli in cambio un’astinenza radicale, mettevo a dura prova la sua sopportabilità della frustrazione, ma ritenevo che il gioco valesse la candela e che fosse giunto il momento per lui, di confrontarsi con questa rabbia che lo teneva sospeso all’aspettativa di un’antica promessa/minaccia dell’Altro.

Il secondo sogno
Un sogno fu decisivo: Giulio si trova a fare una gita coi suoi e dimentica nel bagagliaio dell’auto una grossa cartella con dei disegni da consegnare alla sua ragazza. Vi rinuncia perché la cartella è troppo ingombrante e sembra sconveniente in quel contesto. Così si trova seduto a un tavolo dove la cameriera gli serve un sacco di portate prelibate, ma lui non ha ordinato nulla. La cameriera gli chiede cosa c’è che non va e lui ribadisce di non avere affatto ordinato. Nel dubbio se mangiare o meno, vede suo padre in piedi, accanto al tavolo, con le braccia ciondolanti, che lo fissa. Gli chiede, a sua volta, se c’è qualcosa che non va, ma il padre non risponde. L’ansia comincia a montare come se fosse successo qualcosa di grave al padre e nella scena cade un velo, che la trasforma in bianco e nero. Si sveglia in preda all’angoscia.
Si radicalizza il tema della scelta se mangiare o meno ciò che l’Altro gli propina. Gli si presentifica la scena dell’ultimo incontro col neurologo in ospedale che gli raddoppia il trattamento e lo sguardo muto di suo padre che gli impedisce di rifiutare, mentre ritorna il tema della rinuncia nei confronti della ragazza. Poi emerge il tratto identificatorio con il padre castrato, cui presta le sue braccia anergiche, senza vita. Imago cristallizzata nel tempo come la foto in bianco e nero. E ora Giulio può dirsi che, in realtà, ha prestato, dall’età di sei anni, le gambe al padre, per realizzare il suo sogno mancato di diventare un calciatore. Quelle stesse gambe che, profeticamente aveva visto immolate al desiderio paterno al punto da identificarsi con i ragazzini paraplegici. E così affiora la storia di un bambino che per i primi cinque anni di vita fu affidato alla nonna, vedendo i genitori solo la sera perché dovevano lavorare. Poi la nonna muore per un tumore e la madre, in attesa del secondo figlio, è costretta ad abbandonare il lavoro, nonostante le ristrettezze economiche, per accudirli. Però un secondo abbandono lo attendeva con la nascita del fratello. Il padre s’era dovuto caricare faticosamente il fardello familiare, avendo sempre vissuto nelle rinunce ad ogni piacere della vita e ritrovando un risarcimento di una carriera calcistica mancata, nel figlio da avviare al posto suo, all’agonismo.
Per uscire dalla cristallizzazione olofrastica, cioè dall’adesività all’Altro genitoriale il cui desiderio era ininterrogabile, ma che Giulio sosteneva con il suo stesso corpo, era inevitabile innanzitutto uscire dalla dimensione speculare determinata dal transfert, che fissava l’analista in un antagonismo di cui faceva le spese Giulio stesso. Una volta collocatomi all’esterno, la garanzia per il nostro era che fosse preservato, in ogni caso, un luogo del desiderio, ma altrove rispetto allo sguardo paterno e alle cure materne, in modo da modulare questa adesività del soggetto e introdurre uno spazio sufficiente nella dialettica immaginaria con le immagini genitoriali, da potergli permettere di intravvedere la loro domanda, il loro stesso rapporto col desiderio e scollandosi così dalla posizione di percepirsi il loro unico oggetto.
A partire da qui, Giulio cambia nuovamente registro: la sua attenzione si sposta dai sintomi rispetto ai quali fino ad allora mi aggiornava ad ogni seduta, verso orizzonti più progettuali. Non mi nutre più con i suoi sintomi come chiede di fare sua madre e comincia a guardarsi intorno per cercare una casa propria. Ricomincia a frequentare gli amici e conosce una nuova ragazza con cui sperimenta meravigliose notti insonni senza aggravamenti sintomatici. Nel rispetto dell’astinenza dalla cura “alternativa”, mantiene però in standby anche l’Interferone, fino a quando non fosse riuscito “a fare una scelta più consapevole” e nel frattempo comincia a fare esercizio, come sta imparando nella Scuola di Somatologia, di ascolto interno: delle sensazioni somatiche, delle tensioni fasciali; cerca di seguire lui stesso queste tensioni e alleggerisce la fascia. Si sposta cioè da un’attitudine passiva, di affido del proprio problema alle cure dell’Altro, a un ascolto attivo e dialogico con il proprio corpo.

L’ultima risonanza magnetica
L’ultima risonanza magnetica encefalica, nell’agosto di quest’anno, quindi a circa dieci mesi dall’inizio della psicoterapia, mostra un’ulteriore considerevole riduzione dell’alterazione dell’emisfero sinistro contro nuove limitate lesioni nella regione frontale posteriore.
Lo stupore dei medici alla notizia che lui non ha più preso l’Interferone, viene subito trasformato in nuova minaccia, dal momento che “fino ad ora è stato fortunato, ma poi non lo sarà più”. L’andamento dialettico dei risultati degli esami clinici viene interpretato come segno di variabile poco maneggevole rispetto agli standard e, secondo i medici, conviene non prenderla nemmeno in considerazione. E i vissuti soggettivi? E i considerevoli miglioramenti nella performance? “Caso…, suggestione…, eccezione…”
Però Giulio, questa volta, è andato solo all’appuntamento in ospedale e ha dichiarato apertamente la sua decisione di non seguire più il protocollo farmacologico, chiedendo però di essere ugualmente monitorato dalla struttura ospedaliera.
Ora ha capito, finalmente, cosa chiedere all’esperienza analitica: non chiede di salvarlo dalla morte, poiché tutti dobbiamo morire; chiede di aiutarlo a riconquistare la dignità di un soggetto responsabile delle proprie scelte.


Riassunto:

Un Caso di Sclerosi Multipla: approccio psicosomatico secondo il modello somatologico
L’autore descrive le tappe e gli snodi fondamentali di un Caso di Sclerosi Multipla, il cui protagonista presenta una condizione riconoscibile come alessitimia: ovvero una situazione — in un’accezione un po’ più allargata rispetto al costrutto di Parker e colleghi (2000) — in cui un egli si ritrova espropriato della propria dimensione soggettiva, ridotto al silenzio, senza coscienza della sua implicazione profonda nelle proprie questioni e, pertanto, senza la possibilità di elaborare emozionalmente la propria posizione. Infatti, le questioni, spogliate di senso e di parola, si giocano esclusivamente a livello del corpo, oggettificate e difficilmente interrogabili.
Tuttavia, al centro del lavoro, vediamo non il caso in sé, ma il modello di approccio terapeutico, che è nuovo sia per l’alessitimia che per la malattia organica degenerativa. Questo modello assimila, nel contesto della relazione analitica, sia il lavoro sul e attraverso il corpo, capace di riattivare processi di mentalizzazione e quindi accesso a livelli di simbolizzazione di qualcosa che nel sintomo organico si era depositato in forma indecifrabile, sia il lavoro di rete, che, ad esempio nelle condizioni di crisi psicotiche, si avvale di un équipe di diversi operatori, presenti sulla scena del setting, capaci di modulare le dinamiche inconsce. Infatti il transfert viene gestito non esclusivamente come un rapporto a due, ma si gioca nel complesso di tutti gli elementi che accompagnano il soggetto nel suo percorso.
Agendo sempre in quest’ottica interpretativa, gradualmente si costruisce un setting complesso e multilivellare, secondo il modello di “rete” (Folgheraiter, 1994; 1996), nel quale nessuna operazione è mai casuale, ma volta a far sì che il soggetto riesca a rimettere in scena conflitti passati, a ridare spazio a situazioni negate, a trovare un posto, la voce per raccontare, denunciare, mettere finalmente in questione prima gli altri e il contesto che lo circonda, e poi se stesso, in un processo di graduale presa di coscienza e di responsabilizzazione. I cambiamenti fisici, ottenuti tramite l’impiego di diverse tecniche corporee, diventano l’occasione per dare inizio proprio ad una messa in forma elaborativi di emozioni e rêverie immaginativa, ossia di un processo di mentalizzazione del corpo precedentemente interdetto. Emerge così l’idea della malattia non più come un improvviso accidente esterno, ma come il risultato di un processo di costruzione dell’identità soggettiva che affonda le radici nell’infanzia e nel contesto familiare, e da qui in poi può cominciare un lavoro, impossibile senza la precedente costruzione del modello.
Summary: A Multiple Sclerosis Case: psychosomatic approach according to the somatological model
The author describes through the steps and the main crossroads of a Multiple Sclerosis Case, whose main character presents a condition known as alessithimy — used in a more complex meaning than Parker and colleagues’ (2000) — in which a person is expropriated of his own subjective dimension, silenced, without conscience of his deep personal implication into his situation and, therefore, without the chance to emotionally elaborate his own position. As a matter of fact, the problems, deprived of meaning and words, play at body level only, objectified and very uneasily questionable.
Though, the focus of the work isn’t the case itself, but the model of therapeutic approach, which is new both for alessithimy and for degenerative organic illness. This model involves, in the context of the analytical relationship, both the work on and with the body — able to activate mentalization processes and thus to grant the access to symbolic levels of something that had been unintelligible in the organic symptom — and the “net” work, which, in situations such as psychotic crises, avails itself of a different operators team, who play on the setting scene, and who are able to modulate the unconscious dynamics. In fact, the transfert isn’t dealt with only as a two people relationship, but plays in the whole system of the elements that accompany the subject in his course.
Always acting with this interpretative point of view, gradually, a complex and multilevel setting is built, according to the “net” model (Folgheraiter, 1994; 1996), in which no act is ever casual, but aims to make it possible for the subject to perform past conflicts and to give room to removed situations, the subject finds his place, his voice to narrate, to denounce, to dispute in first place the others and the context and then himself, in a process of gradual acknowledgment and acceptance of responsibility. The physical changes, obtained by using different body techniques, according to the somatological trend of the Istituto di Psicosomatica Integrata, become the chance to start an emotional elaboration and an imaginative réverie, that’s to say a body mentalization process, that was previously blocked.
This way, the idea of illness no more as an external accident, but as the result of the subject identity construction, that finds its roots in the subject’s childhood and in his family context, is born, and a work, impossible without the previuos construction of the model, can start.


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Note:

(1) Attualmente l’Istituto organizza, oltre a corsi di perfezionamento in Psicosomatica secondo il modello somatologico rivolti a medici e psicologi, anche una scuola quadriennale per consulenti in medicine complementari.
(2) Il Vega Test è nato in Germania, negli anni ’60, dalle ricerche del medico Helmut Schimmel: si tratta di un apparecchio computerizzato che, utilizzando elettrodi su punti di agopuntura, è in grado di indurre un campo elettrico a bassa frequenza che verifica la resistenza epidermica. Apposite fiale test vengono inserite ne circuito per valutare quali sono in grado di alterare questi valori di resistenza, che corrispondono a specifici circuiti diagnostici.


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