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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: ARTE E PSICOTERAPIA
Area: Arteterapia


Gesti-immagine di frontiera: l'arteterapia con pazienti psicotici

Marco Alessandrini



Psichiatra, psicoterapeuta, Responsabile Unità Operativa Territoriale del Centro di Salute Mentale di Chieti, Professore a contratto presso l’Università di Chieti per l’insegnamento di Psichiatria nella Facoltà di Psicologia e per l’insegnamento di Psicosomatica nella Scuola di Specializzazione in Psichiatria, Direttore Scientifico della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Psicodinamica Breve (autorizzata dal MURST).

Indirizzo per la corrispondenza:
Centro di Salute Mentale (C.S.M), Viale Amendola n. 47, 66100 Chieti (Ch),
tel. 0871-35.89.08/33, fax 0871-35.89.23; e-mail: lucesegreta@libero.it


Non solo le parole, ma ogni linguaggio, ogni significante, sia esso parola, immagine, gesto, musica, danza, si compone di due logiche compresenti: di “idee oggettive” e di emozioni soggiacenti. Due logiche, vale dire quella diurna o della coscienza, e quella notturna o dell’inconscio, che possono collaborare oppure entrare in conflitto.

Il dialogo tra queste due logiche, e quindi la produzione di significanti o di simboli che siano il frutto di entrambe - vale a dire del riflettere e del sentire, del riflettere e del sognare, dell’afferrare e del lasciarsi invadere e fecondare - è secondo la psicoanalisi, ma anche secondo l’arte, il significato del vivere: ciò che dà un senso alla vita. Ed è ciò di cui la vita di chiunque, anche senza averne coscienza, consiste.

Lo conferma il fatto che chi non riesca a creare, anche istintivamente e inconsapevolmente, un dialogo e un qualche equilibrio tra queste due componenti soffre di sintomi. Soffre di un’impossibilità a dare significato al proprio vivere. E questa è un’infelicità del vivere, l’unica ad essere davvero infelice.

Certo, tutti siamo inguaribilmente afasici, poco in grado di comprendere e di esprimere, in forma riflessiva e diurna, ciò che “notturnamente” pervade il sentire. Sempre un po’ ostacolati, nel procedere delle nostre riflessioni,e dei loro significanti da qualcosa di emozionale e di notturno a cui non abbiamo prestato attenzione e che inevitabilmente è sempre un “di più” di quanto sia possibile accogliere e contenere, significare e simbolizzare.

E’ questa anche una fortuna, il dono di una malattia che si chiama vivere e che è inguaribile perché sempre sospinge a essere più a fondo se stessi. La vita è una malattia creativa che sospinge a essere un “di più” emozionale che è sempre “altro” e “di più” di se stessi, e che perciò induce a evolvere, ad ampliarsi, a mutare. A vivere appunto, rendendo la vita – come ogni vita dovrebbe essere – una creazione continua, un comporre infinitamente se stessi.

Tuttavia, nelle persone psicotiche il riflettere e il sentire entrano in reciproco dialogo meno che in chiunque. In loro l’afasia è estrema. Riscontriamo un sentire vivissimo e violento, insieme a un riflettere logico incalzante, freddo e consequenziale, ma le due componenti - ciascuna dunque molto intensa e viva - sono affiancate e sovrapposte senza riuscire a incontrarsi, a dialogare. Sembrano ignorarsi a vicenda, tentando un impossibile incontro che in questo modo è semmai mescolanza, pulsazione di opposti in vertiginosa alternanza.

Qui le due logiche mancano di reciproca distanza: mancano di dialogo e di rapporto.

In una sua lettera, Jung scrive: “So fin troppo bene quanto sia difficile per un individuo prendere una piccola distanza dalla propria esperienza per poter cogliere la differenza fra l’esperienza autentica e ciò che si è fatto dell’esperienza”. E in un’altra lettera aggiunge: “Quando le immagini ti emergono e non vengono capite, allora sei in compagnia degli dèi overossia in compagnia dei matti (…) ma quando riesci a dire ‘questa immagine corrisponde a questo e a quest’altro’ riesci a rimanere in compagnia degli uomini”. Ponendoti anche in compagnia di te stesso, aggiungo io.

Mancando tale rapporto - l’incontro tra il riflettere e il sognare - non riescono a crearsi mai vere riflessioni, e neppure vere emozioni. Sia le riflessioni che le emozioni sembrano sempre di là da compiersi, quasi non riuscissero a nascere e a stabilizzarsi. Emozioni eternamente un po’ infantili o adolescenti, pur se si affannano a sembrare adulte.

E’ inoltre difficile entrare in rapporto con gli altri, perché fonte di stimoli ulteriormente enigmatici. Stimoli anch’essi commistamente riflessivi ed emozionali.

Perciò il trattamento psicoanalitico classico tenta di ricreare - peraltro non solo nelle persone psicotiche - il dialogo interno tra il giorno e la notte. E tenta di ricrearlo attraverso il rapporto con una persona - il terapeuta - in grado di incarnare, ma anche di tollerare e di aiutare a trasformare, ciò che di traumatico, di più incomprensibile e di inespresso il mondo notturno ed emozionale contiene.

Inserire in un setting psicoanalitico classico un procedimento di arte terapia - per esempio di tipo plastico-figurativo - a questo punto non è semplicemente offrire un linguaggio diverso da quello parlato. Le immagini sono un linguaggio uguale a ogni altro, in quanto anch’esse contengono le due logiche, il riflettere e il sentire. E se nella persona le due logiche non dialogano, non dialogheranno né nel linguaggio parlato, né in quello in immagini.

Il procedimento arte terapeutico inserisce invece il fare. E attraverso il fare inserisce il corpo, soprattutto il corpo preriflessivo, o quanto di più preriflessivo e di notturno procede incessantemente a “farsi” a partire dalla sensorialità.

Infatti, per disegnare - o per danzare, recitare, suonare e via dicendo - oltre che usare tutto il corpo, il che comunque accade anche restando seduti e parlando come nel setting classico, occorre in più accorgersi del corpo, e accorgersene ben più del solito, attivandolo più del solito – e abbandonandovisi – in buona parte inconsapevolmente. Occorre lasciare affiorare dentro di sé in maggior misura la sensorialità e l’emozione, che sono le radici corporee di tutto ciò che di inconscio e di notturno si è inscritto in noi, e che lì sempre rinasce. Occorre compiere semplici gesti che a nostra insaputa, ma grazie al corpo preriflessivo che invece lo sa, sono gesti-immagine: gesti che producono - e che anzi sono - tracce configurate, configurazioni.

Una ragazza che chiamerò Rosa, e che ha 24 anni, giunge in seduta dopo aver già tentato 2 percorsi di psicoanalisi. E’ in terapia psicofarmacologica con un antipsicotico e con uno stabilizzante dell’umore. A detta del padre, il solo ad accompagnarla, trascorre il tempo a realizzare disegni “satanici” ispirati a varie bands musicali, disegni che al padre risultano incomprensibili e inquietanti. Resta chiusa in casa, la sua vita trascorre immobile, avulsa dalla realtà relazionale e lavorativa e spesso – sono le parole del padre – estranea alla realtà “della logica”. Al punto da portarla a dire “cose senza senso”, a delirare.

La madre - sarà poi Rosa a dirmelo - è una donna “semplice”, una casalinga affettuosa ma in vario modo lamentosa e “malaticcia”. L’immagine che Rosa fornisce della madre non è significativamente neppure una vera immagine, e lo deduco anche dal fatto che io, al momento e poi in seguito, dentro di me sua madre non riesco assolutamente a immaginarla.

Rosa è straordinaria nel suo presentarsi corporeo, vale a dire mimico e posturale: un vero universo notturno mi travolge fin da quando per la prima volta apro la porta. Il padre mi guarda frontalmente ma lei, al suo fianco, è totalmente di spalle. E’ vestita accuratamente secondo un cliché tra il dark e il punk, sebbene al tempo stesso l’abbigliamento – insieme al trucco – suggerisca qualcosa di orientaleggiante, di cinese, qualcosa che ricorda la fredda spersonalizzazione di una bambola. Insomma, già l’accurata scelta del vestire rivela che Rosa ragiona e riflette, sceglie suoi modi d’essere in base alle riflessioni, ma nel contempo emana una notte a lei ignota, del tutto priva di dialogo con le riflessioni. Un sottofondo sensoriale e affettivo - il corpo preriflessivo, l’inconscio - che va a cozzare e a stridere con ciò che lei tenta di essere e di pensare sul piano riflessivo. Il riflettere e il sentire, troppo vicini e perciò mai in dialogo, si ostacolano a vicenda, e perciò né il pensare logico-riflessivo né il pensare emozionale-intuitivo si sviluppano a sufficienza.

Nel corso delle sedute questi suoi due mondi – la ragione diurna e l’emozionalità sensoriale notturna - in lei ma anche in me li avverto disgiungersi quasi non si conoscessero per nulla. Non si conoscono tra di loro, e perciò Rosa non conosce se stessa e non riesce mai a essere più pienamente un Sé.

Io, come di mi accade di fronte a ogni paziente psicotico, scopro a quel punto di non conoscermi a mia volta abbastanza: di non “sentirmi” a fondo, di essere potenzialmente sempre un po’ immobile in un limbo che è una vita mai abbastanza vissuta. Certo, la vita di Rosa lo è ben di meno della mia, ma non per questo la mia non lo è. E perciò, come al solito, dovremo guarire in due: tutti e due dovremo imparare a essere.

Alla terza seduta propongo a Rosa di eseguire un disegno. Mi sono accorto che a ogni mia interpretazione lei risponde “non so”, “non saprei”. E non per difesa, ma perché realmente lei “non sa”. E in parte perché non vuole sapere: le è più facile e connaturato - come dice Bion - porre in atto “attacchi al legame”, disgiungendo, piuttosto che connettere, riflessioni ed emozioni, e in parallelo mantenendo sovrapposti ma “slacciati” io e lei.

Realmente lei riflette, ma non sa mai bene su che cosa. Riempie perciò le sue riflessioni di fatti descritti sommariamente e di imprecise descrizioni di video musicali. E realmente lei “sente”, ma attraverso un sentire tanto violento quanto indefinito, limitato a poche reazioni esplosive ed essenziali. Tra queste, la rabbia verso gli altri, anzi verso chiunque perché – fin da quando era piccola – non hanno fatto altro che “deriderla” e “deluderla”.

Io però appunto propongo adesso l’esecuzione di un disegno.

Una domanda è d’obbligo: nel caso si adotti - come in questo caso - la mediazione plastico-figurativa, che cosa sono la tela o il foglio bianco? Sono la convocazione, all’esterno, di quella che io chiamo la soglia immaginale: l’area della psiche dove la notte e il giorno, il sentire e il riflettere si incontrano per la prima volta. Sono l’area sensoriale-emotiva, il corpo inconscio, ciò che Winnicott denomina psiche-soma.

Qui nascono ed emergono i proto-simboli, vale a dire stati interiori inconsci, “sopra” e “dentro” ai quali un riflettere anch’esso inconscio, già abbinato e presente, crea forme. Le quali sono dunque una prima con-formazione: qualcosa a metà tra l’informe e il simbolo, e perciò appunto un proto-simbolo.

Questo potere che ha il foglio – e in generale qualunque oggetto materiale – di convocare un primo atto di “messa in forma” della notte in giorno, atto generatore di protosimboli, è rafforzato e influenzato dalla presenza del terapeuta: è influenzato dal corpo inconscio o psiche-soma del terapeuta, o meglio dall’esperienza che il terapeuta ha fatto e fa, nella propria mente, della soglia immaginale.

Sono io infatti a proporre a Rosa di disegnare. E nel fare questo mi propongo come “conoscitore”: come soggetto-supposto-sapere – direbbe Lacan. Mi propongo come colui che convoca e desidera, che chiama e rende attivo il corpo-mente, lo psiche-soma. Perché non solo ne conosco l’esistenza, ma lo possiedo dentro di me in dialogo con la riflessione cosciente, potendo io perciò diventare portatore di ciò che Lacan, ancora, chiama il Simbolico.

Tuttavia sarebbe errato pensare che l’oggetto in sé, il foglio o la tela, abbiano il potere di provocare questa emersione. Lo hanno, ma nel setting psicoanalitico esso è potenziato e guidato dalla relazione, dunque dal terapeuta.

Ecco il disegno, il primo che Rosa esegue.

 

Come sempre, bisogna considerarlo alla stregua del primo sogno raccontato in analisi: è il “biglietto da visita” tramite cui l’inconscio o il Sé – direi la persona – formula il problema ma anche il progetto.

Di fronte al disegno, ponendomi come portatore del dialogo tra giorno e notte - dialogo che secondo me è il Simbolico - seguo il sentire attraverso il riflettere.

Ipotizzando inoltre che sia già in funzione, come in ogni relazione, un campo bipersonale - definizione utilizzata per la prima volta dai Baranger - raccolgo inconsapevolmente anche il sentire di Rosa.

Infatti il suo e il mio sentire, o meglio le nostre soglie immaginali, sono già in contatto o iniziano a esserlo. E proprio il foglio e il disegno sono il luogo in cui preconsciamente decidiamo e convochiamo questo contatto, ne prendiamo atto.

Procedo quindi a dire a Rosa varie cose. In breve, sottolineo che manca la parte inferiore del corpo e che dal collo in giù domina l’azzurro, quasi come per cancellare il corpo, il sesso, le sensazioni. “Il sesso non mi interessa”, commenta subito Rosa. Aggiungo che la ragazza disegnata sembra un’adolescente, e Rosa aveva comunque detto che si tratta della cantante degli Evanescence. Sì, sembra un’adolescente rimasta al di fuori del tempo, e perciò appunto adolescente, anzi “evanescente”.

Assomiglia anche a una bambola, a una sorta di contenitore per un corpo inconscio - uno psiche-soma - con il quale non c’è forse mai stato contatto. Un contatto che questo contenitore-bambola in qualche modo tenta di supplire e di vicariare, scavando in realtà all’interno un vuoto angosciante.

Winnicott, parlando dello psiche-soma, o meglio di quel suo equivalente o prodotto che secondo lui è il Vero Sé, scrive: “…il Vero Sé è la posizione teorica da cui provengono il gesto spontaneo e l’idea personale. Solo il Vero Sé può essere creativo e solo il Vero Sé può sentirsi reale (…). Il Vero Sé deriva dalla vitalità dei tessuti del corpo e dal lavoro delle funzioni corporee”.

(Ego distorsion in terms of true and false self (1960). In The Maturational Process and the Facilitating Environment, London, Hogarth Press, 1979).

Il vero Sé è già dentro quel vuoto “notturno” che promana dalla “bambola-adolescente” disegnata da Rosa. Una “bambola-adolescente” che l’analista, inteso qui come foglio bianco che si fa evocatore e portatore di un dialogo tra coscienza e inconscio, ha fatto emergere dal corpo inconscio di Rosa attraverso un fare e un gesto che nella relazione terapeutica - e dunque nel foglio che di essa è il campo bipersonale, il luogo - generano il proto-simbolo di una forma unica.

Qui questa forma unica contiene, in modo virtuale o assente, il Vero Sé, il vero sentire.

Ma questa forma unica è anche un involucro sostitutivo: non necessariamente, seguendo Winnicott, un Falso Sé, quanto una “protesi” insieme utile e imprigionante. Utile per sopravvivere, ma non per creare e comporre se stessi.

Si sarà notato che in seduta, con le mie interpretazioni – ormai unite a quelle di Rosa attraverso il “campo bipersonale”, e in questo caso attraverso il foglio che lo rappresenta - la coscienza riflessiva continua a lavorare, a tessere se stessa ma partendo dalla sua prima modalità contenuta nel fare, nelle mani e nel gesto, nell’area della mente che ho chiamato soglia immaginale.

Dunque in arteterapia la riflessione sviluppa se stessa a partire dal suo primo momento, nel quale è ancora strettamente unita alla notte.

Seguendo in questo Cristopher Bollas (Essere un carattere, 1992) si può dire che in questo modo, sotto lo stimolo dell’oggetto esterno e del fare corporeo a cui tale oggetto invita, un aspetto del Sé emerge dalla sua nuclearità inconscia, e viene perciò percepito come “intensità psichica” dall’ “Io inconscio”.

Quest’ultimo ha una propensione a “mettere in forma”, a “organizzare”: ha un eros di forma che è il desiderio di dare una forma unica a ciò di cui fa esperienza.

Ecco quindi che nella forma unica di un’idea o di un’immagine emerge e si raccoglie un agglomerato di immagini, di ricordi, di sentimenti, di percezioni: vale a dire un’ “intensità psichica” fino ad allora latente, una molteplicità di ”idee” inconsce” sensorio-emotive fino a quel punto del tutto notturne.

Questa forma unica che nasce è anche, nella terminologia di Freud, la Vorstellung o “rappresentazione”. Che poi volendo risalire alle origini, ovvero alla terminologia greco-antica, è semplicemente l’eidos.

L’arte terapia si propone di far emergere, dentro e attraverso il fare immaginale, l’eidos o proto-simbolo, sfruttando però un incontro relazionale che convochi il fare, potenziandolo e “rassicurandolo”.

Ecco, a partire da qui l’immaginale spicca i suoi piccoli, grandi voli. Che sono poi il procedere della psicoterapia a mediazione espressiva. E la riflessione germinale, che in questi voli - vale a dire nel corpo inconscio - è contenuta ancora in armonia rispetto alla notte del sentire, da lì finalmente nasce e si costruisce. A nascere e a costruirsi è in questo modo il dialogo reciproco tra la notte e il giorno.

Lacan rileva quanto sia necessario distinguere il dire e il detto, e definisce il dire come una dimensione soggiacente alla parola, ciò che la fonda. Se gli schizofrenici hanno problemi con la parola – e quindi anche con l’immagine, la musica e ogni altro significante – è perché hanno difficoltà a livello del dire: hanno difficoltà a far nascere dall’immaginale, nel primo inconsapevole contatto tra la riflessione e il sentire, una forma unica che sia eros di forma. Che sia desiderio.

In effetti è un volo, un volo desiderante ciò che Rosa disegna quando io le chiedo, dopo aver eseguito il primo disegno e averne parlato, di eseguirne un secondo. Le chiedo però di immaginarlo come se fuoriuscisse dal bianco del foglio: dal bianco inevitabilmente rimasto dentro il primo disegno.

Il secondo disegno - lo dico anche a Rosa - non deve essere lo sviluppo del primo, ma quasi un’efflorescenza che spunta fuori dal bianco. E che in questo modo, nelle mie intenzioni che a lei non esplicito, spunta fuori dal dire: è convocazione e fondazione dello spazio del dire.

Questo spazio interno, in arteterapia è la concretezza del foglio: il luogo di gesti-immagine che sono anche incontro. Sono l’aiutarsi reciproco, tra paziente e terapeuta, mediato da un oggetto esterno creatore di mutua distanza, di vero incontro.

Il secondo disegno è il seguente.

Rosa commenta: è una rarissima farfalla dell’Europa dell’ovest, una falena notturna dalle ali enormi. Si chiama Vanessa del Cardo, e sebbene sia nera, Rosa, ha “sentito” di volerla in giallo-rosa.

Nel precedente disegno lo sfondo – lo aveva detto Rosa nella fase interpretativa – era in viola perché immerso nella neve, freddo e cristallizzato. Ora io allora le suggerisco che sotto la neve, vale a dire sotto la chiusura, il pessimismo e la solitudine, c’è forse voglia di comunicare, persino un desiderio di dolcezza. Un desiderio di vero desiderio - penso tra me e me – un desiderio di desiderare: un desiderio di creare lo spazio del dire.

In fondo, qualcosa di infantile: vale a dire qualcosa di risalente all’infanzia, ma anche qualcosa rimasto allo stato embrionale. Insomma, un Vero Sé da sviluppare.

Non ho il tempo di descrivere il seguito della seduta. Rosa però, in chiusura, dice: “Quest’anno non ha mai nevicato, che peccato. E forse ora, qui fuori, piove. Speriamo, perché io odio il caldo!”.

In procinto di alzarmi, ribatto: “Non pensi che il caldo covi sotto la neve?”.

“Devo pensarci”, conclude lei, “devo spolverare il cervellino…”.

Lo spazio del dire, a questo punto, di certo non è ancora nato. Ma è stato convocato nel suo farsi: nel gesto-immagine trasposto sopra un foglio.

Un gesto e un foglio che in questo modo sono luogo di vero dialogo, di incontro: creano e propongono vicinanza e al tempo stesso distanza, contatto diretto e tuttavia mediato, concreto e però metaforico. Lo creano, sempre nel gesto e nel foglio, sia all’interno di Rosa, tra la notte e il giorno, sia tra Rosa e me, tra un Sé e il mondo.

Michel Perrin (Les praticiens du rêve. Un exemple de chamanisme, Paris, PUF, 1992) racconta che per gli sciamani Guagjiro del Messico i sogni – nel nostro caso il disegnare inserito in una relazione transferale-controtransferale – permettono di creare un mondo dell’Aldilà distante da un mondo dell’Al di qua, ma a esso strettamente collegato.

Il sogno dunque, o il disegnare inserito nella relazione, fanno da pontifex tra l’Aldilà e l’Al di qua. E in questo modo l’Aldilà può essere costruito e rappresentato nella mente.

Perciò il sogno, che come ogni sogno e ogni disegno ha la concretezza del corpo e dei gesti, per questi sciamani è una necessità: luogo di transizione da uno stato della mente a un altro, non deve mai interrompersi, pena la malattia e la morte.

Pena la psicosi, aggiungerei in conclusione.



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