PM --> HOME PAGE ITALIANA --> ARGOMENTI ED AREE --> NOVITÁ --> PSICOLOGIA E FOTOGRAFIA

PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: ARTE E PSICOTERAPIA
Area: Psicologia e fotografia


Fotografia e Psicologia: cenni storici e riflessioni

Attilio de Angelis


La fotografia, alle origini denominata dagherrotipia dal nome del suo inventore Louise Jacque Mondè Daguerre,, è nata nel XIX secolo e, tramite essa, un’immagine, generata tramite la camera oscura, veniva fissata chimicamente su un supporto di vetro o di carta.

Con la nascita della fotografia, per la prima volta nella storia, l’uomo poteva conservare delle immagini senza doverle produrle manualmente, ma con l’ausilio di uno strumento: la macchina fotografica.

L’impatto della fotografia sulla società fu enorme e diverse furono le reazioni rispetto a questa nuova scoperta. Alcuni, tra cui Emile Zolà, divennero ammiratori della fotografia nella sua accezione di ritratto preciso e imparziale della realtà; altri, invece, la criticarono aspramente. Tra questi Charles Baudelaire, nel suo “Il Pubblico Moderno e la Fotografia” del 1859, criticò duramente la nuova invenzione e definì i fotografi “pittori falliti”, diventati famosi grazie alla “follia” di una “società immonda” volta a procurarsi quel sospirato ritratto, prima privilegio solo di un’elitè ristretta. Baudelaire, inoltre, non considera la fotografia una forma d’arte per tre motivi:

  1. La fotografia “copia” la realtà, mentre l’arte è “negazione” della naturalità;

  2. La fotografia è il rifugio dei pittori senza inclinazione e, perciò, privi delle abilità superiori per essere artisti;

  3. La fotografia è la figlia della società industriale e l’arte non dovrebbe avere legami con l’industria.

Nonostante il disprezzo di Baudelaire per la fotografia, egli stesso si farà ritrarre fotograficamente da Daguerre e Nadar, maggiori fotografi della sua epoca, rimanendo così anch’egli narcisisticamente attratto dalla capacità immediata della fotografia di fermare il tempo e di lasciare un’immutabile traccia di se stessi nel futuro, fine ultimo di ogni artista.

Sin dalla sua nascita, quindi, la fotografia ha aperto diversi dibattiti: sulle sue potenzialità artistiche, sulle sue caratteristiche, sulla sua influenza sulla società (importanti in questo senso sono stati i lavori di Bordieu negli anni ‘60), sul suo rapporto con la realtà e così via. Inoltre, mentre agli inizi era anch’essa un privilegio solo delle classi agiate, per i costi delle attrezzature e della stampa, oggi, soprattutto con l’avvento del digitale, non esiste nessuno che non abbia mai scattato una fotografia o che non ne abbia conservata qualcuna, per cui la fotografia sia presenta come un mezzo familiare e di grande impatto sociale.

Considerando l’accezione di foto come mezzo per la raccolta di informazioni, storicamente fu utilizzata come mezzo di documentazione e, da qui, nacque il fotogiornalismo che fu, all’inizio, utilizzato soprattutto per far conoscere e ricordare la crudezza della guerra. La foto, però, anche quando viene utilizzata come strumento di documentazione di fatti storici, non è mera raccolta di informazioni in immagini, in quanto in essa assume un ruolo importante il punto di vista di colui che osserva e fotografa e che, quindi, sceglie cosa immortalare e ciò è influenzato anche, e soprattutto, dalle dinamiche interne del fotografo in un continuum dinamico “dentro-fuori” di sé che caratterizzerà l’immagine finale.

Barthes (1980) parlerà di studium e punctum in relazione alla foto, definendo il primo come l’interesse umano risvegliato dalla contemplazione della maggior parte delle fotografie: una curiosità soddisfatta da una serie di informazioni che solo la precisione dell’immagine analogica può offrire. Il punctum, invece, è la puntura inferta solo da alcune immagini: esso consiste in un dettaglio che spiazza l’osservatore senza che egli possa spiegarne facilmente il motivo.

In questa duplice accezione, sospesa nella dicotomia soggettivo-oggettivo, la fotografia entra nelle nostre vite, permettendoci di narrarci e di osservarci nel fluire del tempo e, grazie, a queste sue caratteristiche può essere utilizzata anche nel processo terapeutico.

Il primo ad applicare la fotografia alla salute mentale è stato Hugh Diamond (1856), fotografo amatore e psichiatra nel manicomio del Surrey. Egli fotografò i pazienti del manicomio, utilizzando l’immagine come mezzo diagnostico e per l’identificazione dei diversi tipi di malattia mentale. A livello terapeutico, scoprì che le foto avevano un effetto terapeutico positivo quando venivano mostrate ai pazienti: essi diventavano più consapevoli della loro identità fisica e prestavano maggior attenzione alla loro apparenza, poiché la loro autostima era rafforzata ogni volta che vedevano una foto in cui stavano bene. Diamond, inoltre, usò le foto per documentare i diversi casi di patologia mentale e presentò il suo lavoro alla società reale di medicina a Londra nel 1856.

Dopo il pionieristico lavoro di Diamond, si riparlerà di fotografia all’interno della terapia nel 1975, anno in cui Judy Weiser, psicologa e arte terapeuta, scriverà il primo articolo sulla “Fototerapia”, ossia sull’utilizzo della foto in terapia come mezzo di esplorazione di sé e del non verbale, soprattutto nei casi in cui è difficile la verbalizzazione e in considerazione della valenza comunicativa più veritiera del non verbale sulle nostre emozioni e sul nostro inconscio. La foto, quindi, seguendo l’accezione data dai teorici della Fototerapia, sarebbe un ulteriore strumento che potrebbe utilizzare lo psicoterapeuta per favorire la narrazione di sé e della storia del paziente, superando i limiti e le difese dei resoconti verbali. Si pensi a quante informazioni si possono trarre dall’analisi delle foto di famiglia: sulle dinamiche, sui confini, sulle interazioni e così via, difficilmente deducibili immediatamente dai racconti dei pazienti.

Dopo l’articolo della Weiser, oggi maggior esponente della Fototerapia e promotrice della sua diffusione, vari psicologi, psichiatri e altre figure professionali nell’ambito della salute mentale iniziarono ad interessarsi alla Fototerapia, tanto che nel 1978 si riunirono per scambiarsi informazioni e per discutere le loro esperienze nel “Primo Simposio Internazionale di Fototerapia” negli Stati Uniti. Alcuni dei partecipanti a questo simposio, tra cui Entir, Steward. Walker, Weiser, Wolf e Zakem, collaborarono al libro “Phototherapy in Mental Health”, organizzato da David Krauss e Jerry Fryrear. Il libro si proponeva di offrire una visione generale sul campo della Fototerapia, di introdurre il lettore alla storia della fotografia e del suo utilizzo terapeutico, di mostrare come la foto viene utilizzata in terapia e quali concetti di psicoterapia sono maggiormente applicabili.

La fototerapia non è una disciplina autonoma che prevede un percorso formativo specifico, basato su una serie di teorie, ma è uno strumento che può coadiuvare l’analisi personale, a prescindere dallo specifico approccio dello psicoterapeuta, nella narrazione di sé, facilitando la ricostruzione delle proprie dinamiche familiari (visione e analisi dell’album di famiglia) ed esplorando i propri vissuti emotivi (rispetto alla foto contenute nei propri album e attraverso la produzione di nuove fotografie).

Fryrear (1980) ha analizzato le maggiori applicazioni della Fototerapia in letteratura, deducendo che: facilita la comunicazione verbale tra terapeuta e paziente, documenta i cambiamenti terapeutici, migliora l’autostima, promuove il confronto di sé e suscita stati emozionali.

Negli anni ’90 molti psicologi di approcci differenti, iniziarono ad utilizzare le foto. Tra questi Rogers, promotore della corrente umanista, utilizzò le foto come stimoli terapeutici; Moreno, il padre dello psicodramma, usava le foto come punto di partenza per le sedute di gruppo; lo psicoanalista Kohut utilizzò le foto nel processo di valutazione e di diagnosi e per chiarire aspetti importanti dell’infanzia del paziente; Silvio Fanti, psichiatra svizzero e fondatore della micropsicoanalisi, inserisce la fotografia nella pratica terapeutica; Linda Berman, psicoanalista e autrice del libro “La Fototerapia in Psicologia Clinica”, utilizza le foto nelle sedute di terapia e così via. L’interesse verso la fototerapia, mostrato da diversi psicologi e professionisti della salute mentale, sottolinea l’utilità e la valenza di questo metodo all’interno del processo di conoscenza ed esplorazione di sé.

Un altro modo in cui la fotografia è stata utilizzata come medium terapeutico è il metodo del Fotolinguaggio®, in cui, però, non si utilizzano le foto possedute o prodotte dal paziente, ma si utilizza un set di immagini in bianco e nero, validate nel tempo, all’interno di un setting di gruppo. Le foto sono state scelte in bianco e nero, in quanto permettono di mantenere una certa distanza e ciò favorisce l’emergere delle emozioni del soggetto che vengono così proiettate sull’immagine stessa. Il metodo del Fotolinguaggio® (Baptiste, Belisle, Pechenart, Vacharet 1991) è stato creato da un gruppo di psicologi lionesi nel 1965. Esso si basa su una serie di dossier di fotografie in bianco e nero, che sono state testate, scelte e pubblicate in Francia per la loro valenza simbolica e per la loro capacità di stimolare l’attività immaginativa e l’evocazione di diverse rappresentazioni su diversi argomenti. Il Fotolinguaggio® è un metodo di lavoro di gruppo in cui si scelgono una o più fotografie tra quelle proposte in base alla domanda posta dallo psicologo all’inizio di ogni sessioni di gruppo. Attraverso il Fotolinguaggio®, quindi, la fotografia è utilizzata soprattutto nella sua valenza di immagine, intesa come mezzo di comunicazione e di introspezione.

Il Fotolinguaggio® è stato utilizzando con diverse tipologie di utenza (con gli adolescenti; in carcere; con pazienti psicotici; con gli anziani e così via) dando dei risultati positivi.

In Italia è scarsa la letteratura sulla Fototerapia e sul rapporto tra fotografia e psicologia. Interessanti in proposito sono i lavori di Carlo Riggi e di Fabio Piccini.

Nonostante questa mancanza la fotografia viene molto utilizzata nei vari contesti della psicologia e della psicoterapia; nel setting terapeutico e nei progetti scolastici proprio per la valenza comunicativa e introspettiva della fotografia e per la conoscenza base che tutti hanno dello strumento.

Bibliografia

Roland Barthes, “La camera chiara. Nota sulla fotografia”, traduzione di R. Guidieri, Einaudi, Torino 1980

Charles Baudelaire, “Pubblico Moderno e Fotografia” in Salon del 1859, in Scritti sull’arte, Einaudi, torino 1992 pp. 217-222.

Linda Berman “La fototerapia in psicologia clinica” Edizioni Erickson, 1993.

Heinz Kohut, “Potere, coraggio e narcisismo”, Astrolabio-Ubaldini, 1986.

David A. Krauss e Jerry L. Fryrear, “Phototherapy in Mental Health”, Charle C. Thomas, 1983.

Sander L. Gilman (editor), “The face of madness. Hugh W. Diamond and the origin of psychiatric photography”, New York, Brunner/Mazel, 1976.

Claudio Marra “Le idee della fotografia”. Mondadori, 2005.

Jacob Levi Moreno,” Manuale di Psicodramma: il teatro come terapia”, Astrolabio, 1985.

Nicola Peluffo, “Immagine e Fotografia”, Borla, 1984.

Fabio Piccini, “Ri-Vedersi. Guida all’uso dell’autoritratto fotografico per la scoperta e la costruzione del sé”, Red Edizioni, 2008.

Fabio Piccini, a cura di, “Tra arte e terapia. Utilizzi clinici del’autoritratto fotografico” Edizioni Cosmopolis, 2010.

Carlo Riggi, “L’esuberanza dell’ombra. Riflessioni su fotografia e psicoanalisi” Edizione le Nuvole, 2008.

Carl Ramson Rogers, “Terapia centrata sul cliente”, Psycho, 2000.

Claudine Vacharet, a cura di, “Foto, gruppo e cura psichica. Il Fotolinguaggio® come metodo psicodinamico di mediazione nei gruppi”, Liguori Editore, 2008.

Judy Weiser "PhotoTherapy Techniques: Exploring the Secrets of Personal Snapshots and Family Albums". Vancouver: Phototherapy Centre Press/Distributor: MMB music & creative therapies books, 1993.

PM --> HOME PAGE ITALIANA --> ARGOMENTI ED AREE --> NOVITÁ --> PSICOLOGIA E FOTOGRAFIA