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La forma e la parola
In memoria di Piero Camporesi
di Alberto Natale
Ricordare la figura e l'opera di Piero Camporesi, il grande italianista
recentemente scomparso, è impresa impossibile da condurre degnamente,
tanto era poliedrico il suo campo di ricerca e tanto ricca, addirittura
lussureggiante, la sua multiforme erudizione.
Nel tentativo di descrivere per sommi capi la sua vasta produzione scientifica
risulta al tempo stesso difficile evitare l'intrusione del superlativo
e dell'iperbole, che tuttavia, lungi dallo scaturire da intenti encomiastici,
appare piuttosto un'inevitabile emanazione della statura del personaggio.
Nonostante ciò il suo nome era molto più noto fuori dell'Italia
e i suoi saggi, tradotti ovunque fino all'estremo Oriente e al Giappone,
hanno destato profonda impressione e suscitato vasta eco. Benché
stimato tra gli addetti ai lavori per le sue indiscutibili valenze di uomo
enciclopedico, sul suo nome aleggiava sempre un fumus di bizzarria
che faceva storcere il naso all'Accademia nostrana. Non era molto amato,
come accade spesso a chi conduce la propria ricerca sul versante dell'originalità;
e il suo metodo di lavoro - consistente nell'inesausto studio sul campo,
frugando per ogni biblioteca alla ricerca di fonti di prima mano - poteva
intimidire.
Se dovessi definire la cifra distintiva dei percorsi di ricerca di Camporesi
sarei tentato di fissarla in una semplice congiunzione, tra,
sottolineando la libertà di movimento che il termine consente nella
lingua italiana, senza vincoli tra numero e posizione degli elementi congiunti
(si pensi alle differenze tra between e among per l'Inglese
o entre e parmi per il Francese). Si tratta quindi di una
trasversalità che non necessariamente rappresenta un punto mediano
tra diverse sfere del sapere, un percorso sul filo del rasoio che richiede
maestria e umiltà, e che non può assolutamente essere improvvisata
in assenza di un eclettismo sostenuto da conoscenze attinte da fonti certe
e solide.
La formazione stessa di Camporesi è trasversale, e inizia con gli
studi di medicina prima di approdare alla filologia letteraria: la sua
esperienza successiva risentirà costantemente di questa duplice
predilezione, consentendo di inserire la sua opera tra i maggiori contributi
di questo secolo, volti a sgretolare il muro medievale che ancora separa
trivio e quadrivio.
Tra medicina e letteratura dunque, ma anche tra storia e cronaca, tra società
e individuo, tra cultura materiale, religione, antropologia e mitografia,
tra corpo e anima, tra arte e mestieri, tra cultura popolare e cultura
d'élite. Anche se il tempo della sua ricerca è focalizzato
principalmente sull'arco storico tra medioevo ed età moderna, la
prospettiva di lungo periodo gli permetteva di produrre una visione complessiva
e globale della sfera intima dell'uomo europeo, quando non universale.
Nella sua capacità di restituirci un trattato iconologico della
vecchia società, attraverso le invarianze dei grandi temi della
natura umana (l'alimentazione, la percezione del corpo, il laboratorio
dei sensi), Camporesi riannoda i fili che permettono di scorgere una trama
unitaria e di riconoscere la funzione maieutica svolta dal passato nei
confronti del presente, secondo un processo non tanto di ricostruzione,
quanto di svelamento.
Il suo interesse è sempre concentrato sulla materia, sia rappresentata
nella vita del corpo - nella girandola della sua percezione, del suo governo
e delle sue trasformazioni - sia delineata come sfondo in cui le attività
umane si svolgono - nel mondo della vita quotidiana di borgo, città
e campagna, nella dialettica dei mestieri delle acque e della terra, nella
geografia mentale di una sensibilità umana plasmata da una realtà
dura e scabra, generatrice di ansie escatologiche, ombre, insicurezze,
paure.
Nell'attraversare questo territorio smisurato e viscoso Camporesi non rifiuta
nessuno strumento di indagine, afferente dai più diversi ambiti
scientifici. Tuttavia rimane sempre viva in lui l'esigenza di far parlare
i testimoni, le sue fonti, i colti e gli incolti, gli scienziati e i "filosofi",
i cronisti, i diaristi, gli artigiani della penna e gli accademici togati.
Memorabili sono certe pagine su grandi figure del passato, ritratti sulla
scena del proprio ambiente contemporaneo: l'anziano Petrarca, ospite di
un banchetto padano, ossessionato dai cibi della giovinezza; Galileo invaghito
della misteriosa idraulica vegetale della vite - distillatrice di nettare
solare - che si rivela scienziato più propenso ad arricchire la
cantina che la biblioteca; il medico scomunicato Fioravanti, ciarlatano
per la scienza ufficiale, ma grande bonificatore e antesignano della moderna
medicina.
Accanto a queste figure incontriamo però anche lo stuolo sterminato
degli umili: "erbaroli", cerusici, levatrici, mammane, "mercuriali",
"mulierculae", villani, norcini, pastori, capimastri, barcaioli,
fonditori, mercatanti, che producevano sapere, spesso più di quanto
non facessero i sapienti; cantastorie, cantimbanchi, "ciurmadori",
accattoni, eremiti, preti di campagna, quaresimalisti, pellegrini, vagabondi,
banditi, viaggiatori, osti, "guidoni", che facevano "cultura",
fissavano stili e maniere della vita di piazza e di festa, riversavano
il sentimento religioso fuori dei sagrati.
Una mescolanza di generi, di voci, "la piazza universale di tutte
le professioni del mondo", l'immenso calderone della vecchia società
dalla quale, dopotutto, non siamo oggi troppo distanti.
L'originalità di Camporesi non si limita alla pur stupefacente
capacità di raccogliere materiale documentale, restituendocelo dall'oblio
dei secoli: tale sforzo sarebbe vano se fosse disgiunto da un metodo stilistico
idoneo a renderlo visibile e plausibile. Ed è qui, a mio giudizio,
che il grande ricercatore dà il suo maggiore contributo. Camporesi
riteneva impossibile che la ricerca fosse divulgabile, addirittura concepibile,
senza l'influsso di una forte tensione creativa, senza un approccio alla
materia non soltanto passionale, ma anche inventivo.
Per lui la ricerca scientifica doveva inglobare creatività e fantasia,
nel massimo rigore metodologico e pur tuttavia sotto la guida di "suggestioni"
ed "emozioni". E da ciò si vede quanto grande fosse la
distanza che lo separava da quell'arida scrittura accademica, spesso asettica
o addirittura repulsiva, che tutti conosciamo, alla cui mancanza di brillantezza
e passione sovente ci si inchina per reclamare una pretesa scientificità.
La sua prosa, nitida e scintillante, affabulante e immaginifica - ma dalla
cui esattezza e precisione traspare sempre lo sguardo severo del professore
- è quanto di più alto sia stato raggiunto nel campo della
divulgazione.
Lo scienziato si fa scrittore, creatore e non soltanto strumento di trasmissione
di un sapere altrimenti ristretto all'ambito della bibliografia erudita
o, peggio, ad un circuito autoreferenziale. La sua scrittura è densa,
magmatica, opulenta, pur senza indulgere all'autocompiacimento.
L'equilibrio, quasi impossibile, si realizza attraverso una scelta lessicale
sorvegliatissima, che rifugge dalla piattezza come dalla concitazione,
dall'uso sapiente della citazione sempre perfettamente inserita nell'orizzonte
narrativo, in un impasto sonoro prima ancora che discorsivo. La terminologia
del passato, delle fonti, luccica nella pagina - come direbbe Roland
Barthes - grazie alla scelta accurata dei due corni della parola: significato
e significante.
A beneficio di coloro che non abbiano mai incontrato i testi di Camporesi
tra le loro letture, vorrei concludere questo mio modesto ricordo dell'autore
e del ricercatore con alcuni passi tratti da La carne impassibile
in cui vengono descritte le angosce e i tormenti interiori che agitavano
i sonni degli uomini della vecchia società e i metodi con cui venivano
leniti, ricorrendo ad una farmacopea ormai a noi estranea, ma forse non
così inconcepibile per la logica terapeutica che ancor oggi sembra
permanere.
I "molti spaventi notturni" patiti da Torquato
Tasso non rappresentavano un caso personale o sporadico: gli "errori",
gli "inganni", le "ombre" delle sue notti estensi,
il suo "torbido ingegno" "ne'l sonno e 'n alto oblio sommerso",
erano comuni al regime notturno di molte persone, di generazioni sottoposte
agli assalti di Ephialte ("ab insiliendo"), dell'incubo ("ab
incumbendo") che rendeva "difficilis motus, torpidus in somno
sensus", "suffucationis imaginatio oppressio". "Aggressio",
"invasio nocturna", "nocturna suffocatio", "terror
panicus", "ludibria faunorum et satyrorum": tali gli oltraggi
dello "strangulator", dello strangolatore della notte che si
abbandonava col suo lordo peso sul corpo degli addormentati [...].
Si fuggano [scongiuravano i medici] con ogni potere i pensieri
tutti delle cose miserabili e tutte l'altre cose che posson perturbar l'animo
e sempre di tutte le cose si speri bene, perché star con la mente
allegra in tutte l'infirmità è bene, come il contrario è
male; né è da fermarsi lungo tempo nell'immaginazioni, perché,
come si dice, l'immaginazione fa il caso [...].
Ma contro l'insonnia provocata da "mala complessione"
doveva essere somministrato il "diaconico, o siropo di papavero o
nattatura di seme di papavero quando è ora di dormire [...]. E conforta
molto l'ungere di dentro con olio nenufarino e unga la fronte e le tempie
e le palme delle mani e le piante de piedi e i polsi delle braccia con
l'unguento populeon e si faccino purga-capo con olio violato e con latte
di donna [...]".
Sciroppi papaverini, unzioni, unguenti, bagni, inalazioni, polveri, suffumigi.
Dalla cosiddetta requies magna alla potente spongia somnifera
dell'Antidotarum Nicolai (una spugna marina imbevuta di succhi di
oppio, giusquiamo, cicuta, mandragola da apporre alle narici), la battaglia
contro l'insicurezza, il dolore, l'insonnia, i cattivi sogni, lunga e tormentata,
venne combattuta, come diceva Mesue, "consolatione medicinarum simplicium".
In questo mondo turbato e difficile, fumigante e oliato, suffumigi e unguenti
accompagnavano molti momenti della vita, specialmente quelli più
delicati e segreti. [pp. 239-241]
Da Le officine dei sensi proviene invece questa pagina che getta
luce sulla mentalità alimentare secentesca, nonché sull’atteggiamento
della medicina del tempo, pienamente integrato nella nozione di malattia
intesa come generazione ex putri.
Per parecchi secoli e da parte di molti si ritenne che
la malignità intrinseca del formaggio, la sua "nequizia", venisse
preavvertita e segnalata dal suo odore, per non pochi nauseabondo e stomachevole,
indice sicuro di materia "morticina" (Campanella), di residuo in decomposizione,
materia sfatta e deleteria, sostanza putredinosa nociva alla salute e terribile
corruttore degli umori. Fin oltre la metà del XVII secolo era praticamente
impossibile distinguere fra putrefazione e fermentazione. Fu necessario
attendere la Physica subterranea (1669) di Johan Joackim Becker
(Beccherius) perché s'incominciasse a riflettere sopra la
diversità dei due processi.
Qualche decennio prima della Physica del Becker, "opus sine pari",
era uscito a Francoforte il libretto di un medico tedesco, Johan Petrus
Lotichius, utilissimo a far comprendere che l'avversione nei confronti
del formaggio non era motivata da personali preferenze di gusto, ma da
tutta una teoria medica che - specialmente fra i ceti alfabetizzati - condizionava
scelte, inquinava immagini, determinava preferenze e repulsioni, influenzava
la mentalità alimentare depositandosi perfino nell'inconscio del
consumatore. Il libello portava un titolo rivelatore: De casei nequitia
(1643). Res foetida et foeda, scrematura della parte escrementizia
del latte, delle scorie nocive, coagulo della parte infima, melmosa e terrestre
del bianco liquido, copula (Lotichio adopera spesso il verbo "coire" per
indicare la coagulazione) delle peggiori sostanze, al contrario del burro
che ne è la parte migliore, eletta, pura, vera e propria delizia
divina, Iovis medulla, midolla di Giove. "Res foeda, graveolens,
immunda, putidaque", il formaggio niente altro è che "massa informis,
foetida e lactis scoriis partibusque terrestribus ac recrementitiis, alimenti
causa, coagulata sive combinata"; cibo da lasciare agli uomini di vanga
e ai poveracci ("ad fossores et proletarios"), "res agrestis atque immunda",
indegno di persone per bene, di cittadini onorati: pasto, in una parola,
di straccioni e villani, soliti a mangiare "brutti cibi" (Campanella).
[...]
I mangiatori di formaggio appaiono a Pietro Lotichio simili a degenerati
amatori e sordidi degustatori delle sostanze putrefatte ("putredinem in
deliciis habent"). La logica medica prescientifica gli dava non solo ragione
ma gli offriva anche i facili strumenti per dimostrare l'iniquità
del formaggio perché dalla corruzione di fetidi e putridi alimenti
gli umori non potevano essere che sconcertati e corrotti. Cibandosene si
metteva in moto un meccanismo incontrollabile di moltiplicazione di quei
vermi che, anche normalmente, "in viscerium latibulis pullulant".
Questa era l'orribile verità: il formaggio generava negli oscuri
meandri dei visceri, nelle latebre del budellame umano, incrementandone
la preesistente putredine, piccoli, schifosi mostri. [...]
Se dalla putredine si formavano spontaneamente, casualmente (la nascita
ex putri) lumache e chiocciole; se dal letame bovino scaturivano
scarafaggi, bruchi, vespe, fuchi; se dalla rugiada uscivano farfalle, formiche,
locuste, cicale, come poteva non accadere - si chiedeva il medico tedesco
- che negli intestini dell'uomo, viscidi di pituita, di residui di decomposizione,
non si verificasse lo stesso processo che dava vita incontrollata e sorprendente
(al di fuori della copula e dell'inseminazione dell'uovo) a miriadi di
orridi animalcula? Perché non ritenere che anche nel basso
ventre, letamaio dell'uomo, non fermentasse la stessa immondizia, la stessa
brulicante equivoca fauna dei "piccoli animali", degli "animaluzzi", piaga
crudele dell'uomo? "Cui absurdum videri potest, in corporibus hominum e
simili causa, tale quid generari?" Perché non poteva succedere la
stessa cosa se da "pituitosa, crassa, crudaque materia vermes atque lumbrici
omnes trahunt originem?" [pp. 53-55]
Con questo piccolo florilegio spero di aver reso l'idea di quella che
è la magnifica prosa di un artista della scienza come Camporesi,
nonché aver reso omaggio come conveniva (sia pure da parte di chi
come me è stato un umile allievo) ad una personalità della
cultura italiana, la cui mancanza sarà particolarmente sentita e
il cui lavoro resterà per sempre esempio e stimolo della passione
di ricerca.
In calce riporto non una bibliografia, ma semplicemente un elenco delle
sue opere maggiormente significative, augurandomi che possano costituire
il punto di partenza per approfondire la personalità, lo stile e
la materia scientifica di uno studioso così singolare.
Opere principali:
- La maschera di Bertoldo. G.C. Croce e la letteratura carnevalesca,
Torino, Einaudi, 1976.
- Il libro dei vagabondi, Torino, Einaudi, 19802.
- Cultura popolare e cultura d'élite fra medioevo ed età
moderna, in Storia d'Italia, Annali IV: Intellettuali e potere,
Torino, Einaudi, 1981, pp. 79-157.
- Introduzione a Alain Corbin, Storia sociale degli odori.
XVIII e XIX secolo, Milano, Mondadori, 1983.
- Il pane selvaggio, Bologna, Il Mulino, 19832.
- La carne impassibile, Milano, Il Saggiatore, 19832.
- Il sugo della vita. Simbolismo e magia del sangue, Milano,
Edizioni di Comunità, 1984.
- Le officine dei sensi, Milano, Garzanti, 1985.
- La casa dell'eternità, Milano, Garzanti, 1987.
- I balsami di Venere, Milano, Garzanti, 1989.
- La terra e la luna. Alimentazione folclore società,
Milano, Il Saggiatore, 1989.
- La miniera del mondo. Artieri inventori impostori, Milano,
Il Saggiatore, 1990.
- Il brodo indiano, Milano, Garzanti, 1990.
- Le belle contrade. Nascita del paesaggio italiano, Milano,
Garzanti, 1992.
- Le vie del latte dalla Padania alla steppa, Milano, Garzanti,
1993.
- Il palazzo e il cantimbanco, Milano, Garzanti, 1994.
- Il governo del corpo, Milano, Garzanti, 1995.
Sempre per i tipi di Garzanti è di imminente pubblicazione l'ultimo
lavoro, di cui l'autore aveva già rivisto le bozze poco prima della
morte. Si tratta di Camminare il mondo ed è dedicato alla
figura avventurosa di Leonardo Fioravanti.
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