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PSYCHOMEDIA
ARTE E RAPPRESENTAZIONE
Arti Visive



“Fare Mondi”
pensieri sull’arte contemporanea e la psicoanalisi visitando la biennale di Venezia

Alessandro Riva


Un dirigibile caduto, arenato e sospeso nel lungo corridoio esterno alle corderie dell’ Arsenale. Con la punta rossa rivolta verso il fondo, il grande capezzolo di un seno gigante incastrato a mezz’aria tra le due pareti di mattoni. Un opera di Ector Zamora alla 53a Biennale di Venezia.

Ecco - mi dico vedendolo - cosa mi piace dell’arte contemporanea e dell’arte in genere, la possibilità di sorprendere, di produrre quell’effetto di “straniamento” che Brecht nei suoi scritti sul teatro (Brecht, 1937-51) considerava l’elemento principale di una drammaturgia allo stesso tempo socialmente impegnata e spettacolare. Effetto che trasforma il contesto dato e usuale, in qualcosa di inaspettato che - nella relativa sicurezza del “setting” artistico, non spaventando in modo traumatico - permette l’emergere di nuovi pensieri e emozioni, sia sul contesto che sul nostro modo di relazionarci ad esso. Quella stessa “violazione delle aspettative” che, se non traumatizzante, promuove il cambiamento e la crescita nell’organizzazione del senso di sé del bambino in evoluzione. (Lachmann, 2008)1.

Però sono un po’ eccessive queste riflessioni - mi dico ancora - per la trovata piuttosto banale di incastrare un pallone simile a un dirigibile nel corridoio di servizio della mostra. Bisogna essere proprio ben disposti già per trovarlo interessante, ma addirittura affascinante e lasciarsene sorprendere… Infatti - mentre continuo a osservare l’opera - un ragazzino, forse ben avvezzo alle mostre d’arte contemporanea, passandoci sotto gli getta uno sguardo sfuggente, proseguendo come se niente fosse. Sì devo essere proprio ben disposto. Sarà il fatto che siamo a Venezia, e che durante tutta l’infanzia e la prima adolescenza ho trascorso parte dell’ estate nel paesino dei nonni materni a pochi chilometri da qui, e allora Venezia, lontanissima - perché ci si andava assai di rado - e pur vicina, era un mito. Un mito da raggiungere volando… magari in sogno.

Quello che voglio dire è che l’opera di per sé - oggettivamente - può comunicare ben poco senza quel fenomeno universale che gli psicoanalisti continuano a chiamare Transfert, anche se con significato diverso dalle prime definizioni fatte da Freud alla fine dell’ ottocento2. E cioè senza l’apporto personale e soggettivo di chi la fruisce, ascolta, guarda.

E in questo mi riferisco non soltanto ai processi empatici e di identificazione a cui le ricerche sui neuroni specchio hanno dato un substrato neurologico. Per Freud e altri psicoanalisti che si sono occupati di arte (Segal, 1952; Kris, 1952) il piacere estetico risiedeva principalmente nell’identificazione del fruitore con i processi psichici dell’artista nel processo di creazione; processi “comunicati” in modo implicito dall’opera stessa. I lavori d’arte contemporanea accentuano di fatto la possibilità di approcciarsi ad essi più come a un “dispositivo”, un “campo” - uno “spazio transizionale” - che permette al pubblico di vivere una propria peculiare esperienza, “dialogando” con se stesso e con l’autore nello spazio comune del progetto artistico. In una modalità in cui il piacere estetico sta più nell’ abbandonarsi allo svolgersi dell’ esperienza - dove autore e fruitore confondono i rispettivi ruoli - che nell’identificarsi con l’artista e i suoi contenuti inconsci espressi ed elaborati nel farsi compiuto dell’opera.

Spostando più l’accento sui processi di comprensione empatica, che comportano maggiore consapevolezza rispetto ai meccanismi inconsci di identificazione, potremmo utilmente definire entrambi gli approcci - quello dell’empatia nei confronti dell’autore e dei suoi processi psichici, e quello del’ esperienza personale - come distinti livelli co-presenti ed interagenti nell’accostarsi ad un lavoro artistico. Livelli sui quali influiscono - oltre all’essere immersi o meno in un medesimo contesto culturale di appartenenza - anche le proprie conoscenze di storia dell’arte, del lavoro generale di un artista, ed i relativi pregiudizi, caratteriali e socio-culturali.

In effetti conoscere il lavoro di Pistoletto permette di accostarsi più facilmente alla sua stanza piena di specchi rotti “Twenty-two Less Two” presentata in Biennale all’inizio dello spazio espositivo delle corderie. Attivando una modalità di comprensione empatica saremmo forse più propensi a rimanere nella stanza e potremmo cominciare a pensare: “Ah… prima faceva gli specchi con oggetti e sagome umane… ora non ci sono più le sagome e gli specchi sono in frantumi… perché?... sarà cambiata la sua visione del mondo d’oggi?... Sarà la vecchiaia?.. dovrebbe avere quasi ottanta anni ormai…” e allo stesso tempo cogliere le mille immagini frammentate di noi stessi e delle altre persone del pubblico… scoprire una figura intera nell’unico specchio sano, anzi negli unici due specchi sani… Lasciandoci così andare all’esperienza, che crea un nuovo spazio “terzo” - distinto e comune - tra noi, l’opera e l’autore. Spazio nel quale proseguire il “dialogo” che permette di cogliere nuovi aspetti del lavoro artistico e di noi stessi.

Oppure, facendo prevalere la chiusura del pregiudizio, - allo stesso modo del neofita romano, trascinato alla mostra dalla fidanzata, che esclama uscendo ad alta voce: “ma che è sta cosa?”… - dirci: “Pistoletto ha rotto gli specchi?... Meno male, non mi erano mai piaciuti i suoi specchi!”.

Gadamer è stato tra i filosofi contemporanei quello che ha esplicitato con maggior chiarezza (“Verità e metodo” 1960 -1972) il carattere intersoggettivo, dialogico e processuale dell’esperienza estetica. Nel dibattito epistemologico che ha reso più permiabili i confini tra scienze umane e scienze esatte, sostenendo il carattere ermeneutico e dipendente dal contesto di ogni tipo di verità scientifica, Gadamer considera l’opera d’arte non l’oggetto che si contrappone ad un soggetto; nella sua essenza l’opera è un esperienza. Un autentica esperienza conoscitiva - di “verità” - sia per l’autore che il fruitore dell’opera stessa.

Ma che tipo di esperienza, quale “verità” ?

Fare Mondi, Making Worlds” L’efficace ed evocativo titolo scelto dal curatore Daniel Birnbaum per la 53a Biennale di Venezia, sottolinea implicitamente quanto l’esperienza dell’ arte contemporanea possa avere a che fare con - toccare, evocare, influenzare, trasformare - l’esperienza “creativa” di sé nel mondo.

“Un opera d’arte” - afferma Birnbaum spiegando la scelta del titolo - “è più di un oggetto, più di una merce. Essa incarna una visione del mondo, e , se presa seriamente, deve essere vista come un modo di fare un mondo”. Il “fare mondi” dell’arte - continua - contribuisce ad accomunare senza livellare le diverse singolarità, laddove l’internazionalizzazione della società contemporanea facilmente si trasforma da spinta emancipatrice, rispetto ai limiti delle culture di appartenenza, a tendenza omogeneizzante che appiattisce le differenze.

Birnbaum sottolinea così l’aspetto sociologico e politico della sua proposta curatoriale, evidenziando quella funzione di laboratorio innovativo e di riflessione rispetto alle scelte umane: etiche, culturali e sociali che la ricerca artistica attuale spesso cerca di assumere.

Ma quali sono gli aspetti psicologici - evocati dalla frase “fare mondi” - dell’esperienza del fare arte e del fruire arte?

Le attuali ricerche sull’infanzia hanno cercato di cogliere alle sue origini quell’esperienza di costruire “il proprio mondo nel mondo” che sta alla base di una sensazione di sé sufficientemente vitale e coesa, e di benessere psicologico. Esperienza in cui l’ “agency” individuale - la percezione di sé come centro autonomo di iniziativa, quella sensazione di poter influire creativamente, con scelte personali, sul proprio contesto di vita - si accompagna al senso di appartenenza ad una comunità umana. Appartenenza in cui la condivisione e il riconoscimento di valori comuni non è in antitesi con l’essere riconosciuti e riconoscersi nella propria peculiare individualità.

Dare un significato personale, emotivamente significativo, alla propria presenza nel mondo è un processo complesso, che coinvolge l’individuo - nella sua dimensione corporea e psichica, principalmente nella regolazione delle esperienze affettive - nella sua relazione col contesto di vita. Un processo continuo, non denso di difficoltà - aperto sia alla dimensione gioiosa che a quella tragica - cui è chiamato ogni essere umano nelle varie fasi della sua esistenza.

L’ arte, a mio avviso, - già nella stessa radice etimologica della parola estetica: attinente ai sensi, alle emozioni - fornisce un campo di esperienza e riflessione, che permette di produrre nuovi significati personali, affettivamente significativi, del proprio essere nel mondo3.

Da questo punto di vista religione, arte, filosofia e psicologia sono campi contigui, che con approcci differenti forniscono risposte diverse a un bisogno umano assai simile. Attualmente però, la cultura e - in modo particolare - l’arte, sembrano fallire nel fornire risposte sufficientemente incisive e popolari tali da controbilanciare in termini di pluralismo di pensiero le derive assolutistiche del fondamentalismo religioso (Yehosha, 2005).

Ma quello che diceva Ernst Wolf alla fine degli anni settanta per rispondere alle accuse di elitarismo e snobismo della cura psicoanalitica può essere ben applicato oggi alle stesse accuse rivolte all’arte contemporanea: “quando una società può tollerare, e perfino sostenere al proprio interno, uno spazio sacro e protetto di impegno nei riguardi anche di una sola persona, questa è una misura della sua forza e maturità.”(Wolf, 1988)

Per i ricercatori dell’ “infant research” gli esseri umani, fin dalla prima infanzia, costruiscono attivamente - nel processo di regolazione delle esperienze affettive con chi che se ne prende cura - il significato di se stessi nel mondo (Tronick 2008)4. Significato personale in gran parte al di fuori della consapevolezza esplicita, principalmente legato a modalità implicite (non consapevoli) di stare in relazione con se stessi e con gli altri.

Di fatto le ricerche sull’infanzia evidenziano quanto, nel bene o nel male, la psiche individuale - Il “modo di essere” di una persona - sia co-determinato fin dalla nascita dalle relazioni con gli altri, ponendo in primo piano gli affetti (nella loro dimensione psicobiologica) - la regolazione delle esperienze affettive nel proprio contesto di vita e la creazione di strategie utili a tale regolazione - per l’organizzazione psichica di un individuo.

C’è un momento nell’infanzia tra i 10 e 18 mesi di vita in cui con l’acquisizione della deambulazione e la maturazione di ulteriori funzioni cognitive le attività esploratorie del bambino si ampliano, e le emozioni positive legate a tali attività - già evidenziate nel neonato di tre mesi che si accorge con esplosioni di gioia di intervenire attivamente sull’ambiente che lo circonda (Papousek e Papousek, 1977) - raggiungono un apice (Schore, 2003). Vari autori descrivono l’esaltazione - eccitazione e felicità - nonché l’energia instancabile, che accompagna il bambino in questa fase di vita. Il “piacere del funzionamento” si estende “al corpo, agli oggetti e agli obiettivi della sua “realtà” in espansione.” (Mahler, Pine, Bergman; 1975). Il bambino o la bambina nelle loro attività interagiscono col proprio ambiente con una modalità in cui psicologicamente non sembra esserci differenza tra scoprire e inventare e sembrano effettivamente creare con gioia “il proprio mondo nel mondo”.

In questa stessa fase evolutiva viene collocato l’insorgere della vergogna, emozione spiacevole e disorganizzante, sperimentata come brusco calo di entusiasmo dovuto alla sorpresa della mancata sintonizzazione affettiva della figura di accudimento al momento della riunione con essa (Schore, 2003).

L’esperienza di vergogna se non riparata attraverso una ritrovata modalità di condivisione emotiva può assumere valenza traumatica, cancellare e disorganizzare la capacità di dare senso all’esperienza (Stolorow, 1999)5. Costringendo l’individuo ad adottare strategie, emotivamente costose e disadattive, per proteggersi dagli effetti del trauma e dalla paura del suo ripetersi.

L’effetto disorganizzante di un inattesa “violazione delle aspettative” di responsività affettiva è drammaticamente evidenziato dall’esperimento del “volto immobile” (Tronick, 2004). Esperimento in cui si possono osservare le risposte comportamentali di un bambino di pochi mesi alla mamma che, improvvisamente mentre gioca con lui, non mostra nessuna reazione per due minuti tenendo il “volto immobile”. Tali risposte, oltre ai vari tentativi di ripristinare la comunicazione interrotta, comportano la perdita del controllo posturale accompagnata dal ritiro dall’interazione e la comparsa di uno stato affettivo di tristezza.

E’ questa la dimensione tragica dell’esistenza umana, evidenziata da Kohut nella sua concezione dell’ “uomo tragico” contrapposto all’ “uomo colpevole” di Freud. La nostra costante dipendenza dall’ambiente per creare e mantenere i significati affettivi necessari alla vita psicologica (quel processo di continua costruzione del significato personale, emotivamente significativo, della propria presenza nel mondo) e il nostro essere continuamente esposti, a causa della stessa dipendenza, al rischio della perdita di essi (Nebbiosi, G. e S.; 2010).

Perchè tutta quest’enfasi sulle ricerche sull’infanzia ? La creatività ha a che fare con un atteggiamento infantile, come sembra dire a volte il senso comune nei confronti dell’arte contemporanea, e come hanno detto spesso gli psicoanalisti - con un implicita connotazione patologica - a proposito delle personalità creative?

Kohut (1966, pagg. 97-101) riferendosi alle personalità creative, sia nella scienza che nell’arte, ne sottolinea la minore separazione psicologica dall’ambiente rispetto a quelle non creative, nel senso di una minor definizione della differenza tra me e non me che consente all’individuo creativo di investire emotivamente - in modo narcisistico - aspetti dell’ ambiente considerati significativi per il proprio lavoro. La metafora dell’inspirazione - che mette insieme interno ed esterno nell’atto respiratorio e indica allo stesso tempo un influenza esterna fecondante sui poteri creativi interni - unita all’immagine prototipica della creatività: Dio che plasma l’uomo dalla polvere e vi insuffla nelle narici un alito di vita - confermano per Kohut la stretta vicinanza psicologica di tali processi con la trasformazione creativa di un materiale vissuto narcisisticamente in un lavoro artistico. In questo senso per Kohut, l’artista tenta di ricreare nell’opera una perfezione formale sentita come un antico attributo di se stesso. Ed è nel farsi effettivo dell’opera che la grandiosità narcisistica arcaica - la quale fornisce la benzina emotiva per l’impresa creativa (Kohut, 1976 pag. 189) - viene trasformata in stima di sé e soddisfazione per le proprie competenze sufficientemente realistica.

La Segal (Abella, 2010) - pur ponendo l’attenzione su contenuti e processi psichici diversi - propone una tesi non dissimile, nel considerare l’attività artistica un tentativo di riparare e ri-creare - internamente ed esternamente - l’oggetto d’amore danneggiato dagli impulsi aggressivi. La bellezza formale dell’opera e la sua funzione simbolica rappresentano “la vittoria della riparazione sulla distruzione”, canalizzando così in modo adattivo l’eccesso di aggressività dell’artista (Mc Dougall, 2006).

Entrambe le posizioni - oltre ad essere più adeguate a comprendere l’arte moderna che l’arte contemporanea, nella quale la bellezza e la perfezione formale delle opere non è più un aspetto principale della ricerca - considerano di fatto la personalità dell’artista, per la contiguità di alcuni processi psichici delle persone creative con quelli del bambino, una personalità “infantile”.

Ancora in tempi non lontani la Chasseguet-Smirgel (1984) vedeva, sia nella creatività che nella perversione, il comune desiderio di ripristinare la perduta illusione di onnipotenza dell’infanzia, per sfuggire dalle costrizioni della realtà in un mondo nel quale tutto sia possibile.

Credo che ciò debba essere considerato un retaggio non solo di quanto pensava Freud a proposito della personalità degli artisti (ad esempio in Freud, 1908), ma soprattutto una conseguenza della sua teoria evolutiva dello psichismo umano costruita nel contesto scientifico del positivismo di fine ottocento. Teoria che, pur nelle sue trasformazioni e aggiustamenti, propone un modello monopersonale (la mente isolata) e lineare dello sviluppo; nei passaggi strutturali - in cui si giocano le vicissitudini dell’individuo rispetto alle proprie pulsioni - dall’illusione di onnipotenza del narcisismo primario alla salda acquisizione del principio di realtà. E per la creatività inserita in un modello pulsione - difesa - sublimazione la patologizzazione è “appena dietro l’angolo” (Lachmann, 2008).

Come abbiamo visto sinteticamente le attuali ricerche sull’infanzia passando a modelli relazionali - sistemici e non-lineari - dello sviluppo psichico hanno reso le cose molto più complesse. Costrutti come “narcisismo primario” e “aggressività primaria” hanno perso di significato; così come il concetto stesso di “maturità psicologica” ha un significato meno univoco, più complesso e dipendente dal contesto, più legato a un processo di organizzazione e riorganizzazione nel tempo di una continuativa significazione affettiva del proprio mondo psicologico che al raggiungimento di una qualsivoglia “struttura” stabile.

L’unico tra gli psicoanalisti Freudiani degli anni 50-70 ad aver avuto il coraggio di affermare che certi processi psichici attinenti alla creatività personale sono importanti, con le dovute differenze, sia per il bambino che per l’adulto - al di là di un effettiva capacità di produzione artistica o scientifica - è stato Winnicott. Egli nel 1971 enfatizza l’importanza dello spazio transizionale del gioco - dove la distinzione tra me e non me è sfumata - per la crescita psicologica del bambino ma anche per il benessere psicologico dell’adulto. Per quell’adulto in grado di accedere a quel tipo di creatività personale che “si riferisce ad una sorta di colorazione dell’intero atteggiamento verso la realtà esterna (…) che fa sì che l’individuo abbia l’impressione che la vita valga la pena di essere vissuta” (Winnicott, 1971 pag. 119)

Di fatto anche Kohut in quegli stessi anni, in comunicazioni “non formali”, scrive che il compito principale nella vita di una adulto è mantenersi attivamente creativi conservando “la capacità di stare in contatto col bambino che gioca nel profondo della personalità”, e la “freschezza del suo incontro col mondo” (Strozier, 2001 pag.192; lettera a Morgenthaler, 1969). E ancora, cominciando esplicitamente a ricollocare tutta la questione del narcisismo nell’ambito di una teoria relazionale della mente: “Le nostre mete e i nostri scopi fondamentali, così come la nostra autostima, portano il contrassegno del narcisismo originario; l’assoluta tenacia e convinzione di aver diritto al successo, con cui inseguiamo gli scopi principali della nostra vita tradiscono infatti che una parte dell’antico, illimitato, narcisismo funziona ancora attivamente accanto alle nuove strutture addomesticate e realistiche.” (Kohut, 1971 pag. 112)

Una bella metafora per rappresentare la necessità umana - apparentemente paradossale - di tener conto della realtà esterna e della tragica caducità a cui è sottoposto il percorso nel mondo, insieme al bisogno-diritto di essere felici nel qui ed ora anche attraverso l’immaginazione e la creatività personale, è il mito di Sisifo nella lettura di Albert Camus (1942). Sisifo, umano e mortale, con la sua intelligenza e scaltrezza riusciva ad imbrogliare gli Dei - tra le varie imprese pare sia riuscito ad incatenare la Morte - finché non venne punito e condannato a far rotolare senza posa un macigno verso la cima di una montagna dalla quale poi la pietra ricadeva costringendolo a ricominciare.

Camus immagina Sisifo nella discesa dopo aver visto la pietra precipitare al piano. Lo immagina prendere consapevolezza e scorge una gioia silenziosa illuminarne il volto mentre discende correndo con passo leggero: “il destino gli appartiene, il macigno è cosa sua. (…) Ogni granello di quella pietra, ogni bagliore minerale di quella montagna, ammantata di notte, formano, da soli, un mondo. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo” (Camus, 1942 pg. 121). Immagina Sisifo felice.

Considerazioni conclusive

Abella (2010), analizzando il lavoro di artisti come Duchamp, Cage e Boltansky pone al centro della ricerca artistica contemporanea non tanto la ricerca del bello quanto il promuovere, sia per l’artista che per il pubblico, la scoperta di nuovi modi di fare esperienza e di riflettere sulla realtà, il desiderio e la capacità di scoprire il nuovo, la libertà di pensiero e la ricerca della verità. Integrando le riflessioni sull’arte della Segal col pensiero di Bion (1970), interpreta la ricerca della verità promossa dall’attività artistica in termini di possibilità di trasformazione e crescita mentale. Per l’autrice l’uso di forme che evocano fantasie perverse, narcisistiche e altamente distruttive, spesso presente - in modalità crude e poco simbolizzate - nelle opere contemporanee, non rappresenta come pensava Freud il sintomo di tratti psicopatologici - perversi, nevrotici, psicotici - presenti nel carattere degli artisti, quanto la capacità di incorporare nel proprio lavoro artistico contenuti psichici molto arcaici. Di fatto - continua - la possibilità di fare esperienza di tali fantasie e sentimenti primitivi nel setting rassicurante di un esposizione artistica permette di diventare consapevoli di questi aspetti primitivi, spesso scissi e negati, che appartengono alla nostra mente e al nostro mondo, dandoci la possibilità di sapere un po’ meglio chi siamo e come è il nostro mondo. Permette in altri termini una “vigorosa e disinfettante rimescolata di vecchie e false verità per stimolarne la scoperta di altre nuove e più vere.”(Abella, 2010 pg 91)

Una posizione pienamente condivisibile. Ma se dal punto di vista sociologico e culturale il concetto di “verità” proposto da Abella - accompagnato dall’enfasi sulla libertà di pensiero e la scoperta di nuovi modi di fare esperienza e riflettere sulla realtà - è sufficientemente chiaro, in termini psicologici, però, tale concetto rimane piuttosto oscuro.

Come ho cercato di evidenziare facendo riferimento all’Infant Research, l’esperienza di verità, promossa dal “fare mondi” dell’arte contemporanea, sia per l’autore che per lo spettatore, attiene alla costruzione - e/o distruzione e ricostruzione - di nuovi significati personali, affettivamente significativi, di se stessi nel mondo.

Può quindi spaziare dal gioioso giocare con l’invenzione-scoperta di nuovi modi di vedere le cose di uso quotidiano, come nel “ready made” di Duchamp, o di vedere e fare esperienza dello spazio fisico che ci circonda, come nella “piramide rovesciata” di Bruce Nauman; oppure “violare le aspettative” in modo umoristico, come nella mano dal dito medio alzato in piazza della borsa a Milano di Cattelan, o più scioccante e meno giocoso come nei bambini impiccati dello stesso Cattelan o in alcune opere di Diamien Hirst; oppure esplorare i territori drammatici del trauma come negli affogamenti o gli interventi chirurgici della Galindo, fino alle automutilazioni e gli acting suicidari di alcuni artisti della “body art”come Gina Pane; oppure ritrovare la bellezza nelle sue diverse forme: come nei ricami e nei tenui frammenti di carta con piccoli disegni e frasi erotiche di Tracey Emin o nei proto-antropomorfici sacchi-maglioni della Bourgeois, o negli inchiostri di Kiki Smith, o nei monumentali “sette palazzi celesti” di Anselm Kiefer.

Solo per citare qualche nome… qualche modo di costruire mondi nel mondo.

Alessandro Riva
Via Latina, 15
00179 Roma
ar1@fastwebnet.it

Bibliografia

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Note:

1 Le ricerche sulla prima infanzia hanno evidenziato che entro il primo anno i bambini sviluppano delle aspettative su come andranno le interazioni con gli accudenti significativi. La possibilità di predire ciò che è prevedibile nel proprio ambiente ha un potente effetto organizzante sul bambino, così come le violazione di tale previsione (aspettativa). La rottura e la riparazione delle aspettative promuove il cambiamento nell’organizzazione delle rappresentazioni pre-simboliche del senso di sé del bambino (Lachmann, 2008).

2 Il Transfert può essere oggi definito come quel peculiare modo in cui un soggetto - in maniera perlopiù inconsapevole - organizza l’esperienza della relazione terapeutica. Può anche essere esteso, in termini più generali, a tutte le situazioni, come influenza dell’esperienze passate (codificate tramite la memoria procedurale implicita in schemi o principi organizzativi) nell’organizzazione dell’esperienza presente. (Fossaghe, 1994).

3 In questo concetto può possono essere inclusi anche quegli aspetti psicosociali legati al mercato dell’arte e alla sua funzione nella società contemporanea: cosa vuol dire, in termini di significato personale, essere un artista di successo o non esserlo, cosa vuol dire possedere opere di artisti di successo, o frequentare mostre che espongono tali opere, ecc. ecc. Ma questi aspetti non saranno al centro delle successive riflessioni.

4 Tronick definisce tale significato come uno stato di coscienza psicobiologico che si presenta: “come un assemblaggio dinamico, che cambia e si aggiorna continuamente, di significati, scopi intenzioni e altro provenienti dai singoli componenti dei vari livelli di organizzazione e di funzionamento dell’individuo” (Tronick, 2008; pag. 353) Per Tronick quando l’uomo riesce ad appropriarsi di un significato il suo stato psicobiologico si allontana dall’entropia.

5 Ovviamente non solo la vergogna ma qualsiasi esperienza imprevedibile - collegata a tutta la gamma degli affetti spiacevoli come il dolore e la paura - se non ricondotta in un orizzonte di senso condiviso ha un effetto traumatico. La vergogna però ha particolarmente importanza in questo discorso, sia per il particolare effetto disorganizzante che procura, sia per la sua connessione negativa con la creatività personale. Essa è infatti collegata geneticamente all’esperienza di mancata responsività affettiva degli accudenti rispetto ad aspetti significativi della personalità del bambino - ad es. le sue motivazioni esplorative e assertive autonome - che procura la sensazione globale di sentirsi un rifiuto, con i vissuti correlati di indegnità e incapacità, rispetto a tutto se stessi. (Pallier; Soavi, 2009).


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