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PSYCHOMEDIA
RELAZIONE GRUPPO<=>INDIVIDUO
Magia, sciamani e guaritori



Pratiche terapeutiche tra gli indigeni della Amazônia

di Wagner Francisco Vidille*



Questo lavoro si riferisce allo sviluppo di una ricerca riguardo alla credenza, alle concezioni della malattia ed il trattamento di essa tra le popolazioni indigene della Amazônia nella regione dell’Alto Rio Negro. L’autore presenta inizialmente, uno studio su queste concezioni partendo dalle relazioni e dalle rilevazioni etnografiche fatte dagli storici ed etnologi che già hanno investigato su queste popolazioni. In seguito mette in correlazioni concetti provenienti dalla Psicoanalisi, in special modo la Teoria delle Relazioni d’oggetto – facendo uso dei concetti di Inconscio, Scissione, Identificazione Proiettiva, Proiezioni di Parti della Personalità, Buono e Cattivo oggetto -, con i concetti derivati della Antropologia.
Presenta tre situazioni cliniche: una sessione di trattamento di dolori costali condotto da un pajé di etnia Tukâno; il lavoro di preparazione e l’azione terapeutica realizzata da un pajé di etnia Wanâna nel curare il ginocchio del suo paziente; e la cerimonia de Hekuramou (contatto con gli “espíritos”) tra gli indigeni Yanomami, nel villaggio di Maturacá, regione selvaggia della frontiera tra il Brasile e il Venezuela. I tre episodi sono filmati e fotografati.


Parole chiavi: sciamanesimo, Xamã, pajé, curandeiro, rituali di cura, animismo, Amazônia, Alto Rio Negro, indigeni sud-americani, Tukâno, Wanâna, Yanomami.


Introduzione

Gli indigeni di così lontani e non frequentati territori dell’estremo nord-est del Brasile, benché appartengano ad etnie diverse, hanno in comune, grosso modo, una stessa visione cosmogonica, coincidendo, con alcune varianti regionali, i miti, le credenze, alcuni costumi e, principalmente, le pratiche terapeutiche. La vicinanza territoriale favorisce gli scambi di merci e i matrimoni intertribali, contribuendo ad una certa omogeneizzazione culturale. Esempio di questa parità è nella comprensione che questi popoli hanno rispetto alla eziologia di alcune malattie: credono che attraverso la manipolazione di un “oggetto patogeno”, determinate infermità possono essere introdotte nel corpo di persone sane, per voglia o ordine di un’altra persona, e che solo i pajés, con una loro azione attraverso riti magico-religiosi, hanno il potere di curare.
In questo lavoro non definisco precisi profili che si riferiscono agli sciamani, conosciuti nel nostro territorio come pajé o curandero [guaritore], figura unica nella storia universale delle religioni, neppure tento di produrre, in modo breve, una discussione sulla Psicologia e la Storia delle Religioni. Il mio interesse nel ricercare concezioni di malattia e di salute, così come relazionare pratiche terapeutiche non ortodosse esercitate in larga scala nella regione, è in sintonia con la mia condizione di ricercatore con formazione in medicina e in psicoanalisi.
Riflessioni come quelle che mi propongo di realizzare non possono, a mio vedere, essere fatte senza considerare il contesto di inserimento della popolazione esaminata, ragione per la quale includo qui un breve apparato storico-geografico, inframmezzato da commenti generali riguardo alle condizioni socioeconomiche e culturali che mi sembrano di maggiore interesse per gli obiettivi di questa comunicazione.
Cominciamo con la localizzazione geografica. La regione dell’Alto Rio Negro è situata nell’estremo nord-est del Brasile, nella zona di frontiera confinante con la Colombia e il Venezuela. Il fiume che gli dà nome, “il Negro”, percorre approssimativamente 560 kilometri prima della sua entrata nel Brasile, procedendo nel territorio brasiliano per 1350 kilometri, fino a sfociare nella sua foce, nella città di Manaus. Le sue acque passano al largo di centri urbani regionali, come nella sede del municipio di San Gabriele della Cachoeira, centro geopolitico di un municipio con 112.000 km. quadrati e città di riferimento per l’argomento di questo lavoro. Separato da Manaus da 860 kilometri di densa foresta tropicale umida, fu fondata nel 1891 e dichiarata Area di Sicurezza Nazionale nel 1968.
La popolazione urbana di San Gabriele conta ottomila abitanti nel censimento della IBGE [Instituto Brasileiro de Geografia e Estatística] del 1996, oggi dovrebbe averne quindicimila, considerandosi l’aumento espresso dagli spostamenti delle popolazioni dell’interno e dal crescente afflusso di emigranti provenienti da vari stati brasiliani. Si tratta della maggiore concentrazione indigena della Amazônia, rappresentata da 23 etnie distinte, distribuite in 732 aldeias [villaggi], lungo i margini del Rio Negro e dei suoi affluenti. La cultura indigena si riflette anche nella economia di San Gabriele. La principale attività del municipio è l’agricoltura di sostentamento. Si pianta manioca, ananas, avocado, banane, limone e patata dolce, e nella foresta si estraggono, la piaçava [piassava], la liana e la gomma, prodotti tutti quanti messi insieme e portati nella città dove sono venduti ai commercianti che si incaricano di esportarli per altri stati del Brasile e per l’estero. L’alimentazione è completata con la caccia e la pesca, sempre meno abbondante.
Concentrata in un’area urbana minima, i suoi abitanti non dispongono di cinema o teatro. Le contraddizioni sono evidenti: nonostante la grande potenzialità idroelettrica, tutta l’energia consumata è generata da una centrale termoelettrica, che consuma ogni giorno 300 mila litri di nafta, trasportata in barconi provenienti da Manaus. Camminando fra le sue strade asfaltate, sotto una temperatura media di 40° C e una umidità relativa dell’aria che tocca il 90%, usuale ad una latitudine 0°, si possono vedere antenne paraboliche piantate in ogni cortile e per lo meno un apparecchio di TV in funzione nelle residenze e negli stabilimenti commerciali. Il flusso migratorio dalle aldeias per le città segnala la ricerca di nuove condizioni di vita, principalmente l’alfabetizzazione.
Il municipio di San Gabriel presenta seri problemi di salute pubblica, essendo ai primi posti come incidenza della tubercolosi in Brasile. La denutrizione a livelli di epidemia è il substrato patogenico, conseguenza di un ecosistema povero di alimenti proteici, dovuto all’alta acidità dei fiumi e alla bassa fertilità del suolo. Ha contribuito ancora alla disseminazione delle malattie, il mutamento dello stile delle abitazioni indigene. Prima, le abitazioni con i loro tetti di paglia e le grandi finestre erano ventilate; oggi, si diffondono case coperte da lamine di zinco o di amianto, molto più calde che favoriscono la proliferazione dei batteri. Altre malattie che incidono in gran numero sono l’elmintiasi e la malaria tipo vivax e falciparum.
La popolazione di San Gabriele da Cachoeira, costituita nella sua totalità (95%) da indigeni ha subito un rapido processo di deculturazione nelle ultime decadi modificando valori, tradizioni, usi e costumi. Più che una semplice modificazione, questo processo ha distanziato radici culturali fino ad allora praticate e trasmesse per centinaia di anni dagli antenati. Si sa della sparizione di intere etnie, fenomeno non esclusivo dell’Amazônia, ma di tutto il territorio nazionale per tutta la durata della nostra storia, come vedremo più avanti.
Una breve retrospettiva storica è necessaria. Dall’anno 1538 ci sono relazioni di viaggi lungo il Rio Orenoco a partire dalla costa atlantica e, dopo pochi anni, riferimenti fatti a proposito del fiume “di acqua nera come inchiostro”, che furono scritti dal cronista della spedizione di Francisco Orellana (1542), che discese per la prima volta il fiume che sarà chiamato Amazonas (Mapa-livro, Isa: 73).
Nella metà del secolo XVII° s’intensificò il processo di occupazione della regione da parte degli europei, con l’incremento da parte del governo coloniale portoghese delle esplorazioni nel sertão (entroterra desertico) del Rio Negro. La finalità, nel quadro della politica di occupazione era l’esplorazione economica predatoria, era la cattura di indios da parte della “tropas de resgate” (“truppe di riscatto”), autorizzate ufficialmente ad agire da una legge del 1688, che stabiliva la partecipazione dello stato come finanziatore delle imprese. Erano chiamate “le guerre giuste” organizzate come rappresaglie contro le tribù ostili della regione. La cattura e la diminuzioni di schiavi indigeni stimolavano tali incursioni. Si hanno notizie, in certi casi, della cattura, nel Pará, di circa seicento indios. Le spedizioni ufficiali per la cattura vennero procrastinate per la grande quantità di investimenti finanziari necessari e, in quanto la richiesta di mano d’opera di schiavi nella regione era enorme, si autorizzò l’iniziativa privata. Nel tempo, queste <incursioni> provocarono diverse epidemie di variola e sarampo, con il risultato di una diminuzione della popolazione intera, lungo i margini dei fiumi. Si ha anche notizia di accordi effettuati con indios per la cattura di altri indios, come la consegna di propri familiari in cambio di mercanzie.
Per quanto si riferisce alle influenze religiose, già a partire dal XVI° e nei tempi successivi, ordini religiosi come i gesuiti, i carmelitani e, dopo, i salesiani e, più recentemente, diverse sette protestanti, sempre hanno preteso di imporre una impronta catechetica alle terre dell’alto Rio Negro, “aspergendo” l’immaginario degli indigeni con divinità esotiche.
L’arrivo del colonizzatore europeo in questa America provocò un impatto epidemiologico evidente nelle popolazioni autoctone, dal punto di vista sociale e della salute: “si innescò un marcato spopolamento, portando alla sparizione di un grande numero di etnie” (Magalhães, 2001). In modo generale, le popolazioni indigene brasiliane sono state storicamente considerate come vulnerabili, meritando dal Governo Federale, sin dai primi tempi della Repubblica, progetti specifici di politica pubblica, molte volte contraddittorie, che non sempre considerarono l’interesse nel mantenere l’elemento aborigeno come parte integrante del melting pot etnico che costituisce il popolo brasiliano. Tutti studiammo nei nostri libri di Storia del Brasile la lotta e la decimazione con la guerra ai popoli indigeni e la loro schiavizzazione, fenomeno che si mantenne e si aggravò nei secoli successivi. Oltre i movimenti migratori spontanei provocati dalle calamità naturali (le grandi siccità del nord-est del 1880, del 1890 e del 1900), come ci insegna Euclides da Cunha (1904), lo sviluppo di vari progetti economici portò all’avanzata di popolazioni povere nelle terre indigene. Considerati ora come “orfani”, ora come “relativamente incapaci”, ai popoli indigeni è storicamente negata l’autodeterminazione. (Magalhães, 2001)
Questi popoli hanno sofferto tradizionalmente gli effetti perversi del contatto con la società nazionale brasiliana. Nella fase iniziale del contatto passarono per un massiccio spopolamento, con un conseguente effetto di squilibrio sociale che li colloca in una posizione svantaggiosa con le popolazioni con le quali mantengono relazioni, assoggettate, molte volte, ai gruppi della nostra popolazione già emarginata. Si trovano, così, in una posizione sociale particolarmente screditata, fenomeno aggravato dalla difficoltà di capire i nuovi codici sociali.


Illustrazioni cliniche

A seguire descrivo tre situazioni osservate in loco, che saranno oggetto di una riflessione teorica.

Prima situazione – Pajé Tukâno
Egli vive da 22 anni nella periferia della città di San Gabriele da Cachoeira e si definisce “guaritore”. Apprese a curare dal nonno, in quanto era un abitante di una maloca, capanna di paglia comunitaria indigena. Esercita il suo ruolo da venti anni, curando i portatori di sintomi più vari, come eczema, coliche addominali, diabete, “dolori all’utero”, “problemi nelle gambe”, láichi (Leishmaniosi Cutanea), cobreiros (Herpes zoster), malaria, etc.
Il suo lavoro consiste nell’identificare, curare e prevenire malattie. Chiede, inizialmente, che l’infermo gli descriva la malattia e la sua localizzazione nel corpo. Si concentra, pronunciando frasi rituali, in un idioma ancestrale. Dice di stabilire una comunicazione con “gli spiriti”, dei quali ascolta le spiegazioni riguardo alla malattia in questione, la causa e il trattamento necessario, ripetendo le spiegazioni all’infermo. In alcuni casi, completa la cura con prescrizioni di infusi di erbe raccolte nella foresta o con fumigi sul corpo dell’infermo.
Si usa nella sua cultura l’esorcismo delle persone, così come l’uso di oggetti e cibi (latte e una specie di farina di grano mingaus). Benedice, in modo primitivo, le persone di qualsiasi età, con particolare attenzione ai neonati, alle ragazze ancora nel menarca, alle partorienti e ai padri dei futuri bebè. Nelle sue pratiche include suggerimenti come “non prendere coltelli”, “non mangiare determinati frutti” e “non guardare alcuni animali” (il cobra, per esempio). Alcune volte, suggerisce all’infermo, che si rivolga ad un ospedale. Riscuote un equivalente tra i due e i quattro dollari per ogni consultazione.

Descrizione della scena ritualistica
Una donna di circa 40 anni chiede l’intervento del pajé, lamentandosi di dolori alle costole. In piedi, e dietro la paziente che è seduta, egli colloca le sue mani a una distanza di 15 centimetri dalla parte dolorante. Passa, diverse volte, le mani sulla regione malata. Soffia. Benedice il recipiente con alcool portato dalla ammalata. Massaggia la zona con movimenti, come se raccogliesse da lì un qualche contenuto invisibile, collocandolo, in seguito, dentro un sacchetto di plastica. Dice alla paziente che la malattia “sta lì da molto tempo” e che “nell’ospedale non si risolverebbe”. Spiega che ci sono pajé, come lui, che ”tirano fuori” le malattie delle persone, e che altri le “collocano”; dice che queste capacità sono esclusivamente dei pajé, “gli unici con poteri per allontanare ‘gli spiriti malvagi’, i veri provocatori di quel tipo di dolenza”. Raccomanda alla paziente che passi l’alcool, varie volte al giorno, nella regione del dolore e che ritorni per il proseguimento
.

Seconda Situazione – Pajé Wanâna
63 anni, abita con la famiglia nella periferia della cittadina di San Gabriele da Cachoeira, in una casa di pareti di taipa (pali e fango) e tetto di zingo, con varie porte e finestre larghe, due ambienti e nessun bagno. (Le capanne delle aldeias, secondo una credenza generale, devono avere una sola porta, localizzata nella parte anteriore per evitare l’entrata degli <spiriti cattivi>). Nell’ambiente più grande c’è una cucina a gas, un frigorifero elettrico, due apparecchi di TV collegati ad una antenna parabolica, alcune sedie e diverse reti da letto. Non ci sono lampade elettriche nella casa. L’ambiente più piccolo sembra essere un deposito di chincaglieria.
Riferisce di aver appreso la pratica dal nonno, durante gli anni in cui abitava nell’aldeia. Venne iniziato quando era adolescente ed era durata nove anni il suo apprendistato, periodo nel quale non ha potuto avere relazioni sessuali, mangiare “cibi caldi” o preparati da donne mestruate.
Interpreta le malattie attraverso dei segnali visualizzati nel cielo, che gli sono “mostrati dalla forza degli spiriti del paricá”. Tratta i suoi malati succhiando con la propria bocca, applicata direttamente sulla parte dolente, seguita dopo dal vomito del contenuto patologico che si è materializzato. Fa delle previsioni del futuro.
I suoi prezzi variano in base alle difficoltà del trattamento tra 30 e 50 dollari dovuti alle malattie prodotte dal veleno del cobra, che sostiene richiedono molta energia per la cura.

Descrizione della scena ritualistica:
Nel cortile della sua casa, all’ombra di piccoli alberi, si siede su un piccolo sgabello di legno. Si appoggia da un bastone di un metro e mezzo, dispone i suoi paramenti su un quadrato di tessuto grezzo sopra il suolo: due pietre lisce, piriformi, di un colore marrone; diversi denti di porco selvaggio; un maracá con delle penne; cristalli di quarzo della lunghezza di 10 cm; un cheirador (tabacchiera); un tubo per conservare il “paricá”[specie di tabacco] e un secchio con acqua: Cantando una melodia indecifrabile, si dipinge il viso con un poco di rosso, a base di carajurú. Per due ore alterna azioni stereotipate: agita il maracá e parla da solo. Si prepara e fuma sigarette di tabacco. Fiuta il “paricá” e beve un infuso. Fa delle previsioni generiche sopra il futuro dell’umanità con frasi del tipo “le cosa sono difficili ora, ma vanno a migliorare!”. Canta, recita versi e gesticola, guardando fissamente verso un punto del cielo.
In quanto all’atto terapeutico propriamente detto, entra in contatto fisico diretto con il paziente. Si avvicina alla gamba del malato, che è seduto. Si abbassa e tocca con le mani la parte dolorante, gesticolando come se acchiappasse qualcosa. Succhia il ginocchio dolente, con estrema avidità. Si alza con l’aiuto di un bastone e si accosta ad un albero, distante un cinque sei metri. Semiflesso, vomita alcune volte. Prende quello che ha vomitato in una mano e lo mostra ai presenti: per primo, un cristallo di colore dell’ambra, di un centimetro di diametro, e dopo, due frammenti neri che identifica come resti di pelle umana. Terminata la seduta, rivela l’origine della malattia: anni prima, il paziente, senza saperlo, era entrato nella stessa acqua nella quale una donna mestruata, minuti prima, si era bagnata.


Terza Situazione: Hekuramou (spiriti (espíritos) antropomorfi immortali), il contatto con gli “spiriti”.
Il rito avviene tutte le sere, nelle aldeias indigene di Maturacá e Ariabú, situate nella regione montagnosa e con un clima gradevole, nella foresta amazzonica. Si tratta di una popolazione di mille abitanti, nel territorio confinante con i Yanomami, nella regione del Pico della Nebbia, frontiera tra il Brasile e il Venezuela. L’accesso a questo luogo è abbastanza difficile. Avviandosi dalla città sede del municipio di San Gabriele da Cachoeira, sono necessarie tre ore a bordo di una jeep, percorrendo una strada bucherellata e pantanosa, seguite da un percorso di sei ore a bordo di una imbarcazione conosciuta come voadeira, una barca di alluminio di sette o otto metri di lunghezza e con il motore a poppa.

Descrizione della scena ritualistica:
Cinque o sei pajé partecipano al rito. Vestono calzoncini <sunga> e usano bracciali con penne di araras e collari di miçangas; dipingono i loro corpi, principalmente il viso, con tintura rossa. Si scambiano, ogni mezz’ora, nel ruolo di protagonista principale. In una posizione caratteristica (accoccolati, appoggiando tutto il peso del corpo sopra i calcagni e senza toccare con le ginocchia il pavimento), il pajé depone una polvere nera nella mano, prelevata da un piccolo contenitore di plastica. Riempe parte di un tubo di legno, di un metro di lunghezza, con il “paricá” [ parola in lingua Nheengatú la lingua generale, forma semplificata del tupi antico, lingua parlata in gran parte del Brasile nei primi secoli della colonizzazione portoghese, adattata e diffusa dai missionari gesuita]. Avvicina la punta libera del tubo ad un compagno, che gli soffia, con forza, la polvere allucinogena nelle sue fosse nasali. Ripete l’azione per circa sei volte. Si alza danzando e cantando ad alta voce per lo spiazzo dell’aldeia, eseguendo una coreografia che sembra imitare i movimenti di uccelli ed animali.
Un fatto inusuale avvenne durante la cerimonia. Ad un dato momento, i pajé furono chiamati a soccorrere una bambina ammalata (febbre e diarrea). Il tuxáua[capo politico dell’aldeia] ed un altro pajé andarono nella capanna nella quale ella si trovava, iniziando immediatamente il trattamento. Con la bambina nelle braccia e armati di bastoni di legno, cominciarono a battere con forza sulle pareti laterali della casa con colpi che mettevano a rischio di crollo la struttura di sostegno; gridavano maledizioni sotto gli occhi attoniti di quelli che assistevano. Le spaventose grida dei pajé, assieme a quelle della bambina spaventata e il rumore dei colpi sulle pareti, provocarono un immensa agitazione, nella aldeia.



Riflessioni

Le sedute di cura nei rituali sciamanici, abitualmente descritti, presentano un metodo terapeutico di difficile interpretazione, ora per la ripetizione di un rituale molto astratto e, per questo, non potendosi fare un accostamento con la perturbazione che l’ha originata, ora per la realtà grossolana per la quale non le si riconosce valore. Sappiamo, nel frattempo, che, frequentemente, sono efficaci.
Sono manifestazioni che concentrano una grande quantità di informazioni sulla storia dello sviluppo culturale di una popolazione e in essa si possono osservare le vestigie di diverse fasi per le quali passarono nel loro costante processo di trasformazioni.
Nei primordi del processo di civilizzazione, all’incirca duecentomila anni fa, nel periodo chiamato paleolitico medio, si suppone l’apparizione di una serie di conquiste culturali importanti per l’uomo, come l’uso del fuoco, la nascita del linguaggio articolato, il culto dei morti e le credenze magico – animistiche. (Proto, 1982:p. 9)
Nell’incredibile processo di trasformazione per il quale passarono i nostri antenati, da primati a uomini semi – umani, e da questi fino alla comparsa dei primi esemplari del genere homo – tra l’habilis e l’erectus -, si ritiene che sia sorta la prima forma di espressione spirituale umana: l’animismo. Secondo questa concezione, la natura è pensata come sacra e la topografia antropomorfizzata, come palcoscenico di azione di esseri leggendari. Irregolarità geografiche, paesaggi o altri luoghi specifici, come picchi montagnosi, ruscelli o alberi, vengono visti come luoghi abitati da spiriti, gli “spiriti del luogo”, genius loci (Devereux, 93). Caverne scavate nelle rocce dall’erosione o nidi usati da determinati animali, vengono considerati come luoghi sacri e impregnati, per vicinanza e per contaminazione, da poderose forze sopranaturali. Così come nella storia infantile, profili montagnosi in forma di diti gulliveriani presi per divini e montagne arrotondate, per seni della Madre Terra. Tale configurazione religiosa basata nell’approssimazione con la natura e nelle qualità numinose di un luogo, vincolate generalmente ai popoli nomadi cacciatori- raccoglitori, attraverso i tempi, si raffinò in forme di credenze rapportate alle funzioni o capacità esponenziali di determinati animali.
Dall’animismo si passò al totemismo, una mentalità religiosa associata alle società tribali nella quale una determinata specie animale era in rapporto ad un clan particolare, identificato con le qualità del gruppo animale rappresentato nel totem. A tutti e due, la specie animale e il clan, si attribuiva la stessa sorte e origine.
Come spiega Devereux, “dalla base universale magico – spirituale dell’animismo e del totemismo è nato lo sciamanesimo” (p. 94). E’ interessante sottolineare che il nome sciamano giunse fino a noi attraverso il sostantivo tungue saman, quello che sa, derivato dal verbo sa, conoscere. Lo sciamanesimo sarebbe l’animismo nella pratica e lo sciamano, suo officiante, l’intermediario tra il mondo spirituale della natura e la tribù. Egli è il direttore del rito che, in trance, viaggia per i mondi dello spirito in cerca della conoscenza richiesta dai membri ammalati della tribù, è lo psicopompo, il conduttore delle anime dei moribondi nella direzione dell’Altro Mondo, è quello che cerca aiuti tra gli spiriti ausiliari per difendere la tribù da un attacco spirituale degli sciamani delle altre tribù e che, nel suo volo magico, circola attraverso la linea del tempo, guardando indietro e prevedendo il futuro, è lo stregone, il guaritore e, per alcuni aspetti, l’attore capace di presentare le cure attraverso delle tecniche teatrali e il ventriloquio.
L’avvenimento dello sciamanesimo varia da società a società, potendo, in alcuni casi, essere il centro religioso solitario di una società tribale o lo stesso, in altri, il rappresentante di una casta sacerdotale. L’antropologo Gerald Weiss, citato da Devereux (p. 98), osserva che “lo sciamano appartiene alla cultura tribale e il sacerdote a formazioni che hanno a che fare con l’estasi, pertanto si presume che sia comparso più tardi, può anche accadere la sovrapposizione dei due”.
Vale sottolineare che uso il termine “sciamano” nella stessa maniera che fecero gli etnologi dell’inizio del secolo passato: come sinonimo di mago, <guaritore, medicine-man, curandeiro o pajé, anche se ci sono discordanze quanto al suo uso, come è stato proposto da Eliade (p. 16).
Freud nell’anno 1911, era abbastanza interessato ai temi legati agli studi di Etnologia, influenzato, certamente, per la ripercussione che l’opera di Frazer aveva provocato negli intellettuali dell’epoca. Secondo Jones, nel settembre di questo stesso anno, Freud era immerso nel “vasto materiale che doveva dominare”, la lettura dei grossi volumi di Frazer, “prima che potesse esporre le sue idee riguardo alle somiglianze tra credenze e costumi primitivi e le fantasie inconscie dei suoi pazienti neurotici” (p. 351). Studiava il parallelismo tra certi processi mentali dei neurotici e le credenze e i processi registrati dagli antropologi nei lavori sul campo. In questo anno, affermava che “la vita mentale e il livello culturale dei selvaggi non hanno ottenuto finora tutto il riconoscimento che meritano”, frase che dimostra il suo interesse verso le credenze e i costumi dei cosiddetti popoli primitivi e suoi vincoli con la Psicologia e la Psicanalisi. Si occupava, anche, della esposizione della tecnica psicoanalitica e della psicologia delle religioni, stimolato dai notevoli articoli di Bleuler sull’ “Autismo” e di Jung sul “Simbolismo”. Insoddisfatto con la direzione che le indagini ultimamente prendevano, Freud cercava di sedimentare il suo metodo che consisteva nel vedere fino a che punto le ferme conclusioni dedotte dalla sua esperienza analitica diretta potevano lanciare una luce sopra i problemi della storia umana passata e, invece di continuare a cercare in campi con i quali già era abbastanza familiarizzato – mitologia greca e religione comparata – si rivolse verso il campo sconosciuto degli aborigeni australiani e i suoi curiosi costumi. Con il piccolo Hans (19099 e la sua fobia dei cavalli, Freud era cosciente del significato inconscio degli animali e della equiparazione totemica tra essi e l’idea di un padre. Egli conosceva bene l’attitudine dei bambini con gli animali, la sua capacità di stretta identificazione con essi e la frequenza con la quale selezionano una specie per temerla in modo eccessivo. L’animale temuto era un simbolo inconscio del padre, che era amato e odiato. Il totem arcaico del clan dovrebbe, anche, aver lo stesso significato e, in questa maniera, i vari aspetti del tabù erano facilmente comprensibili. In relazione all’esogamia concluse che fosse una sicurezza sofisticata contro la possibilità dell’incesto. In questa maniera, totemismo e esogamia sarebbero le due metà del complesso di Edipo, attrazione per la madre e desideri di morte contro il padre rivale.
Per la luce che la Psicanalisi lanciava sui i temi antropologici, il libro Totem e Tabu rimase uno dei preferiti di Freud durante tutta la sua vita, ricorrendo costantemente ad esso, in modo speciale al quarto saggio (Il Ritorno del Totemismo nella Infanzia) che contiene l’ipotesi dell’orda primitiva e la morte del padre primitivo nella quale risiede il complesso di Edipo all’origine di quasi la totalità delle istituzioni sociali e culturali posteriori.
Gli indigini dell’Alto Rio Negro possiedono una ricca mitologia e cultura, interessanti assunti che non pretendo trattare in maniera dettagliata in questa comunicazione. In realtà, sono un aggregato di diversi popoli, con credenze magiche – animistiche simili e rituali religiosi specifici. In questo saggio, mi dovrò riferire ai gruppi etnici ai quali appartengono i pajé, le loro dimostrazioni compongono il materiale clinico qui inserito e commentato.
La mitologia di questi popoli contiene fatti che, da sempre, sollecitarono l’interesse e la curiosità della umanità: la creazione del mondo, l’origine del fuoco, dei suoni e delle piante, delle relazioni tra gli esseri umani, dell’invidia e della rivalità tra i fratelli, dell’unione tra i sessi etc.. Sono racconti mitici che segnalano, per esempio, in quale modo i loro antenati diventarono umani e popolarono la terra, di come gli esseri mitici interferiscono nei destini degli umani e come possono essere le loro relazioni con la natura.
Le loro concezioni sulle malattie e i metodi che utilizzano per contrastarle sono indissolubilmente legati al contesto culturale nel quale si sviluppano. Il loro vasto repertorio sciamanico include strategie preventive e curative della struttura terapeutica tradizionale, utilizzando conoscenze come “incantesimi per pulire” uno spazio prima della costruzione di una casa, per accompagnare le differenti fasi del lavoro agricolo (abbattere, bruciare e piantare) o intervenire sui fenomeni naturali (far piovere, sviare i raggi da determinate “aldeias”, ecc.)” Bucchillet (1988: 37). I loro riti sciamanici, che in altri momenti devono essere stati l’unica formula di trattamento accessibile a quelle popolazioni, sono di una composizione e manifestazione abbastanza complesse per la grande quantità di informazioni che concentrano. A cominciare da ogni etnia, o lo stesso da ogni sib, possiedono un repertorio di incantesimi sciamanici specifici per la cura delle diverse malattie, le loro teorie sull’etiologia di alcune malattie – attribuite ad una aggressione esterna perniciosa – sono, in generale, fondate sul concetto di appropriazione da parte di “cattivi spiriti”.
Tra gli Yanomae, un sottogruppo degli Yanomami, i concetti di malattia mostrano le relazioni tra l’essenza dei differenti tipi di esseri umani e non-umani. Secondo la loro cosmogonia, le malattie sarebbero causate per inversioni nell’equilibrio del cosmo, un superorganismo fragile e pesante, costituito da sentieri e foreste dove transitano esseri sovrumani; questo stesso cosmo sarebbe, anche, colpito dalle azioni degli uomini. Così, le epidemie (xawara, termine utilizzato dagli Yanomami per designare le malattie altamente letali che assalgono molte persone nello stesso tempo: epidemie di influenza, morbillo, malaria falciparum etc) per contatti interetnici sono riconosciute come “causate dal fumo prodotto dal bruciamento delle cose dei bianchi. Attraverso questo fumo, che può essere invisibile al comune guardare”, come spiega Smiljanic, “arrivano innumerevoli spiriti cannibali (xawararibe) che divorano il principio vitale delle persone. (1995, p. 07)
I Desâna, un popolo di circa un migliaio di individui in tutto il Brasile, distribuito in una cinquantina di comunità ai margini del rio Uaupés e dei suoi affluenti Tiqié e Papuri, a loro volta, credono che una delle possibili forme di contagio esterno è dovuto alle azioni intenzionali malefiche di uno sciamano, che “getta oggetti, che provocano malattie, di natura diversa (spine, cristalli, capelli, cotone, peli ecc.) fino a dentro il corpo della vittima (...) o recita incantesimi di aggressione in direzione della vittima” Buchillet (1959: 9)
Cocco, missionario che visse quindici anni tra i Iyëwei-teri, asserisce che “tra gli Yanomami nessun cade ammalato e neanche muore se non per opera di agenti soprannaturali: gli spiriti cattivi indipendenti o gli spiriti che i xapori [ Pajé o incarnazioni degli spiriti] dei nemici inviano” (1972: p. 401), confermando l’idea di una relazione bidirezionale tra la malattia e il malefizio stabilita da quei popoli.. Questa connessione giustifica il costume yanomami di formulare ingiurie feroci contro i nemici quando si accorgono della gravità di una malattia o di una morte, o nel bruciare un cadavere o nel pestare le sue ossa e ingerire le sue ceneri
Come è stato riferito dai pajé al termine del Hekuramou descritto nella scena ritualistica 3, le invettive dirette contro i nemici, le promesse di vendetta e le congiure con i propri hekúra sono procedimenti che servono ad allontanare i hekúra intrusi, gli “spiriti cattivi” responsabili della malattia della bambina, la cui “anima” è “il mangiare prediletto” degli hekúra nemici. (idem p. 402)
La Weltanschauung animista permea di simboli e significati tutti i momenti e i movimenti delle loro vite, regolando le relazioni tra i membri dell’aldeia e le loro relazioni con la natura (regole d’igiene, i precetti etici, ecc.). Quando, per esempio, il vento soffia sbilanciando gli alberi o scoperchiando i tetti delle capanne, è costume tra quelle popolazioni dare l’allarme per avvisare gli uomini distratti e riunire i bambini, nello stesso tempo nel quale i pajé iniziano l’inalazione del yopo per identificare la provenienza dei hékura. Ai bambini si insegna a non urinare né defecare sui sentieri con il rischio che un genio pedofago raccolga le feci, ciò provocherebbe intensi dolori addominali in chi ha infranto la regola.
La vita selvaggia in quei posti lontani, descritta da poeti romantici come bucolica, pacifica, piacevole, artistica, corretta ed originale, sembra essere vissuta, predominatamene, in un registro schizo-paranoico (Klein, 1943) tale la quantità di oggetti persecutori che li circondano, le varie categorie di geni provocatori di malefici e malattie: gli hékura nemici.


Analisi clinica

Non è la ricerca storiografica l’oggetto principale di questa dissertazione, passerei alla descrizione di altri dati che penso essere importanti per una migliore comprensione dell’oggetto della mia ricerca. Cercherò di discutere sui concetti psicoanalitici che possono aiutare a comprendere le relazioni malato-malattia tra queste popolazioni. Non ho l’intenzione di fare un tentativo, nel senso, di uno smascheramento delle funzioni dei pajé, alla luce della medicina occidentale tradizionale, ma, al contrario, di validarli come elementi significativi della cultura e della tradizione di questi popoli. Nel frattempo, non posso lasciare di considerare come controparte, la incapacità dei pajé Tukâno a curare i casi di Herpes zoster, Malaria e Leismaniosi cutanea. Per quello che si riferisce all’Herpes zoster - malattia conosciuta nel mondo rurale brasiliano con il nome popolare di cobrero in quanto si immagina sia provocata dal contatto dei vestiti sui quali sia passato un cobra – si sa esserci una guarigione spontanea (Amato e Baldy, 1972, p. 135), che rende, in linea di massima, difficile verificare l’efficacia di qualsiasi agente terapeutico. La stessa cosa avviene per quanto riguarda la Leishmaniosi cutanea che, in seguito alla inoculazione dei parassiti da diverse specie di flebotomi, determina una lesione nella porta d’entrata che sempre regredisce spontaneamente (idem, p. 211); e, anche, in alcune fasi della malaria, la cui accentazione dei picchi febbrili obbedisce ai cicli degli equinozi, con una naturale remissione posteriore.
Altro punto importante da doversi affrontare è ciò che riguarda la concezione della malattia da parte dei pajé Tukâno e Wanâna . Nei rituali osservati, loro agiscono con la pretesa di estrarre dal corpo del malato – per suzione, dai movimenti caratteristici delle mani, nello stesso modo nell’esecuzione della coreografia che simula una lotta – un “oggetto” patogeno”, la cui presenza spiegherebbe lo stato di malattia. Tale oggetto, nello stesso modo che gli “umori” nelle teorie platoniche sulle malattie, potrebbe essere definito come un fluido che, diventato concreto, sarebbe manipolato, contenuto, espulso e mantenuto a distanza dal corpo del malato, il che fa ricordare la concezione medioevale della malattia relativa alla malaria (malum aria, “cattiva aria”), nella quale si immaginava una contaminazione eterea degli umori emanati dal suolo delle regioni pantanose e paludose. Le loro teorie rispetto alla etiologia di alcune malattie sono basate, come è stato detto prima, sul concetto di appropriazione da parte di “spiriti cattivi”. Ciò è comune nelle culture primitive tradizionali animistiche. Freud in Totem e Tabù ci dice che “il sistema animistico del pensiero è la prima teoria completa dell’universo” (p. 114) e che “la prima realizzazione teorica dell’uomo fu la creazione degli spiriti” (p. 116).
Considerando come vera l’affermazione di Freud che “gli spiriti e i demoni sono appena proiezioni di impulsi emozionali propri dell’uomo” (p. 115), si può supporre che nella creazione proiettiva delle anime e degli spiriti da parte dell’uomo, alcune volte a sua immagine e somiglianza, il fluido animistico, nella sua totalità o in parte, avrebbe qualità mobili e volatili, immutabile e indistruttibile, con il potere di abbandonare il corpo e prendere possesso temporaneo o permanente di un altro corpo.
La “proiezione al di fuori” dello spazio mentale porta con sé il vantaggio del sollievo. L’Io tende ad integrarsi quando le pulsioni di vita sopraffanno le pulsioni di morte. Quando le pulsioni di morte sono ben assestate, tendono a disintegrarsi in una spaccatura frammentata. Questa tesi kleiniana venne presentata per la prima volta in un passaggio del testo “Sulla Identificazione” (1955). Da una parte, la tendenza alla integrazione è riconosciuta come una delle forze dominanti della vita psichica. E’ presente ed attiva dal principio dell’esistenza. Essa ha come fattore principale la interiorizzazione di oggetti gratificanti (seno buono). Più tardi, la frattura risulta in un sentimento vicino alla morte, costituendo una reazione contro le forze interne di distruzioni. La prima delle forze distruttive interne è il seno cattivo (idem, p. 94) il che ricorda la frase di Freud ancora in Totem e Tabù “ i primi spiriti a nascere furono gli spiriti cattivi” (p. 116). Il seno introiettato con odio è vissuto dall’individuo come qualcosa di distruttivo, convertendosi nel prototipo di tutti gli oggetti interni cattivi (Klein, 1957, p. 145). Scissioni successive frammentano altre parti del Sé. Conseguentemente, l’Io è minacciato da un indebolimento fatale risultante dalla dispersione. Certi meccanismi proiettivi, che da un lato impediscono il decorso della integrazione, sono, nel frattempo, essenziali allo sviluppo globale dell’Io, visto che allevia, ripetutamente, le ansie, in quanto precedentemente distaccatosi.
Ritorniamo ai nostri pajé. I primi due rituali descritti, quello del pajé Tukâno e del pajé Wanâna, hanno caratteristiche simili. Nelle loro azioni i pajé eseguono drammatizzazioni riparatorie che mirano ad offrire un sollievo dal dolore, in un modo simile a quello realizzato da una “madre sufficientemente buona”, durante le prime fasi dello sviluppo dello psichismo infantile, quanto è un contenitore delle ansie senza nome del bebé. Come un Alter ego efficiente, i pajé agiscono nel senso di scindere immaginariamente il corpo del malato in una parti buone e malate.
Dei prodotti di questa separazione, proiettano gli oggetti cattivi fuori del corpo del malato, espellendo le parti malate, liberandolo, così, dalla malattia. In relazione al pajé Wanâna, il vomitare l’oggetto patogeno sotto forma di cristallo o frammenti di pelle umana (?), sono sottigliezze in modo concreto, che diventano visibili e palpabili il “male materializzato nella malattia”.
Quanto alla suzione rituale, Géza Róheim, antropologo con esperienza sul campo e formazione psicoanalitica, la considera come “panacea quasi universale della medicina primitiva” (1955, p. 8). Suppone, nei casi di cura per suzione, che il significato latente della cura sarebbe un attacco al seno materno nel quale l’individuo ammalato rappresenta la madre e il curandero svolgerebbe il ruolo del lattante oralmente aggressivo.
Propone, dunque, che “la magia deve avere le sue radici nella situazione madre – bebé, poi, nei primordi, l’ambiente è costituito semplicemente dalla madre. Pertanto, desiderare o manifestare il desiderio sarebbe il modo corretto di affrontare l’ambiente” (idem p. 20). Considero le sue affermazioni tentativi di una spiegazione centrata nelle teorie psicoanalitiche basate sul controllo della relazione madre – bebé, punto molto valorizzato nella metà del secolo passato. Nelle situazioni cliniche qui descritte, i concetti di Scissione e Identificazione Proiettiva mi sembrano sufficienti per dare conto, in modo semplice ed efficiente, del senso dei fenomeni osservati durante i rituali dei pajé.
Dunque, per quanto riguarda la relazione sul pajé Tukâno, le sue inusuali indicazioni di “non prendere i coltelli”, non mangiare determinati alimenti e “non guardare animali”, sono raccomandazioni il cui senso sarebbe legato all’ambivalenza, essendo spostamenti e distorsioni messe in rapporto a pratiche di tabù e sintomi ossessivi. I suoi esorcismi si rivolgono a persone che si trovano in stati particolari, circostanze inusuali o chiamati “stati tabù”: neonati, ragazzi durante le cerimonie d’iniziazione, donne durante la mestruazione e immediatamente dopo il parto, persone inferme, ecc. Tali stati sono così caratterizzati da “provocare desideri proibiti in altri e di risvegliare in loro un conflitto di ambivalenza” (Freud, 1912: p. 53). “Uomini morti, neo-nati, le donne mestruate o nei dolori del parto, stimolano desideri per il suo abbandono speciale; .un uomo che ha raggiunto la maturità è stimolato con la promessa di un nuovo piacere. Per questa ragione, tutte queste persone e queste situazioni sono “tabù”, visto che si deve resistere alla tentazione”. (idem).


Conclusione

Penso che i metodi e la concezione delle malattie dei pajé sono indissolubilmente legati al contesto culturale nella quale si sviluppa questo modo di intervenire terapeuticamene, dovendo essere stato, in alcuni momenti, l’unica forma di trattamento accessibile a quelle popolazioni.
I concetti qui esposti, in modo generale, possono portare ad una maggior comprensione della organizzazione culturale indigena dell’Alto Rio Negro, per avere suggerimenti per una migliore conoscenza sui sistemi di credenze, rituali di cura, concetti della malattia e delle relazioni malato-malattia, alla luce dei meccanismi inconsci individuati (scissione, identificazione proiettiva, proiezione, etc.).
Sono convinto che il valore della conoscenza, la documentazione e la divulgazione delle pratiche come sono qui descritte, e in rapporto alle caratteristiche preliminari di questo studio, queste riflessioni possono fornire elementi per futuri interventi di carattere multidisciplinare, potendo contribuire alla diminuzione della sofferenza psichica di quelle popolazioni.


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*Wagner Francisco Vidille
Membro Efetivo e Professor Assistente da Sociedade Brasileira de Psicanálise de São Paulo (SBPSP)
vidille@sbpsp.org.br

Traduzione dal portoghese di Mario Giampà



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