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PSYCHOMEDIA
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Società, Trauma e Solidarietà
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Memorie congelate, memorie evitate:
a proposito della relazione terapeutica con le vittime di tortura
Anna Sabatini Scalmati
EFPP - Rome, October 1-3 1999 Third European Conference on Child and Adolescent Psychoanalytic Psychoterapy
Oggetto della 'situazione' psicoanalitica è l'analisi della mente, delle forze che la governano e a volte la sbilanciano verso la psicosi e la fuga dalla realtà esterna. Nella relazione terapeutica ci troviamo quotidianamente a fare i conti con la violenza della vita psichica, violenza delle spinte pulsionali e tra le istanze psichiche, violenza delle rappresentazioni oniriche, delle difese ecc.
Il setting terapeutico evita con una serie di dispositivi tecnici - il transfert, le libere associazioni, la regola dell'astinenza ecc. - che l'analisi della realtà psichica sia 'distratta', portata 'fuori strada' dagli accadimenti del mondo esterno e si perda la specificità della propria, fondante, area di ricerca.
Ma la violenza della storia, dello Stato politico e degli interessi economici spesso irrompono nella vita del soggetto e una violenta effrazione dissolve lo scarto tra mondo psichico e realtà esterna. In questi casi altri punti di vista e livelli problematici si affiancano al concetto dialettico della complessità della psiche, del suo procedere in modo non lineare e per metamorfosi tra interno ed esterno, attuale ed inattuale, presente e passato.
La psicoanalisi inscrive la formazione della realtà psichica nella conflittualità dispiegata dalle pulsioni e dalle istanze psichiche e all'interno dei legami dell'intersoggettività familiare. Ma eventi quali guerre, campi di concentramento, Shoah, pulizie etniche, olocausto nucleare, torture - non riconducibili né all'area dell'intrapsichico né a quella degli insiemi intersoggettivi, bensì allo spazio che lega un soggetto all'ambiente sociale e alle condizione storiche in cui si trova a vivere - non hanno alcuna ricaduta sull'endopsichico? Se ne hanno, sono il seme di quali concatenazioni rappresentative e difensive?
Questa riflessione si impone quando il lavoro terapeutico investe le vittime di tortura: istituzionalizzazione della violenza e dell'orrore.
In questo lavoro presento la Sindrome dei sopravvissuti a situazioni estreme. Mi soffermo dapprima sulle peculiarità di questa sindrome, che in termini generali può essere inscritta nelle nevrosi traumatiche, per poi riflettere sul suo lascito di devastazione, con particolare attenzione al teatro della memoria; infine proporrò alcune riflessioni terapeutiche.
Che cosa è la tortura?
La tortura è una programmata, deliberata, sistematica offesa perpetrata sul corpo e sulla mente di un individuo con lo scopo dichiarato di annientarla\lo. In condizioni di rigoroso isolamento dalla società 'civile', sottoposto a sevizie e costretto ad assistere impotente all'assassinio di persone a lui vicine, la\il torturato viene ossessivamente dichiarato colpevole e unico responsabile della sofferenza di cui è vittima.
La tortura è un'esperienza in cui i confini tra la vita e la morte sono continuamente ridiscussi. Nell'arco di poche ore lo stato psicofisico dell'individuo viene totalmente ed artificialmente alterato.
La tortura avviene sotto il placet del 'sistema'. Nel sadismo e nell'improvvisa esplosione di libido, di cieca brutalità ed efferatezza; nei carnefici che materialmente eseguono le torture non dobbiamo vedere degli individui perversi, anche se possono esserlo. Non è questo l'elemento essenziale, ma il fatto che dietro di loro vi è un potere che dimessa ogni proposizione etica, rende gli esecutori delle sue norme - addestrati in scuole ove insegnano medici, psicologi, ingegneri - totalmente insensibili ad ogni dubbio morale e ad ogni forma di com-passione. Tra i diversi modi per diluire il Super Io - l'alcool, il potere, il sesso - il più efficace è certamente quello che rinvia ogni responsabilità al capo.
La tortura è un sistema di marchiatura. Il corpo diviene memoria di cicatrici visibili ed invisibili. Di nefande penetrazioni sessuali che, trafitta la frontiera tra il dentro e il fuori, invadono lo spazio interno, quanto altri mai privato e segreto e lo legano a percezioni vergognose, ad accoppiamenti derisori, brutali, indicibili.
Per avere più chiaro l'identikit della vittima di tortura, dobbiamo per prima cosa liberarci del mito romantico che lega il torturato, quale novello Prometeo, all'eroe, al rivendicatore dei diritti del popolo oppresso, al tirannicida.
La tortura non è infatti - nella stragrande maggioranza dei casi -una modalità selezionata ed oculata di repressione, un trattamento riservato a singoli, specifici individui, dotati di una funzione dirigente e preparati a tutto, ma una modalità di repressione di interi gruppi sociali, inclusi bambini (si pensi ad ebrei, zingari e omosessuali nella Germania nazista, alla popolazione della Cambogia, del Cile, dell'Argentina, dell'Algeria, dei paesi dell'ex Jugoslavia, del Ruanda, del Congo, del Curdistan ecc.).
Il massacro della tortura non è, cioè, un evento previsto, messo in conto dalla maggioranza delle vittime (sebbene lo è per alcuni), ma un evento che inaspettatamente mette in pericolo la sopravvivenza fisica e psichica dell'individuo.
Specificità del trauma in esame
Il trauma è uno shock violento, un'improvvisa accelerazione quantitativa e qualitativa di esperienze sensoriali ed emotive. Si ha trauma psichico quando la quantità\qualità degli stimoli esterni, forzata la barriera protettiva, tracima nell'apparato psichico determinandovi una disorganizzazione più o meno reversibile.
Il bambino, per l'immaturità del suo apparato mentale e il suo stretto legame di dipendenza dalla persona che lo accudisce, è potenzialmente molto esposto al trauma. Gli stessi affetti, per la loro natura primitiva, possono in lui assumere una valenza traumatica. Nell'adulto gli affetti minacciano, ma non sopraffanno le funzioni integrative ed esecutive dell'Io. Perché questo avvenga occorre che un evento presenti un carico sensoriale-affettivo tale da umiliarne le difese, prostrarlo e consegnarlo impotente alla resa.
Il trauma ora in esame innesta difficoltà e complessità emotive su cui è bene soffermarci.
La violenza e il sopruso che si esprimono nella tortura (si può parlare di una scienza della tortura) generano nella vittima uno stato di terrore, un'angoscia che, dai torturatori, può estendersi a tutti i rapporti umani, ledere i legami oggettuali primari, fondanti la vita mentale, l'organizzazione del pensiero e la vita sociale, e condurre ad un ritiro, più o meno marcato, da ogni forma di relazione.
Il potere che tortura, e ha ben appreso a manipolare l'inconscio, sa che lungo l'intero arco della vita, per proteggersi da angosce arcaiche di annientamento, ogni essere umano ha un assoluto bisogno di figure di riferimento. Sa che, in situazioni di totale privazione sensoriale e sociale, ove più che mai è necessario il sostegno altrui, la perdita dei legami oggettuali è sofferta come un pericolo insostenibile e che il timore di tale perdita può mettere in moto un processo di regressione psico-affettivo. Sa inoltre che - per salvaguardare una seppur minima immagine di sicurezza ed evitare la perdita della speranza nell'esistenza di un protettore - si possono attivare dei legami di sottomissione e di collusione con il torturatore: i cosiddetti legami traumatici.
A ciò occorre aggiungere che le esperienze di cui parliamo non sono legate ad un evento tragico, quale un disastro aereo, un incidente automobilistico o lo scatenamento delle forze della natura, traumi che, all'opposto, rafforzano la coesione comunitaria.
La tortura lacera il patto che unisce gli individui in collettività e fa svanire la certezza del soccorso: nelle situazioni in esame, vi è una deliberata volontà umana di fare del male.
Quando il contesto sociale giustifica il crimine e il sopruso, quando l'aggressione proviene dallo Stato - atteso garante del funzionamento della legge e dell'interdizione al delitto - quando il contratto narcisistico viene brutalmente spezzato, alla sofferenza si aggiunge un'angoscia legata al crollo e all'assenza di oggettivi protettori esterni.
La defaillance del sociale e del transoggettivo, lo sfaldamento di ciò che era dato per garantito, acuiscono il sentimento di impotenza, di mancanza di difesa e vissuti di disintegrazione e di morte.
Il sopravvissuto alla tortura, oltre che vittima, è pertanto testimone di un evento che ha a che fare 'con il male', 'con la banalità del male', per dirla con Hannah Arendt.
Conseguenze: il dramma della memoria
Gli eventi di cui abbiamo fatto parola, irruzione di esterno nella psiche, causano nella mente - quali stigmi di concrete ferite del corpo e degli affetti - la formazione di aree scisse, di aree fissate al trauma.
Non diversamente dai massi erratici - la cui composizione geologica, eterogenea all'ambiente limitrofo, testimonia del cataclisma che li ha generati e della loro estraneità al territorio circostante - le esperienze di cui trattiamo denunciano a) la violenza del loro insediamento b) la loro origine esterna c) l'irreversibile, strutturale alterazione che esse provocano nell'Io.
Il trauma, che genera un'improvvisa modificazione dello status quo, struttura nella psiche un nucleo scisso, fissato all'evento a cui l'Io reagisce con un contro-investimento più o meno massiccio, che lo indebolisce e gli sottrae materiale rappresentativo ed affettivo. La pressione che si determina in questo campo di forze genera un'alterazione della funzione e della struttura della memoria che, per così dire, si congela attorno ai fatti traumatici per poi irradiare il suo cono di ombra sullo spazio\tempo precedente gli eventi lesivi.
L'esperienza dell'orrore marchia lo psichismo ed altera il lavoro della memoria. Accade così che:
La memoria delle violenze di cui si è stati vittime e testimoni si incista all'interno del polo di fissazione che si è coagulato attorno alla brutalità di quelle esperienze. E' bene tenere presente che questo polo non è causato da conflitti intra-psichici, ma dall'impotenza della mente ad integrare, legare ed elaborare in catene associative l'accelerazione affettiva\sensoriale che la invade.
In conseguenza dell'incistamento nel polo di fissazione, gli stimoli non sono intercettati dal normale flusso mnestico, e quindi non vengono da esso categorizzati e ritrascritti con finalità adattative. La loro memoria, negata al processo di continua ricategorizzazione e ritrascrizione per via associativa (Edelman), non entra in tale modo nel coro delle reti associative che procedono per metafore (Modell), integrano i fatti e creano significati che si estendono da un'esperienza ad un'altra, fino ad assimilare a sé elementi nuovi e non familiari.
La memoria impaniata nel polo di fissazione, da elemento vivo, mobile, selettivo, humus di primarie rappresentazioni in continua e potenziale mutazione, si trasforma in zavorra psichica che, saldata inscindibilmente alle percezioni traumatiche, si sottrae ed esclude dalle linee di forza della vita psichica.
La memoria di questi fatti non è soggetta alla rimozione, così come una malformazione genetica non può essere rimossa. Ove c'è fissazione non opera la rimozione.
Attorno al polo di fissazione si organizza pertanto una memoria involontaria ed automatica chiusa sul passato e resistente ad ogni trasformazione. Spingendo al paradosso, potremmo dire che le vittime di tortura non hanno memorie, ma ripresentazioni allucinatorie.
Deriva da ciò che i ricordi del trauma non sono percepiti come una tragica memoria annodata ad un periodo del passato, ma sono rivissuti, e a volte allucinati, come un evento nuovamente in atto.
Il passato si ripropone ed ossessivamente sovrappone la sua ombra a quella emanata dai nuovi legami ed affetti; l'oggi viene percepito come identico a ciò che è accaduto ieri, per cui gli eventi si colorano di un significato pregresso.
Questa memoria patologica tormenta i sopravvissuti con la sua fissità e rigidità e rende le loro notti gravemente insonni o rotte da incubi ricorrenti. Il contenuto della fissazione, forte dell'indebolimento del contro-investimento che si verifica nel sonno, straripa sulla scena onirica. I pensieri prendono una strada regressiva e, senza che il sogno compia alcun lavoro di deformazione, spostamento e condensazione, le scene traumatiche si ripresentano.
Una giovane donna zairese dice: ´Le sembrano sogni questi? Possono i sogni essere così? No, questi non sono sogni, è la realtà che ritorna quando dormo e mi sveglia, mi terrorizza. Ho rivisto lo stesso sangue, me lo sono sentito di nuovo sulla pelle, le stesse teste tagliate, ho risentito lo stesso odoreğ.
La memoria di cui parliamo dirama effetti di azzeramento oltre che sul presente sul passato, per cui gli affetti e i legami che una volta erano stati intrecciati ed avevano dato valore e senso al quotidiano sembrano ora irrecuperabili.
Quando in terapia richiamiamo l'attenzione dei pazienti al passato pre-traumatico la loro risposta si fa vaga e sfuggente, frettolosa ed impersonale. Anni di vita sono condensati in un pugno di parole: nessun ricordo, nessuna rievocazione. Si ha l'impressione che il passato, scivolato via dalla loro pelle, sia volutamente evitato; che di fronte a loro si distenda un deserto, che il vissuto traumatico abbia seminato attorno a sé il vuoto.
Ci si chiede se, in relazione all'orrida grandiosità del trauma, tutto ciò che è avvenuto prima non abbia assunto dimensioni lillipuziane, svuotandosi in parallelo di significato e senso.
Un'analisi più attenta ci rende consapevoli dell'articolato campo di forze che si mobilita in questa area. Il passato pre-traumatico, quando la vita scorreva sicura, segretamente rimpianto ed idealizzato, è stato di colpo spezzato ed infangato. La sua rievocazione solleva lo spettro della sua perdita, per cui il passato avanza in parallelo con la sua distruzione: l'arresto, la detenzione, le violenze di giorni, settimane, mesi. I ricordi pre-traumatici sono avvelenati da ciò che è seguito. Rievocarli significa esporsi alla pena e alla disperazione.
Tutto ciò, è bene ricordarlo, è tanto più vero per i pazienti che vediamo in Europa, i quali, oltre che torturati sono degli esuli: persone costrette a vivere lontano dai loro paesi, in regioni ove tutto - clima, colori, religione, lingua, cultura materiale - è diverso. Persone spesso assolutamente sole, che hanno perduto affetti, ruolo sociale, casa.
Accade così che il trauma, e quindi il polo di fissazione, trascini nel suo vortice le memorie più care del passato, detronizzi gli oggetti interni buoni e con essi ogni immagine di conforto, rifugio e speranza.
Queste persone sono pertanto strette tra le maglie di un paradosso, dovuto ad un'ulteriore specificità del trauma in esame: la sua funzione retroattiva.
Come pochi altri, per sanare in parte le loro ferite, questi pazienti avrebbero bisogno di riallacciare contatti con il loro sé pre-traumatico, con le immagini positive e i legami di amore del loro passato, con gli oggetti interni buoni su cui si era costruita la loro personalità. Ma questo è reso difficile, molto spesso impossibile, dal cono d'ombra che il trauma proietta sul passato e lo fissa a sé; che oscura e desertifica ogni forma di vita.
La tortura - e credo che questa sia una conseguenza deliberata ed interna alla sua logica di annichilimento - si rivela così un'esperienza che fissa la mente all'evento, un'invasione di presente traumatico che annulla il passato e non lascia intravedere il futuro.
L'area della personalità che viene lesa da questi traumi credo sia quella che ha a che fare con il diritto alla vita e con la sopravvivenza. Con le pulsioni dell'Io o di autoconservazione, di cui Freud ci ha a lungo parlato nei primi lustri del novecento. Con la violenza primaria, preambivalente, priva sia di connotazioni sadiche che libidiche di cui parlano Abraham e la Klein. Con l'istinto\pulsione di autoconservazione che permette al piccolo di afferrare il capezzolo, di legarsi alla vita e, nello stesso tempo, di difendersi e lottare contro i primi fantasmi persecutori.
Nelle situazioni in esame, questo diritto naturale viene forzatamente represso e negato. L'istinto di autoconservazione e la violenza legata alla sopravvivenza -violentemente repressi ed impossibilitati ad esprimersi sotto il segno della libido - si rinserrano all'interno del soggetto, si traducono in comportamenti ripetitivi e, in luogo di porsi a difesa dell'integrità narcisistica, con una eccedenza di aggressività si rivolgono contro lo stesso soggetto.
L'istinto di sopravvivenza è una forza organica e, in quanto tale, non può essere rimosso; anzi la sua essenza sfugge all'alternativa conscio-inconscio. Esso può solo essere violentemente represso dapprima dalla forza dello Stato poi, per introiezione, dal soggetto medesimo.
Schiacciata dalla repressione politica, successivamente potenziata dal disimpasto pulsionale, la corrente pulsionale legata alla sopravvivenza, inibita nella meta, viene pertanto repressa, mentre, come abbiamo visto, la rappresentazione dei fatti rimane inalterata.
Questo trauma produce nella psiche conseguenze inverse a quanto avviene nella rimozione isterica, ove le rappresentazioni sono tagliate fuori della coscienza, mentre l'affetto non represso subisce una trasformazione.
Alcune considerazioni terapeutiche
All'interno del paradosso a cui prima ho fatto cenno - necessità ed impossibilità, per l'effettività retroattiva del trauma, di rivolgersi al passato - si apre lo spazio della terapia.
L'intervento terapeutico non può modificare gli eventi sofferti, il farsi carne dell'uomo, che nella tortura è stato totale, ma può modificare la componente affettiva e la modalità con cui l'esperienza si è 'congelata' nella memoria.
Quando una\un paziente è stato vittima di tortura è necessario per prima cosa avere ben chiaro che gli effetti delle violenze subite non possono essere da lui metabolizzati e simbolizzati 'fino a che l'analista non ne riconosce la natura e l'origine fuori dal campo intrapsichico'. Come scrive René Kaes, la violenza va 'innanzitutto restituita all'ordine che l'ha prodotta'. E' necessario inoltre, come ci suggerisce Silvia Amati, non confondere gli agenti della violenza 'con gli oggetti interni fondamentali - padre, madre [...]. Mantenere rigorosamente distinti luoghi e personaggi sarà un primo passo importante per uscire dalla confusione; più tardi, nella continuità del processo terapeutico, arriverà il momento opportuno per stabilire similitudini, differenze, distanze [Ö] e riconoscere una continuità di stile e di modalità difensiva' .
Con questa fondamentale premessa sullo sfondo, occorre lavorare per riuscire a dare un posto agli eventi, per trasformarli - da trauma puro e meramente economico - in eventi che, per quanto assurdi e dolorosi, sono legati a scelte e ad accadimenti avvenuti in un preciso spazio\temporale. Occorre aiutare la\il paziente a realizzare una dissociazione tra passato remoto, passato prossimo e presente, in modo che attorno ai ´fattiğ possa costruire un cordone sanitario che non li rende meno dolorosi, ma frena la loro invasività.
Occorre aiutarla\o a riallacciare i legami con lo spazio di vita precedente il trauma, il tempo dell'infanzia, dell'adolescenza e della prima maturità, ove si spera vi siano state esperienze positive, affinché con esse riemergano gli oggetti buoni in grado di affiancare e contrastare, gli oggetti persecutori interiorizzati durante la detenzione.
Occorre lavorare molto sulle interiorizzazioni degli oggetti persecutori - poi divenuti appropriati contenitori della distruttività stessa dell'individuo - sulla identificazione con questi oggetti da parte delle aree violente della\del paziente, affinché possa operare una difficile, ma netta scissione tra gli uni e gli altri.
E' allora possibile che riaffiorino brandelli di passato. Se ricordi di vita richiamano altri ricordi, gli episodi traumatici non assorbono più tutto lo spazio mentale, e il trauma - momento altamente drammatico e doloroso con cui il soggetto si troverà costantemente a fare i conti - potrà dispiegarsi accanto ad altri fatti, di significato e valore diverso.
Nell'incontro con un terapeuta, dotato di specifica competenza e sensibilità, è possibile che stati emozionali provocati dalla minaccia e dalla tortura si trasformino in rappresentazioni e, quindi, in parole. Che il paziente riesca a trasgredire l'ingiunzione a ´non parlareğ dietro cui il potere si occulta, ogniqualvolta si arroga il diritto di umiliare e degradare. Che si renda possibile la 'parola', atto catartico che dà forma concettuale e verbale a ciò che fino ad un attimo prima si manifestava come inassiminabile e incomprensibile e che, se resta tale, è gravido di affetti patologici.
Se tutto ciò accade, è possibile che si metta in moto una dinamica psichica ove al tempo del trauma si affianchi un tempo ad esso precedente e accanto ad esso si distenda il presente; se ciò si verifica il paziente può tornare ad essere in relazione con il suo ambiente di vita, e il suo Io - nonostante la tortura - può riscattare uno spazio di autonomia.
AA.VV, Violenza di stato e psicoanalisi, Napoli, Gnocchi, 1994, p. XVIII.
2 Silvia Amati, Recuperare la vergogna In: Violenza di stato e psicoanalisi, Napoli, Gnocchi, 1994, p. 104.
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