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PSYCHOMEDIA
TERAPIA NEL SETTING GRUPPALE
Psicoanalisi di Gruppo



Note su un gruppo esperienziale a funzione analitica

"TRASFORMAZIONI"

di Marialori Zaccaria



"Propongo che il lavoro dello psicoanalista debba essere considerato, in analogia a quello dell'artista e del matematico, come trasformazione di una realizzazione (la reale esperienza psicoanalitica) in una interpretazione oin una serie di interpretazioni.

W.R.Bion -"Trasformazioni"

"TRASFORMAZIONI"

Il gruppo che descriverò ebbe inizio nel gennaio del 1985 e finì a dicembre del 1987. Il Dott. Francesco Corrao supervisionò il materiale. Il gruppo era costituito da sei donne e un uomo, tutte persone che operavano nel campo delle istituzioni sanitarie e scolastiche, le quali avevano richiesto un addestramento professionale nell'ambito del Centro Ricerche di Gruppo il "Pollaiolo" di Roma.

Ho scelto di descrivere la quinta seduta del gruppo, in quanto ritengo sia un'ottima esemplificazione clinica di alcune concettualizzazioni teoriche: il modello di campo, la configurazione di gruppo come soggetto-oggetto ed il processo trasformativo a cui appartiene ogni interpretazione in senso bioniano.

In questa seduta, un evento esterno influenzò massicciamente il campo gruppale, in particolare un elemento del setting: la stanza. La stanza in cui si teneva il gruppo, era la vecchia sede di via A. Pollaiolo. Era stata ridipinta, ma gli operai non l'avevano riordinata.

Nel centro della stanza ci sono scale e barattoli di vernice vuoti. Si sente un forte odore, ed il pavimento è pieno di macchie. Soprattutto c'è un freddo polare perché le finestre erano rimaste aperte e siamo in pieno inverno.

Sconcertata ed arrabbiata tolgo i barattoli e le scale e li accosto su un lato della stanza. I membri del gruppo arrivano tutti puntuali. Cominciano a scambiarsi caramelle. Solo Concetta dice: "Che strano, anche a casa mia si stanno facendo i lavori". Rosa e Antonio si scambiano opinioni sul periodo migliore per fare i lavori. "Il periodo migliore è la primavera". Sancisco io acida. Giusi si alza e chiude la porta.

Dopo un attimo di silenzio, Antonio, l'unico maschio del gruppo, ridendo dice: "Non ho sogni da raccontare". "Potrei raccontare i sogni che facevo da ragazzo". Aggiunge in tono canzonatorio e inizia a raccontare: "In uno cadevo dall'alto.. in un altro invece, era primavera, ma improvvisamente il tempo cambiava.. ed io mi ritrovavo solo in piazza con la paura di dover essere giudicato da qualcuno.

Alla concisività dei sogni di Antonio, si aggiunge un interminabile racconto di Giusi. "Ma tu ci hai raccontato una novella! ". Dice Antonio.

Rosa prende la parola per dire che comprende quello che dice Antonio: "Perchè da un po' di tempo non faccio che pensare ai rifugi antiatomici. In Svizzera c'è l'obbligo di costruire i rifugi antiatomici". Conclude Rosa, poi inizia a parlare dell'Apocalisse.

L'atmosfera del gruppo si attiva. I discorsi si intersecano e si susseguono velocemente. C'è chi parla della terza guerra mondiale, chi della bomba atomica, chi della guerra Iran-Iraq, chi del pozzo di Alfredino, chi del Vietnam.

Gli interventi sono così rapidi e così emotivamente all'unisono che sembrano un coro. La voce di Alessandra si stacca dalle altre quando riflette su come sia possibile avere paura di qualcosa che non si conosce. Il gruppo ricomincia veloce a parlare della vita e della morte. Della morte come distacco dalla vita. Un'altra voce - quella di Antonio - parla del rispetto della vita, soprattutto della vita altrui.

Interrompo quì la narrazione della sequenza di gruppo - che riprenderò tra poco - per tentare di esplicitare, per quanto mi è possibile, quello che accadeva in parallelo nella mia mente mentre ero in ascolto.

Le domande che rivolgevo a me stessa erano soprattutto queste: "Che sta succedendo? Di cosa parlano?".

La mia mente aveva notato e registrato questi punti del discorso gruppale:

a) l'esperienza era transitata da fenomeni agorofobici - la solitudine nella piazza - a fenomeni claustrofobici - il rifugio antiatomico.

b) in quella rapida carrellata di guerre e di catastrofi vi era un'assenza totale di emozioni esplicitate. Avevo come la sensazione che qualcuno avesse attivato, con un telecomando, un veloce "zapping".

c) Nessuno aveva accennato - a proposito di disastri - ad un fatto di cronaca che si stava svolgendo proprio in quei giorni: il sequestro della nave "Achille Lauro" a Porto Said da parte di un gruppo di terroristi palestinesi.

La mia attenzione fu catturata da quest'ultimo elemento mancante, che diede senso al tutto. Tale mancanza mi offrì la possibilità di produrre una correlazione del tutto arbitraria, di pensare all'assenza del presente e di ripescare quello che oggi definirei il "preambolo" del gruppo, e cioè le battute scambiate tra alcuni membri sulle condizioni esistenti nella stanza prima che Giusi chiudesse la porta. La logica adottata nel ripescaggio del "preambolo" era la logica che C. Pierce definisce dell'abdulazione, per cui se vedo sul tavolo un mucchio di fagioli bianchi e accanto un sacchetto pieno, assumo che nel sacchetto pieno vi sono fagioli bianchi.

Il presente era l'oggetto del conoscere del gruppo, ma il presente era stato sequestrato. Le emozioni derivate dalla percezione del presente non potevano essere pensate perché erano avvertite come pericolose, distruttive, disorganizzanti e catastrofiche. L'inatteso, il nuovo, aveva allarmato e spiazzato il gruppo. L'apparato mentale del gruppo mi appariva come una mente in grado di funzionare con meccanismi propri del pensiero nevrotico individuale.

Il terrore di distruggere l'oggetto-gruppo aveva incanalato la rabbia e il dolore in una dimensione spazio-temporale lontana, lontana nello spazio e nel tempo.

Riprendo il racconto della sequenza della seduta. Espicito i miei pensieri, a partire dall'ultimo intervento di Antonio - il rispetto della vita altrui -. Formulo l'interpretazione. Parlo della mancanza di rispetto per non aver avvertito il gruppo che si sarebbero fatti i lavori. Procedendo a ritroso nell'interpretazione, accenno ad un pensiero imbrigliato dalla nostalgia del prima o dall'euforia del dopo. "Ah! Se fossi piccolo!", oppure "Ah! Quando sarò grande!" che impedisce di vivere il presente. Parlo della mia sensazione, rispetto al bombardamento di immagini angosciose ma non sperimentabili: come uno "zapping" velocissimo azionato da un telecomando. Parlo dell'Achille Lauro e dei sequestratori - operai - terroristi. Evidenzio la forma dei racconti iniziali, i veloci sogni di Antonio: come un pranzo al sacco quando in casa ci sono gli operai tra i piedi. Parlo della novella di Giusi e di come le novelle si ascoltano intorno al fuoco, un fuoco che esorcizzi il gelo in cui siamo.

Ed evidenzio infine le reali condizioni della stanza in cui stiamo, dove è impossibile non sentire l'intenso odore della vernice, non vedere le macchie sul pavimento e non avvertire il gelo. Insomma c'è un gran casino, o meglio, una vera e propria "Apocalisse" nel "quì ed ora".

"Allora" - commenta Antonio - "Tutto quello che abbiamo detto fino adesso era un falso bersaglio!".

A questo punto c'è una variazione topologica nel gruppo. Si parla del freddo e di come fare a riscaldarsi, si parla di stufe e termosifoni da portare e comprare. Alessandra si alza e si scusa per non riuscire a stare seduta così a lungo. Giusi si scusa per la sua irruenza e per il suo "bruciare i tempi". "Tu li raffreddi" - dice Rosa. "Li brucio per me e li raffreddo per gli altri" - risponde Giusi. E Rosa, infine: "No, volevo dire che è una questione di ritmi". "credo di avere tempi lunghi" - interviene Alessandra. Marella le chiede di spiegarsi meglio. Alessandra risponde: "I sogni di Antonio erano angosciosi, ma è mancato il tempo di rifletterci". Marella si riferisce ad Antonio come se fosse la prima volta che viene. Rosa comincia a parlare dei tempi di recitazione di un attore (è laureata in psicologia ma si occupa di teatro), della necessità di distanziarsi temporaneamente da sè per recitare un personaggio.

Intervengo e riprendo il discorso sul teatro. Sul campo teatrale in cui intervengono i tempi degli attori - la maschera e il volto - e i tempi degli spettatori. Così come nel campo gruppale intervengono i tempi dell'individuo, del gruppo e dell'individuo in gruppo. Nel gruppo c'è una interazione gruppo-individuo. Sottolineo la "valenza qualitativa" di Antonio come attore, che ogni qual volta interviene sembra venir fuori dal "pozzo-gruppo", come Alfredino.

Il gruppo, a questo punto, sembra immerso in una perturbazione emotiva. Sembra interrogarsi.

"Ma allora l'individuo dal gruppo come ne esce?" - dice Marella preoccupata, mentre tutti sembrano col fiato sospeso. Utilizzo il modello della figura in primo piano e della figura a sfondo. "Escher potrebbe andare?" - chiede Rosa. "Ho pensato che Lori ha tutti quadri di Escher, a casa" - dice Alessandra ridendo.

Gli animi e l'atmosfera si distendono. Il gruppo, per consenso implicito, considera finita la seduta. Marella resta seduta: "Aspetto la fine temporale del gruppo" - dice rivolgendosi a me. "Ci vediamo la prossima volta" - Rispondo.

Nella seduta successiva, nel gruppo si svilupparono i legami, ed il gruppo adottò l'"hic et nunc" - tranne nei momenti in cui tentava di narrare al membro assente la seduta precedente. Iniziò la memoria del gruppo. Si sottolineò la partecipazione emotiva al gruppo sia nell'assenza che nel silenzio. Si dialogò su come ci si sente in gruppo e sul sentirsi gruppo.

Tornando alla seduta precedente, dopo la mia prima interpretazione appaiono evidenti, nel gruppo, gli effetti dell'"operazione trasformativa", a conferma della tesi bioniana che ogni interpretazione appartiene al campo delle trasformazioni.

Si configurano infatti nel gruppo, "trasformazioni nello spazio" e "trasformazioni nel tempo". Trasformazioni nello spazio, privilegiate da alcuni membri del gruppo, e trasformazioni nel tempo privilegiate da altri membri del gruppo (il "bruciare i tempi" o "l'insofferenza di stare seduta a lungo", ed anche la richiesta di Marella della definizione del "flusso temporale" della seduta).

Un altro spunto di riflessione riguarda il tempo della seduta. L'inizio della seduta sembra essere stato determinato dalla chiusura della porta da parte di un membro del gruppo. Lo scambio di battute iniziali - prima che la porta fosse chiusa - su quale fosse il periodo più adatto per ridipingere le pareti, con il mio sancire che il periodo migliore è senz'altro la primavera, sembrerebbe non essere appartenuto né al tempo della seduta né al gruppo, come una sorta di "preambolo" non degno d'attenzione. Questo "preambolo" mi trasse a lungo in inganno, facendomi supporre che il tema sulle condizioni della stanza fosse un solo stato affrontato dal gruppo, ma addirittura esaurito.

Utilizzando la "visione binoculare di Bion", vorrei ora tentare una messa a fuoco, prima dell'individuo in relazione al gruppo come "oggetto", poi sul gruppo come soggetto-oggetto.

L'aspettativa di ognuno, nella realtà interna, era sicuramente quella di trovare una stanza confortevole e accogliente, ma "inaspettatamente" la realtà esterna si presentava in tutt'altro modo. Una realtà esterna nuova, che spiazzava, che era avvertita come violenta.

Le emozioni della realtà interna dell'individuo, legate alla "nuova realtà esterna", erano anch'esse del tutto nuove. Bisognava, quindi, affrontare una nuova realtà intrasoggettiva: la rabbia e lo sconcerto. Quella rabbia e quello sconcerto che io - come conduttore e membro del gruppo - arrivando in anticipo, avevo avuto modo di percepire e di sperimentare.

Questa nuova realtà intrasoggettiva era avvertita come pericolosa, disorganizzante e distruttiva verso l'oggetto-gruppo. Nella teoria delle relazioni oggettuali, Winnicott (in "Gioco e Realtà"), sostiene che "l'entrare in rapporto con l'oggetto può riguardare un oggetto soggettivo, mentre l'uso implica che l'oggetto sia parte della realtà esterna" e che il "poter usare" l'oggetto passa attraverso la distruzione dell'oggetto stesso ed attraverso il fatto che l'oggetto sopravviva alla distruzione collocandosi così "al di fuori dell'area in cui operano i meccanismi mentali proiettivi".

Bion in "Trasformazioni" - partendo dall'esperienza "claustro-agorofobica" - fa un'asserzione che ci riporta ai primi momenti della seduta di gruppo.

Dice Bion: "Ho scelto lo spazio per rappresentare... emozioni che sono indistinguibili dal luogo dove era qualche cosa,.. il paziente fa l'esperienza, come potrebbe farla un bambino quando il seno gli viene sottratto, di fronteggiare emozioni che gli sono sconosciute, e che sono confuse con un oggetto che egli possiede solo da poco".

E Francesco Corrao, ne "Il Sé gruppale", dice che "Il gruppo.. funziona come un sistema unificato di trasformazione continua che può essere alternativamente la configurazione di soggetto, ovvero di oggetto su cui proiettare sentimenti e desideri e su cui trasferire esperienze e aspettative, potenziate o idealizzate, per la evidenza della sua insiemità totalizzante".

Focalizzando il gruppo, possiamo affermare, che il gruppo si era costituito da poco (era solo la quinta seduta), e non era quindi in grado di fronteggiare le emozioni sconosciute e confuse con l'oggetto, e derivate dal fatto che qualcosa gli era stato sottratto.

L'aspettativa di una stanza confortevole e accogliente. Il terrore che quelle emozioni sconosciute potessero "apocalitticamente" distruggere tutto. Un cambiamento catastrofico in cui il gruppo rischiava di distruggere se stesso. A questo punto potremmo non scartare l'ipotesi che, per il gruppo, nasceva l'esigenza di bloccare ogni correlazione tra percezione e pensiero, la necessità di distanziare i vissuti emotivo-cognitivi nello spazio e nel tempo, e il bisogno di strutture un legame in - K. Tutto ciò al fine di preservare il gruppo stesso.

In conclusione accennerò brevemente alla storia di questo gruppo. Antonio - l'unico membro maschile - dopo due anni lasciò il gruppo e fu impossibile rimpiazzarlo. Altri due membri lasciarono il gruppo, rimpiazzate da altre tre donne, due psicologhe e un medico. La vita del gruppo risultò abbastanza complessa per tre fattori. Il primo era la composizione tutta femminile del gruppo. Il che comportava un'atmosfera tra il gineceo e il gruppo femminista (o il gruppo di amazzoni). Il secondo fattore, che imbrigliò il pensiero di gruppo, fu la presenza preponderante di addetti ai lavori nel campo della psicologia tra i membri del gruppo. Il terzo elemento negativo fu lo spostamento del gruppo dal "Pollaiolo" al mio studio.

Forse per l'assenza di uomini e per la presenza massiccia di donne, tutte espressero il desiderio di avere un figlio. Quando il gruppo si concluse, due partecipanti ebbero parti gemellari. Una partorì due maschi, l'altra una femmina e un maschio. Questa coincidenza di due parti gemellari con prevalenza di maschietti, tutt'ora, a distanza di anni mi sconcerta. Una volta, mentre il gruppo affermava la necessità di un uomo, Concetta, con ira aveva affermato: "Basta! Faremo tutto da sole!". Dopo i parti gemellari mi nacque un dubbio. Il gruppo può influire sul DNA? Esiste un DNA gruppale? Chiudo con questi pensieri che un bioniano non esiterebbe a definire più che "selvaggi".


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