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PSYCHOMEDIA
TERAPIA NEL SETTING GRUPPALE
Psicodramma



Michela e il suo Altro materno

di Fabiola Fortuna



Ricordo ancora quel pomeriggio di fine settembre quando, accendendo il cellulare in un momento di pausa del mio lavoro ricevetti una telefonata da parte di un mio amico, illustre membro di una nota società psicoanalitica, che mi disse di aver fatto una consulenza ad una signora affetta da cancro che gli aveva chiesto aiuto.
Il mio collega chiarì però subito che non se la sentiva di occuparsi di persone portatrici affette da così gravi patologie organiche ma che sapeva che invece io lavoravo in questo ambito per cui mi chiese se avrebbe potuto inviarmi questa persona che, pur stando molto male fisicamente, appariva però dotata di una grande carica psichica e di particolare sensibilità.
Diedi quindi la mia disponibilità a vedere la signora in questione, così come in genere faccio quando mi si chiede di occuparmi di pazienti affetti dal cancro, perché il pionieristico lavoro di studio e di ricerca cominciato più di venti anni fa con il professor Claudio Modigliani proprio nell’ambito dell’incidenza e della cura degli aspetti psichici delle malattie oncologiche, rappresenta ormai per me un elemento determinante del mio approccio alla vita lavorativa e forse non solo.
Fu così che qualche tempo dopo aver ricevuto la telefonata in questione incontrai appunto Michela, certamente una delle più belle persone che io abbia mai conosciuto:
“ ho 45 anni, ho subito un intervento chirurgico al seno tre anni fa , ho fatto la chemio e la radio terapia, per un po’ sono stata bene ma ora sto molto male, ho delle metastasi di cui una al polmone e un’altra al cervello. Ho capito che i medici pensano che sto per morire, mi hanno riproposto una radioterapia e forse dell’altra chemio, ma io comunque, non posso andarmene così perché ho un figlio di sedici anni che ha ancora molto bisogno di me e devo assolutamente mettere a posto delle questioni finanziarie per garantirgli una tranquillità economica per quando non ci sarò più.
Lo so anche io che morirò, ma non posso accettare i tempi di vita che mi danno i medici, che per altro sono dell’ordine dei tre, quattro mesi; non mi bastano; lei può aiutarmi a vivere quello che per me è necessario?”
Queste furono le parole che Michela pronunciò nella prima seduta, parole che certamente mi misero subito di fronte ad un dilemma assai pesante:
come avrei potuto aiutare una persona per permetterle di promuovere la speranza senza però incastrarla nell’illusione?


Cosa si può proporre ad un paziente con gravi patologie organiche

So benissimo, perché l’esperienza me lo ha dimostrato e seguita a dirmelo ogni giorno, che si può vivere meglio e vivere di più , a patto che si sia in grado di far progetti partendo da un desiderio e che questa è precisamente la condizione che poi permette di sperimentare una dimensione di speranza indispensabile, appunto alla vita.
Ho scoperto però che tutto questo, che in genere si penserebbe rappresentare un funzionamento psichico a dir poco ovvio e automatico, si riscontra invece molto poco nelle persone che sviluppano gravi malattie organiche come il cancro.
Spesso questi individui vivono immersi in dimensioni molto più simili a quelle illusorie, probabilmente perché la loro struttura psichica si sorregge prevalentemente su dimensioni difensive molto rigide e strutturate volte a mantenere in piedi, mondi guidati da visioni ideali; in pratica utilizzano massicciamente meccanismi difensivi come la rimozione e il diniego.
Credo che tutto questo concorra a far si che gran parte dei malati oncologici riesca appunto con “stratagemmi psichici” a tener lontana una dimensione più realistica della vita che contrariamente, se fosse più vista, risulterebbe forse troppo pericolosa e concorrerebbe a portare a galla dei conflitti sotterranei ritenuti forse insostenibili.
Cosa avrei potuto comunicare quindi a Michela, come sarei potuta riuscire a darle comunque una risposta che non significasse però illuderla personificando il ruolo del mago o del guaritore, quali parole avrei potuto esprimere per arrivare a significanti profondi e forse tutt’ora a lei inaccessibili; come, in definitiva, diventare per lei ciò che proprio le serviva che io fossi, cioè un tramite per la speranza, se non di guarigione totale, almeno di una cura di se’ e per se’?
Dissi quindi a Michela che in tutta buona fede non potevo garantirle nulla circa quelli che sarebbero stati i suoi tempi di vita ma che le potevo proporre di iniziare un lavoro: cosa da questo sarebbe venuto fuori non ero in grado di prevederlo ma, in mezzo a tanta incertezza, di una cosa ero sicura, e cioè che quando si decide di far sul serio qualcosa per se stessi poi di fatto qualcos’altro incredibilmente accade, per cui, se lo desiderava, avremmo visto insieme cosa sarebbe capitato a lei e in lei.
In qualsiasi trattamento psicoterapico classico in genere si propongono al paziente dei colloqui preliminari che costituiscono appunto una prima fase di lavoro necessaria al terapeuta per orientarsi verso una prima valutazione diagnostica.
L’esperienza insegna che è saggio non aver fretta di terminare il lavoro preliminare per giungere al contratto terapeutico, poiché, le insidie di tematiche psichiche insospettate e nascoste che possono stravolgere completamente una prima ipotesi diagnostica, è sempre in agguato.
Ma con i pazienti affetti da malattie organiche e specialmente con quelli che hanno un cancro, le cose vanno per forza in un altro modo, perché il problema del tempo, in questo ambito, occupa una posizione del tutto particolare.
Ho imparato anche che bisogna certamente essere sempre accorti e rispettosi della soggettività dell’altro ma che è anche importante, in certe situazioni, rischiare un po’ di più di quanto si sarebbe portati a fare con un paziente nevrotico o psicotico.
Quindi dissi a Michela che le avrei insegnato le tecniche di rilassamento psico-fisico, che avrebbe avuto degli incontri individuali in cui affrontare meglio qualcosa di lei e che poi, sempre se avesse voluto, poteva essere inserita in un gruppo di psicodramma analitico.
Chiaramente non con tutti i pazienti mi muoverei in questo modo, ma l’acutezza e l’intelligenza di Michela unite alla determinazione che vedevo in lei rispetto al voler assolutamente vivere per aiutare suo figlio, mi convinsero che la proposta terapeutica fatta, anche se decisamente fuori dagli schemi e forse anche un po’troppo ambiziosa, rappresentava comunque il meglio di quello che potevo fare per la paziente, e mi consolai un po’ ricordando la frase del professor Claudio Modigliani: “il bene a volte non coincide con il meglio”.
Nei colloqui preliminari emerse la storia della vita di Michela, la storia di una vita vissuta totalmente all’insegna della quasi totale alienazione della propria soggettività, una vita in cui la parte del padrone era sempre stata giocata dal Grande Altro materno, una vita la cui unica vera creatività era stata rappresentata dalla nascita di un figlio che di fatto al momento costituiva l’unico legame con la sopravvivenza, troppo poco, comunque per andare avanti.
Infatti anche se la maternità nella vita di una donna può davvero a volte rappresentare un’esperienza di grandissima importanza, è pur vero che anche l’amore materno non può prescindere comunque da almeno un po’ di amore per se stessi. E questo amore di se’ Michela non lo conosceva affatto.
Si capiva che aveva vissuto tutta un’esistenza con stigmatizzata dentro di se’ l’idea, o meglio il fantasma, perché di fantasma si tratta, dell’importanza di accontentare l’Altro incarnando il più perfettamente possibile, e in modo inderogabile, la parte di chi deve essere la soddisfazione del desiderio di questo Grande Altro, vissuto come potente e continuamente voglioso di nuove gratificazioni, un Altro crudele e cannibalico.


La storia della vita di Michela

Così, di fatto, Michela descrisse sua madre, una donna di novant’anni, che malgrado fosse da sempre portatrice di una salute invidiabile, passò la propria vita a lamentarsi comunque di inesistenti disturbi psico-fisici pretendendo dalla figlia un’assoluta devozione e disponibilità.
La paziente mi disse che i suoi genitori si separarono quando lei era piccola perché il padre non resse il carattere dittatoriale e gelido della moglie e quindi se ne andò, agevolato anche dal fatto che essendo ambasciatore, aveva molte opportunità di spostare la sua sede di lavoro.
Il periodo che Michela descrisse come più felice della sua vita, fu quello della prima infanzia, cioè fino agli otto anni, quando con i genitori visse in Australia in una in una grande villa, con grandi spazi a disposizione e affidata alle cure di una governante estremamente dolce e comprensiva, cioè tutto il contrario della madre. La paziente quindi in quel periodo, ebbe l’opportunità di ottenere una qualche forma di libertà e autonomia rispetto alle rigide regole educative che la madre, già da allora le imponeva, ma, questa parentesi idilliaca purtroppo finì per cui, tornata a Roma, le cose cambiarono radicalmente e si ritrovò a vivere in un appartamento a stretto contatto con la madre, senza quello schermo protettivo che per lei era stata la sua governante.
La mamma pretendeva da Michela la più assoluta obbedienza sempre e comunque, e quando capitava che non riuscisse ad essere perfetta come si voleva che lei fosse succedevano scene terribili. Inoltre la madre voleva che la paziente dedicasse il suo tempo solo agli studi e a tenerle compagnia e non le permetteva di frequentare coetanei al di la delle ore scolastiche.
Questa situazione durò anche nella adolescenza, fino a che a 19 anni Michela si innamorò perdutamente di un ragazzo.
Ovviamente la madre ostacolò in tutti i modi questa passione giovanile della figlia che, alla fine, non trovò di meglio che smettere di studiare per cercarsi un lavoro, cosa che fece, aiutata in questo dal padre con il quale aveva degli sporadici contatti.
Ma anche questo non produsse un effettivo cambiamento nella situazione per cui, Michela, malgrado avesse cominciato ad avere un’ autonomia economica, restò comunque totalmente dipendente psichicamente dalla madre.
Accadde poi che in uno dei fugaci incontri col suo innamorato, la paziente restasse in cinta e questo la gettò nella più grande disperazione.
Dopo incredibili tormenti e una terribile lite con la madre che la picchiò e le disse che aveva disonorato la famiglia, Michela chiese al suo ragazzo di sposarla perché questo era l’unico modo per poter seguitare la loro storia; inoltre affermò che comunque lui avrebbe potuto continuare a studiare perché sarebbe stata lei a provvedere al mantenimento di ambedue.
Fu così che la paziente si sposò, ma non avendo una particolare disponibilità economica e sicuramente anche per ben altri motivi al momento per lei certamente non conscientizzabili, decise di accettare la proposta della madre di seguitare a vivere tutti e tre insieme nella stessa casa, e quindi, di fatto Michela accettò che nulla cambiasse veramente con la conseguenza che ovviamente il matrimonio andò quasi subito in crisi e il neo marito la lasciò definitivamente poco prima del parto.
Da allora la paziente non fece altro che lavorare, pensare a far crescere nel migliore dei modi suo figlio e seguitare ad obbedire a sua madre: chiaramente, mi disse in un colloquio, non ho più avuto ne’ tempo ne’ voglia di avere altre relazioni sentimentali, ma del resto, aggiunse, io sto bene così.
E infatti paradossalmente, Michela apparentemente sembrava serena, non si lamentava di nulla, non era mai aggressiva o arrabbiata, tutto insomma più o meno filava liscio se non fosse stato per quel cancro comparso, disse lei, così inaspettato, e poi pronunciò le parole che credo il novantanove per cento dei pazienti che io ho ascoltato che hanno un cancro ripetono: ” Perché proprio a me?”.
E già, sembra che chi si ammala di cancro si sente sempre al di là del bene e del male, nulla lo intacca e da nulla pensa sarà intaccato. Non c’è gioia non c’è dolore, c’è di sicuro però tanta devozione, tanto dovere verso qualcuno o qualcosa che è comunque più importante di se stessi e che sembra occupare tutto lo spazio psichico, tutta la propria vita, vita vissuta all’insegna dell’Altro.
E infatti l’intera esistenza di Michela è stata costellata dal dovere e dalla dedizione verso la madre da cui ancora oggi non ha potuto separarsi, e da cui ha subito, senza però potersene mai rendersi conto, ogni forma di tirannia possibile; ha amato teneramente suo figlio, ma questo non è servito a permetterle di convertire una quota di rabbia e di angoscia di cui sicuramente Michela è portatrice inconsapevolmente, verso forme di esistenza minimamente più dignitose ed accettabili per un essere umano, come dire è rimasta incastrata in godimenti perversi inaccettabili e non funzionali alla vita, per lei è saltata la possibilità di avere una legge che possa fare da limite.


Michela entra nel gruppo di Psicodramma Analitico

Comunque dopo alcuni colloqui arrivò il “grande giorno”, quello cioè in cui Michela, persona schiva e chiusa accettò di entrare in un gruppo di psicodramma analitico.
Come era prevedibile per molte sedute Michela stette in silenzio, anche se una volta fece un breve intervento per dire che era molto interessata a quello che gli altri esprimevano, ma di fatto portò praticamente nel gruppo quello che da sempre era il suo modo di essere: se ne stava calma e apparentemente tranquilla, aveva un che di una bambina timorosa, di un’allieva che se ne sta in classe tutta diligente.
Gli altri membri del gruppo sembrava non volessero interferire con questo progetto di “asetticità” di Michela e quindi per molto tempo capitò che nessuno la scegliesse per personificare qualcuno nei propri giochi.
Intanto il tempo passava e la paziente però cominciò a stare meglio dal punto di vista fisico.
Fece di nuovo la radioterapia ma non volle sottoporsi ad altri cicli di chemio perché, disse che se doveva morire preferiva farlo in un modo dignitoso cosa secondo lei incompatibile per l’appunto, con un altro ciclo di chemioterapia e mi riferì anche che i medici non la spinsero troppo in questa direzione forse perché convinti che ormai stesse proprio alla fine.
Di fatto di mesi ne erano passati già cinque e Michela era ancora viva e veniva con regolarità alle sedute, faceva correttamente il rilassamento, partecipava al gruppo e secondo me questo era quel che contava.
In una seduta poi la paziente fece il suo primo vero intervento in associazione a due donne che avevano riferito di sentirsi spente e senza desideri; una di queste aveva parlato di come avesse cominciato a rendersi conto di come la relazione col marito fosse un terribile incastro da cui non riusciva a venire fuori e che in particolare la dimensione della sessualità era diventata per lei un obbligo da compiere a cui non riusciva a sottrarsi.
Michela allora parlò di sua madre e di come da quando avesse cominciato il gruppo iniziasse a rivedere tante cose del suo rapporto con lei; affermò di rendersi conto di come certi aspetti del suo modo di relazionarsi con gli altri le fossero sempre sfuggiti o, forse, disse, non li aveva mai voluti notare, perché troppo dolorosi e poi raccontò un sogno:

“Ero in una strada perché sapevo che dovevo fare un percorso e ad un certo punto vedevo della gente che stava seduta in alto, come se stesse sopra ad un podio, erano persone cioè che stavano in una posizione più alta rispetto alla mia, ma cominciamo comunque a parlare.
Sento una voce fuori campo dire una battuta e tutti ridono e a quel punto vedo mia madre.
E’ immersa fino a sopra il ginocchio nella melma e mi sembra in difficoltà e quindi penso che debbo andare ad aiutarla.
Comincio ad incamminarmi verso di lei ma all’improvviso sono attratta da un bimbo piccolo che gattona e questo fa si che mi dimentichi di mia madre, infatti sono molto presa da questo bambino e temo che possa farsi male. Il piccolo va verso un trattore che sta fermo e io riesco a prenderlo in braccio, voglio cercare di proteggerlo da eventuali rischi che potrebbe correre.”
L’animatrice a questo punto chiamò la paziente proponendole di giocare il sogno.


Il primo gioco di Michela

Michela scelse per fare la madre Francesco perché persona rigida e che non ascolta, per giocare la parte delle persone che stanno sul podio Rita e Giacinta perché in gamba e realizzate, per la parte del piccolo, a cui diede il nome di Alberto, Giorgio, perché tranquillo.
Il gioco iniziò e Michela, malgrado Francesco-madre la chiamasse, si rivolse subito verso Alberto- bambino, che però iniziò a simulare una corsa e a quel punto Michela si bloccò e comincò a riraccontare il sogno e in pratica, quindi uscì dal gioco.
Nel cambio dei ruoli la paziente prese il posto di Alberto e fece di tutto per andare incontro a se stessa giocata da Giorgio, dicendogli :”prendimi in braccio e coccolami”.
Il bambino giocato da Michela, le andò vicino e ci fu un attimo di grossa commozione. Francesco, che giocava la parte della madre della paziente stette immobile in tutte le due parti emettendo ogni tanto qualche lamento a cui però nessuno prestò attenzione.
Nell’A-Solo al posto di Alberto, il bambino, Michela disse :”Vorrei una nuova mamma, dolce e protettiva e per questo mi piaceva andare verso Michela –Giorgio”; tornata poi a posto disse di sentirsi molto dispiaciuta per non essere riuscita nella prima parte del gioco, al posto di se stessa, ad andare veramente incontro al bambino, cosa che pensava di volere moltissimo, ma che evidentemente doveva ancora risultare troppo problematica; inoltre riferì di non aver provato affatto interesse verso la madre la cui presenza, anzi, la infastidiva.
Nell’osservazione, alla fine della seduta, ci fu poi una sottolineatura che si rivelò, in seguito, molto importante, e cioè venne chiesto a Michela come mai, per giocare la parte del bambino Alberto, avesse di fatto scelto proprio Giorgio, che guarda caso, nelle sedute precedenti era stato spesso definito da alcune persone del gruppo come uno che da un po’ sembrava essere in una posizione di stallo, vittima di un incastro che gli impediva di fare quello che sosteneva desiderare e ritenere per se stesso importantissimo, cioè separarsi dalla propria moglie.
Dopo un silenzio piuttosto prolungato Michela disse:” è la prima volta in vita mia che ho distratto l’attenzione da mia madre, certo è stato per poco e poi in un sogno e in un gioco, ma questo fatto mi colpisce davvero tanto, anche perchè solo ora mi rendo conto di come in tutta la mia esistenza il mio pensiero costante sia sempre stato per e verso mia madre.
Questa seduta segnò senza dubbio l’inizio di una partecipazione molto più intensa all’interno del gruppo per Michela che poté quindi elaborare sempre più chiaramente, la relazione con il suo Grande Altro materno:
in particolare questo gioco le permise di aprirsi alla possibilità di cominciare a volgere il proprio sguardo in un posto diverso da quello occupato dalla madre e, cosa ancora più importante le permise di sopportare di esistere senza essere catturata dallo sguardo di lei.
La paziente si rese conto di come da sempre si sentisse incastrata in sensazioni e sentimenti che oscillavano tra oscure colpe e doveri vissuti come inderogabili che, alla fine, le avevano impedito ogni possibilità di operare un taglio e quindi di separarsi da sua madre; capì che di fatto, sino ad ora, non si era permessa mai di assumere una posizione soggettiva.


Sogni di bambini simbolici secondo E.Bernard e C. Modigliani

Del resto rispetto a questo sogno che mi portò Michela, non si può non tenere conto di quello che affermò il professor Claudio Modigliani nel testo “Sogno Ricorrente Dopo Terapie Antiblastiche” estratto dalla “Rivista di Psicologia Analitica” del novembre 1996 e mi sembra quindi importante cedere ora a lui, momentaneamente, la parola:
“ Nei miei cinquataquattro anni di pratica clinica come psicoterapeuta di nevrotici e di psicotici ho constatato che i sogni, rari purtroppo, in cui compare un bambino simbolico possono avere un significato prognostico e quasi sempre favorevole: se il bambino è integro e vitale la prognosi può essere fausta. Il Bambino è un neonato di cui non si conosce la provenienza; questo significa che il processo di individuazione è iniziato ma è ancora inconscio: con l’ulteriore lavoro e sviluppo i pazienti diventano consci della nascita di una nuova parte del proprio io che si va gradualmente differenziando”. E ancora…” La maggior parte degli esseri umani transitano per l’esistenza senza sapere chi essi siano, inconsci della propria individualità. Ne’ le religioni, ne’ le ideologie politiche e filosofiche conferiscono loro un’individualità, ma ne mascherano la mancanza mediante l’elargizione di identità collettive illusorie e rassicuranti. Il che non significa che la mancanza di consapevolezza della propria individualità sia di per se’ un fenomeno patologico o renda infelici; anzi, per lo più serve da parziale anestetico per le comuni sofferenze della vita ed aiuta a scansare la fatica di pensare.”
E per Michela il gruppo fu precisamente un grande aiuto e un incredibile “acceleratore” di nuovi processi psichici che le permise di prendere atto di quanto poco, fino ad ora, avesse sviluppato una propria posizione soggettiva elemento indispensabile per permettere a chiunque di vivere una vita minimamente degna di questo nome.
L’altra dimensione fondamentale a cui la paziente poté avvicinarsi attraverso il gruppo fu quella rappresentata dal discorso sulla difficoltà a poter “tagliare”.
Credo che per i soggetti che sviluppano patologie organiche sia davvero fondamentale l’uso dello psicodramma analitico che consente, attraverso il gioco che è appunto un taglio del discorso, il confronto con quegli aspetti della vita ritenuti troppo pesanti da affrontare perché legati specificatamente alle questioni inerenti alla difficoltà nelle separazioni che come è noto producono molto dolore ma sono inevitabili a volte per crescere.
Da questo momento in poi capitò anche che Michela fosse scelta sempre più spesso per giocare la posizione di bambini o adolescenti e anche questo le permise di sperimentare delle dimensioni psichiche per lei ancora del tutto inesplorate.


Michela scopre di avere dei desideri

Sul piano della realtà nel frattempo Michela cambiò una serie di cose e iniziò a concedersi di andare qualche volta a teatro, di organizzare qualche piccola gita con delle amiche, e sottoporsi a dei particolari massaggi, che diceva, le dessero un gran benessere. Tutto questo si verificò proprio quando la paziente cominciò a poter tollerare l’idea di lasciare la mamma da sola a casa per periodi che divennero sempre un po’ più lunghi.
In una seduta dopo qualche mese Michela arrivò molto trafelata, si vedeva che doveva esserle successo qualcosa e infatti fu lei che iniziò a parlare nel gruppo raccontando quello che le era capitato il giorno precedente:
” Ieri sera dopo essere tornata a casa dal lavoro ci è venuto a trovare un vecchio amico di famiglia che ha portato in dono a mio figlio Riccardo un coniglietto: Riccardo non stava più nella pelle per la gioia, visto poi che da tempo mi chiedeva di regalargli un animaletto, ma, mia madre si è intromessa all’improvviso e con la sua voce più gelida ha esclamato che se fosse entrato il coniglio in casa ne sarebbe uscita lei e che tutto questo rappresentava qualcosa di peggiore di un terremoto”.
Michela disse che si era sentita malissimo trovandosi dilaniata tra il suo desiderio di accontentare il figlio e il panico di doversi eventualmente contrapporre in qualche modo alla madre, ma che alla fine aveva avuto il coraggio di dire:” Mamma, questa volta il coniglio resta e se proprio non lo sopporti ti aiuterò a trasferirti in un altro appartamento.”
Michela espresse quanto gli fosse costato dire una cosa del genere e di come poi fosse entrata in agitazione; comunque le sembrava di aver vinto una piccola battaglia dato che poi il coniglio era rimasto, (così come purtroppo la madre) e aggiunse anche che non si era mai resa conto davvero di quanto da sempre fosse stata tiranneggiata:” il vero guaio è che sino a ieri sera glie l’ho sempre permesso.”
Se possibile la salute fisica e anche psichica di Michela migliorò sempre di più , sembra peraltro, da quello che sosteneva la paziente, con grande stupore dei medici, visto che ormai erano intanto passati due anni dal primo incontro; una volta mi disse che nessuno riusciva a capire come fosse possibile che una persona con le metastasi che aveva lei, situate dove le aveva lei, potesse seguitare non solo a vivere ma a stare bene e condurre quindi un’esistenza attiva prendendo la macchina, lavorando e uscendo.
Per quel che ne so io, non esiste nessun rimedio chimico e farmaceutico in grado di ottenere questi risultati, così come sostiene ad esempio anche Dean Ornish famoso cardiologo nel suo libro “L’amore che fa vivere” :
” Nel 1993 F.I. Fawzy e Spiegel della facoltà di medicina della UCLA hanno pubblicato un lavoro per valutare la recidiva della malattia e la sopravvivenza di un campione di pazienti con melanoma sottoposti sei anni prima ad una terapia di sostegno di sei settimane. Il risultato è stato che il gruppo che aveva avuto il supporto della psicoterapia di gruppo aveva presentato un tasso di sopravvivenza significativamente maggiore rispetto a quello di controllo che non aveva avuto questo supporto”…..
“Se una casa farmaceutica scoprisse un farmaco in grado di raddoppiare la sopravvivenza delle donne affette da cancro mammario secondari le riviste mediche lo pubblicizzerebbero a piena pagina. Eppure, malgrado Spiegel e altri si siano adoperati per divulgare i risultati di varie ricerche, di fatto, la facoltà di medicina stenta ad insegnare quale possa essere l’importanza del trattamento dei fattori psicoemotivi.”
Passò un altro anno e mezzo e Michela riuscì anche a sistemare le questioni finanziarie che tanto le premevano e che significavano per lei la tranquillità economica per il suo adorato figlio.
Questo fu un momento in cui ebbi paura perché mi chiesi cosa sarebbe successo ora che la paziente era riuscita a raggiungere l’obbiettivo che si era data e che di fatto aveva rappresentato sino ad ora un’importante spinta verso la vita.
Per fortuna, almeno apparentemente, non successe nulla di drammatico, anzi Michela seguitò ad andare avanti nella sua vita e nel suo lavoro fino a quando in una seduta annunciò tutta contenta che finalmente si era resa conto di avere un desiderio: voleva vivere in campagna e avere una piccola casa tutta per se’ e suo figlio che, nel frattempo dimostrava un crescente disagio nel convivere con la nonna.


Michela si avvicina ad un desiderio troppo pericoloso

La paziente disse che forse questa casa era una cosa che aveva sempre desiderato ma che non aveva mai avuto il coraggio di confessarselo perché certamente questo le riproponeva qualcosa di intollerabile, cioè prendere in considerazione l’idea di separarsi davvero da sua madre.
L’animatrice chiese a Michela se precedentemente si fosse mai verificata qualche situazione in cui si fosse trovata ad affrontare qualcosa del genere e la paziente ricordò di quando una volta all’età di sette anni fosse stata picchiata e messa in punizione nello stanzino buio una sera in cui la sua tata non c’era e le era capitato di continuare a giocare con un amichetto in giardino malgrado le fosse stato detto di rientrare a casa.
Venne quindi fatto giocare questo ricordo e fu terribile vedere come Michela nel proprio posto fosse completamente impaurita e impossibilitata a difendersi da una madre, giocata nuovamente da Francesco in modo molto rigido e dittatoriale, ma fu ancora più penoso come Michela giocò la propria madre.
Infatti fu terribile e vendicativa, non aveva nessuna pietà per Michela e le inveiva contro.
Nell’a-solo ribadì praticamente la stessa posizione dicendo di se stessa che era una bambina proprio cattiva e disobbediente che meritava davvero di essere punita.
L’animatrice, dietro di lei la doppiò dicendole sottovoce:” Ma Michela non ha fatto nulla di così grave, voleva solo continuare a divertirsi un po’ col suo amichetto e non era tanto tardi e non c’era nessun pericolo.”
Terminato il gioco i partecipanti tornarono a posto e Francesco,il primo a prendere la parola disse di essersi sentito malissimo nella parte di Michela che non era riuscito a contrastare tanto le era sembrata violenta e che quindi era di certo stato meglio nel posto della madre.
Michela apparve improvvisamente svuotata di tutto, e non potrei nemmeno dire se fosse triste oppure no, affermò soltanto che non sapeva dire dove si fosse sentita meglio, e cosa ancora peggiore, quando le fu chiesto cosa pensasse del doppiaggio fattole nell’A-solo rispose: ”ma quale doppiaggio?”.
Lo psicodramma analitico è davvero uno strumento incredibile in cui si possono vedere perfettamente e, come dire, proprio “dal vivo” e “in azione” gli schemi difensivi ed è proprio vera la frase che spesso ripeto ai miei pazienti:
“L’altro della realtà capisce sempre quello che vuole e quello che può”
e la possibilità che avvenga una comunicazione tra le persone non consiste solo nell’inviare correttamente un messaggio, (come ahimè alcuni sostengono!!!, Magari fosse così, non ci sarebbero più le guerre!) ma molto di più da ciò che la strutturazione inconscia e difensiva permette. Michela, quindi, come qualsiasi “piccolo altro” capì, o meglio decise proprio di non comprendere e tanto meno di ascoltare quel doppiaggio ritenuto evidentemente troppo scomodo e rischioso per il proprio assetto psico-emotivo. Per come poi andarono le cose devo dire che evidentemente non servì nemmeno la sottolineatura fatta dall’osservatore in questo senso.
Questo gioco quindi mi preoccupò molto e purtroppo in questo ebbi ragione perché da li cominciò un’inversione rapidissima di tendenza nell’andamento della salute di Michela che iniziò poi ad essere nuovamente taciturna e infine saltò anche due sedute adducendo come motivo un viaggio di lavoro.
Capii che stava succedendo davvero qualcosa di molto grave e infatti dopo quindici giorni la paziente mi telefonò chiedendomi una seduta individuale, cosa che a volte capitava: quando la vidi mi parlò di come e quanto avesse pensato al suo desiderio della casa in campagna e poi mi disse:“Dottoressa, le sono molto grata, e non può nemmeno sapere cosa e quanto lei e il gruppo abbiate rappresentato per me; questi ultimi tre anni e mezzo sono stati i più belli in assoluto della mia esistenza perché ho scoperto una cosa importantissima e cioè che la vita può essere diversa se si accetta di cambiare; per un po’ ho provato a farlo e in parte ci sono anche riuscita e le assicuro che in questo tempo mi sono anche finalmente un po’ divertita mi sono concessa di fare quello che per me era più importante, cioè sistemare economicamente mio figlio e stargli vicino ancora un po’.
Ora sono tranquilla e una parte di me ci tiene all’idea di avere finalmente una mia casa in campagna, ma me lo ha insegnato lei, ogni scelta comporta il pagamento di un prezzo, e io valuto che per me questa casa costerebbe troppo.
Non voglio e non posso lasciare mia madre che, a novanta anni, secondo me, a torto o a ragione, forse non sopravvivrebbe a questa mia decisione.
Quindi scelgo, se di scelta si tratta, di non cambiare più nulla.


Michela e la questione del pagamento

La prego, non mi dica niente di quello che so che mi vorrebbe di sicuro dire ma che io non voglio però ascoltare. Desidero che lei mi ricordi così come sono in questo momento, e che porti con se’ quello che insieme abbiamo costruito perché è stato davvero tanto importante. Non voglio venire a salutare gli altri del gruppo perché per me sarebbe troppo doloroso e io non voglio più soffrire anche se forse non sarà possibile.
La prego mi lasci andare e le prometto che le telefonerò e le farò avere mie notizie.”
Siccome non faccio il mago né l’ipnotizzatore, ma l’analista, dissi a Michela che mi rendevo conto che lei sapeva cosa forse avrebbe significato questa sua decisione e quali ricadute ci sarebbero potute essere anche sulla sua salute fisica; comunque non potevo fare altro se non rispettare ciò che lei diceva di desiderare anche se di certo non condividevo affatto quello che voleva fare a se stessa.
Con grande commozione ci salutammo.
Dopo circa quindici giorni, all’ora di pranzo, mi arrivò una telefonata della paziente che mi comunicò di essere ricoverata in clinica e che le avrebbe fatto piacere se fossi andata a trovarla; mi disse che quel giorno avrebbe dovuto sottoporsi ad alcune analisi cliniche ma che la sera successiva mi avrebbe incontrato con grande piacere.
Ovviamente la sera seguente dopo il lavoro arrivai in clinica e mi diressi al secondo piano cercando la camera di Michela, ma quando giunsi di fronte alla porta un’infermiera mi annunciò che Michela era morta due ore prima: Quindi tutto era andato come Michela stessa aveva voluto; fu lei in pratica a comunicarmi la sua morte e fu lei a far si che io fossi costretta a ricordarla comunque viva, determinata e forse a modo suo anche contenta.
Certo tutto questo lascia un grande amaro in bocca e anche un forte dolore ma gli anni in cui ho lavorato come psicologa in un servizio di neuropsichiatria infantile mi hanno insegnato che per riuscire a ottenere qualche risultato con i ragazzi portatori di handicap è necessario abolire i propri deliri di onnipotenza.
Fare un buon lavoro con un soggetto non significa avere necessariamente la possibilità di cambiare tutto di lui secondo i propri schemi e desideri; in genere per gli altri si può fare solo qualcosa e ciò spesso è davvero il massimo che ci è consentito.
Non ho potuto evitare che Michela morisse perché davvero non ci si può illudere di avere questo potere, ma ho potuto, come dire, patteggiare con lei quasi altri quattro di vita che come appunto la paziente mi disse, furono però anni importanti e fondamentali, non solo per lei, ma anche per suo foglio.
Questa certezza è ciò che fa si che io possa seguitare a lavorare in questo ambito così delicato e complesso e ad incontrare quindi, nel mio cammino, altre persone belle come Michela.


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