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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Area: Psico-socio-analisi

Fra sentire e fare: una visione psicoanalitica del gruppo istituzionale

Gianluca Biggio

Relazione presso Asvegra nel ciclo di incontri “Istituzioni e Gruppi: soggettualità possibili
Padova 15 febbraio 2014


Premessa

Questo contributo vuole illustrare come l’attenzione alla dimensione sociale sia presente nella psicoanalisi fin dagli inizi. Il tema è sicuramente tanto affascinante quanto ampio e si articola in molteplici piani che vanno dal livello socioculturale al livello delle strutture o istituzioni in cui si articola il funzionamento sociale, alle dimensioni relazionali di gruppo su cui si fondano istituzioni e organizzazioni, alla dinamica intersoggettiva connessa agli stessi modelli di funzionamento psichico individuale teorizzati dalla psicoanalisi. Nuove connessioni ancora si stanno aprendo con le concettualizzazione della intersoggettività incarnata e della dimensione intercorporea della socialità recentemente esplorate da Gallese (2013). L’intento di questo lavoro è quello di aprire una serie di finestre sulle varie declinazioni della psicoanalisi del sociale; si tratta di una serie di proposte di riflessione insature, finalizzate al confronto e alla discussione.1

La necessità di collocarsi costantemente tra la dimensione del sentire (comprensione delle strutture e delle dinamiche affettive) e quella del fare (espressione sociale della relazione tra le menti dei singoli) è il filo conduttore di questo contributo.

 

  1. Freud e la psicoanalisi del sociale

In Psicologia delle masse e analisi dell’Io Freud scrive: “La contrapposizione tra psicologia individuale e psicologia sociale o delle masse, contrapposizione che a prima vista può sembrarci molto importante, perde, a una considerazione più attenta, gran parte della sua rigidità… Nella vita psichica del singolo l’altro è regolarmente presente come modello, come oggetto, come soccorritore, come nemico, e pertanto in quest’accezione più ampia ma indiscutibilmente legittima, la psicologia individuale è al tempo stesso, fin dall’inizio, psicologia sociale. Il rapporto che il singolo istituisce con i suoi genitori e fratelli, con il suo oggetto d’amore, con il suo maestro e con il suo medico, ossia tutte le relazioni divenute oggetto precipuo della ricerca psicoanalitica, possono venire legittimamente considerate alla stregua di fenomeni sociali, e contrapposti a taluni processi, da noi chiamati ‘narcisistici’, nei quali il soddisfacimento delle pulsioni elude o rifiuta l’influsso di altre persone. La contrapposizione tra atti psichici sociali e atti narcisistici rientra quindi per intero nell’ambito della psicologia individuale, e non risulta idonea a separare quest’ultima dalla psicologia sociale o delle masse… è facile scorgere nei fenomeni che si manifestano in tali condizioni specifiche l’espressione di una pulsione specifica e irriducibile: la pulsione sociale - heard instinct, group mind -… Pur essendo ancora agli inizi, la psicologia delle masse abbraccia una quantità incalcolabile di problemi specifici e assegna al ricercatore compiti innumerevoli…” (1921, pp.261- 62).

Attualmente la concezione genetica e quella evolutiva sono alla base della teorizzazione psicoanalitica. Nel dibattito psicoanalitico queste concezioni vengono contrapposte o integrate, con una gamma di sfumature intermedie, come ci fa notare Fonagy (2010). Esistono molti ambiti in cui la dimensione psicoanalitica del sociale ha preso corpo. Credo che il pensiero di Freud in merito alla dimensione sociale fosse molto aperto, come possiamo constatare in Psicologia delle masse e analisi dell’Io e nell’insieme delle opere che Eugene Enriquez (1986) ha definito come “ Il Freud del sociale”, ovvero Totem e tabù, 1913, Psicologia delle masse ed analisi dell'Io, 1921, L'avvenire di un'illusione,1927, Il disagio della civiltà, 1929, L'uomo Mosè e la religione monoteistica,1934-1938. La tematica freudiana del sociale sembra orientarsi entro le coordinate del principio del piacere e quello di realtà. La rinuncia e la deviazione di una certa quota di “felicità” pulsionale a favore della sicurezza derivante dall’organizzazione sociale è uno dei principali paradigmi di questi lavori sociali. “L’umanità ha sempre barattato un po' di felicità per un po' di sicurezza" è il celebre aforisma di Freud in Il disagio della civiltà.

Freud stesso per altro è considerato un importante esponente della Psicologia Sociale. Egli infatti assume i contributi sulla “folla senza testa” di importanti psicologi sociali di fine Ottocento come Tarde (1895) e Le Bon (1895) sui fenomeni di suggestione e di imitazione presenti nelle folle. Freud analizza il perché tale imitazione; i fenomeni di idealizzazione del capo e di identificazione di sé stessi con il capo spiegherebbero i comportamenti di annullamento di sé presenti nella massa. In accordo con Tarde e Le Bon la psicoanalisi freudiana descrive la psicologia della folla, in assenza di una guida, come caratterizzata dalla perdita collettiva della capacità di funzionamento egoico a favore di un funzionamento primario e addirittura preverbale, dato che nel grande gruppo si perde la concreta possibilità di attivare una comunicazione interpersonale. Uno psicoanalista contemporaneo, Green (2002), afferma che “ (è)… dopo che Freud ebbe dedicato tutta la sua attenzione allo studio della psicologia delle masse e all’analisi dell’Io attraverso i fenomeni di identificazione (1921) che potrà venire in piena luce la concezione del Super – Io” (pag.122). L’identificazione nel gruppo, la riduzione della forza individuale dell’Io e delle barriere superegoiche costituiscono un asse portante dell’interpretazione freudiana.

Comprendiamo così oggi, ad esempio, la violenza delle masse negli stadi, nelle manifestazioni, la violenza nel fanatismo, (SIPP 2003)2. Sulla strada aperta da Freud la psicoanalisi del comportamento sociale può inoltre comprendere le tematiche relative ai grandi temi della politica e della guerra (Fornari, 1964). Credo infine interessante menzionare i contributi di Muestenberger e Alexard pubblicati tra il 1952 e il 1956, The Psychoanalytic Study of Society, come tentativo di fondare una disciplina di studio psicoanalitico della società umana.

 

  1. La visione psicoanalitica del legame sociale

Un altro ambito riguarda il tema della fondazione del sociale e delle sue articolazioni istituzionali. In Totem e Tabù Freud affrontò questo ambito riprendendo i temi dell’evoluzionismo darwiniano. Viene formulata un’ipotesi antropologica secondo cui la dimensione istituzionale del sociale nascerebbe dalla rottura del modello gruppale etologico costituito dall’orda primordiale, dominata da un unico padre despota che ha esclusivamente rapporti sessuali con le femmine del branco. La rivolta dei figli e l’uccisione del padre determina un forte senso di colpa che spinge i figli a introiettare (per riparare l’odio) l’immagine paterna, sotto forma di sottomissione e assunzione del tabù dell’incesto. Il padre ucciso viene trasposto simbolicamente e inconsciamente nel feticcio Totem (o Idolo) e successivamente nella Autorità, nella Legge o nella Istituzione. Questo cambiamento arcaico starebbe alla base del primo ordinamento sociale e costituirebbe l’accordo sociale inconscio tra i fratelli, come afferma Enriquez (1986) nella sua rivisitazione dell’opera freudiana titolata “Dall’orda allo Stato”.

Le articolazioni istituzionali derivanti dalla fondazione del sociale sono indagate dalla psicoanalisi attraverso la comprensione del rapporto esistente tra la psiche individuale e riti, istituzioni, comportamenti sociali. Ad esempio Kaes (2005) afferma l’esistenza di metafore sociali condivise dette “garanti meta sociali” e “grandi narrazioni”, metafore che creano una struttura simbolica identitaria psicosociale. Queste metafore sociali condivise si riverberano nella struttura identitaria individuale/gruppale dei “garanti meta psichici”. L’autore afferma infatti: “Le trasformazioni (della società contemporanea) riguardano le grandi strutture di inquadramento e regolazione... del processo sociale: miti ed ideologie, credenze e religione, autorità e gerarchia. Le incrinature, le disorganizzazioni e le ricomposizioni di questi garanti meta sociali della vita psichica colpiscono i garanti meta-psichici della vita psichica, ossia le formazioni e i processi dell’ambiente psichico su cui si basa e si struttura la psiche di ogni soggetto”.

In accordo con l’ipotesi antropologica freudiana, i garanti meta-psichici sono, secondo Kaes, essenzialmente tre; il contratto di rinuncia alla realizzazione diretta delle mete pulsionali, il contratto con la funzione paterna, il contratto narcisistico (Aulagner, 1975). Risulta evidente come l’assetto sociale e quello psichico individuale si compenetrino.

Un contributo al tema della dimensione sociale nelle sue articolazioni istituzionali sta nel rapporto tra psicoanalisi, cultura e possibili patologie sociali come approfondito da Di Chiara (1999). L’autore fornisce innanzi tutto una rassegna della continuità del rapporto tra la psicoanalisi e le sue articolazioni sociali a partire da Freud. Vengono citati i tentativi della scuola nordamericana di fondare una psicoanalisi del sociale attorno le pubblicazioni etno-psicoanalitiche di Geza Róheim (1945), l’etnologo-psicoanalista cui Sigmund Freud aveva chiesto di rispondere alle critiche rivoltegli da Malinowski negli anni Venti. Róheim sostiene che l’infanzia prolungata associata all’esistenza della cultura, spieghi la specificità della natura umana; il nostro psichismo e la nostra cultura sarebbero paradossalmente il “prezzo da pagare” al nostro ritardo nell’associare la autonomia psichica a quella fisica. L’istituzione sociale avrebbe allora anche il compito di garantire i tempi per la formazione della struttura psichica sociale interiorizzata.

 

  1. Psicoanalisi dei sistemi e delle istituzioni sociali

Un ulteriore ambito riguarda l’attenzione della psicoanalisi alla dimensione affettiva del funzionamento delle articolazioni istituzionali. E’ l’attenzione alla formazione intersoggettiva degli oggetti interni, nata a partire dalle scoperte di Melania Klein, oltre che di Fairbarn e Winnicott, che ha dato un fortissimo impulso alla possibilità di considerare con nuovi strumenti la relazione tra individuo e realtà sociale esterna. Meltzer (1986) con il suo interesse ai modelli inconsci dei gruppi familiari e soprattutto Elliot Jaques (1955) ed Elisabeth Menzies (1960) con i contributi relativi ai sistemi sociali come difesa dalle ansie persecutorie e depressive, hanno fornito una chiave originale di analisi dei sistemi sociali. Un elemento cruciale di questa ricerca è la teoria kleiniana relativa alle ansie profonde nei processi di interazione precoce madre-bambino, ansie che potrebbero essere ritrovate nel rapporto tra gruppi e istituzioni sociali. Jaques, allievo della Klein, vede nel rapporto individuo-istituzioni i meccanismi di difesa che la Klein aveva identificato nel bambino ovvero scissione, identificazione proiettiva, distruttività e riparazione; meccanismi da cui derivano esiti di patologia o integrazione sociale a seconda dei casi. Jaques porta l’esempio di gruppi che usano le istituzioni come deposito per proiettare le ansie profonde scisse dalla propria coscienza. Jaques interpreta felicemente in questa chiave una serie di comportamenti che la psicologia sociale tradizionale comprendeva solo in termini descrittivi ma non processuali; i fenomeni del capro espiatorio, del razzismo, della divisione in parti contrapposte e non dialoganti in cui molti gruppi istituzionali si insabbiano. L’organizzazione sufficientemente sana secondo Jaques consiste nella capacità di integrazione intrinseca del gruppo, capacità che Di Chiara mette in relazione con il concetto kleiniano di riparazione. Le patologie psicosociali nascono da gruppi che si isolano e si scindono dal contesto sociale chiudendosi in forme autoreferenziali; se non si attivano dei processi d’integrazione i meccanismi di scissione sono favoriti e il gruppo può assumere un assetto difensivo o patologico, come Jaques ha affermato. L’assetto difensivo può cronicizzarsi portando al rigetto della realtà esterna attraverso forme di irrealtà, intolleranza, fanatismo che definiscono una struttura psicopatologica del gruppo. Gli esempi di questo tipo di funzionamento sono sotto i nostri occhi, nelle moderne forme di violenza sociale, nei vari fenomeni di autoritarismo, razzismo, violenza politica, mobbing, etc. Il contributo di Jaques si colloca all’interno della “scuola inglese” formatasi nel settore Human Relations del Tavistock Clinic Institute. Tale dipartimento fu fondato 1946 da un gruppo di analisti e studiosi comprendente Elliott JaquesHenry Dicks, Leonard Browne, Ronald Hargreaves, John Rawlings Rees, Mary Luff and Wilfred Bion. La scuola inglese di psicoanalisi del sociale si integrerà poi con i contributi della scuola francese, argentina e italiana sulla sofferenza dei legami istituzionali, contributi che utilizzano prevalentemente i concetti di negazione, rimozione e scissione a livello gruppale. 3

  1. Psicoanalisi delle dinamiche lavorative nel gruppo istituzionale

Alcuni autori parlano di gruppi entro un contesto sociale istituzionale; a seconda del contesto possono emergere fenomeni di supporto e coesione o sofferenza, fondamentalmente legati al prevalere della pulsione di vita o di distruzione (Long, 2006).

Prima di esprimere qualche riflessione in merito alle strutture e alle dinamiche lavorative credo utile soffermarsi sui concetti di aggressività e distruttività. Come affermato da alcuni autori (Novelletto, 2001) nella teoria psicoanalitica il modello pulsionale è legato al carattere innato della pulsione distruttiva mentre il modello relazionale privilegia il ruolo di oggetto reale dell’altro, considerando l’aggressività come corollario di relazioni insoddisfacenti (per attaccamento fallito, per frustrazione dei bisogni primari o per violenza dell’ambiente). Il termine aggressività invece deriva dal latino aggredior (aggredisco) ed è un composto di gradior (vado, cammino, mi avvicino, entro in contatto, etc.). Pare evidente dunque la componente relazionale, di moto verso un oggetto, che l’aggressività contiene (Heimann, 1972). Rifacendosi a Fairbairn si potrebbe dire che l’aggressività, come la libido, è una forma di object seeking, ovvero una forza che contribuisce alla creazione di legami.

Il termine distruttività, sebbene usato come sinonimo di aggressività, ha un significato diverso, ovvero quello di disfare ciò che era stato costruito, accumulando strato su strato (struere). Ciò comporta l’annullamento dell’oggetto, e di conseguenza del Sé. Si pensi alla rabbia narcisistica (Kohut, 1971, Kernberg, 1980), che danneggia il Sé fino ad allora costruito. L’aggressività distruttiva è collegata funzionalmente ad un certo grado di scissione o dissociazione (Freud, 1938; Fairbairn 1952; Bromberg 1998); nei gruppi la distruttività è spesso negata o supportata da una alterazione dissociativa da una struttura sociopatica di comportamento individuale ma anche gruppale ed anche organizzativa come avviene nel fanatismo (Biggio, 2007).

Tornando al tema delle organizzazioni lo psicoanalista Perini (2007) afferma che all’interno di ogni un’istituzione sociale vi è una “organizzazione nascosta”, una dimensione sommersa, dominata dalle emozioni umane, dalle ansie individuali e collettive e dalle difese che tentano di annullarle o che possono trasformarsi in distruttività. Le organizzazioni in ogni caso sono dei luoghi complessi dove si incontrano vincoli economici e relazionali, che la psicoanalisi ha esplorato (Biggio, 2011). Tra i numerosi contributi la scuola del Tavistock (Bion,1961; Jaques, 1955; Hinshelwood, 1987) ha messo in luce l’esistenza di ansie psicotiche strutturalmente connesse alle organizzazioni e istituzioni, ansie che se non elaborate possono portare a forti livelli di sofferenza e distruttività. Bleger (1971) ha affermato che le istituzioni funzionano come un “deposito” permanente di stati primitivi della mente e di quella che viene chiamata “socialità sincretica di gruppo”; ovvero la coesistenza agglutinata di parti diverse, espresse dai singoli senza che vi sia una reale comunicazione o scambio finalizzato a una matura socialità organizzativa. Kaes parla di sofferenze strutturali nel raggiungimento del compito primario e descrive uno spazio di rimozione, di diniego e sconfessione, e talora violenza, funzionali alla conservazione del legame istituzionale. Altri autori di formazione psicoanalitica come Kets de Vries (1984,1989,1993) affermano che determinate patologie organizzative come l’ossessività o la persecutorietà possono nascere dalla forma amministrativa dell’organizzazione legata alla cultura dei gruppi dominanti (ad esempio la scissione nella burocrazia amministrativa). Kernberg (1988) e Obholzer (1987) sono molto chiari nell’asserire che la patologia del funzionamento istituzionale è un fenomeno legato al funzionamento dei gruppi e all’esercizio dell’autorità all’interno delle organizzazioni. Per molto tempo invece, soprattutto all’interno delle organizzazioni curanti, si è spiegata la dinamica organizzativa con il solo concetto di isomorfismo, ovvero del rispecchiamento tra utente e organizzazione del gruppo curante (ad esempio la frammentazione, la tendenza alla identificazione proiettiva nel lavoro con i casi “gravi” e borderline). Tale concetto deriva dalla mirroring image structure secondo la ricerca svolta da Stanton e Schwartz (1984); esso può giustificare una parte importante del fenomeno organizzativo ma non lo comprende nel suo insieme.

Nel fornire una chiave di comprensione dell’irrazionalità organizzativa possiamo ipotizzare una funzione psicoanalitica di contenitore da parte delle macro istituzioni (scenario socio-culturale) e una di contenuto da parte delle articolazioni istituzionali (dinamiche delle strutture lavorative). A mio avviso è piuttosto evidente che in scenari socioculturali caratterizzati da solidarismo sociale le dinamiche lavorative siano parzialmente supportate a gestire il loro carattere strutturale di sofferenza distruttiva, mentre in periodi come l’attuale caratterizzati – (tra gli altri vedi ad esempio Touraine 1992; Habermas, 2001; Petrella, 2006)4 – da individualismo, competizione e narcisismo, vengono maggiormente incentivate le dinamiche lavorative distruttive.

La comprensione psicoanalitica del gruppo istituzionale ruota intorno alla capacità oggettuale (raggiungimento dei fini) che si determina in base agli esiti positivi o negativi della funzione riparativa. Tale funzione è sostenuta dalla cultura istituzionale, dalla qualità della leadership e dal funzionamento dei gruppi di lavoro. Pensiamo ad esempio quanto una leadership e una organizzazione realisticamente capaci di riparazione, reverie, sintonizzazione siano in grado di produrre benessere ed efficacia nel gruppo. Altre volte, al contrario, le dinamiche lavorative possono caricarsi di scorie e divenire depositi anonimi di distruttività occultata, indicibile ma percepita ed evidenziata da vari fenomeni di piccolo e grande stress (pensiamo al caso estremo dei suicidi in France Telecom ma anche al maltrattamento degli utenti in strutture che dovrebbero abilitare o ri-abilitare come scuole, comunità, prigioni, scuole, case per anziani, etc.).

La funzione della regolazione dello stress derivante dal confrontarsi con relazioni interpersonali permeate dall’incertezza e dall’affrontare task di lavoro ambigui o “rompicapo” è una esigenza sempre più forte, ma anche negata, nelle organizzazioni odierne. La capacità di riparazione deve essere sostenuta a livello di cultura, leadership e organizzazione del gruppo di lavoro. Esempi di questa esigenza sono le strutture che erogano servizi complessi (come le comunità terapeutico riabilitative) le quali necessitano di una supervisione organizzativa permanente per gli operatori esposti a tossicità relazionali, e spesso di counselling personalizzati rivolti ai leader o ai responsabili delle strutture stesse. Altri casi che si presentano sono relativi a responsabili che devono gestire processi con forte esposizione a relazionalità negative da parte degli impiegati. “Il silenzio degli impiegati” era l’eloquente titolo di una analisi psicodinamica presentata in un congresso europeo di Psicologia della Organizzazione (EWAOP 2011). Si descrivevano una serie di effetti stressogeni e distruttivi a seguito di una ristrutturazione aziendale non accompagnata da azioni adeguate di regolazione.

  1. Lettura psicoanalitica del gruppo di lavoro

Il gruppo di lavoro è un altro ambito specifico della psicoanalisi applicata alla dimensione istituzionale. Nel 1975 lo psicologo sociale francese Max Pagés pubblicò un corposo resoconto di un gruppo di formazione intitolato “L’esperienza affettiva dei gruppi”. In questo libro l’autore riportò una serie di osservazioni cliniche sull’interazione affettiva del gruppo sottostante ai processi operativi. Una delle considerazioni che vengono sviluppate dall’autore è che il nucleo degli affetti di gruppo derivi da un’associazione di due opposti, ovvero l’amore fusionale e il sentimento di separazione; le persone desiderano interagire ed “essere parte” del gruppo ma al tempo stesso vogliono preservare una propria identità separata. La difficoltà a tollerare tale coesistenza porta a processi di dissociazione di queste due tensioni affettive; ovvero la tendenza a seguire un comportamento del “tutto o niente”. Egli afferma che ci sono due grandi vie di dissociazione complementari: una è quella dell’amore possessivo verso il gruppo che nega la paura dell’isolamento (ad esempio “tutti per uno e uno per tutti”, “spirito di corpo ideologico”, “omologazione delle condotte estetiche”, “fanatismo”, etc.) mentre l’altra forma di dissociazione è quella della separatezza che nega l'amore e la dipendenza potenziale verso il gruppo valorizzando al contrario gli elementi di ostilità (ad esempio “lupo solitario”, “ spinta compulsiva a distinguersi”, “ anticonformismo a priori”, etc.).

Un gruppo che invece non riesce ad elaborare le sue spinte dicotomiche si potrebbe ritenere in una posizione di “blocco” su uno dei due estremi (ad esempio un gruppo potrebbe bloccarsi in una chiusura autoreferenziale oppure in conflitti cronici).

Un altro importante psicoanalista francese, Anzieu (1976), pubblica negli stessi anni un libro titolato “Il gruppo e l’inconscio” approfondendo i concetti di Pagès. Secondo l’autore l’ambivalenza di fondo verso il gruppo è contemporaneamente il luogo della generazione dell’identità individuale e della minaccia all’identità individuale. Gli altri ci permettono di esistere; l’identità sociale inizierebbe fin dalle prime fasi dello sviluppo dell’essere umano; noi ci riconosciamo individui solo attraverso la differenziazione da altri individui. All’interno di un gruppo gestito da norme strutturanti l’individuo corre il rischio di sentirsi minacciato nell’unità personale e/o confuso in un aggregato magmatico. Per poter funzionare, il gruppo deve riuscire a costruire un immaginario senso della propria identità come corpo intero capace di dare un senso complessivo a ciò che avviene. Anzieu parla anche di illusione gruppale come difesa dei gruppi e talora anche dei loro conduttori (analisti, manager o formatori) verso le difficoltà dell’integrazione tra sentimenti ambivalenti e compito di lavoro. Si crea in questi casi un ritiro narcisistico su di sé piuttosto che la spinta a perseguire l’obiettivo reale del gruppo. Lo psicoanalista Renè Kaes nel suo libro “L’apparato pluripsichico” (1976) parla del gruppo come uno spazio mentale che può funzionare come un apparato unico a più menti. Perché ciò avvenga è importante che vi siano degli organizzatori di questo fenomeno transitorio dell’essere che è il gruppo. Un “oggetto-gruppo”, uno spazio intermedio, deve formarsi nella mente del gruppo affinchè sia possibile un funzionamento comune. Kaes parla di “organizzatori della rappresentazione” come elementi e comportamenti che rendono possibile il formarsi di questo oggetto-gruppo. E’ il formarsi della rappresentazione (sentire) che consente di avere una alternativa alla scarica che si manifesta con una azione/agito. Un gruppo di lavoro ha necessità della rappresentazione per raggiungere un oggetto che potrebbe essere costituito ad esempio dal compito (task) in un gruppo di lavoro. Una categoria fondamentale sono gli organizzatori socio-culturali di appartenenza che risiedono nei codici, nei riti e nelle istituzioni sociali. Secondo alcuni autori (Scoppola 1996) un’immagine si formerebbe anche a livello percettivo sensoriale nella mente del gruppo, con esiti talora osservabili a livello di effetti psicofisici sui membri stessi del gruppo.

Affettività e ricerca dell’oggetto sono le due dimensioni apparentemente dicotomiche per il gruppo. La prima dimensione è fusionale e la seconda è individuale (come ci dice Anzieu). La loro integrazione dipende dalla qualità degli organizzatori che l’istituzione è in grado di creare e dalla reverie fornita dalla leadership, come ci fa notare Obholzer (1994). L’apparato pluripsichico di Kaes rappresenterebbe la capacità del gruppo di stabilire rappresentazioni dell’oggetto/compito di lavoro in quanto gruppo. La rappresentazione simbolica avviene attraverso la qualità della relazione organizzativa tra i membri che permette un investimento sul compito e un successivo fare (agire) . L’azione diviene allora agire e non agito. Esistono nella realtà molti gruppi in cui l’azione ha un valore di agito espulsivo (Bleger, 1971). La ricerca psicoanalitica sul gruppo “tra il sentire e il fare” diviene allora una ricerca delle interazioni tra le strutture che determinano il sentire come rappresentazione e il fare come raggiungimento di una soddisfazione realizzativa in quanto oggettuale, entro un organizzatore rappresentato dall’istituzione.

La difficoltà di un gruppo di lavoro di realizzare un obiettivo risiede spesso nel gestire le proprie dinamiche affettive consapevoli e inconsapevoli. E’ noto a questo proposito il rilevante contributo psicoanalitico di Bion (1961) attraverso i concetti di mentalità di gruppo, assunto di base e gruppo di lavoro. Bion definisce la mentalità di gruppo come “un serbatoio comune a cui affluiscono anonimamente i contributi di tutti e che in esso si possano gratificare gli impulsi e i desideri che questi contributi contengono(pag.58). In altre parole le persone tendono ad utilizzare il gruppo come un luogo in cui poter riporre aspettative e desideri senza preoccuparsi della loro realizzabilità pratica. “Stare in gruppo” è qualcosa che piace per una sorta di promessa (“il progetto”, “far parte di…”) insita nella sua appartenenza. Ma la sola ricerca del benessere di appartenenza individuale rende difficoltoso il confronto con la realtà e il raggiungimento degli obiettivi. Gli assunti di base sono le modalità con le quali la “mentalità di gruppo” viene difesa e mantenuta. Bion descrive tre noti assunti di base (dipendenza, attacco e fuga e accoppiamento). Il gruppo di lavoro viene definito da Bion (1961) come una attività mentale cooperativa consapevole che si fa carico delle finalità esplicite del gruppo “fin dall’inizio il gruppo lotta per mantenere una struttura razionale e gli sforzi fatti in questa direzione stanno a dimostrare l’intensità delle emozioni associate con gli assunti di base” (pag.106). Due attività mentali si affrontano pertanto nel gruppo; il funzionamento cooperativo, proprio del gruppo di lavoro, che presuppone uno sviluppo mentale capace di apprendere e affrontare la realtà ed altre attività mentali emotivamente potenti (mentalità di gruppo, assunti di base) che deviano, condizionano e tengono in sospeso il gruppo di lavoro.

Possiamo concludere notando che nella concezione di Bion così come in quella di Anzieu, Kaes e Pages, permane il dualismo espresso da Freud in Il disagio della Civiltà (1929). Tale dualismo è relativo al confronto tra il principio di soddisfazione immediata degli istinti e la costruzione di una realtà sociale che richiede una rinuncia alla individualità in cambio della sicurezza, protezione e appartenenza garantita dalla dimensione collettiva.

  1. Riflessioni sul rapporto tra empatia e gruppo

Un ultimo punto, che mi pare interessante esplorare, è costituito dal ruolo dell’empatia nella formazione e gestione del gruppo. Utilizzerò a questo scopo molti spunti forniti dall’approfondito lavoro di Bolognini (2002) sull’empatia psicoanalitica.

Il temine empatia come sappiamo è stato introdotto nel periodo romantico da Novalis, poeta, teologo, filosofo e scrittore tedesco. Egli utilizzò il termine Einfuhlung nel senso di “sentirsi dentro” per definire un rapporto con gli oggetti della natura e riconoscersi in loro. Lo psicologo strutturalista Edward Titchener tradurrà nel 1909 questo termine con emphaty. Seguendo il pensiero di Green (2002), sentire può essere definito come avere una sensazione/rappresentazione di “cosa” a livello inconscio e di “parola” a livello conscio, preconscio. Il sentire implica un percorso che dalla percezione porta verso la rappresentazione oppure all’azione (scarica). Secondo Freud l’uomo primitivo “dislocava nel mondo esterno rapporti inerenti la propria struttura psichica (rapporti di cui egli si rendeva conto attraverso la cosiddetta “percezione endopsichica”).

L’altro da sé, l’esterno sono una base per processi di proiezione e introiezione che sono costitutivi della percezione di Sé come entità. Secondo Bolognini nel periodo romantico vi era una forte spinta ideale dell’Io sociale a trovare una magica potenza nell’afflato fusionale con il mondo esterno. Il medico romantico Justitnus Kerner ad esempio curava i propri malati ospitandoli nell’ambito della propria famiglia a Stoccarda. Vi era nel pensiero romantico un sentimento di estensione-proiezione-osmosi tra gli uomini, sentimento alla base del comune sentire inerente gli accadimenti intra e interumani. In Psicologia delle masse e analisi dell’Io Freud asseriva che i membri di un gruppo si identificano l’uno con l’altro “mediante un processo che ci permette di intravvedere l’Io estraneo di altre persone”.

Collegandosi all’uso del termine Ichfremde (Io estraneo) fatto da Freud, Pigman (1995) fa notare che per Freud l’Io estraneo di un’altra persona non significava “Io estraneo a noi in quanto di altre persone”, bensì quella parte interna di altre persone che risulta straniera, estranea, ignota al loro stesso io. Borgogno (1992) afferma che la reverie è un fattore fondamentale della funzione alfa (mentalizzante e trasformativa) e che tale evento è un evento interpersonale prima che intrapsichico e personale. Bolognini (2002, pag.74) afferma che “l’empatia è un evento intra e interpersonale non programmabile”; il campo psicoanalitico rimette in scena l’intrapsichico e l’interpersonale. Egli ci fa notare una serie di funzioni dell’apparato mentale collegate con il comune sentire tra cui l’“essere all’unisono” (at-one-ment) di Bion (1970), la “sintonizzazione” (attunement) di Stern (1985), il “trascinamento” (tracking) di Holmes (1993), il “pensiero comune” (co-thinking) di Widolocher (2001).

Il nucleo del fenomeno empatico ci porta a riconoscere le radici di molte configurazioni e funzioni psicologiche nelle equivalenti relazioni somatiche negli altri. Esisterebbe, secondo Bolognini, la possibilità di una buona fusionalità non confusiva tra gli esseri umani. Esistono condizioni di contatto interno nelle quali le reciproche identità non vadano perdute, la distanza venga in parte colmata ma la separatezza venga mantenuta e riconosciuta.

Con la proiezione non si conosce l’altro e non si comunica con lui; con l’identificazione proiettiva fisiologica misurata e introiettabile da parte dell’altro - l’introiezione comunicativa e non solo evacuativa secondo Rosenfeld (1970) - si può comunicar “in uscita”, si possono cioè emettere elementi interni che potranno o meno essere recepiti dall’altro e fornirgli conoscenza di noi, previa elaborazione e integrazione rappresentazionale successiva da parte del nostro interlocutore. Ma è solo con un livello pur minimo di introiezione che noi possiamo conoscere l’altro: il che richiede la disponibilità di un qualche spazio interno “recipiente” e l’assenza di un flusso proiettivo troppo massiccio che ricopra di elementi interni, l’ambiente e gli oggetti (ad esempio il task di lavoro). Il sottile equilibrio tra empatia, identificazione, introiezione e fusionalità determina la qualità della interazione in un gruppo.

Ricollegandosi alla ricerca fairbairniana dell’oggetto, Fonda (2000) ipotizza la costituzione di “spazi mentali comuni”, limitate aree fusionali di libero transito dei contenuti mentali tra soggetto e oggetto; fenomeno frequentissimo nella preoccupazione materna primaria, nell’analisi, nei riti sociali che prevedono il canto, la danza, i pasti comuni ed altri elementi comuni di coincidenza (come ad esempio il gruppo di lavoro). Nell’analisi individuale come nella conduzione dei gruppi se l’analista utilizza troppa interpretazione simbolica (basata sulla separatezza) l’interpretazione risulterà razionale e non sintonica, mentre le interpretazioni troppo sintonico fusionali tenderanno invece a dissolvere i confini e a far penetrare con concretezza i contenuti. Sarebbe importante assumere la modalità empatica di “bussare” ai confini dell’altro per suscitare la formazione di adeguate rappresentazioni simboliche. Questa “chimica” della comunicazione viene ritenuta piena di consonanze con il tema dell’empatia e Bolognini afferma che questa modalità si colloca “sulla battigia del conscio/preconscio con lieve prevalenza della seconda area”. Freud era interessato a considerare le relazioni umane in rapporto alle vicissitudini pulsionali e all’asse “piacere/dispiacere”, altri autori ne hanno trattato in termini di relazione oggettuale. Lo scambio di contenuti nella relazione fra persone, pare essere un fenomeno di livello intermedio (empatia come evento) tra rappresentazione e azione. L’empatia nel gruppo potrebbe essere un rivelatore della qualità degli scambi, ma dovrebbe corrispondere ad una qualità non razionalmente ricercata per coloro hanno funzioni di gestione.

 

Conclusioni

Secondo Freud la contrapposizione tra atti psichici sociali e atti narcisistici rientra per intero nell’ambito della psicologia individuale; la rinuncia e la deviazione di una certa quota di “felicità” pulsionale a favore della sicurezza derivante dall’organizzazione sociale è uno dei principali paradigmi dei suoi lavori sociali. Questa tematica continua a rimanere basilare entro nello scenario di psicoanalisi del sociale divenuto più vasto e articolato.

Kaes parla di processi dell’ambiente psichico su cui si basa e si struttura la psiche di ogni soggetto.

In accordo con l’ipotesi antropologica freudiana, egli parla di garanti meta-psichici su cui si basa l’organizzazione psichica della dimensione sociale all’interno di ogni individuo.

Questi concetti ci danno un’idea della architettura psichica dell’ordine sociale dalla sua fondazione (visione antropologica) alla sua fenomenologia iconica (le grandi narrazioni e i riti che organizzano gli assetti psichici individuali).

I processi interpersonali sono invece ciò che avviene entro questo ordine; ovvero l’interazione sociale che si attua attraverso la relazione interpersonale, mediata dalle caratteristiche pulsionali e oggettuali. Ad attuare la dinamica dei processi interpersonali concorre una particolare disposizione mentale che si forma nel gruppo (ad esempio gruppo di lavoro) come descritto da Bion e, in termini complementari, da altri autori come Anzieu, Kaes, Pages.

Per cercare di cogliere alcuni aspetti di queste dinamiche occorre tenere conto dei contenitori/organizzatori culturali in cui i processi interpersonali avvengono (garanti meta sociali e dinamiche affettive organizzativo - istituzionali). La comprensione psicoanalitica del gruppo istituzionale ruota intorno alla capacità oggettuale (raggiungimento dei fini) che si determina in base agli esiti positivi o negativi della funzione riparativa e alla chimica delle combinazioni comunicative, derivante dai livelli di empatia che si formano tra le persone. Tale funzione è sostenuta dalla funzione di reverie e di organizzazione delle rappresentazioni svolta dalla cultura istituzionale, dalla qualità della leadership e dal funzionamento stesso dei gruppi di lavoro. I processi di gruppo possono essere orientati verso fenomeni di supporto e coesione o sofferenza, fondamentalmente legati al prevalere della pulsione di vita o di distruzione come afferma Long (2006).

Ritornando al titolo della relazione, il cambiamento nella dimensione istituzionale si articola attraverso l’elaborazione della rappresentazione psichica in pensiero e azione. Se non prevale la scarica pulsionale o la difesa dalle ansie, può formarsi una rete diffusiva di affetti (dall’individuale al gruppale e sociale) rivolti verso la creazione di spazi potenzialmente oggettuali, in una progettualità olistica, secondo un paradigma di costruttivismo interazionista tra il Sé individuale e la simbolizzazione dello spazio sociale.

Gianluca Biggio
Piazza del Sacro Cuore 16,
00151 Roma
biggio@unitus.it

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    Note:

1 Per una riflessione riassuntiva e sistematica sul tema del cambiamento istituzionale rimando al mio articolo “Osservazione e cambiamento nella dinamica istituzionale”, Psicoterapia Psicoanalitica Anno XVIII, Numero 2,

luglio - dicembre, 2011.


3 Va anche ricordato l’apporto della scuola francese di analisi istituzionale, nata proprio all’interno di istituzioni psichiatriche. L’analisi istituzionale deriva dalla “Psicoterapia Istituzionale”,  un movimento nato nel manicomio di Saint Albain durante la resistenza francese nella seconda guerra mondiale. Questa esperienza verrà elaborata nel 1967 da Lapassade fondatore della “Analisi istituzionale” e raccolta dalla scuola di psicosociologia francese (Enriquez) e da psicoanalisti interessati alla istituzione. Vedi ad esempio;

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- Kaes R., Bleger J.Enriquez E., Fornari F.Fustier P.Roussillon R.Vidal J.P. (1988),  L’istituzione e le istituzioni, trad.it. Borla editore, Roma 1991.

- Alla scuola di analisi istituzionale francese si rifanno anche autori di scuola argentina in un originale approccio istituzionale, gruppoanalitico, sistemico come si può osservare nel lavoro di Bleger “Psicoigiene e Psicologia istituzionale” che raccoglie contributi che partono dal 1966 e arrivano sino agli anni Ottanta. Bleger è per altro presente nella importante pubblicazione sopraccitata “L’istituzione e le istituzioni”.

- Esiste pure un interesse italiano per il tema delle istituzioni. Vi sono molti contributi che spaziano tra differenti approcci; ad esempio contributi di psicoanalisi e socioanalisi delle istituzioni (Fornari 1971, 1973) , contributi psicoanalitici e gruppoanalitici sulla istituzione (Correale 1971; Neri 1985), i contributi sociopsicoanalitici della Associazione Ariele ( Pagliarani,1978) e i contributi psicosociologici dello Studio APS (Kaneklin e Manoukian ,1990).


4 Vedi inoltre; Convegno della Società Psicoanalitica Italiana I disagi della civiltà. Roma, 2005; XIV Congresso Nazionale della Società Psicoanalitica Identità e cambiamento Lo spazio del soggetto. Roma 2008.




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