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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Area: Psico-socio-analisi

VERSO NUOVE METAFORE PSICOANALITICHE

Aurelia Galletti, 2000

Tratto da: Psicoterapia "attuale". Nodi di una rete emotiva e cognitiva tra individuo, gruppo e istituzioni, F. Angeli, Milano, 2000 pagg. 91-97. Si ringrazia l’Editore.

SOMMARIO

  1. Il problema del linguaggio e della conoscenza
  2. Empatia
  3. Connessioni
  4. Controtransfert culturale
  5. Il contributo dell'etnopsichiatria
  6. Il contributo di Janine Puget
  7. Il contributo della psicosocioanalisi

In occasione del convegno "Donne: Trauma, Relazione, Cambiamento" organizzato nel giugno 1998 a Milano dalla COIRAG e dall’OPIFER, abbiamo incontrato Judith V. Jordan e Janet L. Surrey, psicoanaliste dello Stone Center. Ciò che mi ha colpito è stata la straordinaria somiglianza tra quello che emerge dalla nostra ricerca e andiamo sostenendo nel nostro lavoro e ciò che queste psicoanaliste hanno cercato di dirci nei tre giorni del Convegno. Desidero soffermarmi in particolare su alcuni problemi e concetti che hanno proposto alla discussione e che qui vorrei rilanciare.

1. Il problema del linguaggio e della conoscenza

J. Jordan ha detto "Il nostro è uno sforzo per cambiare la metafora psicoanalitica". È evidente in questo enunciato la fatica di veicolare il cambiamento di certi significati attraverso un linguaggio (quello psicoanalitico) in cui tutti i termini riferiti sia alla teoria che alla tecnica sedimentano un secolo di ricerche e applicazioni e che si inserisce in un contesto culturale il cui linguaggio (quello più ampio della cultura intesa in senso antropologico) è il precipitato di due millenni di storia. Esprimere un cambiamento specifico (quello della psicoanalisi) che implica anche un cambiamento culturale cioè di secondo livello, è la sfida di fondo così difficile da veicolare perché implica una rottura (disconnessione dicono le colleghe americane) tanto dolorosa quanto necessaria.

Mentre noi tentiamo comunque di dire queste cose servendoci di un linguaggio che spesso ci ha riportato indietro rispetto a ciò che volevamo comunicare, magari a scapito della chiarezza e con il rischio continuo di contraddire quanto precedentemente affermato, mi è sembrato che invece le psicoanaliste dello Stone Center, abbiano fatto una scelta più radicale; scelta di non dire, piuttosto che dire qualcosa di diverso da quello che intendono, e di veicolare i concetti che vogliono introdurre, o con termini generici più appartenenti al linguaggio comune o di altre discipline che a quello tecnico (vedi il concetto di connessione e di empatia) o con la testimonianza del loro comportamento, nel porsi all’interno del convegno, in modo coerente con quanto andavano sostenendo.

Queste scelte hanno avuto delle conseguenze che si sono ripercosse sui partecipanti al convegno stesso. Se le psicoterapeute americane sono in grado di tollerare di essere senza "le parole per dirlo", parecchi presenti non hanno tollerato di non avere le spiegazioni che richiedevano e di non poterle tutte tradurre nel linguaggio già in loro possesso e quindi hanno banalizzato il messaggio di Jordan e Surrey, che peraltro ci hanno detto(1) di essere abituate a questo tipo di impatto.

Con loro ci siamo confrontate anche sulle modalità di affrontare il problema della conoscenza. Noi tutti ormai da tempo dichiariamo che la modalità di considerare le strutture della conoscenza come un edificio che parte dalle fondamenta e che non può costruire i piani superiori senza le fondamenta e i piani inferiori, sono superate. Tutti facciamo ormai riferimento a un concetto di conoscenza che utilizza la metafora della rete, nella quale quindi si può entrare da qualsiasi punto. Quando però poi dobbiamo tradurre queste concezioni in azioni tutto diventa più difficile. Entrare in un punto qualsiasi della rete significa non preoccuparsi eccessivamente di contestualizzare, cioè di porre le fondamenta al proprio discorso, con tutti i rischi di fraintendimento o di non comprensione che questo comporta, rischi peraltro accentuati dal fatto che quando si propongono cose in divenire, queste sono per forza incomplete e con contorni non sempre chiari.

Ma perchè le parole siano azioni (L. Wittgenstein, 1953) occorre ac-cettare questo rischio. In questo lavoro noi ci siamo collocate in un’area di mezzo in cui a volte contestualizziamo, a volte no, a volte facciamo riferimento alle matrici di provenienza, a volte alludiamo, sperando di offrire dei ponti verso una modalità di lavoro ancora da costruire insieme ad altri che vorranno autenticamente procedere in questo tipo di ricerca.

2. Empatia

Il termine empatia che le psicoanaliste dello Stone Center usano per indicare le modalità della relazione terapeutica è un concetto che viene dalla filosofia e che è stato indagato e utilizzato molto anche all’interno della psicoanalisi, ma sempre con delle accezioni che hanno a che vedere con modalità che derivano da caratteristiche della sensibilità del soggetto (nel nostro caso dello psicoterapeuta), capace o meno di empatia.

Ci sentiamo in accordo con Jordan e Surrey quando alludono alle tante accezioni del termine, che noi abbiamo tentato di sintetizzare con l’espressione "arte psicoanalitica". Essa comprende cioé tutti gli aspetti della tecnica e la coniugazione di questi aspetti con le qualità umane ed e-motive del terapeuta, con le sue capacità di mettersi in una relazione che, per queste caratteristiche, diviene terapeutica.

Questa capacità non è affatto una capacità spontanea di relazione profonda con l’Altro, ma il risultato di un lungo e difficile processo di calibrazione in cui la teoria e la tecnica vengono continuamente messe a confronto con l’esperienza, e la modificano modificandosi, dentro un "processo complesso, raffinato e altamente sviluppato" (Kaplan A., 1998). Questo processo non è possibile senza che lo psicoterapeuta mantenga vivo un autentico continuo atteggiamento di ricerca su di sé e sul proprio lavoro.

Il fatto che sugli aspetti della tecnica le psicoterapeute dello Stone Center non si siano pronunciate, e li abbiano tutti riassunti dentro il termine "empatia" ha fatto pensare ad alcuni che avessero una tecnica spontaneistica e approssimativa. Un relatore ha addirittura detto che forse, perchè americane, erano meno raffinate degli europei sul piano tecnico. Loro si sono limitate a sorridere a questa battuta interpretativa. In realtà la loro raffinatezza, oltre che in questo limitarsi a un sorriso, l’hanno dimostrata nella capacità di essere in relazione lì, nel convegno, nella loro straordinaria capacità di coerenza tra il dire e il fare.

3. Connessioni

All’uso del termine "connessione" le psicoterapeute americane sono arrivate in tre tappe che visualizzano lo spostamento progressivo sia in termini linguistici che di significato, del punto di vista da cui considerare l’oggetto del nostro lavoro. Sono partite dal concetto di Sè per passare al Sè-in-relazione e successivamente al movimento di relazione. Il termine connessione ha rimpiazzato il termine Sè come elemento centrale o luogo dell’energia creativa dello sviluppo (Surrey J.L., work in progress). Questo approccio riecheggia le nuove particelle fisiche e subatomiche che esistono solamente nelle relazioni, in cui sono coinvolte, ma senza che l’una contenga l’altra (Capra, 1980).

Il termine connessione e disconnessione che esse usano per parlare della relazione ci obbliga a ragionare in termini di rete. Qui però il termine rete non è tanto inteso nel senso gruppoanalitico foulkesiano, ma nel senso indicato da Capra, di rete della vita, di sistema complesso dall’equilibrio delicatissimo nel quale ciò che conta è la connessione. La connessione è indispensabile alla vita e diventa la condizione necessaria per lo sviluppo di ciò che è in connessione.

Non c’è crescita, sviluppo, progetto (empowerment) se non dentro la connessione, ma ci possono essere delle connessioni che soffocano la progettualità e allora il terapeuta deve aiutare a produrre delle disconnessioni, volte a ripristinare connessioni di sviluppo e di crescita. Anche per loro dunque, l’azione terapeutica non deve tanto produrre identità separate, ma connessioni di empowerment. È il punto di vista che cambia. La connessione inoltre è tale per cui l’empowerment non avviene solo per uno dei poli della relazione. Se la connessione è una connessione di empowerment, lo è per il paziente ma anche necessariamente per il terapeuta (e per la vita).

4. Controtransfert culturale

Il concetto di controtransfert culturale è sicuramente di grandissimo interesse perchè consente di affrontare le premesse fondamentali su cui poggiano la cultura e tutte le teorie che vi fanno parte, psicoanalisi inclusa, cioè le emozioni, quell’a priori che non può essere messo in discussione, e che rende possibili gli sviluppi e i procedimenti razionali all’interno di teorie e di insiemi di teorie. Noi possiamo discutere di questi procedimenti razionali se condividiamo le premesse emotive su cui poggiano, ma di queste non si discute, come accade in tutte le diatribe di carattere ideologico, quelle che appunto entrano nel merito delle premesse emotive. Per approfondire questo discorso, si può fare riferimento a Maturana H. (1992) e anche a De Monticelli (1995).

Quando A. Kaplan dice che "L’empatia può essere considerata l’opposto del narcisismo che Lasch (1979) propone come caratteristica saliente della cultura occidentale", parla del controtransfert culturale, di una di quelle "inconsce assunzioni sul carattere umano che riflette le credenze culturali prevalenti" (Kaplan A. 1998) una questione con cui diventa sempre più imprescindibile fare i conti e per la quale un aiuto molto importante a tutti i livelli ci può essere offerto dall’etnopsichiatria.

5. Il contributo dell'etnopsichiatria

L'etnopsichiatria mette l'accento proprio sul limite di una cultura che può esercitare la sua funzione di rete della vita, solo per quei gruppi che l'hanno prodotta essendone l'espressione. Quel che è possibile fare, a partire da questo limite, è la ricerca della nostra relazione con l'Altro, con la sua irriducibilità e la sua necessità.

Guardare all'altro, rispettare l'invisibile in lui, apre un vuoto nero o abba-gliante nell'universo. A partire da questo limite dell'inappropriabile dal mio sguardo, si ricrea il mondo. Io lo abito ma non è mia tutta la sua verità, e per questo rimane sensibile e vivente, perchè non mi è totalmente conosciuto. So-spendere il giudizio lascia così essere (L. Irigaray, 1994).

Ed è proprio l'irriducibilità dell'Altro, secondo Irigaray, la garanzia, la protezione e la salvaguardia della mia stessa esistenza, quello scarto, quel vuoto intorno a me, come un luogo che tutela la differenza tra me e l'Altro. Questa sottolineatura e accettazione del limite è l'unica "cura" in senso psicoanalitico contro il narcisismo culturale che ha avuto la sua massima espressione nel colonialismo occidentale e nell'imperialismo a tutti i livelli, due fenomeni di cui ancor ora stiamo tutti pagando le conseguenze.
L'accettazione del limite però, se da una parte ci porta a relativizzare il valore di una cultura, dall'altra non ci sottrae alle responsabilità che ciascun individuo o gruppo che sia, ha all'interno della propria cultura di cui è contemporaneamente prodotto e produttore.
Perché la rete delle connessioni che una cultura offre vada sempre più nelle direzione di aprire e potenziare il campo delle possibilità, cioè della vita, bisogna poterci interrogare proprio sulle premesse emotive su cui poggia, per fare i conti con i vari tipi di inconscio in cui ciascuno di noi è immerso.

6. Il contributo di Janine Puget

Dice J. Puget (1999):

Propongo l’idea che un soggetto abbia varie origini in riferimento alla sua co-stituzione psichica ossia a ciò che io chiamo la costruzione della propria sog-gettività, sia questa privata, familiare o sociale. Ciascun livello della soggetti-vità, quello che possiamo chiamare privato in quanto costituito da uno specifi-co mondo di fantasie e di pulsioni, quello che si costituisce all’interno della struttura familiare e quindi sempre in dipendenza da altri, diversi ed estranei, quello della soggettività sociale anch’esso dipendente da altri diversi ed estra-nei, sempre in cambiamento, ha un suo inconscio, sue ansie e una propria di-namica. Di sicuro, in quanto psicoanalisti, abbiamo imparato di più a ricono-scere quella soggettività che chiamo privata che non la soggettività familiare e sociale che costituiscono ciò che io chiamo la soggettività vincolare.

Io penso che in quanto gruppoanalisti siamo anche in grado di affrontare almeno una parte della soggettività vincolare , quella che ha a che vedere col gruppo familiare e col gruppo in generale e penso che lo strumento privilegiato che possiamo utilizzare, come psicoanalisti e gruppoanalisti (sensibili ai contesti), sia l'analisi del controtransfert. Ora la domanda che sorge a questo proposito è se mai questa: può e deve la psicoanalisi, con i propri apparati teorico e tecnico dar conto dell'inconscio istituzionale, in altre parole, è possibile un'analisi del controtransfert istituzionale e se sì, come io credo, ci bastano gli strumenti che abbiamo, dobbiamo integrarli con altri o addirittura metterne a punto di nuovi?

7. Il contributo della psicosocioanalisi

La ricerca sull'analisi del controtransfert, inteso come strumento di lavoro clinico utilizzabile anche sul livello istituzionale, condotta all'interno dell'Associazione italiana di psicosocioanalisi (E. Ronchi, 1993, 1997, 1998), ha prodotto esiti parziali se si guarda solo all'obiettivo per cui era stata messa a punto, cioè la cura della sofferenza e dei conflitti dell'istituzione oggetto di studio e ricerca. Questa esperienza ha tuttavia consentito una rivisitazione delle nostre teorie di riferimento per arrivare a nuovi approdi teorici e tecnici, aprendo la strada a ulteriori importanti piste di ricerca, con la consapevolezza che, anche se gli uomini "vogliono sempre qualcosa di totale e di compiuto, tuttavia in qualche luogo si comincia e si procede solo con lentezza"(2).

Il concetto di controtransfert culturale è molto vicino a quello di con-trotransfert istituzionale così come viene inteso nei più recenti approdi della ricerca psicosocioanalitica italiana. Va ricordato che la ricerca attorno ai temi del controtransfert istituzionale fa esplicito riferimento a una cultura "locale", limitata, interna a una più ampia cultura. Il lavoro psicosocioanalitico con i soggetti istituzionali si occupa di relazioni al singolare e al plurale, nel loro significato affettivo e operativo; si occupa in specifico di relazioni "organizzate" in modo latente attorno a un compito manifesto. Uno psicoterapeuta con formazione psicosocioanalitica può allora apprendere a lavorare con una pluralità di domande; non solo con quelle di tipo individuale e gruppale ma anche con domande istituzionali complesse.

Ciascuna cultura ha un suo peculiare modo per esprimere la sua soffe-renza e la domanda di aiuto; le organizzazioni e le istituzioni, se portatrici di emozioni "malate", tendono a produrre dolorose stereotipie che impediscono di perseguire gli obiettivi strategici da tutti peraltro auspicati. Riteniamo che la psicoterapia attuale offra buoni strumenti per operare in sistemi di riferimento complessi. Questi strumenti consentono di operare all'interno di reti emotive e cognitive che interconnettono individui, gruppi e istituzioni, e di considerare una possibilità operativa che faccia i conti con la polis e con l'ecosistema stesso (E. Ronchi, 1999).

Questo libro vuol essere un contributo a questa ricerca. Noi siamo consapevoli dei suoi limiti e della sua precarietà. Tuttavia sappiamo che il bisogno di verità si esprime con domande, sospensioni, dubbi, inquietudini, stupori, ma soprattutto con un'emozione che può imporsi, legare, ac-cordare quelli che procedono nella ricerca di dare un senso alla propria vita.

    - Così, dunque, tu dici che é la concordanza tra gli uomini a decidere che cosa è vero e che cosa è falso.

    - Vero e falso è ciò che gli uomini dicono; e nel linguaggio gli uomini concordano. E questa non è una concordanza delle opinioni, ma della forma di vita. (L. Wittgenstein, 1954)


Aurelia Galletti, (Brescia) Psicoterapeuta, Psicosocioanalista, Responsabile del Trainig in Psicosocioanalisi della Scuola COIRAG di Specializzazione in Psicoterapia, MembroSinopsis, IAGP

Note

  1. In una conversazione privata, presenti Silvana Koen ed Ermete Ronchi.
  2. Sono parole che Freud scrive a Binswanger in una lettera che Binswanger (1984) cita in "Freud e la costituzione della psichiatria clinica".

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