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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Area: Psico-socio-analisi

Soggetto e Istituzione:
tracce di una prospettiva combinatoria (1)

di Giuseppe Varchetta (2), 1999

 

              Nella vita psichica del singolo l’altro è regolarmente presente come modello, come oggetto, come soccorritore, come nemico, e pertanto in quest’accezione più ampia ma indiscutibilmente legittima, la psicologia individuale è al tempo stesso, fin dall’inizio, psicologia sociale.

              (S. Freud, 1921)

              Come si è visto, l’azione, lasciando la sua traccia, può non solo costituirsi come documento umano, ma anche diventare condotta retta da regole codificate, ovvero istituzione.

              (F. Crespi, 1998)

Abstract

Il contributo origina dalla constatazione di come le dimensioni della soggettualità siano scarsamente interpretate e comprese dalla ricerca sulle istituzioni. La dinamica soggetto-istituzione è ancora definitariamente interpretata.

Il lavoro dell’autore, indicando nella pluralità irriducibile dell’io umano la prima realtà "sociale", passa in rassegna alcune idee della ricerca organizzativa capaci in sé di garantire delle linee di comprensione accanto allo sviluppo delle istituzioni, delle istanze della soggettualità.

Attraverso la presentazione di un caso di sviluppo organizzativo gestito con un approccio clinico, il lavoro ipotizza nelle condizioni della nuova competitività organizzativa un’opportunità per una riflessione e gestione "più avanzata" della dinamica soggetto-istituzione.

 

1. Premessa

Istituzione e soggetto, scienze sociali e scienze psicologiche (3) sono da sempre universi del sapere sovente caratterizzati da cammini paralleli se non contrapposti e con scarsi punti di collimazione sinergica. Frequentemente di fronte a molta produzione delle scienze umane in generale sembra di assistere nelle sociologie e nelle psicologie ad un processo di autolimitazione e di autoreferenzialità.

Un tema attraversa insistentemente così la riflessione e la ricerca sull’organizzazione contemporanea: molti autori e molti testimoni dell’esperienza organizzativa indicano le dimensioni della soggettualità come scarsamente interpretate e comprese dalla letteratura e dalla ricerca sulle istituzioni. In un tempo come il nostro, nel quale le tematiche del soggetto sono al centro di un dibattito ampio e crescente, con forte significatività si pone la questione sul come le dimensioni della soggettualità si con-fondano nelle istituzioni collettive formalizzate.

Il tema così posto si può legittimamente collocare all’interno del dibattito contemporaneo sulla transdisciplinarietà, come criterio auspicato nello studio e nella ricerca sulle forme umane viventi, dall’individuo singolo alle strutture più complesse (Gallino, 1992; Nicolescu, 1997). Criterio questo della transdisciplinarietà tanto auspicato, quanto ancora poco praticato o, per meglio dire, non al livello delle premesse poste dall’evoluzione della teoria della conoscenza contemporanea.

Le scienze sociali orientate alle istituzioni sembrano infatti portare avanti un proprio paradigma difettoso, che resta tale, "manchevole", senza la capacità cioè di confrontarsi col contributo scientifico di altri paradigmi, genuinamente diversi e non solo metaforicamente rinforzanti il proprio paradigma d’origine difettoso. In altre parole le scienze sociali, quelle soprattutto orientate all’analisi delle istituzioni, sembrano "rincorrere" metafore di altre scienze, per esempio di alcune scienze della natura come la fisica, la chimica, la biologia, ecc., invece di "ricorrere" a paradigmi genuinamente diversi di altre scienze sociali quali le psicologie diverse orientate, all’analisi e alla ricerca sul soggetto e sulla soggettualità.

Una risposta al legittimo interrogarsi su tale indisponibilità delle scienze sociali al confronto con altri paradigmi, è nella "tentazione irresistibile" per tutte le sociologie ad una concezione organicistica della società. Lungo la eredità filosofica dell’empirismo, la grande sintesi fondazionale di A. Comte propone alla sociologia la sfida di una grounded theory, capace di ricomprendere ogni evento e manifestazione del sociale in una sintesi insieme ordinatrice e predittiva. Quando la biologia fa sua la teoria dei sistemi, l’idea della società come organismo diventa la metafora centrale di una siffatta visione funzionalista, che ha nel grande sistema sociologico di Parsons la sua espressione più compiuta. La traccia organicistica caratterizza in ultima analisi in tempi a noi contemporanei anche il sistema luhmaniano, con la differenza di una concezione complessa e non lineare e dei sistemi sociali e delle forze in esse interagenti.

Non v’è spazio in tali concezioni per l’attore umano nella sua singolarità, che viene sempre ricondotta a catalogazioni universalistiche capaci di ricomprendere nella serialità e in una ri-conciliazione organica le singolarità distintive di ogni evento e di ogni trasformazione.

Il mio contributo al tema indicato comprende alcune tracce di ricerca così precisabili:

  • la inconsistenza delle tematiche della soggettualità nella letteratura sulle istituzioni trova un utile rimando nel tema più vasto di alcune "cadute" della modernità e in generale della crisi dell’idea di progresso rispetto alle ipotesi della razionalità;
  • la mancanza relativa alla soggettualità può essere utilmente accostata al "non ascolto" da parte degli istituzionalisti di alcune "grandi idee", direttamente e indirettamente interessanti la ricerca organizzativa, e che avrebbero potuto nelle loro premesse fornire una utile prospettiva per il superamento della dicotomia soggetto-istituzione; mi riferisco in particolare:

    * la peculiarità della condizionabilità come caratteristica centrale dell’organizzazione;
    * le implicazioni della teoria dell’azione organizzativa;
    * le idee di qualità e servizio e la loro influenza nel transito "dalla verità al senso della verità";
    * l’affettività come possibilità dell’in-comune;

  • l’avvio, pur confuso e del tutto localistico, di forme cooperative "nuove" nelle quali soggetto e istituzione indicano equilibri diversi.

 

2. Riflessioni preliminari

Prima di sviluppare le tre tracce di ricerca sopra indicate, preme contribuire a commentare due questioni di natura diversa, ma capaci, se comprese congiuntamente, di ampliare significativamente in un quadro problematico più ampio, lo scenario delle tre tracce di ricerca suindicate.

  • La prima questione si riferisce al tentativo di affrontare la domanda speculare a quella relativa alla "ignoranza" delle scienze istituzionali delle problematiche del soggetto; la domanda relativa cioè al perché le psicologie vedono solo la soggettualità.

    Nell’affrontare tale questione credo che sia più utile il non presentare analiticamente lungo le varie scuole e autori le obiettive "inadempienze" delle psicologie in questa prospettiva e, invece, indicare dei contributi che caratterizzano il rapporto soggettualità-istituzione come reciprocamente ricorsivo e, in altre parole, caratterizzato da una relazionalità reciproca.

    Una rilevante prospettiva in tale direzione è la "potenzialità psicosociale" di alcuni fondamenti teorici e di ricerca delle psicologie moderne.

    L’indicazione del "potenziale" psicosociale delle diverse psicologie può essere testimoniato attraverso il contributo di S. Freud, di K. Weick e di F. Fornari che, al di là del valore assoluto della loro ricerca, segnano anche simbolicamente alcuni transiti fondamentali della ricerca psicologica del ‘900.

    S. Freud fin dal 1921 aveva osservato che la psicologia individuale è contemporaneamente, fin dall’inizio, psicologia sociale. La struttura egoica regge il suo ruolo di collegamento con la realtà esterna e di presidio del traffico emozionale derivatone solo in quanto struttura pluriforme, capace di contenere e testimoniare valenze plurime, in un continuo scambio non sempre indolore e gestibile sui binari di un controllo previsionale. L’individuo è struttura plurima e l’adultità assume sempre di più il significato di un viaggio senza fine, scambio "eterno" delle nostre plurime parti interne in un apparire e scomparire continuo di mondi parziali, che solo una ragione bisognosa di rappresentazioni forti e definite prima dell’esperienza diversa nella realtà dell’azione delle donne e degli uomini, può indicare come unici e appartenenti ad un solo universo.

    K. Weick nel suo itinerario di ricerca sulle organizzazioni (1969, 1995) è transitato da un interesse alla "creazione di significato a livello individuale" a quella di una interazione tra individui; il suo concetto di sensemaking - la cui caratteristica più distintiva è il focus sulla retrospezione - è l’area di intersoggettività relazionale prodotta dal continuo oscillare e trascorrere da una zona "asemantica" di indeterminatezza (il senso individuale), a una zona - attraverso la ricchezza ambigua dell’azione umana - di riflessività scambievole, nella quale si producono significati e si producono immagini e concetti che contribuiscono a creare l’in-comune. Il sensemaking oscilla, secondo Weick, tra l’oggettività simbolica del significato e la soggettività diffusiva del senso.

    La presenza continua del punto di vista della soggettualità nella ricerca sulle istituzioni di F. Fornari (1971, 1975, 1976) ha il ruolo di indicare nel cambiamento del vissuto emozionale delle donne e degli uomini nei confronti dei meccanismi di difesa utilizzati nelle diverse performatività organizzative, un transito inevitabile verso il traguardo di un reale cambiamento: ÆLa disponibilità alla conservazione o al cambiamento varia cioè da individuo a individuo. Poiché le ansie di base sono esperienze emozionali di uomini concreti, in carne ed ossa, se non avvengono modificazioni del vissuto degli uomini in carne ed ossa, nel senso di una diversa abitudine nella elaborazione delle proprie ansie, i cambiamenti di struttura sociale possono restare senza effetto nel senso dell’effettivo cambiamento (4).

    Né soggetto, né istituzione in sé, ma ricorsività, co-evoluzione, poiché organismi (soggetti umani) e ambiente (istituzioni) non sono separabili (5).

  • La seconda domanda introduce ad una analisi interrogativa circa il rapporto tra gli orientamenti di sviluppo della soggettualità e la crescita delle possibilità per una organizzazione di confrontarsi con le attuali condizioni di competitività.

    A questo proposito si può osservare come l’esperienza organizzativa sia profondamente cambiata e la competitività sia oggi ad un tempo diventata iper e globale (D’Aveni, 1994).

    Essa è caratterizzata dal passaggio da un mercato segnato da una domanda costantemente in crescita e da una offerta centrata su prodotti/servizi standardizzati, ad un mercato tendenzialmente maturo e/o ipercompetitivo e da una domanda sempre più ricca di valenze di qualità e servizio. La qualità e il servizio come caratteristiche crescenti della competitività attuale pongono le cosiddette risorse invisibili - e in primis la conoscenza, le competenze e la cultura d’impresa - come le leve fondamentali per la produzione del valore, in sostituzione delle variabili di natura strutturale.

    Conseguenza e insieme concausa di tali tendenze è la ri-considerazione della risorsa umana come risorsa strategica. Non si può parlare infatti di obiettivi quali qualità e servizio e di leve competitive quali conoscenza (knowledge management), competenze e cultura, senza un riferimento diretto all’insieme dei collaboratori di una impresa. In tali scenari competitivi tutte le problematiche di gestione delle risorse umane entrano così con una legittimità nuova nel quadro della strategia dell’impresa e dell’organizzazione in generale.

    Il tema delle nuove tendenze alla soggettualità si affianca a quelli fin qui indicati.

    Permane, pur in difficili condizioni del mercato del lavoro, una diffusa tendenza, soprattutto per il personale skilled, all’autoprogettazione, al considerare la propria identità professionale come un patrimonio da gestire da parte dell’organizzazione con politiche del Personale capaci di interpretare l’unicità di ogni collaboratore, di ogni biografia professionale.

    Si definisce così sempre di più l’ipotesi della gestione dei collaboratori dell’impresa come gestione di un mercato interno da interpretare, pur nella sua assoluta specificità, con "strumenti di marketing": l’idea di pensare a mercati molteplici, interni ed esterni, gestiti da strumenti di marketing comparabili, si fonda sull’ipotesi che la soddisfazione dei clienti esterni si origini solo attraverso la soddisfazione del bisogno dei vari clienti interni all’organizzazione (il Personale dell’organizzazione).

Lungo le tracce di queste riflessioni che comprendono esperienze operative dell’organizzazione contemporanea, la soggettualità si definisce sempre più marcatamente come condizione e modalità competitive di presenza dell’organizzazione sul mercato (Butera, 1997, 1998).

Si può ora tornare, esaurito il contributo relativo allo scenario problematico proprio della nostra proposta di riflessione, al tema principale e alle tre tracce di ricerca precisate nel paragrafo conclusivo del punto 1.

 

3. Soggettualità e riflessione sulla modernità

La letteratura delle scienze sociali ha prodotto contributi numerosi e diversi sulla crisi della modernità e dell’idea di progresso. Tali apporti confluiscono in una comune registrazione della delusione delle grandi promesse della modernità, fondate sulla fiducia in una piena e diffusa razionalità tecnologica a supporto delle operazioni umane, su una solida capacità previsiva del futuro, su un consenso crescente tra le diverse comunità etniche, politiche, di pratiche.

Gli itinerari di ricerca sono diversi, ma sono accomunati dal ricorrente rimando di numerosi autori ad una comune variabile interveniente in tale universo critico: il comune rimando è la mancata gestione nell’esperienza della modernità dell’insieme dei bisogni, dei desideri, delle potenzialità dei soggetti umani che nelle istituzioni della modernità vivono, amano, pensano ed operano; in altre parole in una crisi delle aspettative della soggettualità.

La modernizzazione sarebbe in sé un processo di sviluppo incompiuto in quanto "la fase della modernizzazione ha fatto emergere la soggettualità ma non è riuscita a conformare gli individui" (6) .

Il moderno accoglie sul piano dei propositi e delle idee le istanze delle intenzionalità per uno sviluppo accanto all’evoluzione del sociale di forme compiute di soggettualità; di fatto tuttavia le direzioni dello sviluppo hanno generato una radicalizzazione del processo di razionalizzazione di fronte alla quale gli individui oppressi hanno reagito con esplosioni non egoiche di soggettività.

E così il tempo della modernità rispetto agli obiettivi di quantità e qualità, di razionalità e soggettualità si lascia indietro non ascoltate qualità e soggettualità, generando una frattura profonda tra razionalismo tecnologico e istanze del soggetto umano.

In una modernità che "deve ancora realizzare le sue potenzialità, ricomponendo i suoi due elementi fondamentali: razionalità e soggettività" (7), la tecnologia gioca un ruolo rilevante, quasi un elemento analizzatore di una potenzialità tradita.

La modernità ha prodotto un vistoso deficit di cultura di governo della tecnologia, che impone come urgente una re-visione della ragione tecnologica (Gallino, 1998). Il collocare la ragione tecnologica in relazione alle sole variabili di efficienza di mercato e avulsa dalle forme e processi istituzionali, culturali e sociali, variabili nel tempo e nello spazio, ha mortificato la tecnologia a mero fattore produttivo, separandola dalla "rete della vita" (Capra, 1996) e impedendole di essere una forma di relazione e di produzione sociale (Gallino, 1998).

Il lavoro permane nel suo ruolo centrale di costruzione del Soggetto e del suo progetto di vita (Touraine, 1998). "Se si definisce il Soggetto come combinazione di un’azione strumentale e di identità culturali, non vi è costruzione possibile del Soggetto senza partecipazione a un’attività produttiva. Ecco perché il rapporto con la tecnologia è tanto più positivo, da questo punto di vista, che non il rapporto con un mercato ampiamente dominato dalla ricerca del profitto finanziario". (8) Non è il lavoro umano in sé che va attaccato e marginalizzato, quanto le condizioni nelle quali viene svolto e le prospettive e visioni nelle quali è collocato dall’esperienza della modernità: "ciò che perde terreno, e anche rapidamente, è l’insieme dei compiti che non hanno significato personale soggettivante per coloro che li compiono, compiti che non sono giudicati nobili se non nel nome di una ideologia produttivista" . Sembra vi siano spazi nelle esperienze organizzative più recenti perché queste ipotesi di "solidarietà" tra la costruzione di una identità personale e l’utilità sociale del lavoro possano trovare luoghi più avanzati e ampi di concreta sperimentazione e realizzazione (Pievani, Varchetta, 1999).

 

4. Soggettualità e ricerca organizzativa

Alcuni capitoli della ricerca organizzativa, per lo più portata avanti dalle scienze sociali, contengono alcune "grandi idee", capaci in sé, se attentamente analizzate e sapientemente contestualizzate, di garantire delle linee di comprensione, accanto allo sviluppo delle istituzioni, delle istanze della soggettualità. Con questa ipotesi di lavoro si intende sottolineare che solo un’attenzione estesa anche al "lato del soggetto" può consentire di comprendere ampie porzioni della scienza organizzativa in tutta la loro potenzialità euristica.

Attraverso brevi tracce si possono presentare alcuni dei casi più testimoniali di una interpretazione riduttivamente limitata agli aspetti istituzionali.

4.1 La condizionabilità organizzativa. Le esperienze organizzative contemporanee hanno nelle forme della condivisione e nell’organizzazione per processi più che una indicazione di tendenza. Queste suggestioni, che in qualche caso si stanno sperimentando con diffusa significatività (10), trovano un rinforzo teorico "naturale" in una definizione di organizzazione centrata sulla caratteristica della condizionabilità. L’organizzazione nasce quando il valore di un sistema è condizionato dal valore delle parti che lo compongono (Ashby, 1962). "L’idea di fondo che sta alla base di questa definizione di organizzazione in termini di condizionabilità è l’idea che il possibile preceda il reale e lo comprenda come caso particolare ed attuale" (11). L’ambiente organizzativo proprio di questa prospettiva è un contesto comunicativo, nel quale la conoscenza è un processo generativo e non di possesso e nel quale la conoscenza in sé non può essere descritta apriori, ma solo aposteriori in modo retrospettivo e in connessione con una esperienza diretta e condivisa; l’universo reificato è sostituito da un universo di relazioni cognitive nelle quali donne e uomini unici, interagendo, costruiscono se stessi e i propri mondi organizzativi e insieme la propria soggettualità.

4.2 L’azione organizzativa. La sfida della condivisione è parte rilevante della visione processuale e prossimale indicata dalla teoria dell’azione organizzativa (Thompson, 1967; Maggi, 1996). La teoria dell’azione organizzativa connette gli individui con le strutture organizzative in una relazione circolare tra soggetto e organizzazione.

"Una Teoria dell’Azione presuppone una concezione in termini di processo dei fenomeni umani, che consideri il tempo come una variabile fondamentale. "Azione" è un termine che, nelle scienze sociali, serve a indicare la connessione della condotta di un agente umano a un senso soggettivo e oggettivo. Ciò comporta che una Teoria dell’Azione presupponga una Teoria delle Decisioni, che sono dunque un elemento analitico dell’azione. In campo organizzativo, una concezione nei termini di decisione e azione è perciò attenta agli individui e alle strutture relazionali che essi producono e riproducono incessantemente, mentre rifiuta di parlare di organizzazione come entità concreta a sé stante, sovraordinata o comunque separata dagli individui"(12).

I principi della teoria dell’azione sono profondamente diversi da quelli delle scienze della natura e si distinguono per una costante attenzione ai temi dell’intenzionalità umana (Brooks, 1994; Lanfredini, 1997).

I processi sono reti sociali che coinvolgono donne e uomini che lavorano. Vi è una influenza reciproca tra soggetto e istituzione di natura ricorsiva, con una forte consapevolezza da parte delle singole persone dei differenti ambienti organizzativi che stanno costruendo (Weick, 1969, 1979).

Noi siamo esseri parlanti e attraverso quella continua negoziazione che è il linguaggio umano noi possiamo dare un significato alle nostre azioni. L’azione umana può essere anche - voglio dire che è soprattutto - un pone lanciato tra il mondo dell’intransitività individuale e la realtà transitiva delle diverse forme sociali: "in queste prospettiva, l’opposizione iniziale tra l’ambito della razionalità e quello delle passioni, viene sostituita dalla tensione tra senso e significato, ovvero tra l’ambito nel quale emerge l’agire, comprensivo sia dell’affettività sia dell’intenzionalità, e l’ambito della comunicazione intersoggettiva all’interno del quale, tramite le forme di mediazione simbolico-normative, viene fondato l’ordine razionale e sociale" (13).

Lungo questa prospettiva dettata da uno sguardo attento all’azione umana si abbandona la concezione dell’individuo come originariamente a-sociale e si entra in una visione ambigua della realtà, capace di accogliere una visione binoculare: "possono così essere più adeguatamente considerati, accanto agli aspetti di indeterminatezza, di imprevedibilità, di irreversibilità e di creatività propri dell’agire in quanto apertura di possibilità e fonte di produzione di significati, anche le dimensioni di determinatezza, di prevedibilità, di fondazione etico-normativa, di serialità e di ripetizione cui dà luogo l’agire, in quanto processo di produzione e di ri-produzione della realtà sociale" (14).

4.3 Le idee di qualità e servizio. Gli anni più recenti della nostra esperienza organizzativa sono stati segnati profondamente dal movimento della qualità totale e dall’idea di servizio.

Le conseguenze operative sono state ampie e profondamente differenziate nei diversi contesti organizzativi (Zeithaml e al., 1991; Capranico, 1992; Fanelli, 1999; Manghi, 1999).

Se si dovesse essere interrogati sul significato profondo da attribuire a tali due eventi, la risposta dovrebbe obbligatoriamente sottolineare il cambiamento del "punto di vista" dal quale osservare e valutare le attività dell’organizzazione: l’organizzazione da autodiretta è diventata eterodiretta ed è stata "obbligata" a confrontarsi con punti di vista relativi alla sua performance provenienti dall’ambiente esterno, in particolare dai consumatori, dai distributori, dai fornitori. Il sistema organizzativo da "chiuso" non è diventato semplicemente "aperto", ma ha assunto caratteristiche di scambio, di profonda relazionalità con l’ambiente di riferimento, con la sottolineatura della relazione interpersonale come uno degli elementi chiave della nuova dinamica organizzativa. L’organizzazione contemporanea, da soggetto chiuso, compatto, capace di "mettersi al mondo da solo" (selfmastering), possessore di una razionalità potente, onnipresente, capace di previsioni fortemente affidabili, sta mutando verso una identità in continuo divenire, costruita socialmente con l’ambiente esterno, attraverso uno scambio relazionale tanto fitto quanto imprevedibile.

Accostare l’autodirezione di un sistema ad esperienze di eterodirezione significa confrontarsi con una realtà in sé irriducibile di voci molteplici, portatrici ciascuna di una specifica verità, e transitare da una visione "metafisica" della realtà ad una visione conversativa: un passaggio "dalla verità al senso della verità". L’organizzazione diventa una realtà meno data e più costruita azione dopo azione, attraverso l’infittirsi delle relazioni di soggetti umani, portatori ciascuno di una specifica identità collocabile nello spazio e nel tempo (Gargani, 1994). Siamo, ed è esperienza di tutti pur nella differenziazione ovvia delle diverse realtà, di fronte ad un "agire comunicativo" diffuso, nota caratteristica comportamentale per gestire le nuove condizioni della competitività e conseguire il compito primario, che necessita ora del contributo di attori come distributori e fornitori fino a qualche tempo fa caratterizzati da un ruolo passivo. Si incontra così l’Altro come elemento ancora di contrapposizione dialettica, ma, insieme, circostanza misteriosa e confusa nella quale la nostra identità va a ricercare un non sostituibile riferimento. E l’incontro con l’Altro obbliga l’organizzazione a pensare diversamente rispetto al passato, aiutando a superare i vincoli della path dependance, trasformando le proprie "origini di storie" da limite ad opportunità (Bocchi, Ceruti, 1993). L’organizzazione si nutre così di una soggettualità molteplice, densa, alimentatrice insieme di una dialettica diversa e di spessori di intenzionalità differenziata impensabili fino a qualche anno fa (Ghoshal, Bartlett, 1997).

4.4 L’affettività dell’in-comune. L’esperienza di gruppo nell’organizzazione e le teorie psicosociologiche relative risalgono fino ai primi anni ‘60.

Le strutture per processo, le esperienze di project management, i progetti di partnership con soggetti esterni all’organizzazione hanno moltiplicato in questi ultimi anni l’esperienza di gruppo. Si tratta sovente di una relazionalità del tutto nuova, che ruota intorno alla circostanza che le esperienze gruppali nelle nuove forme organizzative tendono a richiedere e a preservare insieme il distinto o lo stare insieme (15). Le esperienze di gruppo delle nuove forme organizzative sono caratterizzate da una più marcata affermazione, rispetto al passato, della distintività individuale. Su questa base "la comunità non è dunque né un rapporto astratto o immateriale, né una sostanza comune. Non è un essere comune, è un essere in comune" (16).

Questa nuova distintività, con l’affermazione accanto all’esperienza gruppale di una nuova soggettualità, alimenta da qualche tempo una domanda nuova. Perché all’esperienza organizzativa, sul piano emozionale, sono per lo più attribuiti gli aspetti di una relazionalità "maschile", dominata dalla paura, dalla dominanza, dalla collusione, dalla colpa? Perché gli aspetti più sereni di una affettività "femminile" sembrano per l’esperienza organizzativa obbligatoriamente proibiti? E’ proprio la nuova soggettualità - che le nuove forme organizzative della learning organisation, centrate sulla conoscenza come variabile competitiva - portatrice di conoscenze e competenze distintive accanto a quelle collettive dell’istituzione gruppo, a richiamare la possibilità e ad interrogarsi su una legittimazione dell’organizzazione anche come luogo dell’affetto (Nancy, 1995).

In questa prospettiva, istituzione-gruppo, soggetto e affettività compongono un territorio nuovo nel quale la contrapposizione soggetto-istituzione può trovare una nuova prospettiva combinatoria e co-evolutiva.

 

5. Soggettualità e forme organizzative cooperative

Si raccontano sempre più storie nelle organizzazioni oggi. Accade un po’ dovunque e con forte differenza rispetto al passato. In situazioni diverse, donne e uomini affidano ad una storia organizzativa il senso di quello che intendono comunicare.

La narrazione - come ha sottolineato Weick - ha infatti un’importanza cruciale nella vita organizzativa perché permette di mantenere, preservare e trasmettere attraverso strutture simboliche i risultati delle azioni organizzative portate avanti dalle donne e dagli uomini che lavorano. La costruzione di significato è possibile solo - come già sottolineato - retrospettivamente all’azione e la retrospezione si origina e si nutre del ricordo delle azioni compiute insieme che, a loro volta, vengono alimentate e mantenute in vita dalla narrazione.

Di storie le organizzazioni sono sempre state invase e, per così dire, formate. Le donne e gli uomini del nostro tempo sono cambiati e diverse da quelle di un tempo sono le loro storie organizzative. Sono soprattutto storie che girano intorno allo sforzo continuo - colmo di esperienze per lo più critiche e incerte - di trovare forme organizzative per una nuova cooperazione. Per cogliere e raccontare queste storie occorre un pensiero diverso. Occorre saper accettare in noi e negli altri un pensiero nuovo, molteplice, variegato, capace di contenere risonanze apparentemente lontane per non vanificare la complessità nostra e degli universi che insieme ai nostri nuovi "compagni", testimoni di conoscenze e capacità diverse dalle nostre, costruiamo dentro le organizzazioni ora dopo ora.

L’amministratore delegato di un’azienda di beni di largo consumo, sottolinea recentemente l’inadeguatezza della proposta strategica relativa ad una categoria merceologica rispetto agli obiettivi relativi di sviluppo. La proposta che si origina si indirizza verso la creazione di una forma cooperativa nuova, caratterizzata da una messa in comune di codici professionali diversi. L’invito è semplice, caldo, perentorio: "mettetevi insieme". Un capo raccoglie un piccolo gruppo di otto tra giovani donne e giovani uomini, che confluiscono da spazi diversi in un nuovo spazio comune. I giovani collaboratori lasciano i "vecchi" capi, i "vecchi" uffici e le "vecchie funzioni" e cominciano, proprio così, dalla mattina alla sera, un mondo organizzativo tutto nuovo. L’unica indicazione è un breve documento strategico: missione, la rete dei ruoli, alcuni meccanismi operativi, un termine temporale entro il quale presentare alla direzione una nuova proposta strategica e la possibilità di consultare un esperto di sviluppo organizzativo. Non viene effettuata nessuna analisi preventiva del tipo process reengineering (Hammer, Champy, 1993) e ci si affida invece ad uno spontaneismo simile al crescere dei cespugli, attendendo con paziente fiducia un germogliare d’insieme. Succedono in breve, rapida successione, eventi forti e dolorosi. Due membri della direzione delegati ad assistere il capo del nuovo gruppo e l’intero gruppo nel nuovo processo di lavoro, vivono una crisi profonda di fronte ad una inattesa quanto stretta doppia paternità. L’unicità esclusiva della paternità è sentimento portante dell’esperienza organizzativa pregressa e le paternità adottive sono sempre state esperienze complesse. La co-paternità - in aggiunta - frustra e sfida ad un tempo, come una condivisione coatta e possono originarsi proiezioni difensive sulle qualità del figlio "nuovo" da condividere.

Si originano così domande penose per i due capi di direzione relative alla loro relazione "differente" con il capo del gruppo; è più difficile:

  • perdere una paternità esclusiva ed essere obbligati a condividere con altri la paternità di una risorsa che si è cresciuta ma della quale si può non essere completamente soddisfatti,
  • o essere obbligati a "diventare padri" di una risorsa che non si giudica all’altezza del compito?

La domanda suona retorica: entrambi i genitori hanno un compito arduo, "impossibile"; le storie tuttavia procedono e può accadere - e nella nostra storia accade - che la consapevolezza di questo "doppio legame" possa trasformare il vincolo in risorsa. Il vincolo è anche infatti una opportunità. Il vincolo non si impone semplicemente dall’esterno ad una realtà che esisteva già da prima. Il vincolo partecipa alla costruzione di una struttura e determina quello che tale struttura può conseguire. Il vincolo è, in altre parole, una qualità della struttura. Vi è sempre la prospettiva di un rapporto costruttivo, circolare tra vincolo e possibilità. Questa ipotesi ha solo una pre-condizione, quella di includere l’osservatore nelle sue descrizioni della struttura che si è venuta creando. E in questo, molti dei protagonisti di questa storia sono aiutati dalla staff e da loro stessi, reciprocamente, capaci di un nuovo aiuto in quanto "nuovi" per la nuova "posizione" loro attribuita.

L’aiuto ricevuto si espande via via e consente poco per volta l’adozione di uno sguardo diverso da parte di molti membri del nuovo gruppo nei confronti del vissuto di mancanza che la crescita della complessità organizzativa da qualche tempo alimenta in tutta l’azienda (Morelli, Weber, 1996).

Quando parlo di uno sguardo diverso circa la mancanza intendo indicare una prospettiva nel vivere la mancanza come una tendenza "naturale" a completare le insufficienti risorse individuali attraverso strategie diverse nelle nuove relazioni cooperative, dove si incontrano altri, portatori di mancanze diverse ma orientati da comuni obiettivi. Intendo indicare ancora la relazione coevolutiva tra ogni essere umano come attore comunicativo nell’organizzazione e l’ambiente esterno. La mancanza cambia così prospettiva e nel primato della relazionalità diviene luogo nel quale l’esserci dell’uno come autentico viene testimoniato e affermato dal godimento di un reciproco diritto dell’altro (Pagliarani, 1985; Napolitani, 1995).

Tutto questo comincia ad accadere in quel gruppo, anche se la storia non è conclusa e può avere esiti ancora diversi.

Possono scaturire rinforzate due osservazioni-convinzioni, che si originano solo attraverso una nuova combinazione della relazione istituzione-soggetto umano, che esperienze come questa stanno saldando.

Ognuno di noi ha tratti caratteriali, capacità, competenze, più o meno buone e più o meno capaci di cambiare; l’autoorganizzazione - la possibilità di ogni soggetto umano di evolvere rispetto alle proprie potenzialità interne, per limitate che siano - non è solo tuttavia una proprietà intrinseca del progetto ma è anche, e soprattutto, il prodotto di una nostra decisione, una proprietà connessa al nostro modo di guardare un sistema umano. Questa chance va lasciata a tutte le donne e gli uomini che nelle organizzazioni operano (Ceruti, 1989).

Le psicoanalisi diverse - e passo così alla seconda osservazione - sono state accomunate da una diffusa diffidenza nel rapporto con la società. Questo è un dato dell’esperienza della ricerca psicologica della modernità che non va dimenticato e che accompagna, in un parallelismo di direzione opposta, la diffidenza delle sociologie per il soggetto umano. Le psicoanalisi nella nostra contemporaneità sembrano aver rotto i confini e le psicoanalisi gruppali vantano oggi esperienze e un insieme di metodi operativi utilizzabili in contesti istituzionali. Le crisi sempre più profonde e frequenti dell’istituzione urgono una rivisitazione di "quei paradigmi istituzionali che in nome del primato degli alberi non vedono il bosco, così come quelli complementari che in nome del bosco misconoscono gli alberi" (17). Ci si confronta ancora tuttavia con molti ostacoli ai quali è sottoposta la ricerca clinica verso le dimensioni gruppali e collettive in genere dimenticando che "porgendo attenzione e ascolto anche ai soggetti istituzionali, si produce, anche culturalmente, un effetto terapeutico sul disagio sociale ben più diffuso di quanto si possa ottenere agendo su una percentuale sempre più ristretta di singoli individui in trattamento psicoanalitico secondo i canoni tradizionali" (18).

 

6. Quasi una conclusione

La domanda relativa alla "dimenticanza" nelle scienze sociali dei temi del soggetto, si confronta così in innumerevoli esperienze istituzionali con una corrispondente "incapacità" da parte della modernità di gestire l’universo della soggettualità. Una razionalità parziale caratterizza l’esperienza istituzionale della modernità, segnata dalla soverchiante presenza della struttura e impoverita dalla complessità che le infinite soggettualità "in attesa" frustrata avrebbero apportato. La cultura istituzionale del nostro tempo e, in corrispondenza, la lettura delle scienze sociali nella maggior parte delle loro esperienze e testimonianze, non si affaccia sui "possibili" connessi con uno sviluppo della soggettualità.

La modernità non ha saputo cogliere la sfida della co-gestione di due scenari contemporanei, incapace di reggere lo sforzo di una visione binoculare e adagiata nella tendenza "naturale" a separare, a trascurare, a cogliere un solo oggetto - sia esso quello sociale o quello soggettuale, ma purché sempre uno - attraverso un solo sguardo, paradigmaticamente predefinito e prescelto. Il lato oscuro delle nostre anime è così per lo più mancato all’appuntamento della sua elaborazione e spesso si è persa per strada, seguendo funzionalizzazioni specialistiche, la comprensione dei nostri mondi, irriducibilmente molteplici, collimando su un aspetto o sull’altro, senza trovare una linea prospettica capace di con-tenerli e di con-dividerli (Quaglino, 1997).

Una sorta - come già detto - di pensiero metafisico dominato dal principio di ragione sufficiente ha perso per strada - in numerosi casi - l’anima delle donne e degli uomini che nelle istituzioni operano. Abbiamo sovente nutrito una ragione che nel suo desiderio di render conto di tutto, ha tralasciato quella creaturalità che non vuole essere spiegata, ma "solo" compresa.

Quello che pare di poter, se non affermare, dire è che il nostro tempo sta costruendo brecce nella convinzione - che spesso è stata una convenzione acritica - che i fatti collettivi debbano di per sé, in quanto "contenitore", annullare le persone. Le organizzazioni della nuova competitività sono un teatro idoneo allo sviluppo di una binocularità più sofferta e attenta al "doppio", che ogni esperienza umana in quanto tale porge, il sociale e l’individuale.

In questa direzione si sta già facendo molto e tutto il movimento della complessità ne è rilevante segno (19). La restituzione più rilevante è la possibilità di un genuino sviluppo, attraverso l’attenzione nuova alla soggettualità degli attori organizzativi individuali e collettivi. La conoscenza del sé, in quanto tale, si sviluppa anche attraverso le possibilità e le opportunità che abbiamo di relazionarci ad altri, riconosciuti nella loro differente soggettualità: "la qualità dell’io dipende ... dalla qualità dell’ascolto che otteniamo" (20).

Il tempo della nostra modernità deve recuperare il deficit di diversità creatosi dalle strade intraprese dal nostro modo di operare e conoscere. Tale deficit può essere recuperato dalle ipotesi della soggettualità e delle narrazioni personali (Cavarero, 1997). Il vero diverso oggi è il singolo individuo, che non può più essere collocato banalmente - e se potesse sempre scegliere certamente non accetterebbe - in una relazione gerarchica con l’istituzione.

 

NOTE:

(1) Alcuni punti del presente lavoro sono stati confrontati con G.L. Bocchi e U. Morelli; G. Baglioni mi ha assistito con costanti consigli: ringrazio tutti molto. Mia sola resta ovviamente la responsabilità di quanto scritto (n.d.a.).

(2) Responsabile Sviluppo Unilever Italia e Direttore del Personale divisione Sagit.

(3) Con i soli obiettivi della chiarezza e del servizio al lettore indichiamo con scienze sociali quella porzione delle scienze umane orientate allo studio delle istituzioni giuridiche, economiche e delle istituzioni umane collettive come la folla e con scienze psicologiche la parte delle scienze umane orientate, pur con approcci molto differenziati, alla ricerca sul soggetto umano nelle sue problematiche e manifestazioni concretamente singolarizzate. Sempre con i soli obiettivi della chiarezza e del servizio al lettore ricordiamo che le psicologie hanno da tempo indicato nell’Istituzione "una necessità indispensabile alla crescita dell’uomo" e contemporaneamente un "ostacolo alla crescita stessa" e come da tempo "il termine Istituzione sia andato acquistando sempre di più il significato di qualcosa che trascende gli individui, li sovrasta, li domina" (Legramante, 1998, pagg. 92-93). In realtà la dinamica soggetto-istituzione andrebbe, triadicamente, allargata al gruppo, sottolineando anche la dinamica gruppo-istituzione: gli individui concorrono infatti alla formazione di un gruppo, così come le relazioni tra gruppi alla rappresentazione dell’istituzione. L’economia di questo contributo ha tuttavia suggerito una limitazione della prospettiva di analisi alla più limitata dinamica soggetto-istituzione (Napolitani, 1987; Di Marco, 1999). In ogni caso, anche nel presente lavoro, "non si è potuto evitare" (si veda l’ultimo paragrafo del cap. 5) un passaggio dedicato alle fertii prospettive della dinamica gruppo-istituzione.

(4) F. Fornari, 1971, pag. 64.

(5) Questa affermazione, che può sembrare in sé acritica, sarà ripresa e commentata in uno dei punti del cap. 4 del presente contributo.

(6) G.L. Bocchi, workshop "La modernità e il post-moderno", Unilever Italia, 1999; il corsivo è mio (n.d.a.).

(7) A. Martinelli, 1998, pag. 130.

(8) A. Touraine, 1998, pag. 46; si veda a questo proposito anche F. Novara, 1998

(9) A. Touraine, op. cit., pag. 46.Tali prospettive sono state analiticamente già commentate nella seconda parte del par. 2 del presente lavoro.

(10) Nel par. 5 del presente lavoro si cercherà di documentare alcuni di questi casi di "nuova cooperazione".

(11) M. Ceruti, 1989, pag. 57.

(12) B. Maggi, R. Albano 1996, pag. 220.

(13) F. Crespi, 1998, pagg. 176-177.

(14) F. Crespi, 1998, pag. 177.

(15) Nel 5° cap. del presente lavoro cercherò di registrare una esperienza concreta significativa della tendenza qui indicata.

(16) J.L. Nancy, 1995, ed. it., pag. 210.

(17) E. Ronchi, 1998, pag. 164

(18) E. Ronchi, op. cit., pag. 165. Mi sia consentito ricordare a questo proposito la ricerca nella psicologia italiana della scuola psicosocioanalitica di L. Pagliarani (ora coagulatasi in Ariele, Associazione per la ricerca e lo sviluppo della psicosocioanalisi) che, rivisitando la lezione di W. Bion, lungo l’esperienza di E. Jaques negli anni ‘50 alla Tavistock Clinic, ha all’attivo un vasto campo teorico (Pagliarani, 1985) e una somma rilevante di esperienze cliniche capaci ad un tempo di "rispettare" dell’esperienza delle donne e degli uomini i disagi sia della vita affettiva che della vita istituzionale, sia nella dimensione individuale che in quella gruppale-istituzionale.

(19) Si veda per questa prospettiva di ricerca, tra l’amplissima letteratura esistente, l’esperienza della rivista Pluriverso (I-IV, 1995, 1999).

(20) M.P. Nichols, 1995, ed. it., pag. 37.

 

Nota bibliografica

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