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Psichiatria, Deontologia ed Etica Medica

Emilio Mordini

(rpbl. da Lo Psichiatra Italiano, Hippocrates Edizioni Medico-Scientifiche, Milano: 1997)

Indice degli argomenti

Introduzione

1. Dalla deontologia medica alla bioetica

2. Questioni generali
2.1 Il consenso al trattamento, i trattamenti coercitivi, e il rispetto della volontà del paziente
2.2. La ricerca
2.3 Psichiatria e valori

3. I trattamenti
3.1 Psicoterapie
3.2 Terapie farmacologiche
3.3 Trattamenti fisici e manipolazione diretta del cervello
3.4 Trattamenti di comunità, psichiatria territoriale, e riabilitazione psichiatrica

4. Lo psichiatria e l'allocazione delle risorse

Conclusioni e ringraziamenti

Appendice 1: I principali codici etici di interesse psichiatrico

Riferimenti citati



    "Never let yourself be goaded into taking seriously problems about words and their meanings. What must be taken seriously are questions of fact, and assertions about facts: theories and hypotheses; the problems they solve; and the problems they raise" (Popper K., 1992, p.16)


Introduzione
La frase scelta ad esergo di questo scritto (una breve sentenza tratta dall'autobiografia intellettuale di Karl Popper, in cui il filosofo ammonisce a non prendere mai troppo seriamente le questioni riguardanti le parole, ma ad appassionarsi invece ai fatti e solo alle questioni che riguardano i fatti) è, come ovvio, una scelta di campo; una scelta di campo antideologica.
Psichiatria e filosofia, sono due discipline che amano le parole in quanto tali, che amano catalogare e definire (spesso, purtroppo, nel senso più deteriore di "etichettare"). Le parole servono ad entrambe le discipline per nascondere spesso una scarsa propensione ad occuparsi e dar conto dei fatti. Freud, del resto, diceva della filosofia - facendone, lui nolente, uno dei più geniali e struggenti elogi - che essa non serve un granché perché è come il canto di un viandante nella notte: tiene compagnia ma non illumina la strada. Anche della psichiatria, e della psicoanalisi certamente, si potrebbe dire la stessa cosa. La sofferenza umana resta sempre al di là della capacità di comprensione. Mysterium iniquitatis , essa va al di là di ogni possibile comprensione e rimanda, sempre ed inevitabilmente, a quell'assurdo della cui stoffa è tessuto il destino di ciascuno. Vi sono, tuttavia, canti e canti: vi è la struggente aria di Pamina, che credutasi ingannata da Tamino, vuole morire perché la vita non ha più senso, ma vi sono anche i canti sconnessi degli ubriachi che, più che tenersi compagnia nella notte, vomitano, su loro stessi e su tutti, il loro terrore per il buio che li circonda. Fare buona filosofia, così come fare buona psichiatria, vuol dire allora trovare belle canzoni, imparare a cantarle, e saperle cantare con chi ha bisogno prima di ascoltarle e, quindi, di imparare anche lui a cantare, in attesa che "nos in aeternum exilium impositura cumbae" (Orazio, Carmina II, 3, 27-28).
In due sensi, dunque, in un articolo dedicato alla deontologia ed etica professionale dello psichiatra, le parole possono condurre ad uno sterile dibattere o, ancor peggio, ad un progressivo invilupparsi in pseudoragionamenti (psichiatria ed etica, non dimentichiamolo, possiedono due tra i più complessi e sofisticati apparati gergali inventati dalla scienza occidentale). Innanzitutto la psichiatria ha una lunga tradizione di parole che sono servite più a celare che a dire, più a nascondere che a svelare. Si va dal gergo insopportabile, e spesso ridicolo, degli psicoanalisti, al povero latinuccio delle classificazioni, sino ai malinconici e riflessivi soliloqui dei fenomenologi, e al linguaggio sempre più burocratico e disgregato, tanto da rasentare la disorganizzazione mentale oltre che linguistica, delle cartelle cliniche ospedaliere. Parole per lo più inutili, spesso, comunque, inutilmente difficili, che non servono né a capirsi tra psichiatri né a far capire i pazienti, e che, soprattutto, sembrano aver per sempre cancellato ogni senso dell'umorismo e dell'autoironia in tutti. In un altro senso, tuttavia, le dispute sulle parole potrebbero rivelarsi nefaste. Il piacere nominalistico, e un po' perverso, di dibattere su ogni termine, non è certo appannaggio solo della psichiatria, che, anzi, la filosofia lo ha scoperto ben prima. La bioetica non ha saputo fare a meno di dilettarsi anch'essa in questa sottile arte. Vi sono così interi capitoli, se non volumi, dedicati alla distinzione tra deontologia, etica medica, e bioetica. Così, a voler essere rigorosi, uno scritto di deontologia psichiatrica, dovrebbe avere poco a che fare con uno di etica psichiatrica, ed entrambi, probabilmente, si occuperebbero di argomenti diversi da quelli che un bioeticista vorrebbe veder affrontati. Di tutte queste distinzioni si terrà conto solo, e solo quando, esse saranno utili. Riprendendo ancora una volta Karl Popper, "It is always undesirable to make an effort to increase precision for its own sake - especially linguistic precision - since this usually leads to loss of clarity [...] one should never try to be more precise than the problem situation demands." (p.24). Mai la precisione deve essere nemica della chiarezza e, quando ciò accade, vuol dire che qualcosa non funziona.

Questo scritto si svilupperà per paragrafi ineguali: alcuni saranno molto lunghi, altri saranno invece assai brevi e conterranno solo il rimando ad alcune informazioni essenziali. Anche se lo stile non ne guadagnerà, si è pensato in questo modo di venire incontro innanzitutto ad un'esigenza pratica per cui non tutti gli argomenti sono di uguale interesse per lo specialista. In effetti alcuni temi che possono appassionare il bioeticista, possono essere invece poco utili e noiosi per il clinico. Un tema fondamentale per entrambi, l'allocazione delle risorse e la giustizia nella distribuzioni delle cure, verrà solo rapidamente accennato non certo perché di minore importanza, ma al contrario perché così ricco e complesso da meritare un articolo a se stante. Altri argomenti, poi, sono stati già così dibattuti in mille sedi (si pensi al tema della deospedalizzazione) che non aveva senso affrontarli per l'ennesima volta. Insomma l'obiettivo è stato quello di informare su un dibattito in corso e di fornire alcuni elementi essenziali perché il lettore potesse poi orientarsi autonomamente

1. DALLA DEONTOLOGIA MEDICA ALLA BIOETICA
La bioetica esiste grossomodo da venticinque anni, cioè dalla metà degli anni '70. Nasce in gran parte come conseguenza dell' insufficienza dell'etica medica tradizionale. L'etica medica tradizionale era quella di cui erano garanti gli ordini professionali e che era insegnata nei corsi di deontologia nell'ambito della medicina legale, nei corsi di morale tenuti dalla pastorale sanitaria cattolica (mentre non esisteva una tradizione protestante analoga o, perlomeno, d'analogo rilievo), e, in Germania e in Spagna, presso le cattedre di Storia della medicina. La bioetica, dunque, origina da un'inadeguatezza, e si sostituisce, nei fatti, alla deontologia medica classica.
La parola "deontologia" è abbastanza recente, essendo stata coniata dal filosofo J.Bentham (1748-1832) come titolo di una sua opera in cui svolse la teoria dei doveri. Oggi il termine, usato come sostantivo ("la deontologia"), è utilizzato per indicare lo studio e l'elencazione di un particolare gruppo di doveri inerenti una determinata professione. Usato come aggettivo della parola "etica" ("etica deontologica"), designa, invece, un particolare tipo di etica basata sulla nozione di dovere assoluto, che si contrappone ad altre etiche basate su concetti, ad esempio, di felicità o di virtù. La più nota etica deontologica in ambito Occidentale è quella formulata da I.Kant.
Il termine etica è più vasto di quello di deontologia, comprendendo non solo lo studio dei doveri, ma anche "the study of the concepts involved in practical reasoning: good, right, duty, obligation, virtue, freedom, rationality, choice." (Blackburn S. The Oxford Dictionary of Philosophy Oxford University Press 1994, 126). L'etica, cioè, si occupa delle scelte pratiche degli esseri umani, considerate come la risultante di un concorrere e confliggere di differenti beni, diritti, doveri, obbligazioni, cercando di dare basi razionali alle scelte che devono essere effettuate, o di mostrare le ragioni o la mancanza di ragioni di queste scelte. L'etica di conseguenza non è direttamente interessata alle basi psicologiche del comportamento umano (anche se nell'antichità greco-romana, e segnatamente nel pensiero aristotelico, considerazioni di tipo psicologico hanno avuto un ruolo importante). Tuttavia la domanda centrale a cui l'etica cerca di rispondere non è quali siano le condizioni psicologiche in base alle quali si sceglie un bene piuttosto che un altro, ma se esistono fondamenti razionali al di là delle preferenze psicologicamente determinate per scegliere un bene piuttosto che un altro. In tal senso l'etica, almeno così come si è andata configurando nella filosofia occidentale, è impresa che necessita per fondarsi di mettere la psicologia tra parentesi. Il punto essenziale è che il modo in cui gli individui costruiscono il loro mondo morale interno è assolutamente irrilevante nel giudicare la validità degli argomenti utilizzati per giustificare tale mondo morale, esattamente come i motivi psicologici per cui Newton enunciò le leggi della meccanica sono assolutamente irrilevanti nel giudicare la validità di tali leggi. Non tutte le scelte sono naturalmente di pertinenza etica, lo sono piuttosto quelle che concernono ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Scegliere tra un gelato alla vaniglia ed uno al cioccolato può essere, ad esempio, un'impresa ardua, ma non riguarda l'etica, quanto il gusto, cioè l'estetica. Al contrario scegliere tra dilapidare tutti i propri risparmi con le ballerine del tabarin o donarli, invece, al convento delle Sorelle del Divino Amore è una scelta etica, cioè riguarda un giudizio morale attorno ciò che è giusto che un essere umano faccia o non faccia (1).
L'etica medica riguarda dunque ciò che è bene e ciò che male in relazione alla professione medica. L'etica medica tradizionale, ai suoi inizi, non era un'etica deontologica, ma era soprattutto un' etica delle virtù, cioè un' etica che descriveva le caratteristiche che doveva possedere un medico per essere un buon medico. Le virtù sono degli abiti del carattere che sono solo in minima parte costituzionali e che in buona parte si acquisiscono con l'abitudine. Una persona ha una determinata virtù perché si è abituata ad un certo comportamento a tal punto che esso è divenuto una sua seconda pelle. I medici dovrebbero dunque possedere le virtù mediche (ad esempio: compassione, dedizione, amore per l' umanità, disinteresse) perché vi sono stati educati da attenti maestri nel corso della loro formazione clinica. La credenza, o la speranza, che i medici possiedano realmente queste virtù non è mai stata però molto diffusa. Sino al secolo scorso il medico non aveva una reputazione particolarmente buona: basti pensare alle maschere di medici nella commedia dell'arte, ai medici di Molière, o a molti medici del grande romanzo dell' Ottocento, primo fra tutti Charles Bovary. In effetti, nella letteratura e nel teatro, il medico è spesso descritto come un cialtrone in malafede che si approfitta della dabbenaggine dei pazienti. Il medico dei matti, in particolare, è sovente rappresentato o come un matto anch'egli, spesso ben più pericoloso dei suoi stessi pazienti, o come un sadico dalle vaghe parvenze demoniache (si pensi a tutti gli alienisti del racconto noir, da Maupassant a Hoffman, sino a Poe).
Tuttavia, verso la metà dell' Ottocento le nascenti società professionali (la prima delle quali si sviluppò negli Stati Uniti come riflesso di difesa contro i guaritori, in particolare i Christian Scientists) cercarono di definire uno standard etico-professionale comune. Per far ciò si rivolsero ad una tradizione antica che risaliva da un lato ai circoli medici pitagorici dell' antica Grecia (non si scordi che nella seconda metà dell' Ottocento si è in pieno fiorire della filologia classica), dall' altro alla prima cristianità. Sia nei circoli pitagorici (quelli da cui nacque il giuramento di Ippocrate) sia nella prima cristianità veniva attribuito al medico un particolare carisma per cui egli si poneva in una posizione "quasi-sacerdotale". Un ethos cristiano-ipprocratico (riletto alla luce dell'umanitarismo scientifico ottocentesco) costituì dunque la base dei nascenti ordini professionali medici. Si affermò, cioè, il concetto che un medico è definito non solo in base a ciò che sa ( alla sua scienza) ma anche in base a ciò che uniforma il suo agire (la sua coscienza): di scienza e coscienza divennero garanti gli Ordini e le società scientifiche, assicurando al paziente non solo uno standard scientifico ma anche un standard etico. Il medico divenne, così, una sorta di sacerdote laico, simbolo di un amore per l'umanità tollerante e compassionevole, illuminato dal sapere della scienza (2). Questo modello ha retto la professione medica, compresa la psichiatria, sino alla metà del Novecento, ed è questo modello ad essere entrato in crisi, pressoché in tutto il mondo, negli anni sessanta e settanta del nostro secolo. Dalla crisi del modello di "medico virtuoso", e da una parallela diffusa sfiducia nei confronti del progresso scientifico come inevitabile portatore di progresso sociale e umano, nacque la moderna bioetica.
Verso la fine degli anni 60 e l' inizio degli anni 70 si sviluppò un movimento di critica sociologica alla medicina rivolto soprattutto contro la "medicalizzazione" della società, cioè contro ogni tentativo di trasformare conflitti sociali e culturali in questioni medico-biologiche. Questo movimento si intrecciò variamente con il sorgere delle prime organizzazioni di pazienti e con una nascente critica alla medicina tecnologica che si sviluppò in ambito filosofico e teologico (si pensi a M.Focault ed I.Illich, ad esempio). La psichiatria, gli psichiatri e quanti lavoravano in istituzioni psichiatriche, ebbero, come si sa, una gran parte in tutto ciò. Ben prima che la stessa parola "bioetica" fosse inventata, film quali "L'arancia meccanica", o "Qualcuno volò sul nido del cuculo", divennero simbolo di una rivolta contro lo strapotere medico e contro la crescente disumanizzazione introdotta dalle nuove tecnologie.
Il termine bioetica fu utilizzato la prima volta dall'oncologo statunitense V.R.Potter nel 1971, ma la definizione classica è quella che si trova nella Encyclopedia of Bioethics, un opera collettiva pubblicata nel 1978: "bioetica è lo studio sistematico della condotta umana nell'area delle scienze della vita e della cura della salute, quando tale condotta viene esaminata alla luce dei valori e dei principi morali" (Reich W.T., New York 1978). In una prima fase l'attenzione della bioetica si rivolse soprattutto ai diritti dei pazienti e fu tutta focalizzata sul rapporto duale medico e paziente. Fu, come si dice, "principialista", rinunziò cioè sia a rivolgersi ad ipotetiche (e non più credute) virtù del medico, sia a definire elenchi di doveri a cui il professionista si sarebbe dovuto attenere, garante l'ordine professionale. La bioetica pretese invece di definire alcuni principi che potessero divenire regole generali a garanzia soprattutto dei pazienti. La grande paura era quella di una società espropriante, custodialistica e paternalistica, che sottraesse al cittadino il diritto di disporre come meglio gli paresse del proprio corpo e della propria salute. Non è certo un caso che furono di questo periodo i principali tentativi di deistituzionalizzazione psichiatrica, sia in Italia (leggi n.180, e 833, 1978), sia negli Stati Uniti (Lake v. Cameron, 1966; Lessard v. Schmidt, 1972; Massachusetts Supreme Judicial Court In re the Guardianship of Richard Roe III, 1981; Civil Rights of Institutionalised Persons Act, 1980) (3).
Nel 1979 la Commissione Belmont, istituita dal presidente degli Stati Uniti per cercare di definire (qualora fosse possibile farlo) un minimo etico comune, enunciò i famosi quattro principi della bioetica: 1. Rispetto dell' autonomia del paziente; 2. Impegno ad agire per il suo bene; 3. Impegno a non nuocere; 4. Rispetto di un criterio di giustizia nella distribuzione delle cure. Questi quattro principi, nell'intenzione dei loro ideatori, costituirebbero il minimo comun denominatore di ogni etica (laica, religiosa, deontologica, eudaimonica, utilitarista, ecc.) applicata alla medicina e dovrebbero quindi aiutare a fondare un linguaggio comune alle diverse posizioni morali.
Verso la metà degli anni 80 nacque, tuttavia, in molti studiosi la consapevolezza che la gran parte delle questioni bioetiche aveva in realtà a che vedere con l'intera comunità piuttosto che con il singolo individuo e che la medicina stessa era sempre, in definitiva, medicina di comunità. Così, se pure rimaneva giusto difendere i "principi" della bioetica, tuttavia, essi correvano il rischio di rimanere solo astratti enunciati, se non si articolavano nel mondo della sanità quale esso concretamente era. L'interesse si spostò, quindi, verso questioni di politica sanitaria e studiosi come D.Callahan richiamarono, tra i primi, l'attenzione al problema della giustizia nell'allocazione delle risorse e ai problemi etici in economia sanitaria (Wikler D, 1997).
Tuttavia anche la bioetica si trovò presto ad affrontare quella che oggi si chiama "la sfida della globalizzazione". Già nei primi anni novanta l'attenzione degli organismi internazionali fu richiamata dal carattere globale di molte questioni sollevate dal dibattito etico. Bisogna innanzitutto ricordare il progetto genoma (Human Genome Project - HUGO), che si è rivelato essere una delle più ambiziose, ed eticamente controverse, avventure della moderna biologia. Non solo il progetto HUGO si dotò sin dall'inizio di un proprio comitato etico ad hoc, il Joint Working Group on Ethical, Legal, and Social Implications (ELSI) of the Human Genome Project, ma anche l'UNESCO fondò un proprio comitato etico che, a partire dalla definizione di genoma come patrimonio comune a tutto il genere umano, si diede il compito di comprendere e descrivere le obbligazioni morali e legali implicite in questa definizione. Il CIOMS e la WHO nel 1994 lanciarono il documento di Ixtapa "Una Agenda Globale per le Bioetica" che ha richiamato l'attenzione sulla questione dell' equità nella distribuzione mondiale delle risorse sanitarie. Nel 1997, infine, il Consiglio d'Europa ha portato alla firma dei ministri la "Convenzione Europea sulla Biomedicina ed i Diritti Umani", una carta dalla lunga e complessa genesi, che costituisce il primo documento interstatale sulla bioetica con valore obbligate per tutti gli Stati che lo ratificheranno. La bioetica, che si era sempre occupata di diritti negativi, cioè di diritti di libertà (il diritto a scegliere, il diritto a rifiutare le cure), è giunta così ad occuparsi di diritti positivi, cioè diritti che implicano obbligazioni da parte di altri, ed, in particolare, da parte degli Stati (diritto alla salute, diritto ad essere curati) (D'Agostino F, 1996. Wikler D, 1997. Gindro S, 1997c). Questo è, dunque, l'attuale stato dell'arte del dibattito in bioetica ed etica medica: in questo contesto si inscrive ciò che si dirà, con maggiore specificità, sulla psichiatria (illustra bene questa tendenza la mumentale opera in tre volumi Human Rights & Mental Illness prodotta nel 1995 dal Governo dello Stato di Victoria, in Australia).

2. QUESTIONI GENERALI
Con il termine di "questioni generali" ci si riferirà a quelle più comuni a tutta la disciplina psichiatrica (consenso, ricerca, psichiatria e valori), I contributi importanti e significativi su questi temi , anche in lingua italiana, sono ormai così numerosi che non si può citarli tutti. Vale la pena, tuttavia, almeno ricordarne uno dei primi (Giannelli A, Mencacci C, 1991) non foss'altro per il significato "storico" che ha avuto di registrare un dibattito che si era sviluppato da tempo tra un gruppo di colleghi appassionati di etica psichiatrica.

2.1 IL CONSENSO AL TRATTAMENTO, I TRATTAMENTI COERCITIVI, E IL RISPETTO DELLA VOLONTA' DEL PAZIENTE

Il consenso al trattamento
L'idea che nessun atto medico - tranne alcune particolari eccezioni strettamente definite per legge - possa svolgersi senza il consenso del malato è abbastanza recente. La dottrina legale la fa risalire al mondo anglosassone, e più precisamente al giudice Benjamin Cardozo che la enunciò in una famosa sentenza del 1914: "Every human being of adult years and sound mind has the right to determine what shall be done with his own body; and a surgeon who performs an operation without his patient's consent commits a battery for which he is liable in damages" (citato da Gutheil TG, 1995). La dottrina del consenso all'atto medico si affermò, comunque, nel secondo dopoguerra come conseguenza delle efferatezze compiute dalla medicina nazista. Come risultato della ripulsa nei confronti della sperimentazione umana condotta nei campi di concentramento, in quasi tutti i paesi occidentali venne inserito nell'ordinamento legale il principio che nessun essere umano può essere sottoposto contro la sua volontà a cure o sperimentazioni mediche. In Italia questo principio è sancito dall' art. 32 della Costituzione che afferma che nessuno può essere sottoposto a trattamento medico contro la propria volontà tranne che casi regolamentati dalla legge e che, in ogni modo, la legge non può oltrepassare i limiti imposti dal rispetto della dignità umana. Lo stesso principio è chiaramente riaffermato dalla legge n.833/78, art. 33 e 34. In generale, e in assenza di una specifica legislazione concernente gli atti medici, la giurisprudenza fa usualmente riferimento all'art. 50 del Codice Penale che afferma la non punibilità delle lesioni fisiche provocate con il consenso della persona che può liberamente acconsentire. Questo articolo conferisce una base giuridica all'atto medico, anche se è da notare che gli atti di disponibilità del proprio corpo non possono essere ritenuti pienamente liberi per il codice italiano (art.5 del Codice Civile, e art. 589 e 570 del Codice Penale). La questione assume una particolare rilevanza in tema di espianto e donazione di organi da vivente.
Secondo la legge italiana vi sono solo cinque fattispecie per cui una persona può essere sottoposta ad un trattamento medico contro la propria volontà:
1. In caso di un rischio immediato per la vita della persona senza che vi sia la possibilità di spiegare la situazione o che il paziente sia in grado di comprenderla. In questo caso un rifiuto al trattamento è considerato non efficace (R.D. 19/10/30 n. 1390). Il consenso è presunto perché si ritiene che il dissenso sia dovuto o a un'assenza o a un' impossibilità a comprendere l'informazione ricevuta. Vale tuttavia la pena di notare che, perché sia lecito, il trattamento deve essere: i) proporzionale al rischio; ii) assolutamente improcrastinabile da un punto di vista medico. In assenza di questi due criteri, o anche di uno solo di essi, il medico che non rispetti la volontà del malato è perseguibile per lesioni procurate.
2. Vaccinazioni obbligatorie (L. 1/3/ 1963 n.292);
3. Malattie sessualmente trasmissibili, tubercolosi e lebbra (l.26/7/1956 n. 897);
4. Tossico dipendenza (legge n.126, 26/06/1990). Tuttavia è il caso di notare che in conseguenza del referendum popolare dell' Aprile 1993, sono abolite le sanzioni penali per i tossicodipendenti che si rifiutino di sottomettersi ad un trattamento curativo.
5. Malattie mentali (art. 33, L. 13/5/78, n.180). Il legislatore, pur affermando il principio che il malato mentale non può essere sottoposto a trattamento contro la propria volontà, ammette la possibilità, sotto particolari garanzie di legge e come evento straordinario, di trattamenti sanitari obbligatori. La storia della riforma psichiatrica italiana è così nota ed è già stata così dibattuta che non ha senso tornarvi anche in questa sede. Il lettore interessato potrà trovarne un'utile lettura riassuntiva in chiave etica sia in L. Ancona (Ancona L, 1996), sia in P.Cattorini (Cattorini P, 1993). Quello che vale forse la pena di segnalare nella legislazione italiana - da un punto di vista etico - è che la legge non si rifà ad ipotetici criteri di pericolosità del malato di mente (4), ma solo all' interesse terapeutico che egli può trarre dal trattamento forzato. Un altro elemento eticamente rilevante è l'assenza di distinzione tra trattamento ed ospedalizzazione, presente invece in altre legislazioni europee , quale quella olandese (Koch AG, Reiter-Theil S, Helmchen H, 1996). Questa distinzione, in apparenza più rispettosa della libertà del malato, per cui sono necessari due distinti ordini da parte del giudice, uno che consente l'ospedalizzazione forzata, l'altro che consente il trattamento forzato, è, in realtà, quanto di più lontano vi possa essere da una visione non punitiva della cura psichiatrica. Si ammette, cioè, in via di principio, che abbia senso una custodia senza trattamento, una "prigionia" non giustificata dalla necessità di un concomitante intervento terapeutico. La questione fu già sollevata negli Stati Uniti nel 1966 nel famoso caso Rouse v. Cameron. La Corte di Appello del District of Columbia sentenziò che, in assenza di progetto di trattamento, l'ospedalizzazione forzata rappresenta un attentato alla libertà dell'individuo ed è incostituzionale: Nel 1977 la Corte Federale dell' Alabama, in Wyatt v. Stickney, elencò quattro prerequisiti che rendono possibile in via di principio un' ospedalizzazione forzata: i) la presenza di un personale adeguato; ii) la disponibilità di spazi adeguati; iii) la disponibilità di piani dietetici adeguati; iv) specifici piani di cura individuali (5).

Il consenso informato
Da un punto di vista strettamente etico la nozione di consenso all'atto medico deve, invece, esser fatta risalire al cosiddetto "Codice di Norimberga", ovverosia al dispositivo della sentenza che condannò i medici nazisti implicati nelle sperimentazioni nei campi di sterminio tedeschi. In tale sentenza i giudici dichiararono esplicitamente che tutti coloro che partecipano a sperimentazioni mediche debbono potere esprimere il loro consenso volontario. Successivamente, negli anni settanta, si sviluppò la dottrina del consenso informato, a significare che il consenso doveva accompagnarsi a una piena informazione, tale che il paziente fosse in grado di decidere con conoscenza dei fatti e in assoluta autonomia. Mentre, quindi la dottrina giuridica classica del consenso ha a cuore alcuni diritti della persona (inviolabilità corporea ed atti di disponibilità del proprio corpo, libertà individuale, ecc.), la teoria bioetica del consenso informato mira a promuovere il diritto del paziente a decidere "a pari livello" con il medico (tutto questo capitolo è già stato trattato con maestria da Argo A, Procacciani P, 1996, a cui si rimanda il lettore). Il medico deve dare al paziente tutte le informazioni di cui egli dispone, senza niente travisare o nascondere, nella maniera più chiara e comprensibile, e prospettare le diverse opzioni terapeutiche comprese quelle che egli consiglia e perché. A questo punto la sua opera si ferma perché l'ultima parola, la decisione sul che fare, dovrà spettare sempre al paziente. Questa nozione così "radicale" di consenso informato è stata accusata di essere eccessivamente contrattualistica. Il medico - si è detto - non è un venditore che deve sciorinare le sue merci davanti al paziente e lasciar che egli scelga: l'etica del medico non si può ridurre a quella di un venditore di automobili usate. Tuttavia dovrebbe far riflettere il fatto che un uomo come il Cardinale C.M.Martini, certo non sospetto di corrività nei confronti di visioni neoliberiste e contrattualistiche della medicina, così si espresse alcuni anni fa: "Il paziente sa benissimo di essere lui, non altri, il vero responsabile della propria salute fisica e mentale. Se si affida a un terzo è solo perché da solo non potrebbe risolvere il problema della malattia che lo ha assalito. Ma anche dopo questo ricorso e affidamento a terzi, egli mantiene inalterato il potere di amministrazione del proprio organismo; e ciò comprende ovviamente anche il diritto di accettare o di rifiutare ciò che gli viene proposto, a seguito di un suo personale giudizio globale, concernente i suoi interessi personali, familiari e professionali" (Martini CA, 1986, p.17). Lo stesso Codice di Deontologia Medica della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri, FNOMCeO, sembra sposare questa posizione quando, nell' art 29, sottolinea che la necessità di un consenso informato deve uniformare l'intera relazione medico-paziente, sia in ambito ospedaliero sia in ambito ambulatoriale, e quindi non deve essere intesa come semplice garanzia nei confronti di alcuni atti medici "rischiosi" ma deve anzi divenire la base di una nuova partnership tra medico e paziente. Così si esprime anche M. Bassi (Bassi M, 1996) nel suo saggio, cruciale per comprendere la realtà operativa del consenso al trattamento nelle strutture psichiatriche italiane.
In ambito europeo l'obbligatorietà di un consenso informato è stata innanzitutto affermata in relazione alla sperimentazione farmacologica con la direttiva CEE no 507 del 19 luglio 1991 sulle "Good Clinical Practice" che è divenuta legge operante in tutti gli Stati membri dell' UE. Se, però, è ovvio che i soggetti, sani o malati, che si sottopongono ad una sperimentazione lo facciano solo volontariamente e dopo essere stati pienamente informati dei rischi, più complessa appare la questione del consenso informato all' atto medico senza finalità sperimentali. Nella recente Convenzione Europea di Bioetica approvata dal Consiglio d'Europa, sono dedicati alla questione gli articoli dal 5 al 10. Molto spazio è dedicato alla questione del consenso degli incapaci (soggetti in coma o con gravi lesioni organiche del Sistema Nervoso Centrale, bambini, anziani dementi, malati mentali gravi, ritardati mentali) e di come rispettare la loro, seppur ridotta, autonomia (art. 7).
Nel 1992 il Comitato Nazionale di Bioetica ha pubblicato un avviso su "Consenso, Informazione e Atto Medico", in cui si riafferma il principio che soltanto il consenso legittima l'atto medico ed è lo strumento su cui si deve costruire l'alleanza terapeutica.
Il Codice Italiano di deontologia medica distingue, a sua volta, tre differenti tipi di consenso:
i) Presunto: quando il paziente non è cosciente, oppure manca della necessaria capacità di processare l'informazione, e corre un serio rischio di morte. In questi casi il consenso è sempre presunto anche quando il paziente abbia espresso nel passato un suo rifiuto al tipo di trattamento sia a parole, sia per iscritto, sia attraverso i propri gesti (ad esempio: racconti di parenti, testamento di vita, tentativi di suicidio, ecc.)
ii) Implicito: quando il trattamento non comporta particolari rischi per il paziente, il consenso può essere considerato implicito nella scelta stessa di rivolgersi ad un medico per essere curato. Vale la pena di notare, comunque, che la nozione di consenso implicito è valida solo se il medico ha fornito al paziente tutte le informazioni di rilievo sulla sua patologia ed sul trattamento che sarà praticato. In assenza di informazione nessun consenso implicito ha valore.
iii) Esplicito: quando il trattamento comporta particolari rischi, o una permanente riduzione di integrità fisica, il consenso deve essere sempre richiesto formalmente, ed esplicitamente dato dal paziente, meglio se in forma documentata, o scritta.
Sempre secondo il Codice Deontologico, qualsiasi forma di consenso richiede alcuni prerequisiti (art. 40 e 41):
1. Informazione medica: il paziente deve essere pienamente informato sia sulla propria malattia sia su i possibili trattamenti ritenuti adeguati dalla scienza medica, sia sulle ragioni per cui il suo medico si orienta su un trattamento piuttosto che su un altro.
2. Informazione personalizzata: l'informazione dovrebbe essere fornita in accordo alle condizioni culturali, intellettuali, ed emozionali del paziente.
3. Informazione completa: un' informazione parziale, che non permetta al paziente di formarsi un quadro corretto d'insieme, deve essere evitata.
4. Informazione comprensibile: l'informazione non è da sola necessaria, bisogna che il medico si sinceri anche che il paziente abbia compreso ciò che gli è stato comunicato (6)
5. Competenza: un paziente può consentire solo se è dotato della capacità di comprendere la natura del suo disturbo, del trattamento, e di esprimere una valida volontà.
Nel 1994, sotto gli auspici della Società Italiana di Psichiatria, l' Istituto Psicoanalitico per le Ricerche Sociali ed il Royal College of Psychiatrists hanno organizzato a Benevento un seminario di tre giorni sul problema del consenso informato in psichiatria, a cui hanno partecipato, tra gli altri, G. Adshead, A.Balestrieri, G.Benevelli, A.Casoni, D.Dickinson, M.Di Giannantonio, KWM Fulford, S.Gindro, E.Mordini, D.Tantam. Gli atti, non pubblicati, sono comunque a disposizione dei lettori interessati all'argomento.
Dal gennaio 1996 si è stabilita presso la Commissione di Bioetica dell' Ordine dei Medici di Roma un gruppo di lavoro congiunto tra Ordine e Società Italiana di Psichiatria (Sezione Lazio) sul "Consenso Informato in Psichiatria". Il gruppo di lavoro ha già pubblicato un documento sul consenso nella psichiatria dell' infanzia e si sta apprestando alla pubblicazione di un manuale per la valutazione della competenza del malato psichiatrico.
In ambito psichiatrico la dottrina del consenso informato è sempre stata ritenuta di difficile applicazione, se non, addirittura, paradossale. L'obbiezione che si è sempre mossa è che i malati psichiatrici non dispongono tout court della capacità né di consentire, né di processare le informazioni a loro comunicate. Ciò non è clinicamente vero né nell'esperienza di chi scrive né nell'esperienza della maggior parte degli psichiatri (Vella G, Siracusano A, 1996). In generale, infatti, le persone sofferenti di disturbi psichici, anche gravi, restano capaci di comprendere e legittimamente consentire o dissentire da un atto medico proposto. Non ci si scordi che il problema etico del consenso informato all'atto medico da parte del malato psichiatrico non riguarda di necessità solo le cure psichiatriche. Un malato psichiatrico può essere anche un malato chirurgico oppure cardiologico: in tutti questi casi il suo consenso al trattamento ha valore e deve essere considerato (fatto salvo, ovviamente uno stile umanamente rispettoso nella comunicazione e nella richiesta, che dovrebbe, comunque essere comune) (7). Non sono tanto le peculiarità del malato, quanto quelle della disciplina psichiatrica, a rendere a volte problematica (ma non certo impossibile) l'applicazione del principio del consenso informato. La nozione di consenso informato comprende quella di informazione e quella di volontarietà. A sua volta la questione dell'informazione in ambito psichiatrico è duplice: innanzitutto non è ben chiaro di che si debba informare un paziente, in secondo luogo, ammesso pure che si superi questo primo ostacolo, la psicoanalisi ha insegnato che l'informazione è già cura, non è cioè processo neutro ma è un intervento terapeutico a tutti gli effetti.

L' informazione
Per ciò che concerne il primo punto è ovvio che esso coincide in buona parte con l'annosa questione della nosografia psichiatrica. Si dovrebbe informare il paziente, infatti, sia della natura della sua malattia e sia dei possibili rimedi; non esiste, però, in psichiatria una corrispondenza sufficientemente biunivoca tra questi due ordini di fatti. La ragione è, certo, che non vi è unanimità sui rimedi, ma è anche - e con più grave confusione per il malato - che non vi è nemmeno unanimità sulle malattie. Si pensi solo che la grande distinzione tra psicosi deliranti (comunque definite) e psicosi affettive (anche qui, comunque definite), che è comune ai tre principali sistemi nosologici psichiatrici del Novecento (Wernicke, Kraepelin e Schneider), e che compare in tutti i sistemi classificatori tutt'oggi accettati, non solo non è mai stata fondata su evidenze biologiche o psicologiche certe (Pichot P., 1994), ma è, addirittura, sempre più spesso smentita dalla moderna biologia molecolare, sia sul piano farmacologico, sia su quello genetico (Srám RJ, Bulyzhenkov V, Prilipko L, Christen Y, 1991). E se, alla fine, un domani la vecchia teoria della einheitspsychose tornasse in auge? Il fatto è che in psichiatria la diagnosi è spesso basata su assunti teorici controversi, non condivisi da tutta la comunità scientifica, spesso diversi da scuola a scuola, cosa che non avviene, o avviene molto meno, in altre specialità mediche. Ciò, probabilmente, non è stato solo uno svantaggio, ma, anzi, ha raffinato la sensibilità epistemologica di molti psichiatri. Tutto ciò, a onor del vero però, non è detto che consoli i pazienti, che, invece, sarebbero ben più felici di potersi basare su certezze e sicure classificazioni, a prezzo, magari, di avere medici "più sciocchi" (8). Tuttavia i tentativi di costruire modelli ateoretici di diagnosi, basati su procedure operazionali e non su presupposti metapsicologici, non hanno migliorato sostanzialmente la situazione (9) , almeno dal punto di vista del paziente. I modelli ateoretici sono, cioè, approdati ad una diagnostica neo-kraepeliniana che presenta il doppio difetto di non riuscire a realizzare veramente ciò che promette e di riproporre il vecchio (e scorretto) gioco da Azzeccagarbugli manzoniano di limitarsi a ripetere al paziente, in latinorum, ciò che egli ci ha appena comunicato (10) (tutto ciò, naturalmente, senza nulla togliere alla comodità ai fini statistici e di comunicazione tra colleghi di questi sistemi classificatori). Un secondo punto concerne, poi, il valore terapeutico della comunicazione. Indubbiamente questo è uno dei soggetti più delicati da affrontare. Non vi è una regola certa che si possa seguire e molto dipende anche dai contesti (istituzionali, non istituzionali, pazienti ambulatoriali, pazienti inseriti in strutture territoriali o temporaneamente ospedalizzati). Potrà capitare che una paziente etichettata "isterica" trovi in questa definizione la propria "nicchia ecologica" in cui installarsi e da cui sarà poi difficilissimo stanarla, oppure, al contrario, potrà succedere che un paziente riceva una scossa benefica dall' apprendere che quelle che lui aveva sempre considerato "fantasie" sono invece classificate dalla medicina "ideazioni paranoiche". Ciò che ha senso riaffermare, insomma, è che la comunicazione della diagnosi non andrebbe mai considerata un evento estraneo alla cura, non progettato all'interno della cura stessa (Sacchetti E, 1996). Ogni diagnosi è sempre un po' una costruzione ed un'interpretazione (Gindro S., 1993b, 1994). Va, cioè, valorizzato il momento comunicativo, la costruzione comune e condivisa dell'informazione (Siracusano A, Vella G, 1996). Questo potrebbe sembrare solo un appello retorico, privo di ogni effetto pratico, tuttavia si pensi che già oggi la Croce Rossa Italiana adotta un protocollo che prevede più di tre mesi di colloqui con i genitori di bimbi a rischio di mucoviscidosi, prima che sia data loro la possibilità di effettuare il test genetico sul nascituro. Non si vede perché procedure così articolate, complesse, e regolate normativamente (seppur da norme solo interne alla struttura) non possano essere applicate anche alla comunicazione di una diagnosi psichiatrica. Insomma, se da un lato il paziente psichiatrico è portatore dello stesso diritto di ogni altro paziente ad essere informato sulla natura del suo male e sui possibili rimedi, non è detto che ciò debba avvenire attraverso una burocratica "presa d'atto", spesso, tra l'altro, asetticamente, e vigliaccamente, veicolata non dalle parole del medico ma da una prescrizione farmacologica (11) .

La competenza
L'altra questione in gioco nel consenso informato è quella della volontarietà. Volontarietà presume due elementi: 1) la competenza; 2) l'assenza di coercizione.
Per quanto riguarda la valutazione della competenza del malato psichiatrico, questo è uno dei problemi di più difficile soluzione. Innanzitutto perché la stessa definizione di competenza è ambigua, implicando qualità sfuggevoli e mal circoscrivibili, in secondo luogo perché la competenza non è mai del tipo "tutto o nulla" ma è un continuum che sfuma a seconda delle situazioni. Del resto il concetto di competenza non è un concetto medico ma un concetto legale e il medico (e lo psichiatra) deve comprendere ed accettare il fatto che il suo compito è solo quello di produrre delle informazioni che saranno utilizzate da altri. Da un punto di vista strettamente legale la competenza si giudica in base alla capacità di soppesare le diverse alternative, di sottoporle ad un giudizio razionale, e a prendere la decisione ragionata conseguente. Ad essere rigorosi, dunque, ben pochi esseri umani - o forse nessuno - sarebbero "competenti". Tuttavia vi è un'interpretazione operazionale della nozione di competenza per cui è competente chiunque sia in grado di prendere una decisione "sufficientemente adeguata alla situazione" secondo una procedura decisionale definita in precedenza. Un bel testo ricco ed esauriente a cui si può rimandare il lettore è quello, abbastanza recente, di B.Cox White (Cox White B, 1994). La cosa più interessante è che l'autrice prende in considerazione anche le componenti affettive ed emozionali della competenza, componenti probabilmente cruciali ma che sono quasi sempre sottovalutate. La capacità di reagire emotivamente in maniera adeguata è invece una parte essenziale dei nostri processi decisionali. Recentemente, poi, la British Medical Association e la Law Society hanno congiuntamente pubblicato un volumetto dedicato alla valutazione della competenza del paziente (BMA, The Law Society, 1995) corredato da una raccolta di case vignettes. Di particolare interesse sono i documenti aggiuntivi prodotti nel corso della presentazione pubblica del testo ( e che possono esseri richiesti alla BMA). In Italia, e da un punto di vista strettamente legale, il concetto di competenza concerne direttamente il Codice Civile, anche se gli articoli in questione non sono espressamente riferiti al rifiuto o accettazione di trattamenti medici. Il Codice Civile italiano è largamente basato su considerazioni di tipo patrimoniale, per cui la competenza è definita come la capacità di: 1) Stipulare contratti e modificare la propria condizione giuridica; 2) Testare; 3) Donare. Il Codice distingue inoltre tra "incompetenti naturali" e "incompetenti per legge". I primi sono i minori mentre i secondi sono tali solo in seguito ad un giudizio legale. Il Codice distingue anche tra incompetenza parziale e totale, e il differente giudizio permette di introdurre una graduazione tra le diverse attività ritenute legalmente valide. In genere un giudizio di competenza è richiesto per inabilitare una persona a disporre del proprio patrimonio. Secondo il Codice Civile i principali parametri valutativi devono essere: i) la capacità di comunicare la scelta fatta; ii) la capacità di comprendere le informazioni avute; iii) la capacità di apprezzare le diverse possibili scelte; iv) la capacità di esprimere una decisione razionale. Secondo il Codice Civile (art.414, e 415), una persona ritenuta incompetente può ricadere sotto due diversi istituti:
1. Interdizione: nel caso che la persona sia ritenuta incapace totalmente a provvedere ai propri interessi. I criteri per dichiarare una persona interdetta sono:
i. Presenza di una malattia mentale cronica con serio deficit cognitivo;
ii. Incapacità manifesta a provvedere ai propri interessi.
2. Inabilitazione: una persona inabilitata non può disporre liberamente del proprio patrimonio ma può ancora compiere alcuni atti dotati di rilevanza legale. Una dichiarazione di inabilitazione può essere pronunziata in quattro diverse situazioni:
a) pazienti affetti da malattia mentale cronica ma privi di seri deficit cognitivi;
b) pazienti che, con il loro comportamento, dimostrano di non comprendere il valore del denaro;
c) pazienti tossicodipendenti che hanno già causato gravi problemi economici a loro stessi e alle loro famiglie in conseguenza della tossicodipendenza;
d) disabili ciechi o sordi dalla nascita che non abbiano appreso a maneggiare il denaro.

Va tuttavia detto che sia i processi di interdizione sia quelli di inabilitazione sono particolarmente complessi e, soprattutto, pongono il paziente in una condizione difficilmente reversibile da un punto di vista legale. Come conseguenza essi non fanno parte della pratica psichiatrica corrente ed il giudizio di competenza, relativamente alla questione del consenso al trattamento, è quasi sempre di tipo clinico, senza l'intervento di un'istanza legale.

La coercizione
Un altro punto da considerare discutendo la questione del consenso informato è l'assenza di coercizione. Anche qui ci si trova dinanzi ad una questione sottile e difficilmente categorizzabile. Che cosa si deve intendere per "coercizione" e "trattamenti coercitivi"? Con l'espressione "trattamenti coercitivi" ci si riferisce ad una vasta gamma di trattamenti effettuati contro la volontà libera ed esplicita del paziente, e che vanno da una semplice pressione psicologica sino alla coercizione legale. Il dibattito scientifico su questo tema si è sinora sviluppato quasi unicamente in ambito anglosassone, secondo una distinzione terminologica che in italiano è scarsamente applicabile. Infatti la letteratura psichiatrica inglese distingue tra compulsion, intendendo con questo termine la vera e propria obbligatorietà, e coercion, cioè la pressione, più o meno obbligante. Così l'espressione "trattamento sanitario obbligatorio (TSO)", che indica in italiano i trattamenti coatti, si traduce in inglese con compulsory treatment. Un testo di riferimento per l'area della Common Law, ma ugualmente stimolante anche per uno psichiatra italiano, è il report no 137 al Congresso degli Stati Uniti del Group for the Advancement of Psychiatry, interamente dedicato alla coercizione in medicina (in psichiatria infantile, nelle tossicodipendenze, in psichiatria forense, nelle ospedalizzazioni forzate, e nei trattamenti coatti extraospedalieri, nei detenuti, e, infine, in ambiente militare). Feinberg (Feinberg J, 1986) distingue lo spettro delle forze coercitive utilizzando il parametro delle alternative lasciate al soggetto: la compulsion proper, in cui non si lascia alcuna alternativa alla persona; compulsive pressure, in cui esistono solo le possibilità di accettare o rifiutare; coercion proper e coercion pressure che lasciano intatto lo spettro delle alternative ma si basano sul rendere alcune di queste svantaggiose, operano cioè sul principio del ricatto; infine Feinberg considera le tecniche di manipolazione seduttiva e di persuasione che, a diversi gradi e livelli, cercano di influenzare le decisioni di un soggetto. In italiano, in assenza di una netta distinzione terminologica tra compulsione e coercizione, si possono classificare i metodi coercitivi come legalmente obbliganti, ovvero i trattamenti coatti, e, dall'altra, la pressione sociale, legale e psicologica che non rivestirà, però, mai la forza del disposto di un giudice. In quest'ultima categoria si comprenderanno, di conseguenza, sia metodi che operano secondo un meccanismo di rinforzo negativo, ovvero "sistemi a punizione", sia tecniche che utilizzano rinforzi positivi, cioè "sistemi a ricompensa". Tra i primi vanno annoverate tutte le forme di "rilascio condizionale" dei pazienti (possibili secondo la legislazione di molti paesi) o di supervisione nella comunità, per cui un paziente psichiatrico gode di una sorta di libertà condizionata al fatto che egli accetti di adeguarsi ad alcuni comportamenti; tra i secondi si possono citare tutte le forme di facilitazione offerte al paziente collaborante, quali lavoro, alloggio, pensione di invalidità, luoghi di ritrovo e socializzazione. Un rispetto assoluto del principio di autonomia del paziente vorrebbe che tutte queste forme di limitazione della libertà del malato nell'esprimere il suo consenso o dissenso fossero da proscrivere. Un rispetto assoluto del principio di autonomia, però, non solo è inapplicabile in condizioni di malattie croniche e di lunga durata (Agich. G, 1993), quali le malattie psichiatriche, ma non sarebbe nemmeno auspicabile. In effetti, fuori dalla condizione teorica, e quasi caricaturale, del paziente bioetico ideale (una persona completamente consapevole di sé, pienamente razionale, non soggetta a nessuna influenza esterna o interna, che è messa di fronte ad una gamma limitata di scelte mediche, su cui dispone, per altro, di ogni informazione essenziale), le scelte nella vita, e quindi non solo in ambito medico, sono quasi sempre frutto di processi di negoziazione. Proprio perché nessuno vive solo come una monade, ma si è tutti inseriti in un contesto sociale e relazionale, non ha senso rifiutare ogni forma di pressione che possa essere esercitata per dirigere le scelte altrui. Il principio etico che andrebbe invocato è quello del rispetto sostanziale, non tanto formale, del principio di autonomia, il che significa innanzitutto rispetto dell'altro come essere in grado di avere una volontà che può differire dalla nostra, e, di conseguenza, voglia di comprendere le sue ragioni e di far comprendere a lui le nostre. In questo dialogo si inseriranno sicuramente anche momenti di reciproco ricatto, di seduzione, e di minaccia, ma tutto ciò fa proprio parte della libertà umana, anzi ne costituisce forse l'essenza (Gindro S, 1997b). Ciò che andrà sempre evitato ( o comunque evitato ogni qual volta lo si possa senza causare danni maggiori) dovrà essere la violenza, fisica o psicologica, che non è più rispettosa né dell'individuo né della sua libertà. Nel mondo della bioetica psichiatrica si è affermato negli ultimi anni il principio della cosiddetta "alternativa meno restrittiva possibile" (the least restrictive alternative). Il principio, in realtà, ha una storia antica perché fu fatto valere per la prima volta nel 1966 nella sentenza Lake v.Cameron dal giudice David Bazelon negli USA. In sintesi esso afferma che, a parità di effetti clinici ricercati, il paziente ha il diritto di ricevere il trattamento che riduca di meno la sua libertà personale. Questo principio è stato fatto proprio dal Consiglio d' Europa nella Raccomandazione no 1235, dell'aprile 1994, ed è stato anche recentemente riaffermato dalle conclusioni di un gruppo di lavoro della Comunità Europea dedicato ai trattamenti coercitivi extraospedalieri di malati psichiatrici (Berghmans R, Bluglass R, Mordini E, Tikhonenko VA, Zeiler J, 1994). Come però spesso accade in questi casi, il principio, che sembra a prima vista difendibile, presenta però nella pratica non poche difficoltà applicative. Infatti ci si scontra qui con due ordini di problemi: i) il concetto di equivalenza di effetti clinici ricercati; ii) i parametri in base a cui un trattamento è definito meno restrittivo di un altro. Né l'uno né l'altro problema sono di facile soluzione. Per quanto riguarda l'equivalenza di risultati, a cosa che ci si riferisce? A un contenimento comportamentale? A un miglioramento sintomatologico? A una remissione clinica? A breve o a lungo termine? Ogni clinico sa bene che le risposte a queste domande sono diverse e spesso tra loro contraddittorie. Per ciò che concerne poi la definizione dei criteri per cui un trattamento è ritenuto meno restrittivo di un altro, la faccenda è ancora più intricata. Ad esempio, è più restrittiva una contenzione fisica od una chimica? È più restrittiva una temporanea ospedalizzazione forzata, o una reclusione in ambiente famigliare? La questione è, insomma, di una complessità estrema e il lettore interessato potrà trovarne un'ampia discussione nel rapporto testé citato del gruppo di lavoro della Comunità Europea.

Diritto alla scelta del trattamento
Strettamente collegato al tema del consenso informato, vi è la questione del diritto del paziente alla scelta del trattamento. Questo diritto si articola in due distinti momenti. Innanzitutto concerne il diritto alla libera scelta del medico o dell' istituzione medica a cui rivolgersi; in secondo luogo riguarda il diritto del paziente ad esprimersi e decidere in prima persona tra le possibili alternative terapeutiche che gli vengono prospettate. Si tratta di un diritto abbastanza delicato e complesso perché, in effetti, implica almeno due ordini di diversi problemi: i) la responsabilità dei fornitori di servizi ( sistemi sanitari pubblici e assicurazioni private; ii) il ruolo del medico rispetto al paziente (deve essere colui che "si prende cura" o un prestatore d'opera?). Il problema, insomma, riguarda le obbligazioni positive a cui questo diritto rimanda. Vi è l'obbligazione da parte dei prestatori di servizi sanitari di offrire diverse opportunità di cura? Ad esempio, i sistemi sanitari pubblici dovrebbero rimborsare anche l'omeopatia? Vi è l'obbligazione da parte dei singoli medici di rendere edotti i loro pazienti anche di alternative terapeutiche che essi non sono in grado di praticare o, addirittura, non condividono? Ad esempio un chirurgo ortopedico ha il dovere di comunicare al paziente che esiste anche l'agopuntura? In psichiatria la questione appare ancora più complessa per via della ancor maggiore non uniformità di giudizi tra professionisti sulla validità delle diverse terapie in diverse patologie, e perché, più facilmente. le richieste del paziente possono essere inattuali e pericolose per la sua stessa salute (12) Contro queste considerazioni, vi è il noto caso Osheroff v. Chestnut Lodge che, per la sua esemplarità, vale la pena di ricordare. Nel 1979 un signore (che di professione era lui stesso medico) iniziò un trattamento combinato (psicoterapia e triciclici) per curare un disturbo depressivo. In seguito, però, egli abbandonò la cura ed ebbe un episodio di depressione maggiore per il quale fu ricoverato presso una delle più prestigiose cliniche psichiatriche ad indirizzo psicoanalitico di New York. Qui fu diagnosticato affetto da un grave disturbo narcisistico di personalità, concomitante sindrome depressiva, e fu trattato con un ciclo intensivo di sette mesi di sedute psicoanalitiche. Il paziente non ebbe alcun miglioramento e la famiglia lo trasferì in un secondo ospedale. Nel secondo ospedale il malato fu diagnosticato affetto da psicosi maniaco depressiva e seguito con un trattamento combinato psicoterapia, triciclici, e antipsicotici. Dopo tre mesi fu dimesso in remissione. Nel 1982 il paziente denunciò il primo ospedale per non averlo informato sulle altre possibili opzioni terapeutiche al di là della psicoanalisi. Il caso ebbe grande risonanza negli Stati Uniti perché la Chestnut Lodge usò come suo argomento di difesa il fatto che il consenso informato ad un trattamento psicoanalitico è un evento che si costruisce nel tempo ed è riconfermato ogni giorno dalla partecipazione del paziente alle sedute: il malato poteva semplicemente non accettare di seguire le sedute, manifestando così il proprio dissenso e obbligando i medici a prospettargli diverse opzioni terapeutiche. Il giudice, tuttavia, trovò che l'orientamento psicoanalitico della clinica costituiva un pregiudizio per il paziente e rigettò l'argomento della difesa. Più recentemente, e a conferma di un tendenza presente almeno in area nordamericana, un'apposita commissione del senato statunitense ha sostenuto che la mancata prospettazione al paziente della possibilità di un trattamento psicofarmacologico sostitutivo di quello psicoterapico può costituire una forma di malpractice (The Senate Subcommittee on Appropriations: U.S. Congress. Senate. National Advisory Mental Health Council. In: Am J Psych, 150, 1447-63, 1993).

Due ultime questioni devono ancora essere affrontate prima di chiudere questo vasto capitolo sul consenso al trattamento e il rispetto della volontà del paziente; si tratta del problema delle direttive anticipate, e di quello del suicidio assistito.
Direttive anticipate e contratto di Ulisse
Con il termine di "direttive anticipate" si intendono delle direttive scritte che un soggetto lascia sui trattamenti medici a cui essere sottoposto, nel caso che egli sia nel futuro impossibilitato a farlo. Il tema delle direttive anticipate è molto controverso (nessuno ne nega la validità in quanto informazione su una volontà del paziente, ma la vera questione è se esse debbano essere vincolanti per medici e famigliari) ed esse non sono dotate di alcun valor legale nella maggioranza dei sistemi legali, compreso quello italiano. La maggiore obbiezione filosofica che si muove ad esse è che nessuno può disporre legalmente di un se stesso futuro che è, per definizione, diverso dal se stesso presente. Il tema è complesso perché riguarda la questione di cosa si debba intendere come identità personale, se cioè vi sia una continuità in qualche modo assicurata dall'attività mentale, argomento caro a Locke, James, e, in qualche modo, anche a Parfit, oppure se l'esistenza di un io coeso e unitario nel tempo sia solo un' utile finzione pratica (come hanno sostenuto Hume, Taine, e, tra i contemporanei, Amelie Rorty). Da un punto di vista clinico, la questione è più semplicemente espressa dalla preoccupazione che un sistema, nato in apparenza per garantire un maggiore rispetto della volontà del paziente, si ritorca contro5 proprio al paziente stesso. Tutti questi temi si ritrovano anche nel dibattito sulle direttive anticipate in corso di malattie psichiatriche.
Nel caso di alcuni disturbi psichiatrici di serio impegno clinico ed andamento cronico, remittente recidivante (tipicamente il disturbo bipolare, ma anche disturbi deliranti cronici e schizoaffettivi), si è posto il problema se il paziente nei periodi intercritici potesse lasciare direttive anticipate ai propri curanti. Il vincolarsi da soli nel caso si verifichino specifiche situazioni è parso un modo prudente di gestire momenti di irrazionalità o di "debolezza della volontà" (Elster J, 1979). Questo tipo di scelta è stato anche definito in termini di "comportamento strategico", così come quello di Ulisse che si legò all'albero della nave per non soccombere al canto delle sirene, dando nel contempo precisi ordini ai suoi marinai di non obbedirgli qualunque protesta egli elevasse. Con il termine di "Contratto di Ulisse" si è proprio chiamato il particolare accordo tra un paziente psichiatrico e i suoi medici, per cui egli acconsente ad essere ospedalizzato, oppure trattato con terapie specifiche, contro la sua volontà nei periodi di crisi (Howell T, Diamond RJ, Wikler D, 1982). In Gran Bretagna questo strumento è chiamato anche "crisis card". Da un punto di vista etico e legale sono state proposte le seguenti limitazioni al contratto di Ulisse (Howell T, Diamond RJ, Wikler D, 1982):
1. Dovrebbe essere limitato ad alcune malattie psichiatriche e solo dopo che il paziente sia già passato attraverso almeno due episodi di completa remissione;
2. La persona deve essere completamente libera da sintomi psichiatrici quando accetta il contratto;
3. Il paziente deve essere libero da ogni tipo di coercizione nell'accettare il contratto, e vi deve essere una terza parte, oltre il paziente ed il medico, ad esserne garante;
4. Il contratto è possibile solo all'interno di una relazione psichiatra-paziente già stabilità e di reciproca fiducia;
5. Il contenuto delle direttive anticipate deve essere chiaro e circostanziato: il paziente deve sapere quali trattamenti accetta in anticipo, e per quali sintomi, senza che vi sia il minimo rischio di fraintendimento.
6. Il periodo di validità legale del contratto deve essere definito e limitato (un anno, ad esempio);
7. Ugualmente deve essere limitato il periodo durante il quale il paziente può essere trattato contro la sua volontà (non più di tre settimane); nel caso l'opposizione permanga dopo questo periodo il contratto decade;
8. Il paziente mantiene il diritto di opporsi giudizialmente al contratto da lui stesso firmato.
Due principali obbiezioni sono state mosse al contratto di Ulisse. La prima, portata dagli stessi sostenitori delle direttive anticipate in situazioni di malattie somatiche, sostiene che vi è una differenza essenziale tra le due condizioni. Infatti le direttive anticipate in caso di malattie somatiche presumono la perdita irreversibile della coscienza da parte del malato, tale che egli non sia più in grado di prendere o comunicare alcuna decisione che lo riguardi (stati vegetativi persistenti, demenze agli stadi finali, comi apallici). Ciò non è mai dato nei disturbi psichiatrici, dove invece il paziente rimane portatore di una volontà autonoma e della capacità di comunicarla agli altri. La seconda obbiezione riguarda la scarsa affidabilità delle diagnosi psichiatriche (Dresser R, 1982). In effetti perché il contratto di Ulisse possa funzionare è necessario che sia possibile effettuare una distinzione netta, chiara e distinta tra condizioni mentali e comportamenti normali e patologici. Ciò evidentemente non è, e, di conseguenza, rimane un'area di discrezionalità eccessiva e pericolosa in ogni forma di contratto di Ulisse.

Il suicidio assistito
Con il termine "suicidio assistito" si indicano tutte quelle situazioni in cui un medico "aiuta" un paziente a suicidarsi. Il tema si riconnette a quello dell'eutanasia e travalica, ovviamente, i limiti di quest'articolo. Tuttavia va citato per almeno uno specifico aspetto. Nel 1993 in Olanda (un paese in cui la legislazione ha sostanzialmente depenalizzato l'eutanasia) in ben due casi venne accettato da un tribunale (che lo condannò solo formalmente) il principio che uno stato depressivo era giustificazione sufficiente per rispondere positivamente alla richiesta del paziente di essere aiutato a morire (Jochemsen H, 1994). In effetti si deve sottolineare che nelle linee guida codificate per regolamentare l'eutanasia in Olanda è prevista la presenza di un dolore, che il paziente ritenga intollerabile, fisico o mentale (Sheldon T, 1995). Il tema, quindi, del suicidio assistito si è imposto all'attenzione del dibattito etico anche in psichiatria (Mordini E, 1992).

2.2 LA RICERCA
Un tema importante dell'etica psichiatrica degli ultimi anni è stato, ovviamente quello della ricerca. La questione della partecipazione dei pazienti alla ricerca è profondamente diversa da quella del consenso al trattamento e le due faccende non andrebbero mai confuse. Trattamento e ricerca hanno differenti scopi e priorità. Mentre in un contesto terapeutico il paziente è il centro dell'impresa, in un ambito di ricerca la conoscenza assume un'importanza peculiare. Bisogna ovviamente distinguere tra ricerca a scopo terapeutico, in cui il paziente trae un beneficio dalla ricerca stessa, e ricerca non terapeutica, in cui nessun beneficio diretto è atteso dal paziente. Quest'ultima, a sua volta andrebbe divisa in ricerca su soggetti sani o affetti. I pazienti psichiatrici, così come tutti coloro che possono essere anche solo sospettati di essere menomati nella loro capacità di liberamente consentire alla ricerca (minori, carcerati, indigenti) dovrebbero essere rigorosamente esclusi - secondo tutti i codici etici nazionali ed internazionali - dalla sperimentazione non terapeutica su soggetti sani (cioè non affetti dalla condizione che si sta studiando). Ugualmente tutti i codici etici, sino alla recente Convenzione Europea di Bioetica, tendono ad escludere la partecipazione di pazienti psichiatrici ad ogni forma di ricerca non terapeutica in ambito psichiatrico, al meno che vi sia una completa assenza di rischi e vi sia una grande attesa di benefici per i futuri pazienti (il classico esempio potrebbe essere uno studio di brain imaging condotto con procedure non invasive e che non sottoponga a radiazioni il paziente). In definitiva, quindi, le uniche ricerche consentite sul malato psichiatrico sarebbero quelle con fini terapeutici immediati (ad esempio clinical trials di nuovi farmaci). Tuttavia la questione non è così semplice. Innanzitutto molti autori (Hirsch S, Spence S, 1995) ritengono che vi sia una sorta di obbligazione morale da parte dei pazienti a contribuire a una ricerca non terapeutica, quando questa, beninteso, non comporti rischi troppo elevati. La difficoltà sollevata da questo argomento è che esso implica che i pazienti psichiatrici siano trattati differentemente dagli altri pazienti, ovvero che il loro consenso non sia indispensabile per essere inseriti nello studio. Cioè si presuppone che essi accettino di essere "studiati" in nome del bene di futuri membri della società. Ora è difficile sottrarsi all'impressione che, in questo caso, i ricercatori stiano, in effetti, "usando" i pazienti, trattandoli come mezzi e non come fini. Naturalmente tutto ciò può essere giustificato con argomenti etici conseguenzialisti, ma è difficile sfuggire alla sgradevole impressione che questi argomenti non differiscano granché da quelli usati dagli psichiatri tedeschi nel 1940.

Più intrigante è invece l'argomento proposto recentemente da alcuni ricercatori statunitensi, tra cui P.Appelbaum (Appelbaum P, Grisso T, 1995). Secondo Appelbaum non è affatto vero che il malato psichiatrico non è in grado, o è solo raramente in grado, di acconsentire razionalmente alla partecipazione ad una sperimentazione clinica. Si tratterebbe di uno steoreotipo infondato, al contrario i pazienti sono spesso in grado di comprendere bene e rifiutare o acconsentire in maniera non diversa dai "sani". Appelbaum porta a giustificazione delle sue affermazioni un'impressionante quantità di dati ottenuti tramite un apposito questionario somministrato a pazienti di numerosi centri psichiatrici statunitensi.

Altri argomenti sollevati in questi anni nel dibattito sulla ricerca psichiatrica hanno riguardato la possibilità di discriminazioni sessuali o razziali nella ricerca (Adshead G, 1996). Un altro tema discusso, che in questa sede ha però senso accennare solo marginalmente, è stato quello della ricerca neuropsicologica e in psicologia sperimentale. La Francia si è dotata nel 1995 di una legge che ha regolamentato la ricerca in psicologia sperimentale e, negli USA, si sviluppato un acceso dibattito sulle ricerche sulla memoria. In particolare si sono criticati studi che, con metodi suggestivi, sottoponevano i soggetti a loro insaputa all'inserzione di falsi ricordi (Loftus E, Feldman J, Dashiell R, 1995). Questi studi, condotti anche su bambini, appaiono, in effetti, di assai dubbia eticità.

2.3 PSICHIATRIA E VALORI
La questione del rapporto tra psichiatria e valori è certo filosoficamente cruciale. Forse la sua trattazione in assoluto più chiara ed essenziale (che non cade in "sbrodolamenti" pericolosi e poco comprensibili) rimane quella di R.Hare sul classico testo di etica psichiatrica di Bloch e Chodoff (Hare R, 1991). In lingua italiana il breve testo di Cattorini ne il Trattato Italiano di Psichiatria, pur se di parte (fenomenologica), è di utile e proficua lettura per chi si avvicini all'argomento; poi ci sono, naturalmente, moltissimi contributi di filosofi, psichiatri, e filosofi-psichiatri (a partire dai maestri italiani della psicopatologia come Bruno Callieri) che qui non è nemmeno possibile citare, ma il cui valore (anche formativo) è ben noto, e cui rimandiamo senz'altro il lettore.
Negli anni sessanta e settanta il problema fu quello della diagnosi psichiatrica, e dello stigma che essa poteva veicolare. Tuttavia, se si escludono le eterne polemiche di T.Sazs contro la "psichiatrizzazione" della società (tra 1962 e 1994, Sazs non ha cambiato di una virgola la sua posizione!), la critica sociologica radicale alla diagnosi psichiatrica e alla psichiatria sembra "passata di moda". La discussione si è spostata sull'uso (ed abuso, a volte) del paradigma biologico in psichiatria. L' epicentro del dibattito è stato duplice: da un lato in ambito anglosassone si è aperta una polemica durissima contro la psichiatria e la genetica del comportamento, dall'altro una disputa non meno aspra si è sviluppata nella psichiatria francese. Di entrambe le querelle daremo qui rapida sintesi, non trattandosi, ovviamente, di temi strettamente clinici (anche se i loro risvolti clinici non sono certo da sottovalutare). In ambito nordamericano e inglese, lo scontro non è stato aperto da psichiatri ma da genetisti. Se si vuole scegliere una data, questa può essere il 1984 con la pubblicazione del durissimo libro di R.Lewontin, S.Rose, e L.Kamin: Not in our Genes: Biology, Ideology, and Human Nature (Lewontin RC, Rose S, Kamin LJ, 1984). Da allora, mentre sempre più ingenti finanziamenti si andavano spostando sulla ricerca in genetica psichiatrica e del comportamento, sino ad approdare al Human Genome Project, un gruppo nutrito di studiosi si opponeva con sempre maggiore veemenza alla biologizzazione della psichiatria appellandosi a valori etici. Il problema, nei suoi termini essenziali, è quello che il comportamento umano non può essere ridotto ad una variabile dipendente dal genotipo (Bock GR, Goode JA , 1996), ma che strutture di causalità complesse e multifattoriali sono sempre in gioco, sia per spiegare i comportamenti del "sano", sia le più complesse situazioni psicopatologiche. La questione, insomma, è quella che è troppo facile blaming the body (come recita il sottotitolo di un libro bello e provocatorio) (Ross CA, Pam A, 1995). In Francia la disputa ebbe inizio con un feroce scontro tra lo psicoanalista A.Green e il neuroscienziato J.P. Changeux. Anche qui il problema era quello della riducibilità della psicopatologia alle neuroscienze, ed anche qui il dibattito ebbe subito valenze etiche, esasperate dal fatto che Changeux succedette a J.Bernard nel dirigere il Comitato Nazionale di Bioetica francese. Il lettore interessato potrà trovare un quadro sufficientemente veritiero delle varie posizioni in G.Huber (1996).

3. I TRATTAMENTI
Chiuso il capitolo sulle questioni generali, si passerà ora a quello più specifico riguardante i trattamenti. Così come tra le questioni generali la parte del leone è toccata al problema del consenso, qui l'attenzione si focalizzerà sui problemi etici sollevati dalla psicoterapia. Si tratta in entrambi i casi di una scelta pratica più che teorica: difatti così come gran parte delle questioni generali coincidono, in definitiva, con quella del consenso, gran parte dei problemi etici riguardanti i trattamenti si trovano riassunti nel vasto capitolo delle psicoterapie.

3.1. Psicoterapie
Non ci si occuperà di tutte le forme di psicoterapia ma principalmente di quelle psicodinamiche. Questo per due motivi: il primo, e più banale, è quello che il dibattito etico si è sinora indirizzato soprattutto verso le terapie di tipo dinamico. Il secondo è che tutti gli psicoterapeuti sono ormai abbastanza consapevoli che ci si sta avviando verso ad una riunificazione del campo psicoterapeutico (Holmes J, 1994). L'uso anche di tecniche direttive in psicoterapie analitiche, così come l'analisi di contenuti inconsci profondi e di alcune dinamiche di transfert in terapie direttive e di supporto, è ormai accettato dalla maggior parte degli psicoterapeuti, e riguarda la valutazione clinica piuttosto che il rispetto di una qualche supposta "purezza" tecnica, come anche recentemente dimostrato dal monumentale progetto condotto dal Menninger Psychotherapy Research Project (Wallerstein RS, 1989), che ha costituito il punto di riferimento per tutte le discussioni più recenti sulla natura della psicoterapia. L'idea di "trattamento combinato" , psicoterapia-psicofarmaci, si sta poi facendo strada come unica corretta strategia per affrontare i disagi mentali più gravi.

Il rapporto tra etica e psicoterapia può essere affrontato da vari punti di vista (Mordini E, 1997). Innanzitutto ogni psicoterapia non è value-free, al contrario veicola il suo proprio sistema di valori, impliciti ed espliciti, e di conseguenza, una "sua propria" etica. L'etica di una psicoterapia coincide con la sua metapsicologia di riferimento (Michels R 1976. Gindro S. 1993a). Si potrà pertanto parlare di un'etica comune a tutte le psicologie dinamiche, e di un'etica specifica che nasce dagli assunti metapsicologici di ognuna di esse.
L'etica comune che sottostà a tutte le psicoanalisi non può che trarre la sua origine da ciò che le diverse psicologie dinamiche hanno in comune, e cioè la convinzione che esistano processi mentali inconsci sottostanti alla coscienza e che la comprensione di questi sia un importante elemento nella cura delle malattie mentali. Dunque, ciò che fonda l' "etica psicoanalitica comune" , è la credenza che esista una qualche verità "oggettiva", in qualche modo approssimabile (non necessariamente raggiungibile in maniera piena) dal soggetto, e che cogliere (in tutto o in parte) questa verità abbia una funzione curativa. Verità e bene tendono dunque a coincidere, o, comunque, a sovrapporsi largamente, e la cura è anche una "cura morale", un insegnare ad amare e ricercare la verità su stessi piuttosto che l'autoinganno difensivo. Da S.Freud in avanti tutti gli psicoanalisti - non importa quanto lontani dal pensiero freudiano originario - hanno sempre fatto del rifiuto della suggestione e dei metodi suggestivi in terapia un punto più etico che tecnico: la cura psicoanalitica deve anche insegnare al paziente la virtù dell' onestà intellettuale, del saper guardare dentro di sé senza troppi comodi infingimenti. In definitiva l'etica psicoanalitica comune coincide dunque con l'etica dell' onestà (13).
Accanto a questa che abbiamo definito "etica psicoanalitica comune", vi è poi l'etica specifica di ogni psicoanalista che ha elaborato varianti significative della metapsicologia freudiana o una metapsicologia indipendente. Ci sono pochi dubbi, infatti, che l' etica freudiana, strettamente intesa, derivi direttamente dall'etica kantiana (Rieff P, 1979). La struttura deontologica dell'etica freudiana è stata ben colta, ad esempio, da Jacques Lacan che assegnava al celebre motto freudiano, Wo es war, soll ich werden, la stessa funzione della legge morale nella "Critica della Ragion Pratica". Lo stesso Lacan, tuttavia, solo con estrema difficoltà avrebbe potuto ritrovarsi in un'etica deontologica. La metapsicologia lacaniana, tutta giocata sull'impossibilità costitutiva di addivenire ad una qualsiasi verità che non sia lo sgomento dinanzi all'assenza di verità, rimanda agli scettici antichi e all'etica pirroniana, piuttosto che a Kant e Freud (e questo lo si può ben vedere già nel Lacan del 1956, del seminario sull'etica della psiconalisi). Il gioco della ricerca degli ascendenti potrebbe, ovviamente, proseguire a lungo per tutti gli maestri della psicologia dinamica. Ciascuno di essi, in quanto portatore di una sua peculiare visione del mondo ed interpretazione filosofica della realtà umana, ha anche proposto una propria etica, che è dunque l' "etica propria" di quello specifico approccio psicodinamico.
A partire dall' "etica propria" di ogni psicologia dinamica si giunge inevitabilmente alla questione dei problemi etici in psicoterapia clinica. Questi possono essere raggruppati in 3 principali capitoli: i) le questioni etiche connesse in qualche modo alla tecnica del trattamento; ii) i problemi sollevati da una forma di malpractice particolarmente subdola in psicoterapia, cioè lo sfruttamento del paziente; iii) il consenso informato.

Etica e tecnica
Ogni questione relativa alla tecnica dei trattamenti psicoterapici risente della nota convinzione freudiana che la tecnica fosse nulla e la metapsicologia tutto. Se la tecnica è nulla, allora non ha neanche senso discutere le questione etiche connessa alla tecnica (14) . Tuttavia, riesaminando la letteratura più recente, la faccenda non appare così semplice. La tecnica - bon gré, mal gré - si è, infatti, andata via, via, caricando di vari e diversi significati, da quelli più banali legati al suo uso per sopperire un' assenza di riflessione teorica, a quelli più complessi inerenti la distribuzione delle risorse nei servizi sanitari (evidentemente la tecnica costituisce l'unico parametro "oggettivabile" per giudicare quali psicoterapie debbano essere fornite dalla assicurazioni pubbliche e private: questo parametro è tuttavia affidabile?).
Ciò che è interessante è, innanzitutto, l'intreccio che, inevitabilmente, si è creato tra varie forme di eclettismo e, segnatamente, tra l'eclettismo teorico e quello tecnico. Mentre con il termine di eclettismo tecnico ci si riferisce all'uso combinato di diverse tecniche di intervento nel corso di una psicoterapia, oltre i classici strumenti psicoanalitici dell'interpretazione e della presa di coscienza, con il termine di eclettismo teorico si vuole indicare un'attitudine a rifarsi a diversi orientamenti metapsicologici (ad esempio: Freud, Adler, Jung, Lacan, Rogers, ecc.) a seconda dell' utilità che essi possono avere in ciascuna situazione singolarmente considerata. Eclettismo tecnico non pone, per consenso unanime, alcun problema etico. Appare persino poco difendibile, professionalmente ed eticamente, quel terapeuta che non utilizzi tutti gli strumenti a sua disposizione (dagli psicofarmaci all'interpretazione, dall'educazione alla suggestione) per migliorare le condizioni del proprio paziente, almeno quando questi strumenti siano stati provati di sicura utilità (Sperry L, 1995). Eclettismo tecnico, quindi, dovrebbe essere accettato di buon grado come espressione di una tendenza alla progressiva riunificazione del campo "psy". Eclettismo teorico appare invece sollevare gravi problemi sia etici sia professionali e questo per due ordini di motivi. Innanzitutto, quale che sia il rapporto tra ricostruzione della verità biografica del paziente e agenti curativi della terapia, è indubbio che è soprattutto la coerenza della ricostruzione, il suo rifarsi ad un modello metapsicologico chiaro, che le conferisce una capacità mutativa. Eclettismo metapsicologico così può costituire, e probabilmente spesso costituisce, una forma di malpractice. Con ciò, ovviamente non si sostiene che ogni psicoterapeuta debba per forza rifarsi ad una "scuola", potendo egli stesso aver costruito un proprio sistema di riferimento metapsicologico: ma, appunto, deve avere un sistema metapsicologico di riferimento. Questo sistema di riferimento deve poi essere pubblico, proprio per permettere ai pazienti di scegliere in maniera informata e, se lo desiderano, di esercitare un minimo "controllo di qualità" sul proprio psicoterapeuta. Eclettismo metapsicologico, così come ogni forma di teoria esoterica, o comunque non disponibile al controllo pubblico per il tramite della letteratura scientifica, e del pubblico dibattito, è intrinsecamente scorretto, qualunque siano gli esiti terapeutici a cui, di volta in volta, può addivenire. Almeno finché non si giungerà a una teoria psicologica unificata, il dichiarare la propria "psicologia di riferimento" costituisce un elementare principio di correttezza "commerciale", non diverso da quello per cui i produttori di alimenti, stoffe, ed altre merci ancora, sono obbligati a dichiararne e garantirne la composizione ed autenticità (Gindro S, 1993a).
Un secondo gruppo di questioni etiche connesse alla tecnica psicoterapeutica riguarda la durata del trattamento, la sua efficacia ed i suoi costi. Il punto centrale è, ovviamente, quello dell'efficacia. Tutti i tentativi di destituire di fondamento la psicoterapia sono falliti e vi è ormai pieno consenso sul fatto che la psicoterapia possegga un'efficacia analoga ad altre forme di terapia in svariate condizioni, sia "organiche" sia "psicologiche". Uno dei risultati più drammatici negli ultimi anni è stata, ad esempio, la dimostrazione dell'effetto di una psicoterapia di gruppo a breve termine su donne ammalate di cancro alla mammella: a parità di condizioni cliniche e generali, il gruppo sottoposto a psicoterapia ha avuto una media di 37 mesi di vita contro 19 del gruppo di controllo (Spiegel D, 1989). Tuttavia la questione si pone riguardo la durata e le indicazioni del trattamento. Si è detto che le terapie psicoanalitiche classiche della durata di parecchi anni, per più sedute settimanali, rappresentano un spreco di risorse (se a carico di sistemi sanitari pubblici) e, comunque, presentano un rapporto costi/benefici tali da renderle eticamente poco difendibili (Shaw Austad C, 1995). Attualmente c'è una tendenza verso periodi sempre più brevi di terapia. Secondo la maggior parte degli studi controllati, la maggioranza dei pazienti ottiene il massimo miglioramento entro le prime 52 sedute dopo di che il trattamento appare, se non inutile, comunque troppo costoso per i benefici che produce (Government Committee on Choices in Health Care, 1992). É stato obiettato che valutazione dei miglioramenti (sia clinica sia con strumenti ponderati) non tiene conto dei mutamenti strutturali, a cui mira invece il trattamento psicoanalitico classico, tuttavia questa obiezione non toglie validità alla considerazione di fondo per cui anche la psicoterapia non dovrebbe sfuggire ad un'analisi economica. Caso mai sarà compito degli psicoanalisti proporre strumenti di valutazione dell'efficacia del trattamento più sensibili e specifici.

Lo sfruttamento del paziente
Si parla di sfruttamento del paziente ogni qual volta che lo psicoterapeuta approfitta della propria peculiare posizione per trarne un beneficio non previsto dal contratto terapeutico. Questo sfruttamento, che provochi o non provochi un danno al paziente, rappresenta sempre comunque una rottura dell'alleanza terapeutica (che viene a volte sostituita da forme di reciproca connivenza) ed è quindi contrario all' ethos medico. Normalmente si distingue tra sfruttamento i) sessuale, ii) emozionale, iii) economico.

Il tema dello sfruttamento sessuale coincide con quello della liceità o meno di rapporti sessuali tra psicoterapeuta e paziente. Ci sono due posizioni: la prima sostiene che sempre e comunque il sesso esplicito tra psicoterapeuta e paziente dovrebbe essere vietato perché contrario all'ethos medico (Schulz-Ross RA et al., 1992); la seconda posizione sostiene che esso dovrebbe essere vietato perché potrebbe danneggiare il paziente (Strasburger LH et al, 1992). Peraltro Gabbard e Gutheil hanno segnalato come la versione "politically correct" della sexual misconduct, per cui vi è uno psicoterapeuta maschio che si approfitta di una paziente femmina che rimane gravemente traumatizzata, è solo un aspetto e non il più frequente. In effetti tutte le possibili combinazioni avvengono e, spesso, è il paziente "predatore" che seduce un terapeuta debole provocando in lui gravi danni (Gutheil TG, Gabbard GO, 1992). Gutheil ha, comunque, proposto 4 ragioni per condannare eticamente il rapporto sessuale tra psicoterapeuta e paziente: i) infrange la relazione fiduciaria tra i due; ii) si sviluppa in una situazione di potere fortemente asimmetrica; iii) non tiene conto della vulnerabilità psicologica del paziente; iv) vi è un'eccessiva rilevanza di fenomeni intrinseci al processo terapeutico (Gutheil TG, 1994) (15) . Gabbard e Nadelson (Gabbard GO, Nadelson C, 1995) hanno anche sviluppato il concetto di "confini professionali" (professional boundaries) sottolineando come la rottura (violation), in qualsiasi settore, di questi confini, possa potenzialmente condurre ad una rottura dei confini sessuali e sia dunque di per sè pericolosa e eticamente riprovevole. Ci sono numerosi tipi di rottura dei confini professionali tra medici e pazienti: transazioni d'affari, alcuni regali e servizi resi, l'uso di alcune forme di linguaggio, alcuni contatti fisici, il tempo, la durata e il luogo delle visite, accordi non chiari sui pagamenti, un uso improprio dell'esame fisico.
Per riassumere, è evidente che la particolarità della situazione psicoterapeutica è tale da porre alcune questioni specifiche: i) innanzitutto l'intimità emozionale che si crea in una psicoterapia tende ad attivare correnti sessuali molto più che in altre pratiche mediche: queste correnti sessuali sono fondamentali nel processo di guarigione e quindi debbono essere di necessità evocate, ii) così l'interdetto riguarda solo alcuni aspetti della sessualità (il rapporto sessuale esplicito) ma non la sessualità tout court (cosa che sarebbe per altro impossibile, ovviamente), che anzi risulta a volte esaltata nel corso di una psicoterapia, iii) tuttavia la situazione particolare del paziente, che per definizione dovrebbe avere un equilibrio psichico fragile se non alterato, fa sì che maggiore sia la responsabilità del medico nel garantire che la sessualità venga solo utilizzata come spinta ai processi di guarigione, senza mai essere messa al servizio né della soddisfazione del medico, né delle resistenze che il paziente stesso oppone alla guarigione; iv) infine, a differenza di altre pratiche mediche, è assolutamente dubbio che, terminato il rapporto terapeutico, si sciolga anche il vincolo dall'astinenza del sesso esplicito tra medico e paziente, poiché le correnti emotive evocate dal trattamento rimangono attive ancora per lungo tempo e vi è il concreto rischio che un rapporto sessuale danneggi psicologicamente sia il paziente sia il medico. L' American Psychiatric Association (APA) sostiene che ci deve essere un anno di tabù dopo l'interruzione della terapia e che, comunque, il sesso con un ex-paziente è "almost always" non etico (Lazarus JA, 1992). A fronte di ciò, però, circa un terzo degli psichiatri americani non ritiene il sesso con gli ex pazienti non etico (Appelbaum PS, Jorgenson L, 1991). Soprattutto nella comunità psicoanalitica, dove ogni psicoterapeuta è stato a sua volta in precedenza paziente di uno psicoanalista più anziano, questa interdizione del sesso con ex-pazienti appare problematica e non è mai stata mai veramente rispettata.

Si parla di sfruttamento emozionale tutte le volte che uno psicoterapeuta utilizza il proprio paziente per ricavarne un illecito tornaconto emozionale. Naturalmente non è facile dire quali situazioni costituiscano un reale sfruttamento emozionale e quali facciano parte del piacere che lecitamente (e necessariamente) un terapeuta deve trarre dal lavoro svolto positivamente con il proprio paziente. Alcune situazioni sono paradigmatiche, come quando il terapeuta preme perché il paziente soddisfi le sue fantasie (Rosenbloom S, 1992), o perché lo gratifichi in altro modo. In altri casi il terapeuta può impedire lo svilupparsi di un sentimento di autonomia nel paziente e cercare di protrarre la fase di dipendenza per un tempo indeterminato (16) . Il problema dell'autonomia emozionale del paziente è, in effetti, uno dei nodi etici di ogni psicoterapia. La psicoterapia ha tra i suoi obiettivi impliciti quello aumentare l'autonomia del paziente (Holmes J, Lindley R, 1989), ma ciò si può realizzare solo se il paziente riesce ad attraversare un "felice periodo" di dipendenza. Bowlby (Bowlby J, 1988) ed altri teorici hanno dimostrato che una delle precondizioni per l'autonomia emozionale è un sicuro attaccamento. La presenza di un modello interno di attaccamento sicuro permette alle persone di sopportare l'ansia di separazione e di non dipendere eccessivamente dall'opinione degli altri. Una "buona" terapia psicoanalitica deve, quindi, fornire al paziente anche modelli interni di "dipendenza buona" tali da condurre ad un aumento effettivo di autonomia.
Molto raramente lo sfruttamento emozionale del paziente avviene con cosciente intenzionalità da parte del terapeuta. Più spesso è frutto di imperizia, di cattiva formazione personale, di mancanza di un sistema efficace di supervisione o, comunque, di altro controllo periodico. Vale qui a pena di accennare che, molto più che in altre professioni mediche, in psicoterapia assumono importanza (sino a costituire un obbligo deontologico) procedure di supervisione (Gindro S, 1993b)

Una delle preoccupazioni più comuni è che il paziente possa essere sfruttato economicamente o a causa di tariffe troppo elevate o per il prolungarsi inutile della cura. Una nuova preoccupazione è stata recente sollevata da Book (Book H, 1991) sul possibile effetto di pressione da parte di terzi. L'esperienza dell'autore nasce dalle assicurazioni private americane ma la sua descrizione è sempre di più applicabile ai sistemi sanitari riformati europei, dove i manager della sanità premono per riportare in efficienza e al lavoro i pazienti, fuori dai programmi assistenziali. Quando lo psicoterapeuta deve risolvere il compito nei tempi assegnati e nei costi assegnati, come è previsto ad esempio dal sistema DRG, è probabilmente meno capace di entrare in contatto con il paziente.

Il consenso informato alla psicoterapia

Al tema del consenso informato al trattamento è già stato dedicata buona parte di questo articolo. La questione che si pone in psicoterapia è quella se questo consenso sia mai sufficientemente informato. I problemi principali sono qui quello dell'inganno cosciente e dell' intervento al di là della consapevolezza del paziente, come può avvenire in terapia strategica, ipnosi o in psicologia sperimentale. Si tratta qui di chiara manipolazione che certo non è rispettosa dell'autonomia del paziente e richiede indubbiamente un preciso codice etico nell'uso di queste tecniche (Solovey Ad, Duncan BL, 1992), anche se non avrebbe ovviamente senso proscriverle in quanto tali. Gindro (Gindro S, 1994, e 1997a) propone di inserirle in un contesto psicodinamico, o, comunque, di assumere l'impegno etico con il paziente di svelarle, quando ciò divenga possibile senza più rischio di danneggiare la cura (Mordini E, 1998). Comunque è vero che l'interesse della società può sempre intrudere nella relazione psicoterapeutica. Nel passato è stata ampiamente discussa la questione etica generale se bisognasse o meno incoraggiare il paziente a ribellarsi contro un ambiente non soddisfacente che lo opprime se egli dovesse semplicemente imparare a convivere con discriminazioni razziali, politiche, sessuali. Da un punto di vista istituzionale, il punto è stato ampiamente discusso nel simposio del 1974 dell' American Psychoanalytic Association dedicato a "Ethics, Moral Values and Psychological Interventions" (Wallerstein RS, 1974).
La terapia orientata psicoanaliticamente si dovrebbe basare su un disvelamento progressivo e graduale delle informazioni che il terapeuta apprende dal paziente ma che il paziente stesso ignora. Evidentemente non è l'accesso diretto a questo tipo di informazioni a costituire l'essenza del consenso informato in psicoterapia. Piuttosto l'informazione riguarderà il modo in cui il terapeuta raccoglierà e organizzerà le informazioni ottenute dal paziente, e cioè il modello metapsicologico a cui egli aderisce. Cioè, e riprendendo in parte quanto già detto a proposito eclettismo, un consenso al trattamento psicoterapeutico è realmente informato non quando il paziente condivide tutte le informazioni cliniche in possesso del suo terapeuta (perché, così fosse, non ci sarebbe bisogno di trattamento psicoanalitico) ma quando il paziente è correttamente informato (e in maniera a lui comprensibile) sul modello psicologico di riferimento del proprio terapeuta. Solo così sarà possibile ad un paziente accettare o rifiutare consapevolmente uno specifico trattamento.

Il segreto professionale e la confidenzialità

Un tema ampiamente dibattuto, a partire anche dal famoso caso Tarassoff, è stato quello del segreto professionale e della confidenzialità in psicoterapia (naturalmente il discorso potrebbe essere esteso a tutta la psichiatria). Un altro tema variamente dibattuto è stato quello della confidenzialità nelle terapie di gruppo: i pazienti membri di un gruppo di psicoterapia sono vicendevolmente tenuti al rispetto del segreto rispetto a ciò che hanno udito durante le sedute? Che cosa deve essere detto al gruppo sul segreto terapeutico? A quali regole etiche devono sottostare gli altri membri del gruppo? Appelbaum e Greer hanno condottto uno studio tra conduttori di gruppi in cui l' 87% sottolinea l'importanza del rispetto della confidenzialità, l' 82% ritiene che i gruppi di terapia siano più a rischio di altre modalità di cura di non rispettare la confidenzialità, ma solo il 32% discute la questione con i membri del gruppo (Appelbaum MD, Greer A, 1993). L'idea di segreto professionale è presente pressoché in tutti i codici etici. Il termine "confidenzialità" è la traduzione dell'inglese confidentiality che esprime un concetto un po' più ampio di quello di segreto professionale. Si parla di confidenzialità quando "one person discloses information to another, whether through words or an examination, and the person to whom the information is disclosed pledges not to divulge that information to a third party without the confider's permission. In schematic terms, information I is confidential if and only if A discloses I to B, and B pledges to refrain from disclosing I to any other party C without A's consent. By definition, confidential information is both private and voluntarily imparted in confidence and trust" (Beauchamp TL, Childress JF, 1994, p.420). Il concetto di confidenzialità implica dunque i) la presenza di un' informazione riservata, ii) la comunicazione di questa informazione ad un soggetto, sotto vincolo che egli non la diffonda ad altri, se non dopo previa autorizzazione. La questione in psichiatria riguarda sia la natura dell'informazione (che può essere più delicata e "privata" che altre informazioni), sia il permesso che il detentore dell'informazione può accordare alla divulgazione. La questione riguarda, insomma, la competenza del malato di mente ad acconsentire che informazioni su di lui siano divulgate. La teoria vuole che il medico disponga delle informazioni ricevute dal paziente solo per il beneficio del paziente stesso e che non le comunichi a terzi, soprattutto quando queste possono danneggiare il paziente. Tuttavia si è fatto spesso osservare che quello del segreto è più un rito, il marchio di un interdetto, che una realtà fattuale (Beauchamp TL, Childress JF, 1994). In realtà in sistemi sanitari complessi è sempre più difficile ed irrealistico sperare in un rispetto assoluto del segreto professionale. Più vantaggiosamente bisogna invece parlare di un diritto da parte dell'ammalato di disporre e controllare il flusso delle informazioni che lo riguarda. Insomma l'impostazione tradizionale del problema per cui la questione del segreto professionale si risolve nel rapporto duale medico-paziente con l'inserzione, eventuale, dei famigliari, è largamente superata. Il problema è, oggi, il controllo del flusso delle informazioni sul malato tra diverse istituzioni (assicurazioni, sistema sanitario, sistema bancario, datori di lavoro, ecc.). Si pensi che, ad esempio, negli Stati Uniti buona parte delle assicurazioni private non rimborsano routinariamente più di tre, sei, mesi di psicoterapia; periodi ulteriori sono rimborsati solo se lo specialista fa pervenire regolarmente delle relazioni che i) giustifichino in termini clinici il protrarsi della cura, ii) certifichino un miglioramento sintomatologico del paziente non altrimenti ottenibile. Nel prossimo futuro il problema della confidenzialità riguarderà inevitabilmente anche informazioni su tratti genetici e biologici. In particolare l'uso in ambito forense delle nuove tecniche di brain imaging metabolico, correlato allo studio di marcatori genetici, desta non poche preoccupazioni.

3.2 Terapie Farmacologiche

I problemi etici connessi alle terapie psicofarmacologiche possono essere riassunti sotto cinque titoli: i) questioni connesse al consenso informato; ii) accanimento terapeutico ed uso contenitivo del farmaco; iii) durata del trattamento; iv) farmaci cosiddetti "cosmetici"; vi) il costo della cura.

Per quanto riguarda il consenso informato al trattamento esso riguarda essenzialmente i possibili effetti collaterali degli psicofarmaci e, in particolare, la discinesia tardiva da neurolettici (poiché la sindrome maligna da NL è, in effetti, abbastanza rara), e, più recentemente, l'agranulocitosi da clozapina (Invernizzi G, Bressi C, 1996). In tutti questi casi vale quello che si è detto in generale sul tema del consenso. In particolare bisogna riaffermare che il trattamento psicofarmacologico non dovrebbe mai inscriversi in un contesto di semplice prescrizione (Sacchetti E, 1996) e che la formazione del consenso dovrebbe realizzarsi nel rapporto terapeutico e in un'alleanza tra paziente e medico (vale la pena di ricordare che il concetto di alleanza, di origini psicoanalitiche, è proprio basato sulla consapevolezza che nessuno vuole veramente e solo guarire ma che potenti forze interne al malato si oppongono alla guarigione). In definitiva l'esigenza di combinare trattamenti psicofarmacologici a trattamenti psicoterapeutici (comunque categorizzati e definiti) è non solo un' esigenza clinica, ma anche etica.

Il problema dell'accanimento terapeutico in psichiatria è molto poco discusso pur essendo probabilmente cruciale (uno dei pochi, ma significativi, contributi degli ultimi anni è stato quello di Mencacci et al., 1994). Ad esso si affianca un problema ben più noto (e spesso affrontato) dell'uso del farmaco a scopi contentivi. Che cosa significa accanimento terapeutico in psichiatria? Significa perseguire una risoluzione completa dei sintomi ed una remissione totale dei disturbi che, spesso, non è ottenibile con gli strumenti a nostra disposizione. Naturalmente la questione non è specifica dei trattamenti farmacologici, poiché la si può trovare in psicoterapia così come nelle terapie fisiche, ma tende ad acquistare un' importanza sociale e una pericolosità particolare proprio in psicofarmacologia. I termini del problema sono abbastanza semplici e derivano da un' incertezza posologica. Tutti gli psichiatri clinici sanno da sempre che il range di efficacia degli psicofarmaci è vastissimo. Si va dai casi, aneddotici, ma che tutti hanno sperimentato, di pazienti tenuti fuori dal delirio con poche gocce di aloperidolo giornaliero, a pazienti che hanno avuto un miglioramento sintomatologico solo con dosi di 600 mg giornalieri di clozapina. La tentazione di aumentare le dosi quando il paziente non risponde è dunque ampiamente giustificata. Eppure non vi è una corrispondenza biunivoca tra dose ed effetto. Vi è come una soglia di "guarigione possibile" che ogni paziente raggiunge, o può raggiungere, oltre la quale il farmaco produce solo sedazione ed ottundimento. In alcuni casi, ad esempio, un paziente dovrà imparare a convivere con le proprie allucinazioni perché la dose di psicofarmaco in grado di cancellarle produce anche un tale disastro mentale da non essere più vantaggiosamente utilizzabile. In altri casi il paziente dovrà imparare a modulare lui stesso il medicinale a seconda della sintomatologia. In ogni modo deve essere chiaro al medico che perseguire la piena scomparsa dei sintomi psichiatrici non può e non deve mai coincidere con un "menticidio". Ogni essere umano ha diritto "a pensare" e gli psichiatri non debbono sopprimere questo diritto solo perché il pensiero produce incubi inquietanti. Bisogna saper trovare un equilibrio tra soppressione della sofferenza e diritto ad una propria vita mentale che ogni paziente conserva. Di nuovo, anche in questo caso, appare cruciale che il trattamento psicofarmacologico sia accompagnato da una psicoterapia di supporto (Gindro S, 1997a).

I problema della durata del trattamento è duplice: bisogna infatti distinguere tra i trattamenti protratti nella psichiatria dei disturbi mentali gravi, e tra i trattamenti protratti nella psichiatria minore e ambulatoriale. Per quanto riguarda i trattamenti long term in psichiatria "maggiore" il problema etico principale riguarda l'assenza di studi di follow up per molti psicofarmaci utilizzati. In effetti gran parte degli studi disponibili riguardano pazienti trattati per mesi o, al massimo per pochi anni. I pazienti che afferiscono ad un servizio psichiatrico dovranno, invece, assumere farmaci per molti anni, se non per tutta la loro vita. In assenza di studi sugli effetti a lungo termine di questi farmaci, è etico somministrarli ai pazienti (senza avvertirli che li si è inseriti, nei fatti, in una sperimentazione)? Per quanto riguarda gli psicofarmaci minori bisogna considerare un problema caratteristico del nostro paese e di cui non è tanto responsabile lo psichiatra quanto il medico di base. Mi riferisco alla incontrollata prescrizione di benzodiazepine, e soprattutto ad anziani. Il problema è una questione di cattiva pratica clinica più che di etica medica e come tale andrebbe trattato. È, invece, un problema etico ( e di gravi proporzioni) l'uso sconsiderato e massivo che viene fatto di benzodiazepine in molte carceri italiane.

Il tema degli "psicofarmaci cosmetici" ha avuto una particolare diffusione negli Stati Uniti in occasione del caso "Prozac". È quasi sembrato, ad un certo punto, che ogni yuppie avesse bisogno della sua dose di fluoxetina per funzionare regolarmente. La questione non meriterebbe nessuna considerazione se non nel senso, molto più generale, di riguardare un possibile uso "prestazionale" degli psicofarmaci (compreso il doping sportivo), indipendente dalle loro indicazioni cliniche originarie (nel passato accadde con le anfetamine e con qualche benzodianzepina long-acting). In termini di etica medica e di deontologia nel rapporto medico-paziente, è ovvio che lo psichiatra non è certo chiamato a farsi carico di problemi pratico-professionali ed di prestazione del proprio paziente. La questione riguarda dunque la libera prescrivibiltà e il libero commercio dei medicinali: finché i farmaci saranno dei prodotti a vendita controllata non è pensabile che il medico rinunci alla responsabilità-dovere di controllarne l'uso e le ragioni dell'assunzione. In questo senso un significato etico particolare, ma che travalica decisamente i limiti di questo scritto, riguarda la questione dell'uso edonico dei farmaci e delle tossicodipendenze (Di Giannatonio M, 1994).

Un problema destinato a divenire sempre più importante è quello relativo a i costi delle cure farmacologiche. Le cure farmacologiche sono destinate a produrre grandi delusioni negli economisti. Già negli anni sessanta si credette di poter ridurre drasticamente i costi dell'assistenza psichiatrica ricorrendo ai nuovi psicofarmaci e deospedalizzando. In effetti ci rese presto conto che le community care, correttamente intese, avevano dei costi ben superiori a quelli delle fatiscenti strutture ospedaliere. Oggi si crede di poter condurre una battaglia per la razionalizzazione dei costi riducendo drasticamente le psicoterapie e la riabilitazione, e, nel contempo, promuovendo la psicofarmacoterapia. Eppure, non solo la farmacoterapia in assenza di un supporto psicoterapico e riabilitativo è meno efficace e meno gestibile, ma i nuovi psicofarmaci immessi sul mercato hanno dei costi equivalenti, per mese di trattamento, a una psicoterapia. La questione etica è in sé semplice: lo psichiatra si deve occupare di tutto ciò? Egli è responsabile solo del suo, o dei suoi pazienti, o possiede una responsabilità nei confronti della struttura sanitaria dove opera o, addirittura, dell'intero sistema sanitario?

3.3. Trattamenti fisici e manipolazione diretta del cervello
Il tema dei trattamenti che, in qualche modo, manipolano "direttamente" il cervello è tipico di una certa preoccupazione sociale verso la psichiatria. Interessanti indicazioni sulle questioni in gioco si possono trovare in un numero speciale degli Annali dell' Istituto Superiore di Sanità, curato da E.Mordini e P.Pasquini, che presenta una selezione di testi discussi a un meeting sugli aspetti etici della ricerca del cervello promosso nel 1994 dalla Comunità Europea e organizzato dall' Istituto Psicoanalitico per le Ricerche Sociali (Mordini E, Pasquini P, 1997). Uno studio multicentrico europeo sugli aspetti etici, legali, e sociali della ricerca sul cervello, che coinvolge nove centri (Istituto Psicoanalitico per le Ricerche Sociali, come project leader, e l'Università di Warwick, l' Università di Catalogna, l'Università di Berlino, l'Istituto per lo Studio del Cervello di Amsterdam, l' Università del S.Cuore di Roma, il centro Septimania di Barcellona, il Nuffield Council of Bioethics, e la Federazione Europea delle Società Neurologiche) ha preso il via il 1 settembre 1997 e promette di fornire utili indicazioni alla futura ricerca.

Da un punto di vista più clinico, il tema delle questioni etiche nei trattamenti fisici riguarda sostanzialmente la terapia elettroconvulsivante e la psicochirurgia. In entrambi i casi la questione morale è duplice: da un lato si obietta che si tratterebbe di interventi terapeutici violenti ed esproprianti che, più che indurre reali processi di guarigione, si limiterebbero ad alterare rudemente e grossolanamente i meccanismi di funzionamento cerebrale; dall'altra si dice che, in ogni modo, la loro efficacia è non comprovata mentre gli effetti collaterali a distanza di tempo sarebbero severi, Insomma, in entrambi i casi ci si troverebbe di fronte a cure non etiche innanzitutto perché "cattive" cure, e, in secondo luogo, perché violentemente manipolative e non rispettose dell'autonomia, e della dignità del paziente.

Per quanto riguarda l' ECT l'assunto che esso non funzioni o serva solo episodicamente non è condiviso da molti psichiatri che ritengono anzi questa diffusa credenza più il portato delle campagne ideologiche degli anni sessanta, che il risultato di una serena disamina della letteratura scientifica. Gli stessi presunti danni sulla memoria del paziente e la violenza della cura sono ritenuti elementi sorpassati, legati a somministrazioni errate e in assenza di anestesia generale. Recentemente anche il Comitato Nazionale di Bioetica ha espresso un parere sulla terapia ECT, in cui, sostanzialmente, non ravvisa alcun problema etico specifico nel suo uso quando, e solo se, ovviamente, esso sia giustificato dallo stato dell'arte delle conoscenze scientifiche.

Per quanto riguarda la psicochirurgia, ben pochi degli attuali quaranta, cinquantenni avranno scordato lo sguardo spento dell'attore R.Nicholson, lobotomizzato alla fine del fim "Qualcuno volò sul nido del cuculo". La psicochirugia è stata per anni lo spauracchio della psichiatria, il cadavere nell'armadio di cui vergognarsi, una pratica "seminazista" da cercare di cancellare per sempre come immorale e violenta, tesa solo ad un controllo brutale e definitivo del malato psichiatrico. Ciò nonostante in tutti questi anni la psicochirugia è stata praticata sia negli Stati Uniti sia in Europa, per lo più presso centri privati, e semiclandestinamente. Ciò ha comportato il grave effetto che non esiste un censimento della reale rilevanza di questa pratica né un vero controllo del mondo scientifico su di essa. Accanto ad alcuni interventi apparentemente dotati di un fondamento scientifico, o comunque di risultati (quale quelli di leucotomia focale per i disturbi ossessivi gravissimi), sino agli anni ottanta sono stati condotti anche interventi sperimentali in apparenza privi di ogni logica e senso (ancora nel 1984, la letteratura specialistica di lingua russa riportava trapianti di cellule fetali sulla corteccia di malati sofferenti di forme di schizofrenia deficitaria!). Tuttavia i progressi in campo neurochirurgico (chirurgia stereotattica, radiochirugia e gamma knife) sono tali e consentono una tale precisione millimetrica di intervento che, associati alle nuove metodiche di imaging metabolico, promettono presto una nuova stagione psicochirugica. Il tema esula, ovviamente, il soggetto stretto di quest'articolo (riguardando più che altro le prospettive future dell'etica psichiatrica). In un senso, comunque, è valso la pena di ricordarlo, esso rimanda, infatti, ad un tema già sfiorato in psicofarmacologia: sono mai lecite forme di "menticidio" per sopprimere una sintomatologia psichiatrica? La risposta deve essere negativa per almeno due argomenti:
1) anche se è altamente opinabile far coincidere la persona con la sua mente, è vero che l'attività psichica cosciente costituisce parte importante di una persona: la riduzione, la menomazione grave, e permanente, di questa attività è giustificata solo quando il valore in gioco è la sopravvivenza biologica stessa della persona (così come è il caso della neurochirurgia); in altri casi non sembra che i valori in gioco giustifichino un danno così grave nella vita di un essere umano.
2) se vale il concetto che ciascun individuo ha, in definitiva, il diritto di decidere attorno le cure a cui sottoporsi, vi è una contraddizione irrisolvibile tra il fatto che una persona deve dare il suo consenso per un intervento che altererà irreversibilimente la sua capacità futura di acconsentire a qualunque cosa. Anche in questo caso solo la gravità estrema della patologia in gioco può giustificare l'intervento.

3.4. Trattamenti in comunità, psichiatria territoriale e riabilitazione psichiatrica
Per quanto il movimento della psichiatria di comunità sia stato il più importante movimento culturale e pratico degli ultimi anni, vi è una straordinaria assenza di riflessione etica in questo campo. In ambiente anglosassone, se si escludono i contributi contenuti nel testo di Bloch e Chodoff di etica psichiatrica, non c'è praticamente altro. In Italia sono da segnalare il volume curato da Fasolo (F.Fasolo, 1994), ed il già citato articolo di Bassi (Bassi M, 1996): entrambi, seppur con diversi accenti, sottolineano la necessità di valorizzare l'autonomia esistente - in modo di promuoverne sempre di maggiore - piuttosto che evidenziare gli elementi di mancanza e di deficienza di autonomia. Anche Benevelli, nel suo contributo (non pubblicato) nel corso del simposio sul consenso informato del 1994 a Benevento, sosteneva la necessità di processi di empowerment del malato psichiatrico, e la necessità dell'insegnamento di alcune capacità fondamentali, come prerequisiti anche alla costruzione di alcune basilari elementi etici (consenso al trattamento, rispetto dell'autonomia del paziente, ecc.). Un importante studio, già citato in precedenza, della comunità europea si è occupato 1994 dei trattamenti coercitivi in pazienti non ospedalizzati, cercando di definire criteri pratici tesi sia al rispetto del principio di autonomia dei pazienti, sia al rispetto del principio di beneficialità, cioè al diritto del paziente psichiatrico ad essere curato e non solo "parcheggiato" in strutture territoriali. Tuttavia va notato che l'etica della psichiatria di comunità e territoriale rimane un tema pressoché inesplorato, e che richiederebbe di essere sviluppato nel prossimo futuro.

4. LO PSICHIATRA E L'ALLOCAZIONE DELLE RISORSE
Come si è detto all'inizio di questo scritto il tema dell'etica economica e della giustizia nella ripartizione delle risorse è così importante e complesso che lo si accennerà soltanto. Si vuole quindi solo dare conto di due questioni centrali nel dibattito attuale, più che altro per aggiornare il lettore: il problema della cosiddetta double agentry; e il problema dei trattamenti protratti. Un' ulteriore, ed essenziale, lettura (a cui rimandiamo colui che fosse interessato) potrà quindi essere il report del Hasting Center del 1996 intitolato: "Setting priority in mental health care".

Con il termine anglosassone di "Double agentry" si intende una questione di "responsabilità divisa", cioè una situazione in cui il medico è diviso tra la responsabilità verso i propri pazienti e la responsabilità verso un'altra differente agenzia (l'ospedale, il servizio sanitario pubblico, una compagnia di assicurazione, un tribunale, ecc.). Questa responsabilità è, in effetti, nella maggior parte dei casi economica, o, può comunque essere ridotta a responsabilità economica. Il tema della double agentry è stato forse uno dei temi più dibattuti negli ultimi anni negli Stati Uniti: si pensi solo che nell' Annual General Meeting di Sandiego dell' American Psychiatric Association erano dedicati 12 tra workshops, lectures, e symposia all'etica e di questi ben 8 vertevano, in un modo o nell'altro, sulla double agentry.

Per quanto riguarda i trattamenti protratti (siano essi farmacologici, psicoterapeutici, riabilitativi, o misti) vi è una tendenza sempre crescente a valutarli in termini di analisi costi/benefici, escludendo considerazioni di giustizia e di rispetto per la sofferenza dei pazienti. I sistemi DRG, variamente adattati, sono ormai praticati in tutti le strutture sanitarie, ma sono sistemi quanto mai incapaci di dar conto della complessità del decorso dei disturbi psichiatrici maggiori e minori. Il rischio, in termini etici, è che i malati psichiatrici siano tra i primi a soffrire di un taglio ai costi sanitari, e questo per sue ragioni: innanzitutto essi sono intrinsecamente più deboli di altre categorie di pazienti, in secondo luogo è più facile (in assenza di trattamenti e procedure rigidamente codificate) negare cure indispensabili con l'affermazione che "non è sufficientemente dimostrato che esse siano indispensabili" (ciò vale sia per le psicoterapie in alcune situazioni, sia per i nuovi farmaci antipsicotici in altre).

Conclusioni
Dopo un articolo così lungo, le conclusioni saranno di necessità molto brevi. In primo luogo molti problemi etici classici del rapporto psichiatra e paziente sono destinati a rimanere nel tempo e richiederanno sempre un attento studio (ad esempio, il consenso); in secondo luogo, è anche evidente che vi sono numerosi problemi emergenti (markers genetici, brain imaging, psicochirugia, diritto alla privacy, economia sanitaria e giustizia ecc.) che andranno seguiti con attenzione perché saranno i problemi etici del futuro; infine esistono alcuni campi (psichiatria di comunità, terapie combinate psicofarmaci-psicoterapia, tecniche di negoziazione con il paziente nella costruzione del consenso) che sono stati sinora poco esplorati ma che meriterebbero maggiore attenzione da parte sia di bioeticisti, sia di psichiatri.

Appendice 1: I principali codici etici di interesse psichiatrico

Consiglio d' Europa
1977 (R. 818) - Raccomandazione sulla situazione dei malati di mente
1983 (R.83) - Raccomandazione sulla protezione legale dei malati di mente ospedalizzati contro la loro volontà
1994 (R.1235) - Raccomandazione sulla psichiatria ed i diritti umani
1996 - Convenzione sui diritti umani e la biomedicina (art. 7)

Comunità Europea
1987 - Good Clinical Trial Practice

Nazioni Unite
1971 - Dichiarazione sui diritti dei ritardati mentali
1991 - Principi per la protezione delle persone malate di mente e per il miglioramente delle cure psichiatriche

WHO
1996 - Medicina Psichiatrica Legale: 10 principi di base

NGO
World Medical Association - Dichiarazione di Helsinki (1964, 1975, 1989)
- Dichiarazione sull'uso e l'abuso degli psicofarmaci (1975, 1983)
- Dichiarazione sulle questioni etiche riguradanti i malati mentali (1995)

World Psychiatric Associat - Dichiarazione delle Hawaii (1977, 1983, 1996)
- Dichiarazione di Atene sui diritti dei malati di mente (1989)

ITALIA
Com Nazion per la Bioetica - Parere sull'eticità della terapia elettroconvulsivante (1994)
Ordine dei Medic di Roma - Documento sull'etica della psichiatria dell'infanzia (1995)

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NOTE

(1) Si potrebbe obiettare che anche questa è una scelta estetica e, in effetti, alcuni filosofi hanno argomentato che l'etica null'altro è che un'estetica dell'anima.

(2) È appena il caso di ricordare come questo cambiamento si rifletta fedelmente anche nella letteratura e nell'arte: ai medici ciarlatani si sostituiscono figure di medici amanti dell'umanità e dediti con sacrificio alla loro professione.

(3) Tuttavia va ricordato che il Community Mental Health Centers Act che introdusse processi di deistitunalizzazione nella psichiatria statunitense è addirittura del 1963. I giudizi citati e il CRIPA sono, cioè, il punto di arrivo di un movimento che aveva già vent'anni di storia giuridica oltre che culturale.

(4) Quasi tutte le riforme psichiatriche che hanno seguito negli anni ottanta e novanta quella italiana hanno invece conservato il criterio della "pericolosità" del malato.

(5) Tuttavia se si dovessero seguire rigorosamente questi criteri ben pochi TSO sarebbero leciti (almeno in Italia)!

(6) Tuttavia è interessante notare che il Codice Deontologico ritiene in qualche modo anche il paziente responsabile della comprensione: il paziente "deve voler comprendere". La questione - non priva, ovviamente di aspetti controversi e discutibili - è ricca di sfumature sia giuridiche, sia etiche, sia psicologiche che varrebbe la pena, in altra sede, di approfondire: si pensi solo ai meccanismi di diniego psicologico messi in atto da certi malati o in certe malattie. Gli è che, come autori quali Fiori e Gindro hanno ripetutamente segnalato, il consenso (o il rifiuto) si costruisce ben prima che al letto del malato, attraverso la comunicazione sociale e l'informazione medica che viene trasmessa dai mass media. Chi scrive cita spesso ad esempio uno studio di qualche anno fa in base al quale i pugilatori, durante il match, ritengono non più del 5% di quanto viene loro detto all'angolo dai secondi. Probabilmente la condizione in cui i pazienti recepiscono il consenso informato nell'immediata fase preoperatoria (come è la regola negli ospedali italiani) non è diversa.

(7) Molto giustamente si è affermato da parte di parecchi studiosi (soprattutto italiani, come A.Fiori, S.Gindro e S.Rodotà) il diritto anche a non essere informati. Nulla da eccepire, ovviamente, sulla sostanza di quest'appello, tuttavia il consenso informato andrebbe concepito come un diritto di cui potere o no usufruire. Ovviamente, l'importante che vi siano le condizioni pratiche che permettano anche questa scelta (almeno in ambito clinico, poiché, in ambito di ricerca, soprattutto non terapeutica, è una garanzia irrinunciabile, un bene indisponibile si potrebbe dire, quello di essere informati sui rischi che si corrono). Diverso è il problema della "medicina difensiva" statunitense dove l'informazione data dal medico, o dalle strutture sanitarie, non risponde ad un' istanza etica ma ad una semplice precauzione legale. Qui sì che si pone il diritto bioetico di non sapere!

(8) Il medico filosofo sarà pure simile agli dei - come recita un antico aforisma - ma se non sa curare rimane pur sempre una bestia di dottore.

(9) La letteratura in lingua inglese sulla struttura di valori sottostante i DSM III, III-R, e IV (e quindi sul loro sostanziale fallimento sul piano dell'ateoreticità) è vastissima. Una recente review di essa si può trovare in: Mishara AL, Schwartz MA, 1995, Conceptual analysis of psychiatric approaches: phenomenology, psychopathology, and classification Curr Op Psych, 8, 5: 312-17. Almeno un volume, comunque, dovrebbe far parte della biblioteca del lettore interessato all'argomento (anche perché ricco di riferimenti). Si tratta di Philosophical perspectives on psychiatric diagnostic classification, curato nel 1994 da Sadler J.Z., Wiggins O., Schwartz M. per la Johns Hopkins University Press.

(10) "Dottore, non riesco ad uscire di casa, di cosa soffro?", "Ma di claustrofobia, signora" !

(11) Tra i problemi "minori" di bioetica psichiatrica, questo è certo tra i principali. Nessun malato dovrebbe apprendere la propria diagnosi dal foglietto illustrativo di un farmaco. Eppure quante volte si prescrive al malato ambulatoriale un antipsicotico o un antidepressivo senza preparare il paziente all'impatto con le parole che leggerà sulla confezione del farmaco.

(12) Ad esempio non è raro che i pazienti più disturbati siano così spaventati da una cura psichiatrica (farmacologica e psicoterapeutica) da chiedere un trattamento ipnotico (che fantasticano come una sorta di intervento in anestesia totale). In questi pazienti l'ipnosi, però, sarebbe nel migliore dei casi inutile, nel peggiore (e più probabile) foriera di veri disastri psichici.

(13) P.Rieff (1979) ha dedicato un convincente capitolo all' "etica dell' onestà" in S.Freud, mettendola in contrasto alla morale ipocrita "dell'uomo civilizzato". Rieff sceglie come esergo del capitolo una citazione nietzschiana, proponendo implicitamente la sua chiave di lettura.

(14) L'argomento è controverso. Vi è stato anni or sono addirittura un movimento che si augurava la scomparsa di ogni "metapsicologia" in quanto palesemente inutile e mero orpello metafisico. Se con il termine di metapsicologia si intendono una serie di affermazioni dogmatiche indimostrabili sulla psicologia umana, non si può che essere d'accordo con questo augurio; differentemente se con il termine di metapsicologia ci si riferisce a un modello teorico di riferimento che viene costantemente testato nella pratica clinica. Tutto sta, insomma, ad intendersi con le parole.

(15) Gli argomenti sembrano seri ma, se applicati rigorosamente, avrebbero condannato anche Paolo e Francesca (rottura di relazione fiduciaria, asimmetria del rapporto, ecc.). Insomma secondo questi parametri ogni rapporto amoroso sarebbe "non-etico".

(16) Questo caso va distinto da quello in cui non è possibile una reale guarigione e lo psicoterapeuta deve diventare una sorta di protesi emozionale di cui il paziente (spesso portatore di gravi disturbi di personalità) non potrà più fare a meno. Si tratta di guarigioni per difetto (o riuscite cronicizzazioni) in cui il supporto psicoterapeutico assume il senso dell'insulina per il diabetico. Distinguere questi casi da quelli in cui la cronicizzazione è provocata da una malpractice è, tuttavia, tutt'altro che facile.


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