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Sergio Benvenuto

Commento a Fabio Ciaramelli, La distruzione del desiderio. Il narcisismo nell’epoca del consumo di massa (Dedalo, Bari, 2000)





Questo libro di Ciaramelli andrebbe comunque letto innanzitutto per il tema: quello del desiderio è uno dei loci più antichi e centrali della filosofia occidentale, ma resta anche tra i più importanti. Se non altro perché la filosofia, da sempre, si è definita in termini di “desiderio” piuttosto che di “godimento”, “bisogno”, “piacere”, “produzione”, ecc. Questo non solo in Platone, come di solito si crede (ad esempio, la figura erotica dell’attrazione domina tutta la Fisica di Aristotele: il mondo come divenire è frutto del desiderio del Motore Immobile da parte degli enti). Fino al punto che ci si chiede perché il termine filosofia abbia prevalso su quello di erotosofia - in quanto certo la filosofia non è semplice amicizia, alleanza, con il sapere, ma tensione propriamente erotica verso di esso. La filosofia è nata come un’iperbole di Eros.
Detto questo, mi permetterò qui comunque non tanto delle critiche al libro di Ciaramelli, quanto piuttosto di mettere in evidenza ciò che da esso mi separa. Ora, ciò che da esso mi separa non è tanto quello che c’è - dato che, per molti versi, mi trovo d’accordo con molto di quello che vi è scritto - quanto piuttosto quello che non c’è. In particolare, mi ha colpito l’assenza di due testi che considero cruciali riguardo alla questione filosofica del desiderio: il Fedro di Platone e gli Ecrits di Lacan.
Ciaramelli cita il Simposio platonico ma non il Fedro che, a mio modesto parere, è ancor più significativo per quanto riguarda la teoria filosofica dell’Eros. Quanto a Lacan, per tutta la sua vita ha parlato del desiderio, per quanto da un punto di vista psicoanalitico - così a molti può sembrare una vera e propria provocazione il fatto che Ciaramelli eviti qualsiasi confronto con lui. (E’ vero che Ciaramelli pubblica in un paese dove il lacanismo ha lasciato poche tracce - gli sarebbe stato impossibile evitare il confronto se avesse pubblicato in francese, spagnolo o inglese.) Il tema, molto francese, del désir - Ciaramelli appartiene ad un’area cultural-filosofica “francese”, anche se abita a Napoli - lo riprende non da Lacan ma da Levinas.
Ma proprio perché riprende la contrapposizione tra desiderio e bisogno da Levinas, il libro si espone al rischio di una lettura troppo moraleggiante e spiritualista. Il confronto con Lacan lo avrebbe forse convinto a riprendere piuttosto la distinzione tra demande e désir, che assorbe meno residui spiritualistici: quel che Ciaramelli considera mondo dei bisogni viene concettualizzato da Lacan piuttosto come sfera della domanda (per avere). La divisione tra desiderio e domanda ha peraltro il vantaggio di coincidere con le categorie economiche: si parla infatti di domanda ed offerta di beni. Ma soprattutto la distinzione lacaniana rischia meno di sovrapporsi a quella classica tra materia e spirito (bisogni materiali, desideri spirituali) perché la demande è comunque articolata, e quindi permeata di desiderio: la carne, in Lacan, è permeata di spirito.
Forse, comunque, non è casuale che il Nostro eviti un confronto con due testi - di Platone e di Lacan - che, idealmente, possiamo considerare all’inizio e alla fine (per ora) del percorso della riflessione sul desiderio. Evidentemente Ciaramelli non ci fa godere di un confronto con questi pensieri - ci lascia desiderare questo confronto - in sintonia con il succo del suo libro, che vuole appunto “salvare” il desiderio rinunciando al godimento immediato degli oggetti desiderabili.
Ho chiesto a Ciaramelli, in pubblico e in privato, perché abbia evitato di citare anche una sola volta Lacan (che sicuramente ha letto) - mentre cita vari autori che si sono ispirati a lui o che ne hanno subìto comunque la forte influenza (ad esempio Derrida, da lui citato; è pensabile la riflessione di Derrida senza Lacan?). Come spiegare questo velo di silenzio su un autore di cui oggi non condivido più le tesi, ma che ha lasciato comunque un segno, nella cultura moderna, proprio quanto alla natura del desiderio umano? Ciaramelli mi ha risposto che il confronto con Lacan lo avrebbe costretto ad un supplemento di ricerca (e di pagine del libro) che non si sentiva di affrontare; e poi non condivide la tesi di fondo di Lacan sull’inconscio strutturato come un linguaggio. Rispondo a Ciaramelli: ma quale persona seria può oggi condividere la teoria dell’inconscio strutturato come un linguaggio? Questo punto - che tuttora i fedeli discepoli proclamano come centrale della Scuola lacaniana - è certo oggi quello meno convincente, meno interessante, dell’insegnamento di Lacan. Ma oggi possiamo trarre profitto dalla lettura di Platone anche se non condividiamo più granché della sua metafisica (ammesso poi che ne avesse una precisa), o dalla lettura di Hegel anche senza condividere la marcia verso lo Spirito Assoluto, o di Freud anche senza condividere la sua teoria delle pulsioni. Così credo che possiamo trarre profitto dal confronto con Lacan, anche e soprattutto se non siamo lacaniani. Tutti i grandi pensatori del passato errarono (per noi) - eppure li leggiamo ancora, se non altro per imparare dai loro errori.
Il termine usato da Ciaramelli per giustificare il suo evitamento (Abwehr direbbe uno psicoanalista - parata difensiva) di Lacan è più che mai interessante: evitare un supplemento. Si è difeso dal supplemento aggirandolo, eliminandolo, rimuovendolo dal bel discorso filato, liscio, convincente del suo libro. Ma ricordo a Ciaramelli, esperto di Derrida, quel che questi disse del “supplemento”: ciò che supplisce, ciò che sta al posto di qualche altra cosa, ciò che si aggiunge come inessenziale, come in-più pronto alla sostituzione eventuale, è stato sempre disprezzato dalla metafisica occidentale ma andrebbe invece riconosciuto per la sua effettività, per la sua forza inaspettata. Quel supplemento che Ciaramelli ci fa desiderare è proprio quello - c’è da scommetterci - che non cesserà di tornargli (come appunto ora, attraverso di me) come un boomerang. Lo sforzo puramente supplementare - quindi evitabile - di confrontarsi con Lacan sarebbe forse diventato il nocciolo essenziale, il punto cruciale del libro, se l’Autore non lo avesse appunto evitato. Il bel libro di Ciaramelli manca insomma di supplementi: difetta di un confronto inessenziale che avrebbe potuto rovesciarne l’economia. Il libro di Ciaramelli (come la persona stessa) è dolce - troppo dolce per certi palati amari - manca del confronto aspro, drammatico, dell’attrito con ciò che lo sorpassa e vi sporge. Cercherò allora io di giocare un po’, qui, il ruolo scabro di mettere dell’amaro nel dolce stile di Ciaramelli con richiami in-opportuni.

Ad essere sincero, il libro di Ciaramelli mi è piaciuto per ragioni che probabilmente lui non gradirà: non per la sua violenta rottura rispetto ad una tradizione filosofica, ma proprio per la sua dolce continuità con essa. Del resto, è una questione di punti di vista - ad esempio, non ho mai visto Heidegger come un grande decostruttore della metafisica occidentale (come lui pensava di essere) ma invece grande proprio per la sua continuità rispetto a questa tradizione, per il suo riuscire a portarla fino ad un limite, e magari oltre di esso. In sostanza, Ciaramelli propone come modello il désir (che in francese ha una connotazione più sessuale del nostro desiderio) non diversamente da come Platone propose a suo tempo Eros come modello della tensione filosofica che ci porta verso l’ousia, la sostanza. Insomma, Ciaramelli ripropone - come antidoto alla società dei bisogni - quello che anche oggi viene chiamato “amore platonico”.
Anche se Ciaramelli non sarà d’accordo, a me pare evidente che questo desiderio o “amor platonico” di cui tesse l’encomio è una spiritualizzazione del bisogno. Ma non si tratta qui di una modernizzazione (attraverso lo spiritualismo di Levinas) di un motivo tipico della filosofia occidentale, passato poi ai monoteismi?: quello che oppone in qualche modo lo spirito alla carne? Oggi “la carne” si chiama bisogni, e “lo spirito” si chiama desiderio. In effetti, sin dall’inizio la filosofia ha visto che c’è qualcosa di ambiguo nella passione filosofica: essa ha una rassomiglianza con Eros, con il desiderio sessuale. Come separare allora il grano dell’”erotosofia” dall’oglio dell’eros volgare di chiunque? La risposta offerta tradizionalmente dai filosofi è di due tipi: la platonica e l’epicurea. Non discuterò qui quella epicurea, perché mi pare che sia alquanto estranea all’orizzonte di Ciaramelli. Quanto alla risposta di Platone, questa è appunto l’amore platonico - cioè, mantenere vivo il desiderio rinunciando al godimento, in particolare a quello sessuale. L’uomo e la donna che godono smettono di desiderare - spesso e volentieri si addormentano, magari nelle braccia l’uno dell’altra, mentre il desiderio e la filosofia acuiscono la veglia di chi resta separato. Lo psicoanalista Michael Balint scrisse un saggio a partire dalla domanda “perché i greci avevano due divinità dell’amore, Afrodite ed Eros?” Ma è evidente perché: Afrodite è l’atto sessuale, l’atto che fa godere (afrodisiazein significava appunto fare sesso), mentre Eros è il desiderio sessuale, libido direbbe Freud, drive, tensione verso un oggetto. (Ragion per cui il nostro termine moderno “afrodisiaco” è filologicamente erroneo: questi oggetti andrebbero chiamati piuttosto “erosiaci”.) Per oltre duemila anni i filosofi hanno diffidato di Afrodite, ed hanno levato alte le lodi ad Eros. Ma allora, come mantenere vivo e perenne Eros? Semplice, rinunciando al godimento. E’ in fondo anche quello che ci consiglia Ciaramelli: la tensione verso l’Altro, se diventa bisogno da soddisfare assolutamente, si degrada, si spegne.
Anche se Eros non è solo una metafora della filosofia - la filosofia è sempre eros, ma non tutto l’eros è filosofico - comunque esso si applica anche alla sfera non propriamente sessuale. Nel Fedro - il testo che appunto Ciaramelli ci fa desiderare - la rinuncia all’oggetto concupito diventa in effetti il modello del nostro rapporto all’ousia, cioè alla verità essenziale. Dirò brevemente come - se non altro perché Ciaramelli, in un linguaggio certo moderno, articola la stessa dialettica platonica.
Platone parla anche nel Fedro il linguaggio del mito - perché la verità, per Platone, può essere detta solo miticamente, per figure poetiche o religiose. L’anima (psyche) è descritta metaforicamente come una biga: c’è un auriga (che ormai tutti paragonano all’Io della seconda topica di Freud) e due cavalli, uno bianco e uno nero. Il bianco è buono ed è docile alle redini dell’auriga, il nero invece è cattivo e indocile. La metafora-chiave è il desiderio pederastico: l’anima-biga è attratta dal bel ragazzo e va verso di lui, ed il cavallo nero gli salterebbe addosso (facendone quel che l’erastes ateniese all’epoca faceva all’eromenos, cosa che oggi lo esporrebbe ad un linciaggio per pedofilia). Ma il cavallo bianco non “conquista” l’oggetto amato: due doni divini glielo impediscono, sofrosyne ed aidos. La sofrosyne è la temperanza, è il senso della giusta misura. Traduciamo aidos con pudore, ma aveva un significato più ampio: era rispetto dell’altro e senso del proprio limite. Una sacra inibizione. Aidos, come antonimo di hybris (l’eccesso, lo smisurato, e quindi l’arrogante), consiste nel comportarsi verso gli altri nel rispetto delle gerarchie sociali. E’ l'istinto che spinge un uomo o una donna a sentire i confini del proprio ruolo nella città e a non oltrepassarli. Il rispetto-pudore marca insomma una distanza necessaria che, impedendo il godimento e l’afferramento dell’oggetto, ci mette propriamente “fuori di noi”, ci permette di trascendere i limiti stessi dell’oggetto andando verso l’ousia. Nel linguaggio comune antico ousia era il patrimonio economico - ma ancora oggi diciamo di una persona con un patrimonio solido che ha sostanze. L’afferramento sessuale dell’altro - a cui ci spinge il cavallo nero della nostra anima - ci dà godimento ma ci fa perdere “la sostanza” dell’altro. E qual’è questa sostanza?
Certo, per secoli questa ritrosia platonica è stata derisa dal pensiero libertino. Le ragazze di buona famiglia erano invitate dai genitori a non farsi prendere dal primo venuto e di badare piuttosto alla “sostanza”, che all’epoca era il matrimonio, preferibilmente con un uomo “con sostanze”. Ma per Platone questa rinuncia alla consumazione sessuale dell’altro - grazie a temperanza e rispetto - è un modo per andare oltre, verso ciò che per Platone è la sostanza vera. Per Ciaramelli la sostanza vera è, in chiave levinasiana, l’Altro; per Platone era eidos. Anche qui le traduzioni correnti tradiscono il senso di quel che Platone voleva dire, a mio parere. Ma, senza impegolarci in disquisizioni filologiche, possiamo dire questo: eidos è un’Apparizione che è celata dietro le apparenze sensibili. Le anime sono tali perché desiderano (anche quando lo ignorano) queste Apparizioni, e quindi si muovono. Il desiderio è movimento che va verso le Apparizioni sostanziali, ma che può invischiarsi nel mondo provvisorio delle apparenze. Ma tornare alle Apparizioni - questo è un punto essenziale - non significa a sua volta possederle, afferrarle, “consumarle”. Significa solo contemplarle, di tanto in tanto. Come Socrate non sodomizza Alcibiade, che pur gli si offre nudo tra le braccia, ma si limita a guardarlo, analogamente l’anima può giungere solo a contemplare la verità, non a possederla. Da tempo si critica il presupposto visivo della metafisica occidentale, la sua ipostasi teorica (theoria è appunto visione). Ma si dimentica che il primato occidentale della visibilità teorica è l’effetto di una rinuncia alla concettualizzazione afferrante, al godimento introiettante dell’altro. L’altro - persona od oggetto che sia - non va penetrato (in tutti i sensi) né è bene che penetri in noi. L’altro deve piuttosto regolarci.
Ora, la pratica psicoanalitica a cui si rifà Ciaramelli mette in opera questa askesis platonica, in modo ormai proverbiale. Si racconta ancora che il salto di qualità fatto da Freud rispetto al suo maestro Breuer fu proprio nel rinunciare a “godere” delle pazienti isteriche. Breuer fu turbato dal fatto che la sua paziente, Anna O., si proponesse chiaramente come sua amante e - dice il mito analitico - per evitare tentazioni chiuse il rapporto. Ma la famosa “fuga” di Breuer a Venezia con la moglie per sfuggire alle avances di Anna O. non è la ritrosia socratica: fuggire l’oggetto di concupiscenza (rimozione in termini freudiani) significa in qualche modo cedergli. Freud invece fece come Socrate con Alcibiade, secondo il racconto del Simposio: anche qui, Socrate non fugge turbato da Alcibiade che non solo gli si offre sessualmente, ma passa un’intera notte giacendo su di lui. Non perché non desideri Alcibiade, ma grazie a temperanza e pudore può mirare a ciò che in Alcibiade è Altro. Analogamente, Freud non accetta le “proposte indecenti” delle sue pazienti, non “consuma”, ma nemmeno fugge: piuttosto sposta il rapporto erotico con le isteriche al di là. Aldilà verso dove? Per Freud verso il loro inconscio, che ormai, dopo Lacan, identifichiamo appunto con l’Altro: rinunciando al godimento (reciproco) dell’altra Freud ha accesso all’Altro, e fa in modo che anche l’altra abbia accesso ad Altro. C’è qui una ripetizione toccante della strategia platonica di rinuncia alla “consumazione” come strada maestra verso l’Altro. Ed è importante che sia in Platone che in Freud la figura-chiave sia quella erotica - anche se l’isterica prende il posto dell’adolescente maschio ateniese.
L’Altro a cui Platone accede attraverso la rinuncia al godimento consumatorio è anch’esso, come in Freud, la verità: ma è dell’ordine della forma strutturale, dell’Aspetto, di qualcosa di puramente intelligibile. In chiave moderna, comunque, l’Altro continua ad essere pensato in termini di intelligibilità: a differenza degli esseri non animati (e gli animali?), l’altro uomo è Altro a cui tendere nella misura in cui è intelligibile. Anche Lacan, identificando l’Altro al linguaggio stesso, ripercorre una linea tracciata da Platone in poi: che “la sostanza” a cui tendere non è di ordine sensibile ma intelligibile. Ciò che va “visto” dell’Altro non è il suo corpo - che è un ammasso di cellule - ma la sua anima, chiamata oggi (cioè dopo Kant) soggettività. A differenza delle ontologie antiche, il platonismo moderno - incluso quello di Ciaramelli - è soggettivista e spiritualista. L’altro essere umano è l’Altro nella misura in cui rinunciamo, ad esempio, ad “afferrarlo” attraverso l’oggettività scientifica. Per le spiegazioni scientifiche esistono solo oggetti, mentre la rivendicazione etica del nuovo platonismo - che oggi preferisce rifarsi a Nietzsche e a Freud - consiste nel rendere pertinente l’apertura all’Altro. Ma come assicurarla? Ancora una volta attraverso la rinuncia al godimento: rinunciare a spiegare oggettivamente l’altro, per giungere quindi finalmente a comprenderlo.
Spesso mi chiedo come mi situo io in questo grande e glorioso progetto di ascesi che da Platone giunge fino ad oggi, passando per Freud. Diciamo che non è il mio - non sono uno spiritualista - ma esso mi piace allo stesso tempo per la sua portata etica. Quando il movimento ecologista oggi, per esempio, ci dice di non manipolare la natura come insieme di oggetti ma di avere aidos (rispetto, pudore) nei suoi confronti, dice qualcosa che ci tocca tutti: il non toccare o afferrare l’Altro è in effetti alla base di ogni temperanza etica. L’intento di Ciaramelli stesso mi pare essere, prima che speculativo, etico in senso lato. In questo senso tutta la grande tradizione filosofica mi appare “ciaramelliana”: di fatto, dietro la rivendicazione nostalgica di un’Origine, di una fonte fondamentale, la filosofia occidentale è sempre stata anche apertura all’Altro. Ovvero, ha sempre cercato di arrivare all’Uno (all’altro) sommando in vario modo degli zeri (le soggettività) - la filosofia è un Achille che continua, da sempre, a correre dietro la tartaruga della sostanza.
Ma non sarebbe ora di andare oltre questo andare oltre della grande tradizione filosofica, di cui questo libro è certo uno degli ultimi - e brillanti - rampolli?

Ciaramelli assume quindi il desiderio in quanto concetto buono, per così dire. Ci vuole del coraggio a farlo, in Italia. Negli anni 60 e 70, in effetti, la cultura allora egemone in Italia - per lo più di sinistra, marxista e non - non considerava affatto il desiderio come buono. Ciò che andava preso in conto, allora, era proprio il bisogno. Non si faceva altro che parlare di bisogni da soddisfare, di essere sensibili ai bisogni della gente e del popolo, ecc. Quando poi l’ungherese Agnes Heller, allieva di Lukacs, tirò fuori la sua teoria dei bisogni radicali, in Italia la Heller divenne una maître à penser. Ricordo un congresso di psichiatri basagliani e anti-istituzionali (verso il 1980) a cui parteciparono anche psichiatri e psicoterapeuti francesi. Italiani e francesi sembravano sulla stessa lunghezza d’onda, eppure il dissidio sorse proprio sulle parole desiderio e bisogno. I francesi, interdetti, dicevano agli italiani “ma perché parlate sempre di bisogni? Perché concepite il popolo come un coacervo di bisogni? Perché non parlate mai del desiderio?” Anche tra operatori sanitari non proprio specialisti di dibattiti filosofici emergeva la differenza tra due diverse tradizioni culturali. Ciaramelli opta decisamente per la tradizione francese - via Castoriadis e Levinas, primi tra tutti.
Quando, nel 1971, feci uno stage all’Ospedale Psichiatrico di Trieste per prendere una laurea francese in psicologia, ebbi occasione di essere in stretto contatto con Franco Basaglia. Avevamo anche discussioni private abbastanza lunghe, che generosamente mi riservava. Anche lui, all’epoca, non parlava d’altro che di “soddisfare i veri bisogni”. Io, da studente parigino qual ero allora, la pensavo piuttosto come Ciaramelli, per cui gli chiesi “ma quali sono i veri bisogni?”. Basaglia mi rispose pazientemente che i veri bisogni sono quelli elementari, mentre tutto il resto “è ideologia”. Un bisogno vero da soddisfare è che, per esempio, ci sia carta igienica in ospedale - desiderare invece una carta igienica patinata, liscia, rosa, ecc., era “consumismo”, cioè ideologia. “E se ad un malato viene una diarrea perché non dispone di carta igienica più fine?”, incalzai con impertinenza. “Anche una diarrea può essere ideologica!” esclamò Basaglia.
A distanza di anni continuo a pensare a questa risposta - proprio per ricordarmi dei limiti di ogni discorso moraleggiante sul “consumismo”. Di fatto, non c’è nulla di più elastico, più effimero, più storicamente relativo della differenza tra “veri bisogni” e “falsi bisogni” - o tra “desideri” e “bisogni” direbbe Ciaramelli. Ciò che nella generazione precedente appariva puro desiderio, nella generazione successiva appare un bisogno da soddisfare ad ogni costo. Quando, negli anni 50, i frigoriferi divennero alla moda, era un semplice desiderio delle massaie averlo. Oggi andate a dire ad ognuno di noi che cosa farebbe, soprattutto d’estate, senza frigorifero! Ormai esso è un vero bisogno.
Nel nostro rapporto con gli altri è non meno evidente. Fin quando la mia donna amata è vicina, sono ciaramelliano, cioè la desidero. Ma se parte per un lungo viaggio, ahimé, credo proprio che ne ho bisogno .
Ma allora, la riflessione di Ciaramelli, e tutta la cultura di “critica dei falsi bisogni”, è da respingere? No, nella misura in cui essa riprende un’esigenza che la filosofia ha reso centrale sin dai suoi inizi greci, e che in fondo non è mai venuta veramente meno. La filosofia è entrata ben presto in dissidio con la religione, i regimi politici dominanti (compresi quelli democratici) e l’etica corrente della Città proprio perché essa ha puntato, più o meno esplicitamente, su un ideale di autarchia. Il filosofo antico - come ci ha ben mostrato Pierre Hadot - era soprattutto uno che viveva in modo diverso rispetto alla massa: proseguiva il suo esercizio di skepsis (ricerca) e askesis senza curarsi dell’opinione corrente. La filosofia è nata come ideale di aristocrazia spirituale: vivere in una tensione erotica verso la verità in contrasto con i “bisogni” (direbbe Ciaramelli) del popolo. Questo “desiderio di cose alte” distingue in fondo qualsiasi filosofo, foss’anche il più secolarizzato, materialista o immanentista. Questa trascendenza del desiderio - che Ciaramelli rivendica in contrasto con l’immanenza dei bisogni - è un modo di ribadire la scelta etica di fondo di qualsiasi filosofo: fare epoché.


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