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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: SCIENZE E PENSIERO
Area: Sociologia

Psicoterapia e societa' di massa

di Carlotta Montinaro e Donato Santarcangelo


Introduzione
Nel quadro di una teorizzazione, derivante da più ambiti, indebolente, non fondazionalistica, dell'approccio alla realtà fenomenica, la nostra attenzione si è soffermata sull'ambito psicologico, nel quale contestiamo una visione statica, atemporale e oggettivistica dell'identità soggettuale, e sosteniamo, tra l'altro, l'imprescindibilità, per la psicoterapia, del rimando alla sintomatologia dei significati esperiti dall'individuo.
Inoltre, consideriamo l'attuale società delle comunicazioni di massa, come l'insolito alveo nel quale, grazie alla peculiare "accelerazione prismatica" delle immagini dell'esistente, è possibile intravedere in filigrana livelli plurimi e senza fondazione ultima, d'interpretazione della realtà, con conseguenze ammorbidenti sulla monoliticità dell'identità personale (G. Girard, 1992).
Vogliamo ora convergere verso un punto d'approdo rappresentato dalla tematizzazione del rapporto tra un'identità soggettuale supposta, quindi, dinamica e temporalizzata, in un contesto che contribuisce a definirla tale (l'attuale società indistintiva) e un concetto "allargato" di influenza psicoterapeutica. In altre parole, ricercare una qualche plausibilità alla tesi di una valenza terapeutica dei simbolismi sociali.
Vorremmo iniziare con la considerazione che l'attuale «società dai segni insicuri e spesso massimamente ambigui» (G. Girard, 1992) ci sembra in qualche modo rappresentare per l'individuo una specie di specchio nel quale intravedere, ancorché in trasparenza e, soprattutto, angosciosamente, il costituirsi stesso, plurimo, frammentario, temporalizzato, della propria identità. In tal modo il soggetto, proprio grazie all'effetto comunque relativizzante di questo sguardo politeistico (Hillman), è più introverso rispetto all'unilaterale estroversione della società (Jung), realizzerebbe un sentirsi maggiormente autentico. In altri termini, più in sintonia con un esterno esperito come cornice di disincanto, quindi, più disincantato all'interno di se stesso; cioè, più disponibile a seguire modalità non dogmatiche di adattamento e pervaso da una flessibilità, da un'apertura, che costituiscono di per se stesse uno degli esiti principali di molte forme psicoterapeutiche.
Ci sembra, inoltre, che la società delle comunicazioni di massa, riesca strutturalmente ad evocare una sorta di metafora di una possibilità alternativa di rapportarsi alla conoscenza dell'essere umano. Nel senso di un approccio che tenga maggiormente conto della necessità della compresenza nella natura umana, della distintività e dell'indeterminato, del sufficientemente chiaro e dell'inguaribilmente ambiguo. Questo, però, non per recuperare, in maniera pur sempre pacificatoria, il senso di un'identità soggettuale comunque statica, illusoriamente solare, scarsamente influenzata dall'esistente e, sostanzialmente fondata e fondante, nel senso di poter essere, tutto sommato a diversi livelli oggettivabile. Il senso, invece, è quello di porre in rilievo proprio la cornice di indeterminatezza, approssimazione, contraddittorietà, momentaneità, che, come un affresco surreale, anzi iperreale, la società delle comunicazioni di massa mette in scena.
Cosicché, essa arriva a mostrare, proprio per questo suo essere in tal modo strutturale, ed è questo il punto, una sorta di via regia ad una più autentica e/o riduzionistica concettualizzazione dell'identità umana, anch'essa momentanea, frammentata, contraddittoria, in continuo divenire e alla quale, in fondo, ci si può accostare per comprenderla ma non per spiegarla (Jaspers).
Per Jung «la vita stessa fluisce da sorgenti che sono limpide e torbide a un tempo, ogni eccessiva "purezza", ogni rinnovamento della vita, passa attraverso zone torbide per procedere verso la chiarezza. Ma quanto maggiore è la chiarezza e la differenziazione tanto minore è l'intensità di vita, proprio a cagione dell'esclusione degli elementi che l'intorbidano. Il processo evolutivo abbisogna tanto della chiarezza quanto della torbidezza».

Identità soggettuale e realtà sociale
Affronteremo ora dapprima un breve excursus concettuale sulla plausibilità e sui modi dell'influenza della realtà sociale sulla nostra identità, utilizzando diversi approcci teorici, per poi proseguire cercando di allargare le maglie del concetto di influenza terapeutica per potervi far rientrare le conseguenze possibili dell'impatto della stessa realtà sociale sul soggetto contemporaneo.
Abbiamo assunto, quindi, per valida, in questo lavoro, l'ipotesi di un soggetto empirico diventato debole(1) per adattarsi ad un sociale indistintivo; ci chiediamo ora in base a quali costrutti teorici psicologici è possibile concettualizzare l'assunto sottostante tale ipotesi, e cioè l'influenza della realtà sociale sull'individuo.
Rivolgendo la nostra attenzione all'ambito psicosociale, possiamo ricordare la teorizzazione del concetto del sé da parte di G.H. Mead. Così questo autore definisce il concetto psicologico del sé(2): «Il "Sé" è qualcosa che ha un suo sviluppo; non esiste alla nascita, ma viene sorgendo nel processo dell'esperienza e dell'attività sociale, cioè si sviluppa come risultato delle relazioni che l'individuo ha con quel processo nella sua totalità e con gli altri individui all'interno di esso».
È nell'interazione, quindi, che il Sé viene a formarsi, con le parole di Berger e Luckmann (1969): «Quando l'Altro generalizzato è ormai cristallizzato nella coscienza, si instaura un rapporto simmetrico tra realtà soggettiva e realtà oggettiva. Ciò che è vero "fuori" corrisponde a ciò che è vero "dentro". La realtà oggettiva può venire prontamente "tradotta" in realtà soggettiva e viceversa».
La costruzione del Sé prevede, quindi, per l'individuo l'interiorizzazione del ruolo dell'altro attraverso un'interazione sociale con se stesso, il cui primo grado è l'identificazione, nel senso di assumere i ruoli e gli atteggiamenti di chi possiede un'influenza su di lui. Vi è, in tal modo, oltre che un processo di apprendimento, un'attribuzione di senso e di valore del modo di agire proprio e altrui.
Il Sé viene a configurarsi, allora, come "l'unità di analisi" che ci permette di comprendere l'interazione che dinamicamente ci accompagna nel corso dell'esistenza, Gergen, Gergen, 1986: «(...) i concetti di Sé sono strettamente legati ai rapporti con gli altri. Tali rapporti cambiano spesso, a volte lentamente, ma a volte molto in fretta. Per il nostro coinvolgimento nei rapporti sociali, siamo sempre vulnerabili al cambiamento». E ancora «(...) non c'è ragione di credere che la prima socializzazione condizioni stabilmente il carattere delle persone, sia sul piano morale che su altri piani. Le persone cambiano in qualsiasi momento della loro vita. Se le disposizioni acquisite inizialmente persistono nel tempo, ciò è dovuto al continuo sostegno che esse ricevono dall'ambiente sociale. E l'esistenza di tratti stabili nell'età adulta non significa necessariamente che quei tratti si sono sviluppati nell'infanzia».
Il Sé nell'ambito psicosociale è, quindi, il risultato di un processo ed è anche un processo in divenire, nonché un centro organizzatore dei motivi e degli scopi soggettivi e, inoltre, rappresenta al contempo un'identità e una molteplicità.
Il Sé è molteplice perché è costituito da parti che riguardano i rapporti con gli altri e parti che riguardano i rapporti con se stesso, sono, infatti, le varie unità esperienziali a formare il Sé nella sua totalità. Così si esprime Mead(3): «(...) i molteplici "Sé" elementari che costituiscono il "Sé" nella sua totalità, o in esso sono organizzati, costituiscono i vari aspetti della struttura di quel "Sé" globale, corrispondenti ai vari aspetti della struttura del processo sociale nel suo complesso; la struttura del "Sé" nella sua totalità è così un rispecchiamento del processo sociale nella sua totalità».
L'esperienza del Sé permane nell'individuo, dunque, relativamente stabile, anche se assume forme diverse in rapporto agli oggetti o alle persone con cui viene in relazione, ed è strettamente legato al mutare dei rapporti sociali. Sono allora necessarie strategie cognitive, come per esempio l'attenzione orientata, e cioè la tendenza a privilegiare le informazioni congruenti con il modo di considerare se stessi, per consentire al Sé una certa stabilità. L'identità soggettuale, nel suo definirsi in relazione alla realtà sociale, stante l'aumento della complessità e dell'indistintività di quest'ultima, appare sempre più frutto di un continuo processo di negoziazione, in accordo con l'ipotesi di un'attenuazione di una salda identità soggettuale. Nella sua teoria della rilevanza, Schutz affronta proprio un'analisi del Sé dal punto di vista di una sua possibile maggiore frammentazione e molteplicità, ben al di là delle classiche teorizzazioni cui abbiamo fatto riferimento.
A questo proposito R. Cipriani (1995)(4), così si esprime: «(...) in una società complessa si può dire che spesso l'individuo si trova ad essere straniero in patria, costretto come è a riorientare la sua identità tra incoerenze, scelte parziali, contraddizioni. Anzi, si può dire che esista una frantumazione dell'identità in una miriade di sub-identità che si rintracciano come catalizzate attorno a diversi ruoli sociali assunti di volta in volta ed attorno ai singoli livelli di esperienza».
Per M. Morcellini (1995) occorre ormai: «(...) una capacità quotidiana ed "empirica" di lettura del processo di costruzione dell'identità del soggetto - un processo sempre più variabile e per nulla scontato - ».
Potremmo poi considerare che la distinzione tra estroversione ed introversione operata da Jung, sembra evocare l'intreccio centro-periferia nel senso di Maddi. Per Jung la nostra epoca, è in un certo senso il centro della personalità che viene per lo più sollecitato, con la conseguenza di una condivisione acritica delle aspettative, delle preferenze generali, una sorta di estroversione unilaterale, con le parole di G. Girard (1992): «l'individuazione (...) propone per la periferia della personalità una possibilità di fuggire individualmente alla presa dell'estroversione conformistica dominante. D'altro lato, la ricerca di spazi creativi singoli animati invece dall'introversione e dal bisogno di autenticità articola e veicola fenomeni collettivi di resistenza».


Valenza terapeutica dei simbolismi sociali
Dopo aver sinteticamente accennato alla complessa problematica dell'influenza dei fattori sociali sulla costituzione dell'identità personale, affrontiamo ora la concettualizzazione dell'eventuale valenza terapeutica dei simbolismi sociali, intrecciandola con i contributi di diversi ambiti psicologici, anche in riferimento alla plausibilità di una concezione più ampia del costrutto di influenza terapeutica. Nell'ambito psicoanalitico la trasformazione terapeutica avviene nel contesto di un setting appropriato, lo scenario, cioè, che consente di contenere e di osservare la "trasformazione" dell'individuo e il coinvolgimento dell'analista. L'ambito psicoanalitico, quindi, non consente di teorizzare una qualche forma terapeutica nel senso da noi ipotizzato.
Noi consideriamo plausibile che il carico d'angoscia, dovuto alla sensazione di precarietà in cui si è gettati, se riconosciuto nella sua necessità, possa anche favorire spazi di maggior libertà e autenticità che, attraversati dal disincanto susseguente all'interiorizzazione della generale frammentazione dei significati, portino ad esiti dalle valenze terapeuticamente liberatorie.
Così si esprime G. Girard (1992): «un mondo percepito come un garantito può anche essere favorevole all'uomo che, giungendo a riconoscersi in continuo e mutevole rapporto con gli altri, è disponibile più di un tempo a seguire modalità non dogmatiche di adattamento, rendendosi maggiormente flessibile e aperto alla possibilità di sempre nuove esperienze».
Il tipo di influenza terapeutica che ipotizziamo effettuata dalla società di massa ha fenomenologicamente punti di contatto con una lettura psicosociale di tipo cognitivo nel senso che è anche un «accorgersi cognitivo di seguire una falsa pista a scopi di sopravvivenza, che può rendere disagiante e creativa la simulazione; creativa nel senso di un andare oltre i risvolti angosciosi che la società effimera e simulata può implicare. Contesto a doppia faccia, che da un lato si risolve in esiti sovente segmentalmente nefasti, ma dall'altro, nella rinuncia a credenze forti e assolute ormai smascherate nella loro fragilità conoscitiva e pericolosità comportamentale, dà la misura di nuova attitudine dell'individuo a recepire occasioni inventive dalle circostanze» (G. Girard, 1999).
Vogliamo però anche precisare che il nostro discorso vuole in qualche modo evocare, anche se in maniera latente, stante ovviamente la nostra personale difficoltà a delinearlo, l'ipotesi della possibilità concettuale di un costrutto di influenza terapeutica più flessibile, più sfumato nei contorni e nelle delimitazioni e, probabilmente, più in accordo con la teorizzazione husserliana di una coscienza umana essenzialmente intenzionale e di una soggettività, cioè, che è «la sede originaria di ogni formazione di senso e di validità d'essere» (G. Girard, 1992).
Rimanendo su un terreno più "empirico" possiamo rilevare che una lettura cognitiva psico-sociale, come detto, ci consente comunque di cogliere una dimensione "operativa" dei fenomeni cui facciamo riferimento.
Noi, nel solco della teorizzazione di G. Girard, ipotizziamo una valenza terapeutica dell'attuale società indistintiva, proprio per gli esiti liberatori di una maggiore duttilità nelle modalità esperienziali che può emergere dalle "strettorie" di un'angoscia inevitabile e costruttiva; il soggetto, allora, può arrivare a viversi in un senso più disincantato e liberatoriamente consapevole del qui ed ora momentaneo e frammentato della propria individualità.
Volgendo ora la nostra attenzione all'opera di Jung, vogliamo soffermarci su ciò che egli definisce la Coscienza dell'ombra, e, cioè, quel sostanziale riadattamento dell'atteggiamento cosciente ai fattori inconsci della personalità tendente all'assimilazione di qualità, impulsi e verità precedentemente negate. Per Jung la totalità della psiche ha la possibilità-necessità di autoregolarsi, per consentire a ciò che è-non è accolto e considerato, dalla coscienza, a ciò che sostanzialmente si oppone alla sua visione chiara, solare, monoteistica e normalizzatrice di compensare ed equilibrare in maniera inconscia l'unilateralità di fatto esistente. Il contatto con l'ombra è il primo passo con il quale questo meccanismo psichico si rivela all'individuo impegnato nel processo d'individuazione, con le parole di M.L. Von Franz(5): «Il processo di individuazione, la consapevole presa di contatto con il proprio centro interiore (nucleo psichico) o sé, inizia generalmente con una lacerazione della personalità e con la sofferenza che ne consegue (...). Una sola cosa sembra veramente utile: lo svolgersi direttamente, senza pregiudizi e con piena sincerità, verso l'oscurità che si approssima, a cercare di scoprirne il segreto e quello che pretende da noi».
L'attuale società indistintiva, come detto, può essere plausibilmente in grado di contribuire a smuovere le certezze illusorie dell'individuo riguardo la propria identità e il rapporto con la realtà; queste certezze potevano sembrare solide quando la realtà sociale era vissuta come fondata, ma tendono a frantumarsi quando, al posto di una fondazione ultima, si vive sapendo di simulare in un contesto di iperrealtà.
La società di massa è possibile che favorisca il riconoscimento angoscioso di una percezione più autentica della realtà e di se stessi, operando, così, una sorta di compensazione rispetto ad un orientamento coscienziale, monoteistico, unidimensionale; è possibile che favorisca uno sguardo più introverso e più disposto all'accoglimento delle parti negate di Sé.
Interessante ci sembra, poi, la teorizzazione degli junghiani: Fordham, E. Neuman e A. Samuels(6), che, se pur con accenti diversi, ritengono che la psiche sia percepibile soltanto in modo frammentario e che l'identità dell'individuo non costituisca un'unità indissolubile. Questa concezione, che va nel senso del discorso da noi sin qui svolto, la ritroviamo in particolare in A. Samuels: «Non ho alcun dubbio sulla sincerità di coloro che affermano di voler essere persone totali, o di voler entrare in un rapporto assolutamente totale con persone altrettanto totali, oppure che intendono vivere in un modo sentito come un'unità indissolubile, dubito che queste cose siano possibili, ma nella misura in cui sono desiderate, sono idee che devono essere accettate e che quindi io parzialmente condivido. Ciò di cui dubito è che queste idee possano costituire un fondamento adeguato per una psicologia che cerchi di porre le sue intuizioni e la sua conoscenza al servizio dell'uomo (...) mi sembra che la visione frammentaria sia inerente all'analisi, fondamentale per la sua teoria e la sua prassi».
Il confronto con la psicologia politeistica di J. Hillman ci sembra, poi, plausibilmente essere euristicamente feconda per il nostro lavoro.
Hillman considera terapeutico proprio il riconoscimento del fondo estremamente frammentato dell'essere umano, nel quale, temporaneamente, agiscono particolari immagini archetipiche (I molti modi dei molti dei). Abbiamo bisogno, per Hillman, di riconoscerle ed assimilarle e di aprirci alla conseguente consapevolezza del molteplice che è in noi, del frammentario, della contraddizione dolorosa, ma creativa, dell'ambiguità sostanziale che permea le nostre immagini, i nostri atti.
Viene qui evocato, ci pare, il tipo di consapevolezza che abbiamo ipotizzato presente nel possibile sguardo introverso del soggetto debole che coglie la realtà in trasparenza.
Anche per Hillman, in maniera che presenta analogie con il discorso che stiamo svolgendo, è terapeutico il riconoscimento della necessità dell'angoscia, che scaturisce dal senso patologicamente precario della nostra esistenza, e che non si può contrastare con più luce, solarità, distintività, alla maniera della norma Athenia, ma solo con l'ammissione della sua intrinseca necessità e con la flessibilità di uno sguardo politeistico che eviti l'irrigidimento di ruoli stereotipati, che tipicamente producono problemi conseguenti, e sia aperto alla disincantata consapevolezza, quindi, del continuo fluire dei nostri stati interiori, temporanei e cangianti, così come mutevole è il nostro rapporto con la realtà (l'Anima Mundi) e l'influenza che da essa riceviamo.
Per Hillman, coerentemente con questa visione, il processo di individuazione junghiano non rappresenta più la strada elettiva della terapia (Hillman, 1993): «Oggi l'unico modo che ancora mi consente di giustificare l'uso del termine individuazione, con la sua fede in un Sé interiore che distoglie il mio interesse dal mondo per dirigerlo verso il mio processo, il mio viaggio».
Ancora Hillman così si esprime (1993): «Ci sono voluti alcuni decenni perché la terapia imparasse che il corpo è psiche, che ciò che il corpo fa, come si muove, come sente, è psiche (...) il passo successivo è quello di accorgersi che la città, dove il corpo vive e si muove, dove la rete relazionale si intesse, è anch'essa psiche». E poi ancora «Ora che il secolo si sta chiudendo, abbiamo cominciato a pensare alla mente umana non più tanto come ad una parte della natura fisica e della cultura storica, come ai tempi di Freud e di Jung, ma come a qualcosa che partecipa alle immagini dei media».
Ed è proprio la società dei mass media che a noi sembra possa agire come contesto nel quale reinquadrare i significati che l'individuo attribuisce alle sue esperienze, piuttosto che come momento di conferma delle sue premesse epistemologiche ed emotive, e questo è quanto "normalmente" accade in psicoterapia.
Non crediamo che la società delle comunicazioni di massa possa essere facilmente etichettata in maniera positiva o negativa, il nostro assunto è che la società indistintiva attuale, nel suo complesso, possa, con i suoi simbolismi, comportare non solo un ammorbidimento dell'identità soggettuale e un "non crederci" generalizzato, ma che il riconoscimento di questo processo abbia valenza terapeutica innanzitutto nella misura in cui può indurre a non tamponare l'angoscia che ne deriva, ma ad ammetterne (come nell'insegnamento di Kierkegard) la necessità ed ancora più la "produttività".
Un non crederci generalizzato può favorire forme superficialmente ludiche di adattamento, o forme di simulazione semplicemente agite perché non perscrutate, o effetti psicologici di deresponsabilizzazione o di unilitarismo. La natura frammentata e temporanea dell'identità soggettuale, che abbiamo delineato, può in effetti consentire il succedersi di questi stati.
Tuttavia, è possibile che il soggetto che sa di simulare possa anche beneficiare dell'impensato effetto terapeutico di uno sguardo più introverso che: «Da un lato si estrinseca in comprensione che attenua l'indignazione introversa, dall'altro si rende proclive comportamentalmente all'azione adattata verso un mondo che si dice razionale tanto più quanto meno lo è (coscienza Athenia). Deve però resistere al trauma dell'angoscia che, se consapevolizzata nella sua necessità, si rende allora terapeutica, quasi evanescente (diventando orizzonte o sfondo)» (G. Girard, 1999).
Ammettere la necessità dell'angoscia («(...) l'angoscia non è suscettibile all'analisi; si fa strada ineludibilmente finché non ne viene ammessa la necessità», Hillman 1991) può aprire ad una visione del mondo senz'altro poco rassicurante, ma, come detto, anche e soprattutto, più autentica, più fluida, meno intransigente e ossessivamente proclive ad eludere il qui ed ora.
Se uno sguardo introverso, "debole", politeistico, nel disincanto trova la sua terapia (G. Girard), allora è una tollerante flessibilità che emerge, aperta alle suggestioni vivificanti dell'incontro, della seduzione (Baudrillard, 1980), della "verità" che vive temporaneamente nel dialogo e anche all'esperienza, crediamo, contenente, reintegrativa, "deanestetizzante" (e terapeutica), per esempio, dell'atteggiamento dell'amore. In tal modo "l'essere-nel mondo" dell'individuo potrebbe essere più disponibile alla sfida di una consapevolezza "fenomenologica" amplificata e molteplice, potendo contenere i rischi di un restringimento "unidimensionale" delle valenze plausibilmente patologiche.


BIBLIOGRAFIA

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Baudrillard J., (1980), Della seduzione, Bologna, Cappelli.
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Bianciardi M., Telfener U., (1995) Ammalarsi di psicoterapia, Milano, Franco Angeli.
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Dovolich C., (1995), Derrida tra differenza e trascendentale, Milano, Franco Angeli.
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Gergen K.J. Gergen M.M., (1990), Psicologia sociale, Bologna, Il Mulino.
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Vattimo G. (1984), Al di là del soggetto, Milano Feltrinelli.

Note:
1 Il termine soggetto debole è stato teorizzato da G. Girard (ad esempio, Girard 1999), per affrescare la formidabile pressione sull'individuo di una realtà non più fondata e fondativa e che presupponeva pertanto un soggetto "forte". La psicologia teorizzata da G. Girard è "debole" in quanto testimonia, all'interno e all'esterno degli individui, la molteplicità dei paradigmi culturali e sociali e la sostanziale temporalizzazione del soggetto post-moderno (Heidegger).
2 Citato in Gentile, 1995.
3 Ibidem
4 In Complessità sociale e identità (citato in Morcellini, 1995).
5 In Prefazione a Jung, 1988.
6 Rivista di Psicologia Analitica a cura di A. Carotenuto, n°23, Astrolabio, 1981.

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