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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: SCIENZE E PENSIERO
Area: Sociologia

La relazione che si prende cura: i nuovi setting della prevenzione

di Roberta Campo* e Laura Pavia**



Una delle scommesse con la quale, oggi, sono chiamati a confrontarsi gli operatori che si occupano di lavoro sociale è quella di riuscire a mettere a punto "macchine preventive" (Crispi M., Mangia E., 2000) capaci al contempo di soddisfare i bisogni naturali di protagonismo dei giovani e di ridurre i rischi cui possono andare incontro durante il loro percorso di ricerca di significati da attribuire alla propria esistenza.
Non a caso gli operatori sociali vengono sempre più visti come agenti di cambiamento e di sviluppo sociale e culturale, opera tanto difficile quanto complessa poiché significa confrontarsi con "setting" di lavoro sostanzialmente diversi da quelli "tradizionali" (quali le istituzioni pubbliche e private) e che sono caratterizzati da confini (formali e mentali) più sfumati e dall'introduzione di una molteplicità di variabili (non sempre definibili aprioristicamente) che possono interferire e decretare il successo o il fallimento di un intervento.
Dopo la stasi che ha caratterizzato per diversi anni la programmazione di disegni sulle politiche giovanili, oggi, si va facendo strada la necessità di provare a delineare, sia a livello teorico che operativo, tutta una serie di interventi che vedono contemporaneamente impegnati in modo attivo e concreto operatori del settore, amministrazioni, associazioni del pubblico e del privato sociale. L'interesse generale è rivolto alla definizione di politiche di intervento e di iniziative rivolte all'area della "normalità" che promuovano il miglioramento della qualità della vita e lo sviluppo e la costruzione di "luoghi sociali" intesi come laboratori esperienziali dove i giovani possano costruire percorsi identitari autentici, sia a livello personale che sociale. Ciò significa immaginare la progettazione sociale come qualcosa che possa essere capace di rispondere a bisogni concreti, significa prendere le distanze da tutti quegli approcci ideologici che, benché rassicurino l'operatore, non permettono all'utenza giovanile di dare corso a nuove e autentiche progettualità. Riflettere sulla prevenzione e sul modo di fare prevenzione, oggi, significa non solo concentrare gli sforzi sulla comprensione dei contesti ordinari dell'esperienza ma anche sapersi confrontare con la molteplicità di domande che oggi i giovani rivolgono agli adulti.
Un esempio di questo cambiamento culturale all'interno delle politiche giovanili è rappresentato da tutte quelle azioni "al plurale" (Colleoni M., 2000) fatte di scambi e di mediazioni quali gli interventi di educativa di strada, interventi che guardano gli adolescenti anche da un punto di vista territoriale. Alcune ricerche, infatti, hanno dimostrato come, oltre al sistema valoriale, l'ambiente urbano possa essere considerato come uno tra i tanti fattori che concorrono all'insorgenza del disagio sociale. Se è vero che la qualità urbanistica (e di conseguenza la qualità sociale) di un territorio influenza i percorsi di insorgenza del disagio, allora si può ipotizzare anche una sua azione, quale fattore di protezione sui generis, per contrastare il disagio stesso.
L'implementazione di politiche sociali rivolte ai giovani nell'ambito degli interventi di educativa di strada fa sorgere all'interno della comunità scientifica la necessità di iniziare a confrontarsi e interrogarsi sull'efficacia/efficienza degli interventi realizzati, sulle logiche che hanno guidato il perseguimento degli obiettivi ma anche e soprattutto sulle modalità operative. Riflettere su tali questioni significa in primo luogo iniziare a ragionare all'interno di un'ottica della trasparenza del lavoro svolto con l'obiettivo principale di impostare scientificamente la propria azione di cambiamento.
Gli elementi di conoscenza e di riflessione che scaturiscono da questo tipo di analisi offrono al campo della prevenzione e della clinica, lo spunto da cui partire per cercare di tradurre la consapevolezza della complessità sociale e strutturale implicata nel fenomeno, in soluzioni operative maggiormente adeguate e convincenti.
Riteniamo che all'interno della psicologia clinica, il modello gruppoanalitico possa dare un contributo fondamentale per l'elaborazione di strategie preventive e di promozione del benessere in quanto "apre nuovi spazi di elaborazione e di analisi per la dimensione sociale dell'esperienza umana, restituendole ampiezza e spessore" (Di Blasi M., Lo Verso G., 1994). Da questo punto di vista l'agire preventivo deve avere prima di tutto finalità "trasformative" delle esperienze emotive, affettive, cognitive e simboliche che mantengono i soggetti vulnerabili al rischio, deve, cioè, essere efficace nel sostenere gli adolescenti nel difficile compito della crescita.
Per molti giovani, infatti, l'assunzione di comportamenti che possono ledere il proprio o l'altrui corpo può essere letta come "ricerca violenta e anomala di significato" (Le Breton D., 1995, p.107) che rispecchia una "sconnessione dei significati e dei valori collettivi, una carenza di holding sociale" (ibidem, p. 64). Nell'impatto con il mondo sociale capita spesso che l'adolescente si trovi quantomeno disorientato poiché l'immagine di sé, informata per lo più da codici relazionali saturi, non riesce a reggere l'impatto con le regole sociali. Di contro, l'odierno contesto culturale non facilita certo il progressivo ingresso dell'adolescente all'interno del mondo sociale; davanti ad un mondo sempre più tecnologico, liquido e flessibile, che guarda al futuro senza particolari attrattive e in cui regna l'esaltazione e l'autocelebrazione del sé l'adolescente trova difficoltà a confrontarsi e ad interrogarsi con un "pensiero" sociale solido.
Gli interventi preventivi dovrebbero, quindi, essere maggiormente declinati all'interno di una funzione di holding sociale, garantendo l'esistenza di contesti esperienziali all'interno dei quali i giovani possano fare esperienza delle circostanze istituzionali che determinano la loro nascita sociale; oggi più che mai bisognerebbe supportare i giovani durante il loro processo di inserimento all'interno del sistema sociale, sostenendoli nell'elaborazione delle tematiche della separazione e della crescita psicologica e nell'interpretazione delle regole che consentono l'esistenza del "Noi-sociale".
Il modello gruppoanalitico, che vede la relazione come un fatto originario e costitutivo della mente umana, permette di inquadrare un agire preventivo che riesca ad intervenire in maniera efficace e convincente sulle "modalità che attraversano i sistemi umani (e ciò vuol dire) istituire uno spazio relazionale altro, vuol dire utilizzare la relazione come metodo di conoscenza-intervento" (Di Maria F., Lo Piccolo C., 2001). La relazione, intesa come luogo dello psichico, diviene lo strumento per lavorare con lo stesso. Il lavoro clinico, rifacendosi a teorie e metodi relazionali, si configura come campo esperienziale che istituisce una matrice relazionale all'interno della quale diviene possibile esprimersi e dove è possibile trovare un orecchio attento e costante nel tempo.
Il pensare la relazione a partire da un modello teorico-pratico gruppale, a nostro avviso, sembra essere la formula che meglio si adatta in campo psicosociale in quanto lavorando con i gruppi informali di adolescenti diviene possibile attivare potenzialità trasformative delle relazioni interne determinanti lo stato di benessere o di malessere. Utilizzare il setting gruppale significa dare la possibilità ai gruppi (e quindi anche agli individui che lo compongono) di esprimere sentimenti e affetti. La relazione, se improntata sulla co-narrazione e sul riattraversamento delle proprie matrici familiari, culturali, sociali, spesso rigide e saturate da "pensieri già pensati" da qualcun altro, permette la creazione di spazi e tempi di parlabilità e di pensabilità delle emozioni e degli affetti collegati al processo di crescita. Una prevenzione, come già ricordavano Di Blasi M. e Lo Verso G. nel 1994 "che non intervenga sulle reti del simbolico e del relazionale veicolando affetti ed emozioni, ma che rimanga ancorata al piano razionale e cognitivo, ci sembra inevitabilmente destinata all'impotenza di fronte a quei legami interni a ogni individuo e a ogni cultura che, paralizzando e impedendo l'incontro con l'alterità, sono destinati a produrre patologia".
La sfida che oggi si pone la psicologia clinica è, quindi, la costruzione di modelli di intervento di comunità capaci di fornire la partecipazione dei giovani alla vita sociale ricca e multidimensionale.


Educatore, operatore o animatore di strada?
é difficile riuscire a chiarire il profilo professionale dell'educatore di strada, sia perché tale figura è relativamente nuova, sia perché è continuamente aperta ad evoluzioni legate all'operatività stessa. Descrivere con accuratezza cosa si intenda quando si parla di lavoro di strada è un'operazione ardua in quanto non vi è un'uniformità terminologica per denominare tale figura professionale.
Da un'analisi dettagliata dei progetti che negli ultimi anni sono stati svolti, ciò che si evince è una proliferazione terminologica per indicare chi svolge lavoro di strada, chiamandolo ora operatore di strada, ora educatore di strada, ora animatore socio-culturale o ancora unità mobili. é come se, pur riferendosi spesso alla stessa figura professionale, ogni progetto tentasse di dare una propria definizione di quello che è il lavoro di strada testimoniando così una arretratezza concettuale della teoria della tecnica rispetto all'operatività stessa.
Nonostante queste brevi considerazioni rispetto alla difficoltà di definire il bagaglio specifico professionale dell'educatore di strada, ci sembra di potere provare a rintracciare un file rouge che ne accomuna l'operatività:
- deve avere un atteggiamento non giudicante, ma, come suggerisce De Leo G. (1995), di curiosità verso ogni tipo di soluzione culturale che il giovane proponga per stabilire un rapporto significativo, e che contemporaneamente riesca a sollecitare la curiosità stessa dei ragazzi al fine di un lavoro produttivo con loro. Ciò però non significa accettare e giustificare in maniera incondizionata gli stili individuati nel gruppo. Bisogna stare attenti, infatti, a non produrre false alleanze e collusioni, il più delle volte difensive rispetto al ruolo educativo assunto, che di fatto inquinerebbero e minerebbero a livello operativo e progettuale il lavoro;
- deve presentarsi come un fluidificatore e mediatore delle comunicazioni con le istituzioni (scuola, assistenti sociali), e con gli adulti in genere nei luoghi, per lo più informali, in cui questi si rapportano con i giovani;
- deve sapersi impegnare in un rapporto stabile: come dice Cotturri G. "è la permanenza nel rapporto che apre spazi di ascolto a costituire la pre-condizione per l'affidamento interpersonale e per la disponibilità a farsi avvicinare dall'altro" (1995).

Il set(ting)
In gruppoanalisi per set(ting) si intende l'"organizzatore psichico di carattere transpersonale, campo mentale condiviso che consente di pensare i fenomeni (...) e di dare significato a essi e di creare nuove connessioni e relazioni" (Lo Verso G., Giannone F., 1994, p. 42).
Il setting è, quindi, un luogo fisico e mentale, temporalmente determinato, che permette la lettura dei fenomeni che accadono e che determina, sia l'individuazione di ciò che è significativamente importante, sia il modo stesso di agire in maniera trasformativa.
Gli educatori di strada normalmente si recano là dove i giovani si incontrano, svolgendo lavoro di animazione e di socializzazione volto al miglioramento delle relazioni interpersonali, alla conoscenza di nuove opportunità sociali, culturali, di lavoro e modi altri di impiegare il proprio tempo libero. Il setting dell'educatore è, quindi, la strada, un contesto strutturalmente più aperto e meno rigido rispetto a quello che fino ad ora siamo stati abituati a pensare quando si parla di setting. L'intervento in strada, infatti, si qualifica come un intervento de-istituzionalizzato nella misura in cui l'obiettivo non è quello di occupare la strada con un ennesimo servizio che dia una risposta onnicomprensiva all'inadeguatezza dei servizi, e neppure di attivare un'ulteriore forma di controllo sociale, ma si qualifica come un "esser-ci": essere comunque presenti in un luogo in cui il copione tipico non prevede la presenza di nessun operatore e nonostante tutto continuare ad esserci. Solo in questo modo è possibile andare incontro a forme di disagio non immediatamente intercettabili in un setting formale e istituzionalizzato (Devastato G., 1995).
Il lavoro in strada non si pone tanto l'obiettivo del contenimento del disagio manifesto quanto della gestione dei rischi alle quali oggi lo stazionare in strada espone e dell'aumento della capacità di coping. A partire da quest'ultimo obiettivo diviene possibile immaginare il lavoro in strada in tutte le forme che si possono immaginare. Il setting strada se da un lato permette un'operatività più fluida e quindi meno rigida, dall'altro si configura come setting non protetto all'interno del quale il lavoro di supervisione consente di contenere ansie e paure che inevitabilmente lo stare in strada attiva.
Lungi dall'avere finalità correttive e impositive dei comportamenti devianti, l'educativa di strada si pone quale obiettivo principale quello di creare spazi fisici, mentali e simbolici all'interno del quale possano avvenire scambi emotivamente significativi.

Brevi considerazioni generali
Da quando il "fare prevenzione" si è tradotto in un'ansia del fare, si è assistito ad una proliferazione di interventi di "sensibilizzazione", "alfabetizzazione" e "informazione" su eventi e comportamenti preoccupanti.
Da quando però si è diffusa tra gli operatori che operano nel campo della prevenzione la consapevolezza che l'essere bene informati sui rischi non sempre incide su atteggiamenti, cognizioni, emozioni e sui processi di elaborazione psicologica, gli interventi di prevenzione stanno iniziando ad abbandonare le strategie dissuasive per orientarsi sempre di più verso pratiche attive e relazionali. Bricolo R. e Banon D. (2002) ricordano come gli interventi preventivi, se vogliono realmente fare "presa" tra i giovani, dovrebbero presentare alcune caratteristiche distintive:
- la prima riguarda principalmente gli operatori che lavorano nel settore: qualunque intervento preventivo dovrebbe concepire al proprio interno spazi mentali dove gli operatori possano accrescere le proprie competenze relazionali. Tale tipo di preparazione è di fondamentale importanza per migliorare la qualità del lavoro di chi andrà a lavorare con soggetti che possono trovarsi in momenti di vulnerabilità psicologica (Bricolo R., Banon D., 2002);
- la seconda può essere riassunta nella formula di "atteggiamento inesigente" (ibidem) che dovrebbero possedere gli operatori. Questo significa abbandonare l'idea di potere indurre nel soggetto comportamenti definiti aprioristicamente sani cercando, invece, di impegnarsi stabilmente all'interno di una relazione che de-codifichi e risponda alle domande individuali e sociali;
- la terza riguarda il legame esistente tra relazione educativa e contenuto dell'agire preventivo. Se come già abbiamo messo in evidenza l'informazione da sola non basta a comportare cambiamenti significativi negli individui, questa però può divenire un'occasione per stabilire e consolidare le relazioni;
- la quarta indicazione che gli Autori danno riguarda le caratteristiche che dovrebbero possedere gli interventi. Questi ultimi dovrebbero "collocarsi in un progetto condiviso con tutti coloro che operano e che hanno contatto direttamente o trasversalmente (con i giovani) cercando di rispettare le caratteristiche del contesto, la sua filosofia, la tipologia dell'utenza;
- l'ultima caratteristica concerne il lavoro di equipes che dovrebbe avere come finalità la costituzione di spazi all'interno dei quali relazionarsi con gli adolescenti. Tali spazi, che prendono forma sia a partire dalle caratteristiche spazio-temporali dell'intervento sia a partire dal "setting interno" dell'operatore (si intenda qui la formazione personale e professionale degli operatori), dovrebbero permettere l'instaurarsi di "relazioni di qualità, intensità e durata molto diversificate e soggettivamente calibrate, comprendendo la possibilità (e le competenze) di effettuare anche presa in carico di tipo clinico (ibidem).
é possibile parlare di lavoro sociale a partire da due punti di vista: uno incentrato sui contenuti, ovvero descrivendo le finalità sociali dell'intervento, uno che incentrato sullo stile di lavoro descriva come si fa ciò che si fa. Nel nostro specifico, il lavoro sociale muove da un'ipotesi di lavoro pedagogico che, calato nelle trame delle relazioni e dei vissuti, possa consentire percorsi di autonomia e di co-costruzione della realtà. Ciò significa parlare di uno stile relazionale dell'intervento educativo che si configuri come momento di dialogo, di elaborazione e di ri-significazione delle esperienze e che alimenti forme di direttività insature (Colleoni M., 2002) che facilitino nel giovane la possibilità di impadronirsi e di trasformare la realtà. Per stabilire una relazione significativa con i giovani non c'è bisogno di elaborare strategie complicate in quanto basta presentarsi loro quali interlocutori competenti e disponibili, basta che loro sentano che all'interno della relazione sia possibile esprimere "frammenti di identità nascenti" (ibidem), basta "aiutarli a consistere (corsivo nostro) in qualcosa che tocchi i loro sogni e li aiuti ad attraversare i ponti delle loro transizioni evolutive; a costruire e sperimentare storie emozionanti che vale la pena di vivere e raccontare, a se stessi e agli altri; a trovare ragioni fondate per sentirsi appartenenti a quel paese, e per poterlo reinterpretare e migliorare; a trovare adulti con i quali intessere dialoghi, anche conflittuali, per riuscire a porsi domande e a trovare chiavi di significato attorno ai fatti della vita, la loro e quella del proprio paese" (ibidem, pp. 80/81).
La dimensione educativa della prevenzione, così, dovrebbe fornire le risorse emotive e cognitive per stimolare la scelta di comportamenti consapevoli e positivi.

Bibliografia:
Bricolo R., Banon D. (2002), Le droghe tra desiderio e piacere, Relazione presentata alla II° Conferenza Internazionale Club Health, Rimini, 25-28 marzo 2002.

Colleoni M., Adolescenza, territorio e lavoro sociale. Un'ipotesi per lavorare con adolescenti nei contesti locali, in Animazione Sociale, n. 6/7, giugno/luglio 2002.

Cotturri G., Identità dei giovani e ruolo di comunità locale e Stato, in Progetto Formazione Capodarco ( a cura di), L'operatore di strada, Carocci, Roma, 1995.

Crispi M., Mangia E., La macchina della prevenzione, in Crispi M., Mangia E., Il disagio giovanile contemporaneo. Immagini di un'adolescenza tradita, Ila Palma, Palermo, 2000.

De Leo G., I contesti simbolici nella sperimentazione territoriale dei giovani a rischio di devianza, in Progetto Formazione Capodarco ( a cura di), L'operatore di strada, Carocci, Roma, 1995.

Devastato G., Progetto Moby Dick. Un Social travel bus nelle piazze di Napoli, in Progetto Formazione Capodarco ( a cura di), L'operatore di strada, Carocci, Roma, 1995.

Di Blasi M., Lo Verso G., Gruppoanalisi e prevenzione primaria della salute mentale: alcune ipotesi, in Lo Verso G. (a cura di) , Le relazioni soggettuali, Bollati Boringhieri, Milano, 1994.

Di Maria F., Lo Piccolo C., Criteri di coerenza tra teoria e pratica in psicologia clinica, in Moderato P., Rovetto F., ( a cura di), Psicologo: verso la professione. Dall'esame di Stato al mondo del lavoro, McGraw-Hill, Milano, 2001.

Giannone F., Lo Verso G., Episteme della complessità e fondazione della psicologia clinica, in Lo Verso G. (a cura di) , Le relazioni soggettuali, Bollati Boringhieri, Milano, 1994.

Le Breton D. (1995), La passione del rischio, Edizioni Gruppo Abele, Torino.



* Roberta Campo, Dottoranda di ricerca presso l'Università degli Studi di Palermo
** Laura Pavia, Dottoressa in psicologia

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