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PSYCHOMEDIA
TERAPIA NEL SETTING INDIVIDUALE
Psicoanalisi in America Latina



Adolescenza e adozione

Gina Khafif Levinzon*


  1. Adolescenza: sviluppo e turbolenza

L’adolescenza è un periodo di crescita dove vengono acquisiti aspetti essenziali della personalità di una persona. Il giovane scopre quello che lo rende unico come individuo, distinto o simile nella relazione con la sua famiglia e con i suoi amici. Egli cerca di formare mentalmente una sua identità, e allo stesso tempo discriminare sia quello che lo separa sia quello che lo lega alle persone della sua cerchia.

In questa fase evolutiva l’adolescente deve affrontare i mutamenti conseguenti alla pubertà e allo sviluppo della capacità sessuale. Coscientemente o incosciamente, egli rivive situazioni del passato. Le caratteristiche del passaggio nella adolescenza dipendono dalle esperienze infantili della persona, dalle sue relazioni affettive primarie, dal suo ambiente sociale, e dal modo come ha vissuto il conflitto edipico, con le proprie angosce e timori (Levisky, 1998).

Il giovane arriva all’adolescenza con una sua storia personale che include un sistema di difese nel confrontarsi con le tensioni e con i conflitti. Certe caratteristiche e tendenze personali ereditate o acquisite, fissazioni a modalità pre-genitali dell’esperienza istintiva e controlli associati a lacune per giungere alla maturità edipica e pre-edipica persistono anche nel giovane a partire dalla sua vita infantile. Come afferma Winnicott (1965), “molte cose permangono conservate nell’inconscio, e molte non sono conosciute semplicemente perché non sono state sperimentate” (p. 117). La domanda da farsi nell’adolescenza è: come questa organizzazione preesistente dell’Io reagirà all’aumento della pressione dell’Es in questa nuova fase? Come sarà la personalità del giovane? Come potrà confrontarsi con il suo nuovo potere di distruggere o anche di uccidere, potere che prima non esisteva e non complicava nell’infanzia i sentimenti di odio?

Trovare l’equilibrio in questa fase diventa un procedimento difficile. L’adolescenza si caratterizza per essere in un periodo di turbolenza, che coinvolge anche tutti quelli che fanno parte della vita del giovane. La normale ambivalenza tra il crescere e rimanere bambino spesso causa turbolenza nella spazio familiare.

Il conflitto tra i genitori e i figli adolescenti è normale, ed è, in una certa misura, anche previsto, per la natura di questa tappa dello sviluppo. Gli adolescenti si rendono conto che i valori con i quali vennero creati dai genitori non sono universali. Spesso fanno dei confronti per verificare se altri valori gli sono più confacenti. I segnali di ribellione indicano un movimento per l’affermazione e la differenziazione, pertanto alla fine di questo processo quasi sempre si arriva più o meno ad una identificazione parziale con l’insieme degli ideali trasmessi dai genitori. Questi ultimi affrontano la sfida di maneggiare le situazioni vissute in modo da circoscrivere i conflitti e non permettere che avvengano grandi crisi.

 

  1. L’Adolescente adottato e la sua famiglia

La famiglia adottiva è caratterizzata da un legame di un bambino con i genitori con i quali non ha un legame di sangue. L’adozione permette ai bambini che vengano soddisfatte le loro necessità fondamentali, tanto fisiche che emozionali che si aspettavano. Allo stesso tempo, è possibile ai genitori di esercitare la loro funzione genitoriale quando non l’hanno potuto fare per limitazioni biologiche o quando hanno escluso per qualche motivo di far nascere un bambino.

Possiamo dire che la famiglia adottiva si confronta con le stesse tematiche di qualsiasi altra famiglia. Allo stesso tempo, ha alcune peculiarità che sono proprie dell’universo dell’adozione e influenzano il processo di crescita del bambino e del suo relazionarsi con la famiglia. Alla fine, tra i genitori adottivi e il bambino ci sono i genitori che l’hanno generato, ed una storia del bambino che precede l’adozione. Nello stesso tempo, anche le motivazioni e le angosce dei genitori adottivi rappresentano un ruolo preponderante nel contatto con il bambino.

L’adolescente adottato, così come in generale tutti lo fanno, si confronta con il compito di sviluppare un’identità diversa e di acquisire indipendenza in rapporto alla famiglia che lo ha messo al mondo. Egli si vede, intanto, davanti ad un cammino più difficile nella formazione della sua auto-immagine ed affermazione. Avendo due coppie di genitori, la biologica e la adottiva, egli ha più persone con le quali si può identificare e dalle quali deve separarsi. Aldilà di questo, egli ha varie sentimenti, a volte conflittuali e ambivalenti, associati alle figure genitoriali.

Dai primi momenti della pubertà i giovani adottati immaginano, alcune volte segretamente, cosa sono e come appariranno quando saranno adulti. Loro cercano figure di riferimento nell’ambiente per identificarsi. Quando i segnali di cambiamenti appaiono nel corpo, l’adottato immagina dove sfocerà e cosa ciò significherà, già che non può confrontarli con i genitori naturali. Le bambine non hanno informazioni su quando le loro madri hanno avuto le mestruazioni per la prima volta, se i loro seni erano grandi, e così in avanti. Nello stesso modo, il bambino non sa l’altezza di suo padre, se fosse grasso o magro o se avesse tendenza alla calvizie.

I giovani sanno, nel frattempo, che i loro genitori naturali avevano una vita sessuale attiva, e anche irresponsabile per quanto riguarda la prevenzione anticoncezionale. Incontriamo alcune volte adolescenti che si identificano sessualmente con l’immagine che si sono fatti dei loro genitori naturali, e che paragonano i loro impulsi naturalmente esacerbati in questa età, con comportamenti attribuiti ai genitori di origine. Può anche accadere, come reazione difensiva a questo tipo di identificazione, che l’adolescente si allontani dalle manifestazioni naturali della sessualità di questa fase, con il timore che esse lo vincolino ad un immagine dei suoi genitori naturali, considerati non affidabili o “ cattivi modelli”. Così, le identificazioni degli adolescenti adottati sono in relazioni a desideri e paure, così come a sentimenti di lealtà e slealtà in relazione alle due coppie di genitori.

I genitori adottivi incontrano, aldilà delle difficoltà proprie del periodo dell’adolescenza, questioni specifiche dovute al campo dell’adozione. Per il fatto di non essere i genitori biologici del loro figlio, per esempio, si sentono più costretti a imprimere nel giovane il loro sistema di valori. Dato che non possono trasmettergli la loro intelligenza o altri aspetti genetici, molte volte sentono che la legittimità delle filiazione è nella trasmissione del suo modo di comprendere e confrontarsi con il mondo. Il figlio che discute con forza su questi valori può aprire uno spazio alle “fantasie del cattivo sangue” (Levinzon, 1999, 2004), cioè una fantasia che questo si deve a una cattiva eredità genetica, e che se il giovane fosse figlio biologico non ci sarebbero differenze.

Quando l’adolescente sente che i genitori sono specialmente vulnerabili ai riferimenti con i genitori naturali, può usarli come una specie di arma nei conflitti con i genitori adottivi. Affermazioni come: “voi non siete i miei genitori!”, o “ho avuto una cattiva sorte nell’essere stato adottato da voi...”, o anche “mia madre naturale mi avrebbe compreso!”, possono essere detti con voce drammatica dall’adolescente, come un modo di tentare di provocare i genitori o diminuire i limiti imposti.

Per i genitori adottivi, essere accusati di “non amare il figlio a sufficienza”, generalmente fatto comune nei giovani, può causare un dolore maggiore di quello che si sarebbero aspettati. Loro si trovano davanti a dei dubbi su quanto l’amore che lega le famiglie adottive è simile a quello che unisce le famiglie naturali, e sull’importanza del legame di sangue. I sentimenti ambivalenti in relazione all’adozione possono venire a galla, e quando non sono sufficientemente elaborati, impediscono alla coppia parentale, che non si sente idonea, di affrontare con tranquillità e lucidità i momenti di turbolenza dell’adolescente. In questi casi, i genitori si distaccano dal comprendere con la loro sensibilità quello che realmente sta angosciando il figlio. Aldilà di questo, lo stabilire dei limiti da parte dei genitori adottivi può provocare confusione o contraddizione, ciò risulta pregiudiziale per la formazione della personalità del giovane e per l’equilibrio familiare.

I momenti di conflitto portano con loro molte volte, in primo piano, i pensieri che i membri della famiglia, genitori e figli, tentarono di lasciare lontano da loro stessi, per esempio: “come sarebbe stato se noi fossimo legati da un anello genetico?”; “Un mio vero figlio non si comporterebbe così”; “se io vivessi con mia madre biologica sarei molto felice?” ...

In alcuni casi l’adolescente ricorre a comportamenti molto indisciplinati, e cerca di imitare quello che immagina sarebbe caratteristico di sua madre o padre naturali. Questo può accadere quando i genitori adottivi hanno fatto molte allusioni di disapprovazioni sui genitori naturali del bambino, con paragoni negativi verso di loro. Il giovane cerca in questo caso di “riabilitare” i suoi genitori naturali e allo stesso tempo le sue “radici personali” si identificano con loro, o nello stesso tempo può sfidare i genitori adottivi con i quali egli sente che non si metterebbe mai in contatto.

Nella ricerca su se stesso, l’adolescente si può interessare sia alla sua origine e sia su quella dei suoi genitori naturali. Molte volte, egli si interessa solamente delle informazioni necessarie alla formazione più stabile della sua identità. La ricerca concreta di un incontro con i genitori naturali è molto rara, per non andare incontro a fantasie e resistenze relative tanto a sentimenti di abbandono quanto alla paura che i genitori adottivi rimangano afflitti da tutto ciò. E’ importante che in questi momenti il giovane abbia l’appoggio e la tranquillità dei genitori adottivi, affinché questa indagine possa rappresentare una ricerca giovevole nella costruzione di una identità propria, e non un “incubo” terribile, pieno di fantasmi.

 

  1. Salute e malattia nella famiglia adottiva

La modalità di adozione include vari punti che possono influenzare in modo determinante lo sviluppo sereno del bambino e dell’adolescente e la relazione con la sua famiglia:

- La carica genetica del bambino, l’età e le condizioni nella quale è avvenuta la separazione dai genitori naturali, i segni dell’abbandono e i traumi accaduti nel periodo anteriore all’adozione.

- La motivazione all’adozione da parte dei genitori adottivi, la stabilità di una relazione coniugale, il desiderio di adozione ben elaborato da parte dei due, la preparazione per affrontare le particolarità che la situazione di adozione impone.

Essendo passato attraverso il trauma della separazione dai genitori naturali e molte volte da situazioni di protezione e di abbandono, il bambino è molto suscettibile alle turbolenze familiari e al sentimento di ambivalenza o rifiuto riguardo la nuova famiglia. Nel giungere nell’adolescenza, i sentimenti di inadeguatezza, di mancanza d’integrazione e i conflitti mal risolti sono intensificati e portano a volta a situazioni molto instabili. E’ comune ricevere in consultazione genitori adottivi di adolescenti che sottolineano le difficoltà che compaiono nell’adolescenza. Un ascolto attento, spesso identifica le radici della turbolenza nel periodo anteriore alla crescita, quando ancora c’era, in un certo modo, una forma di contenimento degli affetti esplosivi. I cambiamenti portati dall’adolescenza hanno alla base questo equilibrio precario e rappresentano una sfida tanto per il giovane quanto per i genitori adottivi. Come afferma Winnicott (1965), l’ambiente esercita, in questo stadio, un ruolo di importanza immensa. Molte delle difficoltà attraverso le quali passano gli adolescenti e che richiedono l’intervento di un esperto derivano per la maggior parte da condizioni ambientali.

Presenterò di seguito un caso clinico che evidenzia la turbolenza che può accadere in una famiglia adottiva nella quale una successioni di deficit ambientali si ripercuoteranno in episodi intensi di sofferenza tanto per i genitori come per l’adolescente.

 

  1. Bruno, Lurdes e Jurandir: una storia disturbata.

I genitori di Bruno, Lurdes e Jurandir, chiesero aiuto a causa dei suoi intensi comportamenti anti-sociali. Bruno, un adolescente di 15 anni, mentiva, era ribelle, aveva comportamenti vandalici, furti, e stava diventando estremamente violento. Altra lagnanza dei genitori e motivo di un rabbioso confronto erano i suoi risultati scolastici. Anche se abbastanza intelligente, Bruno non si dedicava e i suoi voti erano sempre stati bassi, ciò li angosciava molto. Le maggiori difficoltà cominciarono ad apparire nella pubertà, e d’allora egli ogni volta di più sembrava senza controllo. Secondo i genitori, “fuori di casa era un santo”. Si comportava bene con le persone, molto educato e socievole. In casa, non obbediva a nessuno e sfidava tutti con comportamenti provocatori.

Bruno era stato abbandonato quando era neonato dalla madre naturale, ed era vissuto in modo precario in diverse famiglie fino ad essere finalmente adottato da Jurandir e Lurdes all’età di dodici anni e mezzo. Secondo i genitori, all’inizio egli sembrava “un piccolo selvaggio”. Aveva paura delle persone e sembrava che non si potesse fidare di nessuno. Poco a poco le difficoltà erano state superate e il legame con i genitori divenne più stretto.

C’era una evidente differenza razziale: Bruno era intensamente nero e i genitori bianchi, ma loro avevano detto che ciò non era rilevante. Al contrario, sentivano che stavano “facendo del bene” nell’adottare un bambino che probabilmente avrebbe avuto più difficoltà di trovare dei genitori adottivi. Nella scuola nella quale egli studiava non c’erano bambini neri, e Lurdes e Jurandir non frequentavano persone con questo colore di pelle, ciò faceva sentire Bruno diverso dal contesto sociale in cui viveva. Questo tema non era affrontato dalla famiglia, anche se sembrava spesso essere presente.

La storia di Lurdes e Jurandir, precedente all’adozione, ci dava dati importanti per comprendere la turbolenza che stava invadendo la famiglia. Avevano perso un figlio biologico, attaccato da un grave tumore. Quest’ultimo era portato come esempio: alunno eccellente, simpatico, affettuoso. Lurdes piangeva tutti i giorni la sua morte. Lei non aveva potuto studiare nell’infanzia, e sperava di realizzarsi attraverso i successi di suo figlio. Jurandir, da parte sua, soffriva di depressione. Con la morte del figlio, la situazione coniugale si era seriamente deteriorata.

Bruno seppe da piccolo che era stato adottato. Per alcuni anni ebbe incubi nei quali sognava che la madre naturale veniva a cercarlo. Aveva molta paura che ciò accadesse. Già adolescente, quando Lurdes gli imponeva alcuni limiti, le diceva provocatoriamente: “tu non sei mia madre!”. Nonostante questo, soltanto una volta dimostrò il desiderio di sapere di più sulla madre naturale, e ciò venne vissuto da Lurdes con un forte sentimento di disagio.

Possiamo osservare nella storia della famiglia e nel percorso di adozione una serie di elementi che creavano un terreno fertile per lo sviluppo di disturbi emozionali. Bruno presentava una storia iniziale di abbandono e di insicurezza, che gli lasciò profondi segni. Non poté contare, in una tappa primitiva ed essenziale della sua vita, su una madre o una sostituta che gli permettesse di introiettare un oggetto buono sufficientemente stabile. Nell’adottarlo, i suoi genitori non avevano elaborato il lutto del figlio naturale, e avevano ritenuto che avrebbero potuto riempire il vuoto lasciato da questa morte adottando un bambino “indigente”. In verità, si identificavano inconsciamente con un bambino “carente”, che aveva bisogno di attenzioni. Il posto di Bruno nella famiglia sembrava essere stato determinato a priori, in funzione del dolore e delle aspettative dei genitori. Egli non sentiva di avere uno spazio proprio per esistere.

Bruno reagiva a questo scenario affettivo e familiare con comportamenti anti-sociali che, secondo Winnicott (1956) rappresentavano una richiesta d’aiuto. Il bambino o l’adolescente segnalano in questo modo che c’è stata una importante situazione di privazione affettiva, e “molestano” l’ambiente in modo che esso si occupi di loro in modo adeguato.


  1. Alla ricerca di un proprio spazio

Venne realizzato un lavoro psicoterapeutico con Bruno, e contemporaneamente colloqui regolari e frequenti con i genitori adottivi. Questi ultimi erano sfiniti dal rapporto con il figlio. Dimostravano sentimenti ambivalenti nei suoi confronti e delusione in relazione al percorso di adozione. Non immaginavano che avrebbero dovuto affrontare tali problemi. Ho potuto capire che loro non comprendevano ciò che accadeva al figlio. Iniziammo un lavoro che includeva il conoscere meglio le loro proprie aspettative e i loro limiti, così come le motivazioni e le comunicazioni inconsce di Bruno. In momenti di crisi fu necessario realizzare riunioni con tutta la famiglia, nell’intento di circoscrivere e contenere i conflitti vissuti.

Il contatto con Bruno fu amichevole fin dalla nostra prima consultazione. Mi trovai davanti un ragazzo alto, osservatore, disinibito, che si vantava di trovare i mezzi per fare quello che desiderava. Nel conversare sui conflitti familiari, egli pretendeva di avere il controllo sui genitori e sembrava abbastanza ingelosito con tutto ciò che richiamava l’attenzione della madre che non fosse lui stesso.

Il suo primo disegno, un elicottero colorato che volava parve abbastanza significativo. Riguardo a questo raccontava una storia nella quale c’era un ragazzo che sognava di essere un pilota di elicotteri, contro la volontà dei suoi genitori, che volevano che diventasse un medico. Il ragazzo fuggì di casa, si recò in un’altra città dove studiò molto, superò molte difficoltà, concluse gli studi e si affermò in modo eccezionale nella professione. Questo fu possibile in quanto ebbe l’aiuto di un amico che gli mise a disposizione un luogo tranquillo dove abitare. Bruno mise in risalto il successo che il ragazzo aveva ottenuto nella comunità. Alla fine i genitori lo cercarono e riconobbero che il figlio “non voleva seguire una carriera assurda, ma soltanto differente”.

Il disegno di Bruno, ben delineato, colorato, mostrava i mezzi personali su cui poteva contare. Nonostante la storia precaria della sua vita iniziale, Bruno mostrava un buon contenimento psichico e un desiderio di acquisire maggiore potere ed autonomia. In altre parole, lui sognava, come tutti gli adolescenti, di “decollare” e “volare alto”, come il pilota dell’elicottero da lui disegnato. C’erano ostacoli da superare nella storia che lui aveva raccontato. Per potersi realizzare, bisognava che si differenziasse dal desiderio dei genitori. Nella storia, loro volevano che diventasse un medico mentre lui lottava per essere un pilota d’elicottero. Bruno sentiva che per conquistare una propria identità doveva trovare una propria via. Curiosamente, questa via era quella dello studio, che era quella che gli indicavano i genitori da sempre e che lui apparentemente rifiutava. Vediamo come c’erano in lui i valori che i genitori gli avevano trasmesso e si manifestavano in lui quando non si sentiva oppresso.

Lo sviluppo di una propria identità dipendeva dall’aiuto dell’amico che gli aveva offerto una casa per dimorare. Forse Bruno stesse esprimendo la speranza di poter incontrare in terapia una nuova adozione, uno spazio di tranquillità per poter crescere. La storia raccontata indicava che egli voleva lottare molto per conquistare una posizione di valore, per se stesso e per i genitori. Possiamo pure pensare che la questione razziale rappresentava un punto importante in ciò che si riferiva alla conquista di un sentimento consistente di autostima; certamente Bruno si differenziava per il suo colore in relazione ai suoi genitori e all’ambiente sociale. Bruno sentiva che se fossero stati rispettati gli aspetti della sua personalità, avrebbe avuto più chance per un felice traguardo.

In un successivo disegno, Bruno ritrasse la sua famiglia. le persone stavano tutte con le lacrime che cadevano dagli occhi. Dal lato del bambino c’era un cane, con gli occhi segnati da due X e un’aura intorno al suo corpo, ciò indicava che era morto. I componenti della famiglia non si guardavano tra di loro, ma parevano comunicare con l’osservatore esterno, verso il quale erano girati, in uno stato di tristezza. Distaccandosi da questo quadro di dolore, il bambino anche lui con le lacrime negli occhi mostrava il dito pollice e il mignolo alzati, in una posizione di beffa o di irriverenza.

Su questo disegno, Bruno commentò che era una famiglia “molto felice”, ma aggiunse che “per lo meno loro si dicevano felici”. Davano tutto ai figli, ma non trascorrevano mai del tempo insieme e non avevano mai conversato in modo diretto. Un giorno il cane della famiglia morì e “fu un orrore”. Tutti piangevano perché era l’unico allegro in casa. Venne fatto il funerale. La famiglia iniziò a scambiare parole dicendo – Ah! Lui non doveva morire! Perché è morto lui? Fu così che si accorsero che erano tornati a parlarsi, “ma compresero anche che si parlavano solo quando accadeva qualcosa di male ”

Bruno spiegò che la famiglia non aveva dialogo perché uno pensava che l’altro non avesse a che vedere con lui. Disse che il gesto del bambino con la mano verso l’alto significava che egli stava dando un “arriverderci” al cane, e che quest’ultimo era di razza Doberman.

Il disegno e le associazioni sulla famiglia illustrano in modo inequivocabile i punti di tensione familiare e i vuoti nel processo d’adozione. La famiglia, ipoteticamnete felice, era distrutta dalle lacrime. Di fatto, dal suo arrivo, Bruno si era scontrato con una tristezza profonda che era iniziata con la morte del figlio naturale. Egli percepiva che non c’era identificazione tra i membri della famiglia: “nessuno ha a che vedere con nessuno …” La famiglia era unita, però a pezzi, una famiglia triste, dove incombeva la solitudine. Si parlavano solamente quando accadeva qualcosa di male. Possiamo dedurre che i comportamenti distruttivi di Bruno avevano la funzione di metterlo in contatto con i diversi membri della famiglia. Per mezzo delle sue costanti provocazioni, egli si collocava nella mente dei genitori, e prendeva provvisoriamente il luogo riservato al figlio morto. La storia di Bruno fotografava l’orrore di un fallimento, che faceva piangere tutti. Secondo lui, “ era l’unico che portava allegria in casa”. Il bambino stava ipoteticamente “dando l’addio” al morto, ma vediamo anche che il suo gesto poteva essere compreso come un comportamento gioioso, che indicava la rabbia latente presente in funzione di questo stato di cose. Bruno, di fatto, desiderava che la famiglia potesse liberarsi del personaggio che egli ipoteticamente avrebbe dovuto sostituire, il figlio perduto, studioso, perfetto. Ciò conordava con le intense gelosie che egli dimostrava in relazione all’attenzione della madre. Nel disegno, nel cane “Doberman” erano proiettate la sua aggressività ed impulsivtà, che irrompevano nei momenti di discordia con i genitori adottivi.

Sull’adozione, Bruno si riferì ad una“madre vera”. Disse di non sapere quello che avrebbe fatto se lei lo avesse cercato, perché era una estranea. Enfatizzò che “ lei lo riconoscerebbe, è logico, poiché ho lo stesso viso da quando sono nato”. Egli mi raccontò che aveva molta difficoltà ad addormentarsi, e che a volte vedeva un volto che passava, ciò lo lasciava spaventato. Ho potuto percepire che per Bruno le fantasie sulla sua origine erano cariche di ambivalenza e di angoscia persecutoria. Egli temeva l’apparizione di una donna sconosciuta che avrebbe potuto esporlo nuovamente a sensazioni di abbandono e confusione vissute all’inizio della sua vita. Nello stesso tempo, quando diceva a Lurdes che “lei non era sua madre”, alimentava la fantasia che il contatto con la madre naturale, con le sue parole “la madre vera”, non avrebbe portato con sé tante differenze. Il Romanzo Familiare dell’adottato può giustamente portare la fantasia dell’idealizzazione dei genitori naturali come una contropartita alle difficoltà incontrate con i genitori adottivi (Levinzon, 1999, 2004)

I sintomi di Bruno indicavano in ultima istanza un drammatico appello per il recupero di un passato nel quale avvennero deficit importanti, come si può vedere in un disegno e nella storia seguente, fatti dopo circa un anno dall’inizio del lavoro terapeutico.

Il disegno mostrava un bambino tra varie persone adulte. Egli era l’unico piccolo vicino a persone grandi, ed era tenuto per mano dalle persone che stavano al suo lato. Tutti esibivano un sorriso stereotipato di felicità. Bruno spiegò che era un bambino piccolo che voleva essere grande. Egli non si sentiva felice di essere un bambino perché gli piaceva fare sole le cose che fanno gli adulti. Decise di abbandonare tutti gli amici e i suoi giochi e iniziò a pensare e a parlare come un adulto. Il tempo passò, ed egli crebbe. Egli “riuscì ad acquisire la volontà di giocare con i suoi amici e i suoi giochi”. Quando crebbe, comprese che non voleva più essere una persona vecchia, e neanche ritornare ad essere un bambino. Si rese conto di aver perso la migliore parte della sua infanzia, “che non avevo avuto un’infanzia”. Bruno concluse: “Egli pensò, pensò, e capì che doveva arrivare ad avere tutto quello che voleva, ma terminò dimenticando che esiste una cosa che non riusciva ad avere: il tempo”.

Possiamo vedere a partire da questo materiale clinico che Bruno iniziava già a rendersi conto del desiderio forte di poter tornare indietro e rifarsi una infanzia che sentiva essere stata insufficiente. Di fatto, egli precisò di aver contato su se stesso precocemente, come modo di sopravvivenza. Era come se avesse “bruciato le tappe” che adesso sentiva essere imprescindibili. Come dice il detto, “la speranza non muore mai”. Egli immaginava inconsciamente che ci sarebbe stata un modo per poter ottenere quello che gli era mancato, un ambiente sicuro che gli permettesse di frazionare, secondo un suo ritmo, il cammino della crescita. Allo stesso tempo, egli mostrava il conflitto dell’adolescente, soggetto ad elaborare il lutto per la perdita del suo corpo di bambino. Sappiamo che quando l’infanzia non venne vissuta in modo soddisfacente, questa separazione diventa molto drammatica …

 

  1. Adolescenza, adozione e sopravvivere.

La turbolenza propria del periodo dell’adolescenza acquisisce una propria vivacità nell’universo dell’adozione, ma non è necessariamente più accentuata nei giovani adottati. In modo generale, i conflitti sono in proporzioni all’adeguamento della soddisfazione di necessità fondamentali del bambino nel periodo anteriore all’irruzione della pubertà. E’ necessario un aggiustamento da fare tra l’adolescente e la sua famiglia che porta con sé le acquisizioni e le omissioni, a volte inevitabili, riguardo alla creazione del bambino.

Possiamo dire che l’adolescente adottato ha una sensibilità maggiore nel discutere del suo valore e della legittimità del suo posto nella famiglia, in funzione della sua storia precedente all’abbandono o separazione dai genitori naturali. L’insicurezza dei genitori adottivi in relazione al processo di adozione rappresenta anche un fattore importante da essere considerato.

Quando c’è stata una situazione marcata di privazione ambientale, come nel caso clinico descritto, l’adolescente può cercare nell’ambiente la sicurezza che gli è mancata, e per questo sfida quelli che a loro volta sono alla ricerca di “braccia solide” e indistruttibili. L’adottato può portare i genitori a situazioni estreme per verificare se l’adozione resiste alla impulsività e aggressività. Questo cammino ha come obbiettivo, in ultima istanza, l’integrazione tra i sentimenti d’amore e di odio.

Come afferma Winnicott (1968), il meglio che i padri possono fare davanti a questo stato di cose è sopravvivere. Questo significa affrontare in modo equilibrato i confronti che si presentano. Affrontare le sfide che il figlio adolescente propone, senza rappresaglia o vendetta, ma con amore, sincerità, limiti e fermezza, apre uno spazio per uno sviluppo salutare della famiglia. I propri genitori si trovano davanti al compito di rivedere la propria adolescenza e i dubbi e i conflitti apparentemente in letargo da allora.

In alcuni casi, l’aiuto psicologico è necessario, e rappresenta la speranza che l’adozione possa completarsi in modo consistente e profondo. Alla fine, tutti abbiamo bisogno di essere adottati.


Riferimenti bibliografici

Levinzon, G. K. – (1999) A criança adotiva na psicoterapia psicanalítica. São Paulo: Escuta.

_____________ - (2004) Adoção. São Paulo: Casa do Psicólogo.

Levisky, D. L. – (1998) Adolescência: reflexões psicanalíticas. São Paulo, Casa do Psicólogo.

Winnicott, D. W. - (1956) A tendência anti-social. In: Textos selecionados: da pediatria à psicanálise. Rio de Janeiro, Francisco Alves, 1988.

_____________ - (1965) Adolescência. Transpondo a zona das calmarias. In: A família e o desenvolvimento individual. São Paulo, Martins Fontes, 1993.

_____________ – (1968) A imaturidade do adolescente. In: Tudo começa em casa. São Paulo, Martins Fontes, 1999.


*Psicoanalista, Dottore in Psicologia Clinica – USP, Membro-Effettivo della Società Brasiliana di San Paolo, Professore del Corso di Specializzazione in Psicoterapia Psicoanalitica – USP.


Traduzione dal portoghese di Mario Giampà



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