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PSYCHOMEDIA
TERAPIA NEL SETTING INDIVIDUALE
Psicoanalisi



Intenzionalità psicoterapeutica

di Gaetano Benedetti

VIa Relazione delle due giornate di studio

Psicopatologia e psicoanalisi nell'ottica psicoterapeutica

Ospedale "Villa Santa Giuliana" - Verona 7 - 8 Luglio 1995

(tratto da "I QUADERNI DI ARETUSA")



Psicopatologia e psicoanalisi nell'ottica psicoaterapeutica

Atti delle due giornate di studio
Ospedale "Villa Santa Giuliana" - Verona 7/8 Luglio 1995

VIo RELAZIONE

INTENZIONALITA' PSICOTERAPEUTICA

Da quando, con Sigmund Freud, lo psichiatra ha studiato l'ammalato psichico dal punto di vista del suo esperire, ossia da poco più di cento anni a questa parte, il compito classico della psichiatria si è esteso al polo opposto di quello iniziale, che era anzitutto descrizione del comportamento abnorme nello sforzo di contrapporlo alla norma. Da Freud in poi, il discorso nell'incontro con il malato psichico non è altrimenti concepibile che entro una continua dialettica fra quello che il fenomeno psicopatologico significa per noi e quello che il paziente esperisce nella relazione con noi.

Il capovolgimento operato da Freud è immediatamente visibile nel fatto che, mentre da un canto, attraverso la comprensione dell'esperire del malato, si è avuta la psicologizzazione della malattia mentale e della sofferenza psicopatologica tutta (la quale viene recuperata nella concezione di eventi interiori, emotivi, affettivi, non essenzialmente, qualitativamente diversi dai nostri, ma scostantisi da questi in misura quantitativa), d'altro canto lo studio della "psicopatologia quotidiana" (Freud) e degli aspetti neurotici della personalità clinicamente sana (che talora in psichiatria si sottopone volontariamente ad analisi come il proprio paziente) ci ha fatto viceversa comprendere lo stato di salute umana come uno stato di "mancanza".

Attraverso tale processo di pensiero la psichiatria, che da un canto trae dalla neurobiologia molte fra le sue nozioni più significative, si pone d'altro canto in contatto con l'uomo tutto e con quella filosofia della sofferenza esistenziale, che da Pascal a Kierkegaard, a Nietsche e a tanti altri è divenuta cosciente soprattutto all'uomo d'oggi.
Lo studio psicopatologico è divenuto così, nelle sue forme migliori, anche uno strumento psicoterapeutico (nel senso che il nostro rivolgersi, da clinici, al sofferente psichico ci impone a priori il compito di esaminarlo in modo maieutico, e mai solo sperimentale).
L'esperienza dell'incontro psicoterapeutico diviene per lo studioso di essa la fonte principale della sua conoscenza psicopatologica. Nel continuo oscillare fra l'identificarsi col malato per conoscerne "dal di dentro" l'esperire, e il separarsi da esso per riflettere su di esso, si fonda il metodo della ragione psichiatrica.

E così come questa si estende ai due polo dell'esperire e del comportamento, della psicoterapia e della psicopatologia, così essa conosce due diversi gradi di specificità: da un canto si approfondisce lo sforzo nosologico di distinguere fra loro non solo le sindromi più diverse, ma anche i "meccanismi" metapsicologici che ci appaiono nella riflessione ragionata; d'altro canto l'identificazione terapeutica col malato, radicata nel tentativo di scoprire in esso l'humus che tutti ci riunisce e ci fa comprendere il singolo, ponendolo simbolicamente entro di noi, fa scomparire in psicoterapia barriere nosologiche necessarie in psicopatologia: ad esempio fra sindromi schizofreniche, schizoaffettive, paranoidi, etc. In esse ritroviamo gli stessi conflitti, di fondo, che insieme si intersecano e si sovrappongono, per cui non esiste ad esempio una psicoterapia della psicosi schizofrenica ed un'altra di quella schizoaffettiva ed un'altra ancora di quella psicoreattiva.

Nella cornice del mio discorso io non farò perciò distinzione fra sofferenza endogena e sofferenza psicoreattiva, preoccupandomi invece di vedere nell'individuo preso in cura quel portatore della sofferenza umana, che si costituisce come paziente di fronte ad un terapeuta. E neppure vedrò il terapeuta nelle sue varie funzioni di psichiatra, di psicoanalista o di psicoterapeuta, nelle possibili varie contrapposizioni metodiche; il terapeuta è nel mio attuale discorso colui che, anch'egli un normopatico, risponde come esperto alla sofferenza del suo paziente e affida questa alla sua attenzione, cura e dedizione. Chi volesse perciò scorgere nel mio discorso incongruenze dovute appunto al fatto che io col mio pensiero associativo passo dalle riflessioni sul paziente neurotico a quelle sul paziente psicotico, o dal tema della psicoanalisi a quello della psicoterapia, potrebbe farlo facilmente. Solo che tali incongruenze sono coscienti e da me volute, perché è solo accettandole in un'ampia visione della terapia psichica che mi è possibile affrontare un tema di respiro così vasto nell'ambito di una breve relazione.

Questa affronta allora il tema di come la psicoterapia possa comprendere se stessa anche come psicopatologia e in che modo questa si trasforma nello specchio psicoterapeutico.
Psicopatologia e psicoterapia si costituiscono ambedue nelle due grandi funzioni della "negativizzazione" e della "positivizzazione" dell'esistenza - in ciò sta, come vedremo, -la corrispondenza.
Ma nello stesso tempo esse si contraddicono in modo assoluto, perché alla autonegativizzazione del paziente si contrappone la positivizzazione del terapeuta e, viceversa, all'autoesaltazione del paziente il pensiero critico del terapeuta.

Per svolgere questa tesi, vediamo anzitutto che l'oggetto delle nostre riflessioni è l'uomo al di dentro della sofferenza psichica. E il termine "psichica", e non semplicemente "morale", sta ad indicare che essa ha raggiunto un grado superiore, il quale attenta alla salute e mette a repentaglio quella di coloro che convivono con il paziente. Quale l'atteggiamento usuale dell'uomo al di dentro della sofferenza psichica?
Un primo stadio consiste nella negazione di essa da parte del paziente, o più esattamente, nella negazione di tutti quei fattori intrapsichici che minacciano la coesione interna. La grande conquista intellettuale della psicoanalisi è stata la scoperta della rimozione di tali fattori - reminiscenze di Freud, complessi di Jung, oggetti cattivi di Melanie Klein, "not me" di Sullivan, fino a quelle che io chiamo, nella psicosi, le perversioni simbiotiche. Il paziente si difende da questi fattori con le classiche difese neurotiche: le resistenze di Freud, l'espulsione proiettiva di Melanie Klein e di Rosenfeld, il "falso Sé" di Winnicott e addirittura il rovesciamento della depressione nella mania.

E' solo in un secondo stadio, quello più propriamente psicotico ed autodistruttiva, ove predomina l'identificazione del paziente con i fattori negativizzanti, e ove la positivizzazione terapeutica deve stare in primo piano nell'incontro con la psicopatologia.
Fermiamoci adesso al primo stadio. Il compito fondamentale delle psicoterapia psicoanalitica consiste nella analisi delle difese, che non permettono l'accesso ai fattori negativi situati nell'Inconscio del paziente, e nell'interpretazione di questi ultimi, condotta in modo tale che la patogenicità di essi venga neutralizzata dal rapporto duale, dal transfert positivo, dalla riduzione della pericolosità attuale ai traumi dell'infanzia. E' inevitabile che in questo processo l'opera "psicoarcheologica" dell'analista, la sua fermezza di fronte a tutte le difese falsificanti la realtà psicologica, la sua demolizione del "falso Sé", il suo inesorabile riportare alla coscienza ciò che era "rimosso" (Freud), "coperto" (Sullivan), "scisso" (Bleuler), proibito e negato, conduca ad ondate di transfert negativo, perché esperito dal paziente come un'opera di negativizzazione della sua identità.

Do di ciò due brevi esempi. Uno è la madre di una paziente schizofrenica, unita a lei da un profondo rapporto simbiotico, per cui l'una delle due donne non poteva esistere senza l'altra. La madre, provata da tante traversie nella sua vita, esposta per tanti anni all'ostilità di persone per lei significative, aveva concretata tutta la sua libido su questa figlia, sviluppando l'idea quasi delirante che nessuno al mondo, tranne lei, fosse capace di comprendere la figlia, di curarne l'invalidità psichica, di aiutarla nelle difficoltà della vita. Con le sue proiezioni ostili sugli altri, aveva finito con l'isolare la figlia dalla società umana. La ragazza viveva esclusivamente all'ombra della madre, cui era legata da un rapporto profondamente dipendente e ambivalente: da un canto non poteva vivere senza appoggiarsi in ogni piccola cosa alla madre, d'altro canto la odiava come colei che l'aveva privata di ogni autonomia. All'ostilità della paziente la madre reagiva con stati d'animo depressivi, suicidali, cui seguiva sempre la persuasione che la paziente in quello stato aveva doppiamente bisogno di lei.

La paziente si trovava in psicoterapia presso una mia allieva. Un altro mio collaboratore si assunse il ruolo di contatti psicoterapeutici con la madre, e si sforzò, con le debite cautele, di mostrarle come elle identificasse una propria parte maltrattata dalla vita, debole e depressa, sulla figlia, prendendosi cura di questa al posto di se stessa e finendo con l'impedire alla figlia di essere diversa dalla madre.
Purtroppo questi sforzi non approdarono a un gran che. La madre reagiva alle prudenti interpretazioni del collega con profonda ostilità, con la persuasione che questi mettesse in dubbio la ragione prima della sua vita. "Anche se la sua tesi fosse una verità, io non posso accettare una verità che negativizza la mia esistenza."
Come supervisore ho discusso con il terapeuta il problema se la sua confrontazione con la madre della paziente non fosse stata incauta, affrettata, non le abbia lasciato il tempo di sviluppare un transfert positivo, che avrebbe costituito una motivazione a lavorare insieme. E' da dire tuttavia che lunghe psicoterapie, che comportano corrispondenti regressioni, sono difficili, poco fattibili nelle istituzioni psichiatriche attuali, anche perché economicamente non agibili.

Metodi confrontativi, cognitivi, diretti ai singoli problemi, sono oggi frequenti nei riguardi di pazienti e di loro familiari, la cui struttura dell'Io non presenta sfaldamenti psicotici. E non raramente essi risultano anche utili quando riescono a motivare ad una ricerca della verità. Cito a questo proposito le parole di una mia paziente: "L'esperienza sorprendente fatta da me in analisi è stata quella che interpretazioni anche dolorose, le quali mettevano il dito su una mia mancanza inconscia, risultavano per me liberatrici, amplificavano il mio spazio interno, non provocavano un senso di depressione, poiché la verità affranca sempre." "Die Wahrheit ist nie trostlos", diceva lo storico Ranke; ma l'opera della ragione critica può essere sentita transitoriamente dal paziente come negativizzazione della sua persona, del suo modo di vivere, delle sue resistenze.

Era questo il caso della madre della nostra paziente, un caso in fondo non troppo raro in quelle persone, ove i "vantaggi secondari" della malattia psichica sono talmente notevoli, pur al di dentro di un'esistenza in fondo svantaggiosa, da rendere insufficiente il punto di vista psicologico e da porre in primo piano, nell'esperire del paziente, la "negativizzazione" che da esso risulta e che si riflette nel transfert negativo. Talora, e per fortuna nella maggior parte dei casi, questo è transeunte, quando il lavoro è sufficientemente lungo ed esteso in profondità da condurre all'accettazione della ragione critica, sì che a questa segua infine la positivizzazione dell'esistenza.

Ecco un caso diverso: ad un sadista latente, che nella maschera patologica di varie fobie ed ossessioni costringe i suoi familiari ad occuparsi continuamente di lui, che tormenta la sua famiglia con i suoi comportamenti coatti, che controlla con questi le sue aggressioni o le sue pulsioni sessuali infantili, noi sveliamo, a poco a poco, questi momenti per lui profondamente inquietanti; noi mettiamo in evidenza una componente, inconscia, della sua psicopatologia, che è quella di nascondere a se stesso le proprie aggressioni e di sadicizzare gli altri, costringendoli ad aver riguardo per lui.
Naturalmente tale interpretazione non incontrerà il favore del nostro paziente, che infatti resisterà lungamente ad essa, ci accuserà magari di incomprensione e possibilmente trasferirà su di noi la componente sadica di certi suoi comportamenti.

Ora, siffatta resistenza è appunto una difesa del paziente nei riguardi di ciò che egli sente quale "negativizzazione" della sua autoidentità. Ma se noi infine gli mostriamo anche come il suo sadismo sia, ad esempio, una introiezione di quello paterno, di cui lui ebbe a soffrire e da cui non poté altrimenti difendersi che attraverso l'identificazione con l'aggressore, da un canto, e le paure fobiche, dall'altro; se noi comprendiamo quindi quanta infelicità è dentro il sadismo del nostro paziente e gli facciamo sentire la nostra vicinanza a tale sofferenza, ebbene noi compiamo allora un'opera di positivizzazione. Tale dialettica di critica (sentita come negativizzazione e positivizzazione), in cui si struttura la nostra comunicazione col paziente, ci permette di vedere meglio un'intenzione della psicoanalisi, quella della ragione critica, della riduzione, dello svelare, smascherare e comprendere i risvolti della vita intima: la riscoperta del tragico nell'esistenza umana.

E' stato visto forse troppo poco questo grande compito della psicoanalisi, la riscoperta del tragico. Il secolo in cui viviamo è un secolo che vuol essere scientifico, che in psicoanalisi ha cominciato a discorrere di apparato psichico, di meccanismi, di psicoeconomia, senza badare troppo all'esistenza.
Vediamo allora di sostare un attimo sul concetto di "tragico". Che cosa intendiamo con esso? Proverei ad esprimermi, in accordo con Simmel, che tuttavia svolge il suo pensiero sul piano storico, in questi termini: tragica è un'azione, una volontà, una pulsione, un'esistenza, che nel perseguimento dei suoi fini, dei propri ideali o interessi, della sua realizzazione, porta inevitabilmente - e qui in psicoanalisi preciserei: inconsciamente - alla negazione di tutto ciò, creando così le premesse per la distruzione di quello che viene intenzionalmente e perfino disperatamente ricercato. Tragico è un individuo che nel perseguimento di un ideale crea le premesse per la distruzione di esso; e tale contraddizione intima dell'uomo viene scoperta in psicoanalisi attraverso l'esame dell'Inconscio.

L'esame dell'Inconscio è, lo sappiamo tutti, il compito più penoso del paziente in psicoanalisi, quel compito che stimola difese e provoca non di rado il transfert negativo.
Si tratta, per il paziente, di scoprire, con l'aiuto dell'analista, quante illusioni, quanti impulsi rimossi di odio, invidia, rivalità, quanti narcisismi, quanti moti sadici siano presenti nel fondo della psiche e, inoltre, quanti ideali di abnegazione, di sacrificio, altruismo, che dettano forse lo stile di vita familiare, sociale, rappresentano talora solo delle croste, utili al mantenimento dell'autosicurezza e del potere.

La psicoanalisi è prudente nel parlare al paziente di queste cose. L'analista parla, piuttosto, di atteggiamenti narcisistici che non di atteggiamenti egoistici; di pulsioni distruttive infantili che non di una distruttività attuale; e il termine di "neurotico" sta ad indicare non tanto che certe pulsioni siano ingiustificate in sé, quanto piuttosto che esse entrano in conflitto con quei tre aspetti dell'Io che non le accettano: l'Ideale dell'Io, il Super-io e le difese dell'Io.
Così questo esame dell'Inconscio, che infine scarica il soggetto del peso delle "mancanze" che esso va scoprendo man mano in terapia, è diverso dall'esame di coscienza propostoci dal colloquio socratico: il quale, come ogni morale tradizionale, tende piuttosto a contrapporre il bene al male. "Nel tuo Interno o Polos - così parla il Socrate platonico al sofista - tu sai con perfetta precisione che ogni male è nefasto, da te stesso io voglio trarne la prova." Qui, in psicoterapia, ciò che appare nefasto nelle transazioni umane viene riscoperto come la conseguenza di una incomprensione infantile, che ha fatto del bimbo incompreso il perverso di oggi.

La confrontazione con la coscienza e la confrontazione con l'Inconscio sono due cose diverse, così come due cose diverse sono il discorso di Socrate col sofista e il discorso dello psichiatra col sofferente.
Proprio perché la psicoanalisi si è rivolta fin dai primordi al sofferente, ha scoperto l'Inconscio, e oggi è nata come terapia medica, essa ha lasciato da parte il discorso morale, in sé pur tanto importante, ma inutile o pesante per il paziente già gravato dal fardello di un Super-io esoso e da quello dei suoi sintomi morbosi.
Ma la divisione fra malato e sano, evidente nelle psicosi, non è sempre troppo netta nelle nevrosi. Quali delle nostre pulsioni distruttive sono del tutto inconsce, sono del tutto infantili, o non sono anche di origine attuale e solo nascoste ("covered", come diceva Sullivan, per distinguerle da quelle veramente inconsce) dai bisogni narcisistici?
E' soprattutto nel transfert, quando paziente e analista non stanno a ragionare sul passato, ma lo vivono attualizzato nella relazione, che il paziente si identifica con i suoi sentimenti (di odio, di amore, etc.) verso il terapeuta e non intende più esaminarli come un rimasuglio del passato; ed è allora che il terapeuta, nel suo controtransfert, rischia di rifiutare inconsciamente il paziente.

Questo, dell'attualizzazione del passato, è, fra l'altro, uno dei grandi mezzi della psicoanalisi; poiché come potremmo noi altrimenti agire su un passato ormai definito, cristallizzato, interiorizzato, appersonato, divenuto fondamento della personalità, come potremmo noi mai neutralizzare tale passato se non incontrandolo una seconda volta nell'attualizzazione del transfert, da un canto, e nella vita onirica dall'altro?
Ma mano che questa attualizzazione procede, il paziente resiste. E tale resistenza, tragica quando essa porta ad una terminazione precoce del lavoro, è invece salutare quando essa sta quasi a simboleggiare la lotta interna fra l'uomo spirituale e l'uomo naturale (l'Eroe celeste e l'Eroe terreno, direbbe Platone) o, in termini più moderni (Winnicott), fra il Sé vero e il Sé falso; quella lotta interiore senza cui non c'è vero progresso, ma solo "dottrina psicoanalitica".

Vi sono così delle fasi, anche in una terapia ben condotta, in cui il paziente vive la critica terapeutica come un'opera di negativizzazione compiuta dall'analista su tanti aspetti della sua personalità, sentiti prima come ovvi e che adesso appaiono, al microscopio dell'indagine, come costruzioni di vita tutte da rifare. Uso il termine, un po' forte, di "negativizzazione" per potere contrapporre ad esso quello di "positivizzazione", che sarà un argomento principale del mio discorso.
Io ritengo che in psicoanalisi non c'è l'una senza l'altra. Ma già nel trattamento di stati non ancora psicotici, ma abbastanza gravi, ad esempio depressivi, dobbiamo stare attenti con la critica, con la messa in evidenza di aspetti narcisistici della persona, con la scoperta di pulsioni di morte, perché il Super-io sadico del paziente sembra star lì a non attendere altro per dimostrare al paziente quanto egli sia "cattivo" o narcisista o altro, come sembra dirgli adesso perfino lo psicoterapeuta. Qui è più indicata anzitutto l'analisi del Super-io stesso fin dal principio, la quale mostra all'Io - ossia alla coscienza del paziente - quanto ingiustizia venga ad essa fatta dall'istanza morale arcaica e spesso incosciente, rappresentata dal Super-io psicopatologico.

Sono cose, queste, dette tante volte, che io temo solo di ripetere dei luoghi comuni, se tuttavia non fosse che la neoformulazione è sempre utile e che nello studio dell'anima umana, come risulta anche dalla filosofia, ci sono delle verità eterne, che vanno ripetute sempre, con nuove parole, in nuovi giri di pensiero, per dirci incessantemente cos'è l'uomo, per farci presentificare sempre di nuovo l'incontro con esso.

Veniamo adesso a quello che potremmo chiamare l'altro polo della psicoanalisi e della psicoterapia: la positivizzazione.
Il concetto di positivizzazione, che io ho tratto dalla mia esperienza con malati psicotici, va tuttavia, se usato cum grano salis, al di là della malattia psicotica, ed è uno dei miei contributi alla psicoterapia nel senso più vasto del termine.
In fondo, il concetto in forma latente sta alla base di tutta l'intenzione psicoterapeutica fin dai suoi primordi, e trova nei miei scritti solo una meditazione ed esplicitazione.

La corrispondente attitudine mentale è già implicita al nostro stesso atto di avvicinarci al paziente, chiunque esso sia. Questo paziente, specie se grave, può essere ritratto nella similitudine del dio Glauco, cacciato giù nel fondo del mare: "Chi lo mira laggiù non riesce più a riconoscere la sua natura. Le sue membra sono dalle onde scorticate e rotte dalla loro forma originale, altre parti gli son cresciute di fresco, conchiglie, alghe, pietre, in modo che somiglia piuttosto ad un mostro, e non già alla sua propria natura."
Fin qui Platone, che nel dio Glauco ravvisa l'anima umana caduta a cagione di innumerevoli infausti influssi.

Abbiamo qui il germe filosofico della psicoterapia, che può persino servirsi della similitudine platonica per esprimere la sua intenzione. L'idea qui altro non è che l'immagine, nella mente del terapeuta, dell'Essere del paziente, nascosto dalla sua malattia, dai "feticci psicotici" (Mahler), ma anche da tutte le sue deviazioni morbose, le quali sembrano farne un altro essere. Esse non ce lo estraniano completamente, se noi scopriamo che la similitudine del dio cacciato in fondo al mare lumeggia vivamente anche lo stesso stato dell'uomo e che il malato psicotico è solo un grado diverso, certo ben più grave, di quello che siamo noi.
L'idea che noi allora ci facciamo di lui corrisponde quindi al nostro desiderio di essere qualcuno di più di quel che noi siamo; qualcuno che noi siamo già in quanto aspiriamo ad esserlo, seguendo così il detto di Pindaro, che fu più tardi anche quello di Nietzsche: "Diventa quel che sei"; ed è opposto, in psicoterapia, alla diagnosi di "difetto", di "degenerazione psichica", come si soleva dire un tempo, di "psicopatia" più o meno irreversibile.

E' in un atto di reciprocità molto spesso inconscio, ma non pertanto meno operante, che noi trasformiamo la percezione psicopatologica dell'altro, non per idealizzarla, e tanto meno per difendercene attraverso l'idealizzazione della vera realtà, ma al contrario, in forza del presentimento della sua vera realtà (il "Sé vero" di Winnicott) nascosto dalla realtà denaturante del dolore e della difesa, dal Sé falso.
Noi allora, prima ancora di operare, ascoltiamo l'Idea del paziente in noi e ci avviciniamo, entro le nostre modeste possibilità, all'artista, di cui Foerster ebbe a dire che esso "prende dunque dalle labbra della natura la parola non detta".

Questa nascita silenziosa dell'idea del paziente nella nostra mente, che si ripete ad ogni incontro con lui, non è tuttavia che il primo atto della psicoterapia. Quel che Platone naturalmente non ci dice, quel che accade, direi, regolarmente in ogni atto terapeutico, è la difesa del dio Glauco dal nostro sforzo di estrarlo dalle maschere ed illusioni in cui egli si è sprofondato, dapprima controvoglia, per il suo destino esistenziale, e poi per il suo stesso sforzo difensivo.
Quel che per noi è una positivizzazione della sua immagine è per lui una negativizzazione del suo stato; una negativizzazione operata da una terapia che lo vuol privare di quei pezzi del suo essere, che gli son serviti a ricomporsi, più o meno, nella sua nicchia, per lasciarlo poi sperduto nelle profondità oceaniche del suo dramma esistenziale.

E vi sono in realtà dei momenti, nella psicoterapia delle psicosi, ove noi preferiamo non analizzare certe idee deliranti, evitiamo perfino di razionalizzarle nella nostra mente, per non privare il paziente di certi specchi, frammenti di vetri, che gli riflettono il suo universo, senza di cui egli andrebbe in frammenti.
Ecco qui un dilemma della psicoterapia: togliere al paziente i "corpi estranei", aderiti alla sua pelle e cresciuti in lui, affinché egli possa divenire permeabile al nostro messaggio, o viceversa, infondergli a poco a poco, per contagocce, il nostro messaggio, affinché egli possa spogliarsi da sé delle mostruosità che lo rivestono?

Dopo questa introduzione, che tocca le premesse fondamentali del nostro pensiero, passiamo alla domanda: in che cosa consiste, nella nostra concezione della psicoterapia, l'opera della positivizzazione?
Ne disegno tre gradini successivi, che rappresentano, per me, la presenza del terapeuta nel mondo del paziente e permettono cioè quella sintesi psichica che va di pari passo con l'analisi e che costituisce il progredire dell'integrazione della persona.
Vi è anzitutto un atto interno del terapeuta stesso, che si manifesta naturalmente nel suo modo stesso di essere, di sentire quale terapeuta, che viene cioè percepito dal paziente già sul piano inconscio.
Esso è la coscientizzazione, nel terapeuta, della dimensione tragica dell'esistenza umana, per cui il paziente gli diventa, nella sua particolare storia di vita e di sofferenza, un simbolo dell'Uomo, e quindi anche di se stesso.

Attraverso l'ascolto lo psicoterapeuta comprende nel senso di un contenitore le dimensioni contraddittorie dell'esistenza, le quali inducono il Sé perciò autonegantesi al falso uso degli oggetti; falso uso che equivale al concetto di perversione, la quale si intreccia spesso con la neurosi.
Desidero tracciare a questo proposito alcune antinomie della esistenza umana che, presenti in noi tutti, ci appaiono nel paziente, ora l'una ora l'altra, nella forma più radicale, anche se questa forma è cangiante da un caso all'altro.
Ne descriverò brevemente tre, ma so che la mia sintesi è arbitraria e che essa mi serve solo per esporre il mio pensiero.

1) La prima antinomia è la cornice, entro cui si iscrive il senso di colpa umano, e quindi del paziente.
Noi sogliamo distinguere il senso di colpa neurotico da quello autentico, anche se la distinzione nel caso particolare non è semplice, anche se non mancano, da un canto, gli analisti che considerano (o meglio consideravano, agli albori della psicoanalisi) qualsiasi senso di colpa come neurotico, e dall'altro i moralisti anche psichiatri, che in ogni senso di colpa vedono il segno di una mancanza, come lo vedevano i cosiddetti "psichiatri psichici" del secolo scorso (in questo senso la storia della depressione, della melancolia, di questa "malattia della colpa", come essa è stata chiamata da Guentrip è significativa).

Ecco qui in realtà la situazione dell'uomo che, "gettato" in questa esistenza (per usare l'espressione di Heidegger) da una necessità che sta al di fuori della nostra scelta, si sente quindi sopraffatto da compiti della vita spesso contrastanti fra loro, la cui armonizzazione supera le possibilità del suo organismo psichico e fisico; compiti, richieste, urgenze istintuali, bisogni propri e altrui, che lo legano, lo impegolano in conflitti in ultima analisi difficilmente solubili; che lo colpevolizzano qualunque sia la sua scelta (Grenzsituation der Schuld, come la ebbe a definire Jaspers, ove cioè ogni scelta conduce ad una colpa).

Errore, incapacità, scacco, disperazione rappresentano qui una forma del Tragico, non solo per il carattere opprimente delle emozioni relative, ma anche per la struttura stessa delle dinamiche, che tendono col loro sviluppo fatale a distruggere ciò che invece si voleva intraprendere. E non deve allora venire alla mente dell'analista, del terapeuta come non tanto il singolo individuo, quanto l'organizzazione di questo nostro mondo, con le sue istituzioni e le sue contraddizioni, è il portatore della colpa, dal cui vissuto il paziente è tormentato o il cui vissuto egli disperatamente cerca di reprimere?

Eppure la conoscenza dell'uomo, e del paziente in esso, ci dice che egli attua sempre una copia sbiadita di quello che egli si sente chiamato ad essere, che la responsabilità è anche la sua e a togliergliela gli si toglie la sua dignità di uomo; che il mondo dei sensi, nel quale noi viviamo, soffriamo e moriamo, non è il vero ed unico mondo, ma la colleganza con un mondo invisibile, al quale il nostro mondo interiore appartiene in modo indissolubile e sulla base del quale noi fermamente dobbiamo operare, se vogliamo rimanere fedeli sulla terra a quella origine e anche alla nostra vera personalità.

Questo vissuto metafisico incosciente è nella mia esperienza una particolare prerogativa dei sofferenti psicotici. Quanti pazienti io conosco che solo nel progrediente responsabilizzarsi della loro esistenza (nota 1) hanno realizzato il senso del Sé! In questa polarità fra responsabilità personale, che il paziente anela a riacquistare, dopo aver dismesso da sé tutte le pseudo responsabilità morbose, e violenza di un Inconscio, che dispone del suo ordine morale e del suo destino, di un Inconscio preparatosi talora al di fuori di lui, nell'incoscienza dell'infanzia e dei suoi introietti, nei legami delle generazioni precedenti, sta una dimensione tragica dell'Uomo, che noi la sentiamo, con particolare struggimento nello specchio del nostro pazienti, un'antinomia talora insolubile.

2) Passiamo ad una seconda antinomia, che possiamo considerare un eccesso o una mancanza. Siamo abituati a vedere nell'eccessivo narcisismo un amore egocentrico di sé che rende impossibili quelle relazioni oggettuali che nutrono la psiche con la linfa dell'altro, e che sconfina tante volte, ad esempio in tanti caratteri cosiddetti isterici, nella tendenza a manipolare gli altri, a dominarli per esserne poi dominati.

Ma guardando bene questi pazienti noi ci accorgiamo anche di "lacune", le quali ab initio hanno reso futile il senso del Sé ed evocato la costruzione degli strati narcisistici della persona; tant'è che il termine di narcisismo, riattualizzato in particolare dall'opera di Kohut, sta a denominare sia la libido appunto narcisista, sia la lacuna anch'essa narcisista, che si apre come una falla nel tessuto primordiale dell'Io. Una antinomia che veste del suo velo tragico anche quei pazienti, che talora, proprio per il loro atteggiamento narcisistico, riescono sgradevoli, nel transfert, agli stessi analisti.

3) L'antinomia di egoismo e altruismo.
Questa antinomia, che attraversa da millenni tutta la storia dell'umanità, le sue filosofie e religioni, mostra nell'ambito della sofferenza psichica una particolare struttura, la quale, più che qualsiasi altro stato umano, ci fa comprendere l'esistenza di un Inconscio e la limitazione della
libertà umana di fronte ad esso.
Nella maggior parte di quelle situazioni familiari in cui c'è una psicopatologia della sofferenza noi vediamo che gli ideali da cui è fatta l'identità sociale dell'uomo vengono trasmessi in una misura che non è corrispondente alle povere possibilità di un Io malnutrito dalle mancanze di libido familiare, invischiato in quella miriade di conflitti intrafamiliari, ove la difesa del proprio ruolo, la preoccupazione per la propria identità materiale, l'immersione simbiotica nelle ansie altrui non lascia spazio sufficiente al vero Sé del bimbo, alle sue autentiche possibilità di crescita, di autonomia e di creatività.

Ne consegue, nell'individuo sofferente, una spaccatura profonda e poco cosciente fra quello che egli vorrebbe essere e quello che egli è, e perciò anche un'impossibilità a veramente sentirsi e comprendersi in quel che egli fa.
E' a questo punto che scatta in tanti pazienti, depressi o narcisisti o psicotici che essi siano, un conflitto ascoso fra libido ed aggressività, fra altruismo ed egoismo, fra bisogno di abnegazione e bisogno di possesso o di manipolazione, la cui tragicità sta sia nell'insoddisfazione del singolo, sia nella sua incapacità a risolvere il conflitto, sia infine in un decorso che vede il paziente vittima di aggressioni altrui.

Ecco ad esempio la paziente depressa che è vissuta un'intera vita per il marito e i figli, rinunziando ad ogni distrazione, ad ogni attività indipendente dalla famiglia, ad ogni sua autentica autonomia, e che alla fine della sua vita di sacrifici viene rimproverata dai suoi stessi familiari, a cui credeva di essere votata, di averli voluti anzitutto possedere, iperproteggere, asservire, manipolare; la quale "scopre" dunque, allo specchio degli altri, come tutto il suo altruismo altro non sarebbe stato che egoismo razionalizzato.

Ecco ancora il paziente psicotico, che durante la sua adolescenza viveva di fantasie umanitarie di salvezza per poi avvertire, con spavento, all'inizio della sua psicosi, la presenza di impulsi distruttivi che contraddicono radicalmente tutto il modello che egli aveva fatto di sé stesso.
Ecco il paziente ossessivo, che per anni ha creduto di realizzare con la sua precisione esasperata i compiti posti a lui dagli altri, e che col suo perfezionismo ha solo raggiunto di venire odiato dagli altri.

Come non sentire, in queste e in tante altre situazioni simili e diverse, quella non-libertà dell'uomo. che misteriosamente si ingrana con la libertà della coscienza, la limita già in noi e poi, ben più, nel sofferente, in una misura in cui la morale tradizionale, con la sua divisione troppo netta tra il bene e il male, non si è resa mai sufficientemente conto; quella non-libertà dell'uomo, dico, alla cui percezione non è possibile sfuggire con un taglio preciso fra malato e sano, ma che ci impone piuttosto il senso tragico della vita, soprattutto di fronte a quegli esseri-pazienti, che a cagione dei loro scacchi familiari e sociali non assurgono a un'altezza, che impressiona la società, ma restano in un grigiore di vita che attira perfino il disprezzo altrui.

Finora ho parlato dell'esperienza terapeutica, che è il tema centrale del mio scritto. Ma non voglio, come psicoterapeuta, con ciò circoscrivere la mia posizione di fronte a tanti colleghi psichiatri, che pur non facendo psicoterapia nel senso stretto della parola, anche perché hanno a che fare non con una selezione di malati, ma con le centinaia di pazienti psichiatrici ("psichiatria di massa", secondo l'accezione di Barison) e non possono quindi dedicarsi alla "psichiatria del profondo", incontrano tuttavia i loro malati in quello spirito di profonda comprensione, di attenzione fenomenologica, che può anche essere considerata come una visione positiva di quel che altrimenti, in cert'altra psichiatria, viene visto invece, fondamentalmente, quale "difetto".

Barison, parlando della visione "scientista", la quale osserva anzitutto i disordini da difetto, precisa: "Non si tratta di un errore, ma di un diverso modo di fare psichiatria".
Con una certa paradossalità, che fa bene perché mi sembra come una sfida a chi pensa altrimenti, egli scrive che il "Mit-Sein autentico" può accadere "sul piano transferenziale e controtransferenziale anche se vi sia per avventura una sola intervista, qualsiasi siano nel tempo e nello spazio e nelle diverse circostanze gli svolgimenti di tale rapporto."

Nella schizofrenicità stessa egli vede una "originalità e creatività analoga all'attività artistica (...); che differisce dall'opera d'arte solo perché non ne possiede l'universalità di comunicazione (nota 2); che solo una visione soltanto scientista e positivista può vedere come un disordine da difetto (...)"; che "è creazione surrealista non solo quando appare come gelido vuoto, ma anche quando si moltiplica in svariatissime forme (...); che è una esasperazione vertiginosa del comportamento espressivo (...) come se fosse, per il paziente, un modo per fare scoppiare la realtà sotto la spinta di potentissime esigenze vitali."; e cioè, anzitutto, quella "di tenere per sé un suo mondo comunque diverso"; l'esasperazione, aggiungerei io, del Sé separato come difesa dalla perdita di esso. Ecco, ci dice Barison, "l'impossibilità di spiegare (tutto questo) come un fatto di atimia, che non può rendersi conto di questa struttura intenzionale".

Vi è, in questo incontro con l'Anders, anche quel rispetto verso ciò che nel paziente ci risulta inconoscibile e non riducibile alla conoscibilità del difetto, lo stesso spirito che, in altro modo, pervade anche la mia psicoterapia.

Concludiamo: la natura della psicoterapia mi appare in una relazione fra terapeuta e paziente, in cui il primo, interiorizzando il secondo in se stesso, diviene attento ad ogni dettaglio della sofferenza, mentre il secondo interiorizza a sua volta l'attenzione dialogica dell'altro per divenire infine il terapeuta di se stesso. In questo processo occorre incessantemente un'opera di conoscenza critica, che si svolge fra i due poli dialetticamente opposti di "negativizzazione" critica (interpretazioni critiche, mobilitazioni di resistenze, aumento dell'ansia) e di "positivizzazione", aumentando così progressivamente lo spazio introspettivo di ambedue i partecipanti al dialogo.

La conoscenza di sé quale possibilità maggiore di esistenza è altamente positivizzante e quindi ricca di valenze affettive, perché essa evidenzia, attualizza e valorizza agli occhi dell'un partner terapeutico le potenzialità dei vissuti negativi del paziente, i quali appaiono come risvolti di bisogni genuini non corrisposti, di possibilità mancate, di spinte della persona vanificate dall'assenza di ricezione altrui.
Tale positivizzazione è una dimensione essenziale della psicoterapia ed essa è possibile tramite la presenza dialogica di un terapeuta, nel cui specchio interpretativo, di traduzione solidale dall'Inconscio alla coscienza, la persona non solo si riconosce nel suo germe di verità, ma anche si realizza come dualità.
Nell'ambito di tale conoscenza positivizzante il terapeuta si assume la difesa della parti vere, genuine, autentiche del paziente, incrostate e nascoste da autotradimenti, da falsi adattamenti agli altri, ai sistemi patogenici della famiglia e della società, dalle tendenze distruttive altrui e proprie.

Il terapeuta non è però solo un avvocato difensore di tutto ciò che è rimasto vittima nel programma di vita del suo paziente; egli è anche il paladino della rinunzia a quegli ideali narcistici, a quel "Sé grandioso", a quegli aspetti sadici della personalità che un tempo venivano riassunti nel concetto di peccato, di mancanza o di insufficienza psichica.
I limiti medici di tale psicoterapia stanno nella rigidità del divenire psicostorico dell'individuo come anche nel suo mondo psicofisico, nella fissazione corporea dell'esistenza. Essi non sono sempre modificabili.
Ma l'interesse che ogni psicoterapia veramente motivata suscita nei terapeuti e nei pazienti mostra come le dimensioni di ricerca umana, di attenzione dialogica e di solidarietà duale si sviluppano in uno spazio più vasto che non quello solamente medico e di cui possono prendersi cura solo i due partecipanti ad esso.

E' nell'ambito di questa concettualizzazione che noi possiamo infine esplorare la molteplicità creativa dei modelli esplicativi in psicoanalisi e in fenomenologia. Questi modelli diversi, dell'origine e della struttura delle varie psicopatologie, sono stati proposti dal pensiero sia psicoanalitico che fenomenologico (o daseinsanalitico). Mentre la psichiatria essenzialmente descrittiva perviene oggi ad un linguaggio relativamente univoco nei manuali internazionali di diagnostica psichiatrica, i modelli psicodinamici o ermeneutici si sventagliano in una molteplicità di differenti punti di vista, che può disorientare chi richiede al modello una certa invarianza storica, una "aderenza alla realtà", una sicura testabilità di ipotesi e non è aperto all'atto creativo dello "spostamento di attenzione".

Eppure è solo attraverso i modelli che noi ci avviciniamo veramente ai nostri pazienti, perché così creiamo simboli del loro esperire, di una interiorità altrimenti inconoscibile, la quale, alla psichiatria descrittiva, si manifesta solo come un insieme di "sintomi". Modelli esplicativi sono simboli dell'incontro della nostra mente con l'interiorità inconoscibile di chi è veramente Altro; essi possono svelare, almeno in parte, la soggettività dei vissuti e delle strutture interiori solo se noi ci avviciniamo ai "sintomi" con la nostra soggettività.

Se noi soltanto cataloghiamo i sintomi, il loro ascoso linguaggio ci resta muto e il paziente ci rimane lontano, inafferrabile pur nel concretismo del sintomo. La "dimensione negativa" del modello (psicoanalitico o fenomenologico), che da un punto di vista "scientista" ne è la debolezza, ci rimbalza agli occhi, che cercano l'Incontro, come la sua vera forza. Perciò la simbolizzazione della malattia psichica non potrà venir mai standardizzata e qualsiasi standardizzazione dei sintomi equivale alla rinunzia a leggerli come messaggi del profondo. Ed è nella nostra disposizione a "leggere il malato" nei geroglifici di un linguaggio, che da un canto precede l'Incontro, ne è la base, ma che d'altro canto si definisce nell'Incontro, che appare l'intenzionalità psicoterapeutica.

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Nota 1:
Vedi anche Ferlini: "Io credo che la risposta della psicoanalisi sia la neutralità; ma una neutralità ben paradossale, nel senso che si tratta di una neutralità che conduce non ad approvare né a condannare i nostri pazienti ma a comprenderli, comunicare la nostra comprensione, in modo che il paziente possa lentamente assumere a sua volta, con piena consapevolezza di causa, le sue scelte e la responsabilità dei suoi atti. La nostra etica tende a rendere ciascun paziente cosciente dei suoi conflitti rimossi, tende dunque a rimettere in questione tutti i suoi valori, tutte le sue credenze religiose, politiche. etiche, allo stesso modo dei suoi desideri e della sua vita sessuale". (Ferlini, 1991)

Nota 2:
Qui vorrei tuttavia osservare che del vissuto estetico fan parte sia l'intenzionalità comunicativa come anche la ricezione dell'altro. In psicoterapia noi osserviamo produzioni "quasi-artistiche" ove non mancano né la ricerca del paziente di esprimere qualcosa di verbalmente indicibile al suo terapeuta, attraverso il proprio "opus", né la sensibilità ricettiva di chi vede punteggiato tutto il suo cammino terapeutico con quelle manifestazioni della sofferenza dualizzata, con quelle simbolizzazioni incipienti del miglioramento, da creare anche l'Erleben estetico. Certo non sempre!


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