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PSYCHOMEDIA
SETTING INDIVIDUALE
Psicoanalisi




Psychoanalysis and the law
An italian discussion


A Round Table Discussion
Bice Benvenuto, Sergio Benvenuto, Sergio Contardi, Giacomo Contri, Marco Focchi, Giorgio Landoni, Valeria La Via, Paolo Migone, Diego Napolitani, Paola Ronchetti, Paolo Tucci

Versione in inglese su J E P Number 18 - 2004 / 1


Psychoanalytic Correctness

Sergio Benvenuto



Un film, 40 mq di Germania (1986, Tevfik Baser), racconta di una coppia di immigrati turchi in Germania. Il marito è praticamente un aguzzino della moglie: la tiene reclusa nella minuscola casa come una prigioniera. Ad un certo punto, per far capire a questa poveraccia come la Germania sia diversa dal loro paese di origine e quindi orribile, dice: "Pensa che il nostro compaesano XY qualche volta picchiava i figli, e ad un certo punto la polizia è intervenuta e lo ha denunciato per maltrattamenti. Ti rendi conto, qui la polizia si immischia anche di queste nostre faccende familiari!"
Mi viene spesso in mente questo brano quando ascolto certi discorsi di analisti sui problemi connessi alla regolamentazione legale della psicoterapia e della psicoanalisi.
Dico subito che l'intento di queste mie note non è politicamente costruttivo: è decostruttivo. Io non ho una posizione precisa, inossidabile, politicamente netta sulla questione di legalizzare o meno la psicoanalisi. Prima di decidersi per una linea, però, penso che occorra ricordarsi di essere analisti, cioè persone che, prima di agire, cercano di ricostruire l'Altro, per decostruirne eventualmente le ragioni. In questo caso l'Altro è la società civile - e politica - che circonda da ogni parte, e penetra, la nostra (solo in apparenza) privatissima attività.

1.
Tra molti analisti prevale-oggi più che mai--un modello fortemente idealizzato della pratica analitica come relazione amorosa. Per la nostra cultura, dal Romanticismo in poi, è essenziale che le relazioni amorose non siano affatto controllate dalla famiglia, dalla legge, dallo stato, né da alcuna esigenza di interesse pubblico. Ormai ben pochi genitori osano contestare la scelta di un boy friend ad una loro figlia minorenne - anche quando questo amichetto è chiaramente un poco di buono, o uno straccione, o un cretino, o un tossicomane, o tutte queste cose messe assieme. "Al cuore non si comanda": questa Regola sdogana tutte le scelte amorose ed erotiche. Ovvero, per la nostra cultura il Desiderio è sovrano nei rapporti amorosi - e non solo. (La psicoanalisi storicamente ha dato un contributo decisivo a questa santificazione del Desiderio, che costituisce il nocciolo dell'etica, non solo amorosa, della nostra cultura - "l'etica è non cedere sul proprio desiderio", ha tempestivamente detto Lacan.) Solo col matrimonio la coppia rimette la propria intimità amorosa sotto lo sguardo dello stato, soprattutto quando entrano in gioco i figli.
Questo modello romantico, per cui giudici della validità del rapporto amoroso sono unicamente gli amanti, e il desiderio è la loro vera legge, è trasferito nella relazione analitica. Molti analisti - soprattutto di sinistra - respingono ogni legalizzazione della loro pratica come se fosse un matrimonio medievale coercitivo: assimilano il rapporto analitico a qualcosa di ineffabile, insindacabile, non razionalizzabile, squisitamente privato, anzi intimo; in esso il Pubblico, in tutte le sue forme (per alcuni, anche nella forma delle Società analitiche), non ha da interferire. Lo slogan di Lacan - "l'analista si autorizza solo da sé" - implica che uno solo riconosce qualcuno come analista: il suo analizzante. La sola idea che il Pubblico vada a guardare dentro lo studio analitico è assimilato ad un'intromissione voyeurista che lede la libertà della coppia analizzante-analista. Molti analisti la pensano insomma come il marito turco del suddetto film: è scandaloso che il Pubblico-polizia metta sguardo o becco in quell'idillio spirituale e lavorativo, affettivo ed epistemologico, tra due soggetti.
Ma ad un certo punto - in Italia a seguito del clamore del processo Verdiglione, alla metà degli anni 80 - una parte del Pubblico, e quindi i suoi rappresentanti politici, si inquieta di questo godimento analitico da cui è esclusa. Tanto più che molti psicoanalisti si dicono anche psicoterapeuti, pretendono insomma svolgere un'attività simile ad un'attività medica. Molti analisti della IPA, ad esempio, dicono di fare sia analisi (quando si tratta di due o più sedute a settimana) che psicoterapie (quando si tratta di una sola seduta a settimana). Nello slang IPA una psicoterapia è un'analisi solo più superficiale e focalizzata, ma l'uso delle parole - come insegna Freud - non è innocente: il termine "terapia" connota un atto medico.
Ora, nei paesi occidentali l'attività medica è riservata ai laureati in medicina, ovvero a persone che sono state formate e cooptate da medici già riconosciuti: la società delega alla corporazione medica la scelta dei terapeuti di cui l'utente possa fidarsi. Come nel caso della magistratura o dell'ingegneria, anche nel caso della medicina la società rinuncia al controllo democratico: delega il riconoscimento dei praticanti ad una lobby di esperti. In Europa, né i magistrati né i medici né gli ingegneri sono eletti dal popolo (negli USA, invece, alcuni magistrati sono eletti). Se io sono messo sotto processo, non sono libero di farmi difendere da chi voglio, ma solo da un avvocato inscritto nella corporazione degli avvocati. E' forte la tentazione di applicare lo stesso criterio anche alla nebulosa di quelli che gli americani chiamano shrinks, strizzacervelli. La legge Ossicini in Italia (che regola la pratica psicoterapeutica) è andata in questo senso: sono abilitati alla psicoterapia solo i laureati in psicologia o medicina formati e selezionati da anziani a loro volta ufficialmente riconosciuti. Il guaio però è che mentre quella medica è una comunità nelle grandi linee unita, quella degli shrinks è divisa profondamente al proprio interno, il che rende in parte inapplicabile il modello medico di cooptazione.
Molti colleghi spendono molta energia a rigettare il modello medico in psicoanalisi. Non che i loro argomenti siano irrilevanti, ma la mia impressione è che sbaglino il bersaglio storico. La de-medicalizzazione della psicoterapia è ormai quasi compiuta, e non per scelta degli analisti ma dei medici psichiatri: sempre più questi ultimi rigettano la psicoanalisi e le psicoterapie che non siano comportamentali o cognitive. Il divorzio tra psichiatri e analisti è ormai ampiamente consumato, soprattutto negli Stati Uniti. Attaccare la medicalizzazione della psicoanalisi mi pare quindi combattere con un cadavere.
D'altro canto, il desiderio di alcuni analisti di essere assimilati a medici - o peggio, a scienziati - mi appare sempre più donchisciottesco. Questo fascino degli analisti per la medicina emerge sintomaticamente persino tra chi - come i lacaniani - rigetta completamente il modello medico. Emerge ad esempio attraverso il linguaggio che usano: parlano di "cura", di "sintomi", di "clinica", di "diagnosi", usano la nosografia ottocentesca kraepeliniana o bleuleriana fatta propria dal Doktor Freud un secolo fa. Gli allievi di Lacan lo chiamavano sempre, rispettosamente, docteur Lacan. Tuttora gli analisti, anche i più scapigliati, sono molto più iatrofili di quanto i medici non siano analitofili. Ma attaccare il modello medico in psicoanalisi equivale ad attaccare una scimmiottatura, oggi chiaramente derisoria, di questo modello.
Quel che mi pare oggi importante non è quindi marcare la differenza specifica tra medici e analisti, quanto porsi il problema del riconoscimento pubblico: lo psicoterapeuta riconosciuto oggi in Italia è assimilabile all'architetto e all'avvocato non meno che al medico.
Esistono nelle società occidentali due tipi di prestatori d'opera: per un tipo lo stato assicura l'esclusiva a operatori legittimi; per un altro tipo invece lo stato non mette becco, vale la pura legge del mercato. Al primo tipo, in Italia, appartengono gli avvocati, i medici, gli architetti, i notai, ecc.(1) Chi svolge servizi di avvocato, medico, architetto o notaio senza essere iscritto nella corporazione legalmente riconosciuta, è incriminabile. Al secondo tipo, in Italia, appartengono gli stagnari, gli artisti, gli psicoanalisti, le prostitute, i politici, i tecnici informatici, i chiromanti, in parte le domestiche, ecc.

2.
Mentre una valanga di scritti predica o critica la separazione tra la pratica dell'analista e quella del medico, quasi nessun articolo paragona la pratica dell'analista a quella della prostituta. Solo Elvio Fachinelli osò questo accostamento, nell'articolo "Il danaro dello psicoanalista" (1975) - ripubblicato in inglese sul Journal of European Psychoanalysis, n. 18 (www.psychomedia.it/jep). Eppure in molte analisi emerge la fantasia del proprio analista come puttana. In effetti l'analista, come la meretrice, si fa pagare a ore (i lacaniani preferiscono un pagamento a cottimo) per prestazioni non utilitarie ma che sollecitano qualcosa dell'ordine del godimento: sia con la prostituta che con l'analista è possibile portar fuori desideri e fantasie proibite, e sperimentare una relazione inaudita nella vita normale. La differenza è che mentre la prostituzione è il più antico mestiere del mondo, l'analisi è un mestiere moderno. Eppure, di fronte ad ambedue queste attività la società politica e civile si trova imbarazzata, perplessa: occorre riconoscere giuridicamente i rapporti di prostituzione e quelli analitici? (Un problema un po' simile si pone oggi anche per i rapporti omosessuali: è ammissibile un matrimonio gay?) E, in caso affermativo, fino a che punto questo riconoscimento deve implicare un controllo, una limitazione, o addirittura una repressione nei confronti di chi non è riconosciuto?
In Italia, prima della legge Merlin del 1959, la prostituta era riconosciuta come tale e quindi controllata; occorreva ad esempio che essa si facesse periodicamente visitare da medici fiscali. Oggi in Italia la prostituzione è un mestiere legittimo ma non riconosciuto; è perseguitato invece chi trae profitto dalla prostituzione. Insomma, dal 1959 la puttana è libera - ma sappiamo quanto questo sia spesso solo derisoriamente vero - fino al punto di non tassarle nemmeno i guadagni, il che è un privilegio. Ma questa libertà e privilegio si scontra con la constatazione che, molto spesso, la prostituzione è asservita alla malavita. Inoltre, che cosa rispondere alle persone che rivendicano come un loro diritto rimuovere (verdrängen) la prostituzione lontano dai loro occhi, non dover vivere accanto a prostitute? Prima o poi lo stato - ovvero l'Ego della società civile, per ricorrere alla seconda topica freudiana - deve occuparsi dell'Es, di una relazione così squisitamente privata come l'atto sessuale. La politicità, cacciata fuori dalla porta della stanza da letto o dello studio analitico, ritorna dalla finestra.
Ora la società, via stato, finisce con l'occuparsi anche della psicoanalisi, benché non per le stesse ragioni che della prostituzione. Analizzare e prostituirsi sono oggi, almeno in Italia, professioni legali ma regolate solo negativamente, nel senso che si commettono reati se si fanno certe cose. La prostituta è perseguibile se adesca, l'analista è perseguibile se si dichiara psicoterapeuta (nel caso non sia iscritto all'albo degli psicologi o dei medici). La rivendicazione di una completa de-responsabilizzazione della relazione analitica - farne insomma l'equivalente di un atto squisitamente privato come è il coito tra adulti consenzienti - esprime un'idealizzazione; ma prima o poi dovrà fare i conti, in tutto l'Occidente, con richieste sempre più pressanti di regolamentarla. Rivendicare la dolce innocenza del paradiso perduto, quando l'analisi riguardava quattro gatti e non aveva alcun impatto sociale, è una reazione nostalgica, in alcuni casi chiaramente narcisistica. Più la psicoanalisi si diffonde, più essa attira l'attenzione della società civile e dello stato.
Non dico che lo stato debba regolare la psicoanalisi: mi limito a dire che l'esigenza di regolamentarla andrà crescendo, e che gli analisti - se vogliono evitare di essere regolati troppo o male - non possono limitarsi alla rivendicazione reattiva e piagnona della loro sovrana libertà.
Ad un certo punto la società vuole andare a guardare dentro il rapporto analitico, e non sempre - come pensano i corifei della Libertà Analitica Illimitata (LAI) - per ragioni perverse. In alcuni casi critici questo sguardo è sollecitato. Ad esempio, quando un analizzante denuncia l'analista per plagio, o malpractice, o abuso, ecc. Ma soprattutto il pubblico chiede all'autorità pubblica delle garanzie: "quando adulti o bambini stanno male e li affidiamo a sedicenti psicoanalisti, a chi li stiamo mettendo in mano? Perché lo stato non aiuta noi consumatori di analisi a distinguere il grano dall'oglio? Chiediamo allo stato di tutelarci come utenti, ad esempio di garantirci che quel che si vende come 'aranciata' contenga un minimo di succo di arancia. O di garantirci che quel che ci si vende come medicine abbiano una minima efficacia contro certi malanni. Perché non chiedergli anche una garanzia simile quando si tratta delle nostre anime?" La gente non sa però che per combinare grossi guai uno psicoanalista deve essere davvero molto bravo (come ha detto spesso Giacomo Contri): quando lo stato riconosce i più bravi, riconosce anche i più pericolosi. Ma comunque il pubblico spera di essere protetto almeno da quelli non bravi e quindi innocui, nella misura in cui fanno buttare molti soldi per nulla.
Insomma, la richiesta che lo stato selezioni chi può curare le anime rientra nell'epopea della Tutela del Consumatore: le associazioni di difesa del consumatore sono in espansione in tutto l'Occidente, e certo psicoterapia e psicoanalisi non sfuggono a questa angoscia crescente del consumatore moderno. Del resto, alcuni soggetti che vanno in analisi sono particolarmente fragili o suggestionabili: il godimento dei loro diritti civili ci autorizza a disinteressarcene quando abbiamo l'impressione che finiscano nelle mani di truffatori e approfittatori?
Di recente in Italia un maestro di canto cinquantenne è stato condannato da un tribunale perché aveva convinto due sue allieve ventenni ad avere rapporti sessuali con lui in quanto questi avrebbero migliorato le loro abilità canore. Una storia squisitamente alla Boccaccio. Benché le ragazze fossero maggiorenni e consenzienti, il tipo è incriminabile per "abuso della fragilità mentale altrui": in termini più chiari, siccome erano due cretine vanno tutelate dalla legge contro i dritti come quel maestro di canto. La nostra etica giuridica tende a tutelare "i fragili mentali" (anche contro maghi e imbonitori vari?)
Non dico che la mancanza di regolazione statale della professione - ovvero, il puro e semplice ritorno allo status quo ante, nel quale l'analista si trovava tanto bene - non possa essere una risposta politica valida. Da analista, anch'io ho nostalgia della pacchia del passato. Critico qui piuttosto certi presupposti taciti - ad un tempo filosofici, etici e narcisistici - di questa opposizione da parte di molti analisti. Proprio perché questa opposizione spesso è puramente reattiva, nostalgica, difensiva, essa si rivela spesso politicamente perdente. Qualsiasi difesa libertaria della pratica analitica deve comunque partire da un dato di fatto: che la relazione analitica sta diventando una domanda di massa e che quindi la società non può non preoccuparsene.

3.
Un problema simile si pone per la regolamentazione di attività esoteriche come magia, chiromanzia, cartomanzia, medicine alternative, ecc. Con prostituzione, psicoanalisi e pratiche magico-esoteriche i princìpi fondamentali, il sistema delle Grundnormen(2) etico-giuridiche, su cui si basano le società liberal-democratiche moderne, si trovano in forte tensione.
Infatti, da una parte le nostre Costituzioni garantiscono la libertà di pensiero e di fede: se voglio dare soldi ad un vescovo cattolico, o ad uno stregone africano o ad guru che promette miracoli, perché credo in quel che dicono, devo essere libero di farlo. Obiettare - come fanno alcuni - che certe pratiche magiche vanno legalmente perseguitate come truffe perché non hanno l'avallo della comunità scientifica, potrebbe portare a forme inaudite di intolleranza: siccome la vita eterna e l'esistenza di Dio non sono riconosciute dalla scienza, allora dovremmo arrestare il papa e tutte le gerarchie religiose come turlupinatori del pubblico.
Dall'altra però le nostre società vogliono anche proteggere i deboli da truffatori ed incapaci. C'è un residuo di paternalismo statale difficile da eliminare, in quanto si dà per scontato che non tutti i cittadini siano abbastanza maturi o esperti da auto-regolarsi. Liberisti, libertari, sostenitori dello stato minimo vorrebbero eliminare del tutto queste leggi paternaliste. In Italia, è previsto il Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO) di soggetti in crisi psicotica: è il caso più drammatico della faccia paternalista dello stato(3). Esempi di leggi paternaliste, tutt'oggi, sono l'obbligo del casco sulle moto o della cintura di sicurezza sulle auto, il divieto dell'uso e dello spaccio di droghe, la persecuzione della pratica dell'usura, l'impedimento degli atti suicidari, e simili. Si discute anche se rendere obbligatori alcuni atti medici contro la volontà del paziente - ad esempio, le trasfusioni di sangue per i testimoni di Jehova. Tutte queste leggi infantilizzano il cittadino in quanto lo costringono, benché adulto, ad essere protetto: lo stato impone al cittadino quel che esso stato considera Bene per il cittadino stesso. Nella misura in cui lo stato italiano garantisce alcuni come legittimi praticanti la psicoterapia - ma non la psicoanalisi - adotta una strategia paternalistica: tutela degli adulti in quanto incapaci di rendersi conto se hanno a che fare con un professionista serio o con un cialtrone.
Il principio della protezione dei deboli e quello della libertà di pensiero entrano qui in un pericoloso corto circuito.

4.
Il modo in cui certi sostenitori della LAI denunciano ogni intrusione del pubblico nel privato è a mio avviso un segno della resistenza che molti analisti - soprattutto i più anziani - mobilitano contro ogni tentativo di interrogare veramente la loro pratica secondo paradigmi e modalità che non siano auto-referenziali. Ovvero, in questo modo gli analisti esprimono la loro ostilità alle forme prevalenti nella nostra società: alla democrazia, alla scienza e allo stato di diritto in generale. Ora, queste tre forme sono modi dell'Altro rispetto alla pratica analitica.
Questo rifiuto dell'Altro assume di solito queste forme:
* rifiuto a priori di ogni riconoscimento legale della pratica analitica da parte di terzi rispetto alla coppia analista-analizzante
* rifiuto di render conto a terzi degli effetti, qualunque essi siano (quindi anche nulli o nocivi), della propria pratica
* rifiuto del confronto con metodologie, protocolli, critiche e ricerche provenienti dal campo scientifico, considerato questo come elemento terzo
* in certi casi, rifiuto di fare dei proventi dell'analisi un reddito fiscalmente imponibile (evasione fiscale)

Quest'ultimo rifiuto non è così raro. Conosco un'analista freudo-marxista che non rilascia alcuna certificazione dei propri compensi, e se un analizzante la richiede invece, interpreta la cosa come una forma di resistenza all'analisi...
Notiamo che questo sistema di rifiuti non proviene da Freud. Questi ha sempre pensato che il suo progetto fosse inscritto nel campo della scienza, e che quindi, in ultima analisi, la comunità scientifica dovesse essere la corte di Cassazione, per così dire, della validità della psicoanalisi. Mi pare invece che gli analisti oggi condividano sempre più le critiche volte alla psicoanalisi dai suoi più arcigni critici: che la psicoanalisi non ha nulla a che vedere con la scientificità, con la verità oggettiva, con effetti controllabili, che insomma essa è tutta sul versante del rapporto mistico e/o erotico, o della critica artistica o letteraria. Non a caso oggi tanti analisti si proclamano ermeneutici: "non facciamo altro che interpretare", così come fa il critico cinematografico o il biblista. Può darsi che la psicoanalisi veramente non sia altro che ermeneutica, e che quindi Freud si fosse sbagliato del tutto: ma allora sarebbe il caso di riconoscerlo pubblicamente. L'analista dovrebbe avere il coraggio di dire "non ha senso regolamentare la nostra pratica come non ha senso regolamentare la pratica di scrittori, maghi, critici letterari e strip-teaseuses. Perché, come tutti costoro, siamo inoffensivi e alquanto irrilevanti."
Freud non ha esitato a celebrare la psicoanalisi come la terza ferita fondamentale del narcisismo nella modernità, dopo la copernicana e la darwiniana. Oggi questo atto di arroganza gli viene spesso rimproverato. Ma sarebbe il caso che gli analisti subissero anche una quarta ferita narcisistica: quella di dover rendere conto pubblicamente della loro pratica. Questo perché non si suppone loro più il sapere, né si suppone a priori che operino bene. Molti analisti non si rendono conto che la nostra cultura ha superato il transfert nei confronti della psicoanalisi, e che quindi il loro rapporto alla cultura del tempo va radicalmente cambiato.
Le reazioni di alcuni psicoanalisti contro tutto quello che viene percepito come concorrenza professionale, scientifica o filosofica alla psicoanalisi sono furibonde: anatemi vengono lanciati contro la psicofarmacologia, le terapie cognitive, le neuroscienze, ecc. Le prime generazioni di analisti, invece, non avevano paura delle ricerche scientifiche in campi limitrofi, Freud non ha mai attaccato le ricerche neurofisiologiche della sua epoca, ad esempio. Anzi, i moderni neuroscienziati considerano il primo Freud - quello neurologico - come uno dei loro capostipiti: Freud aveva già previsto le sinapsi. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti, oggi gli analisti sono sulla difensiva, appaiono trafelati nel salvare il salvabile contro le Invasioni Barbariche (per usare il titolo di un recente film di Denys Arcand). Ma la risposta degli analisti alle terapie concorrenti mi appare spesso pateticamente piagnucolosa e malamente difensiva - insomma perdente. Mi pare che essa consista più nella difesa reattiva di una condizione passata di privilegio - quando la nostra cultura era in pieno transfert positivo con la psicoanalisi - che in un'apertura a quel che il mondo porta di nuovo.
Nella sua gioventù la psicoanalisi appariva come una punta avanzata della modernità, e in quanto tale essa scandalizzava i benpensanti; nella sua attuale (precoce) senilità, sono gli psicoanalisti piuttosto a scandalizzarsi e a denunciare la modernità. Da qualche parte molti analisti hanno perso qualche treno della storia.

5.
Rifiuto della validazione.
La scienza, da Galileo in poi, si basa sul carattere pubblico della sua pratica. Innanzi tutto, di uno scienziato conta solo ciò che ha pubblicato nelle riviste specializzate. Se ho ottenuto un risultato interessante da un esperimento, esso è preso sul serio dai miei colleghi solo se istruisco esattamente su come rifarlo da parte di altri. Nulla nella scienza deve restare segreto. Nella comunità scientifica, almeno in teoria, chiunque può controllare chiunque. Non dico, come i positivisti, che il gioco della scienza sia la sola forma possibile di intelligibilità del mondo - si tratta comunque di un legame sociale privilegiato nelle società liberal-democratiche industriali avanzate. La psicoanalisi certo non è una scienza - proprio per il suo carattere eminentemente privato ed erotico - ma è perdente quando comunque essa cerca di sfuggire alla presa pubblica e al tentativo pubblico di farne oggetto di indagine. Non è grave insomma il fatto che la psicoanalisi non sia scienza, tante cose sono buone e belle e vere senza essere scienza - è grave che si sottragga allo sguardo della scienza acquattandosi in un porto franco epistemologico.
Probabilmente gli attacchi contro ogni tentativo di mettere il naso nella pratica analitica, e di chiedere comunque prove della sua plausibilità, rivelano una coda di paglia degli analisti. C'è una supposizione di fondo tra gli analisti: che la loro pratica sia terapeuticamente inefficace. Alcuni anzi se ne vantano: "come guaritori siamo zero!" Molti analisti credono nella storiella dell'adulto enuretico. Questi, dopo dieci anni di analisi, parla entusiasticamente della sua analisi ad un amico. E quando l'amico gli chiede spazientito "ma te la fai sempre sotto la pipì?", lui risponde: "Si. Ma ora ne sono fiero!". Ora, siccome si suppone che nelle validazioni esterne dell'efficacia dell'analisi non si calcoli la fierezza, ma le occasioni in cui si urina si, è comprensibile la paura: "la mia cura verrebbe giudicata inefficace".
Eppure dagli studi empirici sull'efficacia comparativa delle pratiche terapeutiche(4) molto spesso la prassi analitica non ne esce così malconcia come molti analisti danno per scontato. E altre terapie oggi esaltate - come la psicofarmacologia ad esempio - non ne escono così vincenti come i media vorrebbero farci credere. Luborsky ha parlato anzi del "principio di Dodo"(5), riferendosi ad un episodio di Alice in Wonderland di Carroll: un gioco dal quale tutti escono vincitori. Tutte le cure vincono. Risulta che qualsiasi terapia - psicoanalisi inclusa - è più efficace del semplice far nulla, ma nessuna emerge sulle altre come di gran lunga la più efficace. Non mi si fraintenda: non voglio dire che queste ricerche siano ottimali, che non siano anche rozze, biased, miopi, puramente quantitative, e chi più ne ha più ne metta. Ma è significativo che, malgrado questi limiti, molti risultati siano alquanto diversi da quanto i pregiudizi comuni - a cui spesso gli analisti aderiscono in modo acritico - farebbero pensare.
Malgrado questo, la paura di uscire con le ossa rotte dalle procedure di validazione dell'efficacia analitica porta molti analisti ad escludere a priori qualsiasi proposta che vada in questo senso, anche per semplice curiosità scientifica. Può essere vero che i protocolli di validazione finora proposti siano criticabili, ma decidendo di sottrarsi alla discussione sui criteri di validazione - condannati come il papa condanna l'aborto, cioè in ogni caso - gli analisti non contribuiscono ad affinare criteri e metodi della validazione. Anzi, lasciano di fatto il campo ai validatori peggiori, insensibili a criteri qualitativi e dialettici.
Eppure nella nostra pratica quotidiana tutti noi validiamo i nostri colleghi e (si spera) noi stessi. Se un nostro allievo perde i pazienti dopo poche sedute, se i suoi analizzanti non mostrano alcun miglioramento sintomatico, se alcuni di loro si suicidano, se altri restano per anni e anni legati a lui in una dipendenza transferale, ecc., pensiamo che questo allievo non valga granché. Ogni giorno validiamo, anche se su una base impressionistica, dalla nostra angolazione parziale. Ogni volta che consigliamo a qualcuno un analista da cui andare, di fatto riconosciamo come valido il collega che consigliamo, ma ahimé, per lo più sulla base di nostri pregiudizi personali o di dicerie. Chi rigetta a priori qualsiasi idea di validazione non puramente soggettiva sulla base dell'idea che si tratti di protocolli rozzi, di fatto preferisce la rozzezza molto maggiore della propria validazione. Di fatto, quando alcuni rigettano con orrore l'idea stessa che la propria pratica possa ricevere una pagella, quel che rigettano "senza se e senza ma" è l'idea che altri possano scrivere questa pagella. Non si rinuncia mai al proprio potere di giudicare: si attacca quasi sempre solo il potere di giudicare degli altri.

Era bella l'Età dell'Oro di una psicoanalisi politicamente irresponsabile: all'epoca analizzavamo come e chi volevamo, non dovevamo rendere conto a nessuno - solo ad alcuni nostri supervisori, se facevamo parte di una scuola strutturata. A chi non piacerebbe tornare a quell'epoca? Ma è sorprendente che gli analisti - i quali esaltano tanto l'emancipazione e la maturazione - non si vogliano congedare dall'Eden del passato.

6.
Queste mie critiche al narcisismo di certi analisti non implicano che io mi accodi alla tendenza che vuole far convergere la psicoanalisi con le scienze cognitive. Non partecipo a programmi di validazione empirica delle psicoterapie, e simili. Ma il fatto che io personalmente non segua questa strada non implica ipso facto che io rigetti a priori, dogmaticamente, ogni confronto con chi chiede ragione della pratica analitica. Anche quando uno stato - a differenza dello stato tedesco - non rimborsa in tutto o in parte le sedute analitiche, esso ha il diritto di chiedermi di spiegare la mia pratica in modo pubblicamente comprensibile. Se si tratta di uno stato liberal-democratico, che rappresenta in qualche modo il modo di vedere della popolazione, giusto o sbagliato che sia. Il bisogno condivisibile di tutelare la libertà analitica non deve essere l'alibi per auto-rinchiudersi nel ghetto dorato ed autocompiaciuto delle scuole.
Questa adesione al LAI mi stupisce in particolar modo tra certi lacaniani, vale a dire tra analisti che molto più di altri hanno sottolineato l'importanza della Legge per l'inconscio di ciascun soggetto. Lacan si è distinto per una critica a quella che lui chiamava l'"ideologia americana dell'Io Autonomo", vale a dire all'idea che ogni soggetto debba darsi la propria legge da sé. Certo in questa critica di Lacan c'erano già delle ambiguità. In effetti, chiunque abbia conosciuto Lacan sa bene che se c'è stato un Io Autonomo è stato proprio lui. Da una parte una critica teorica all'autonomia, dall'altra uno stile di vita che esaltava questa autonomia, con motti del tipo "l'analista si autorizza solo da sé". Comunque sia, tutto il pensiero di Lacan insiste sulla funzione dell'Altro come terzo, sull'impossibilità, per una coppia di soggetti - compresa la coppia innamorata - di escludersi da un sistema di inscrizioni e riconoscimenti "altrificanti". Insomma, il soggetto e la coppia sono sempre eteronomi. Ora, è un sintomo il fatto che siano i lacaniani, più di tutti gli altri, a rivendicare il LAI, cioè a rigettare qualsiasi legame simbolico che unisce la pratica privata ai legami sociali pubblici.
Mi pare che oggi i discepoli del grande accusatore dell'ideologia dell'autonomia siano i più vicini a quel movimento politico che, non certo a caso, si fece chiamare Autonomia: vale a dire un movimento politicamente irresponsabile, perché puramente espressivo di sentimenti e utopie, ma senza progetto politico responsabile. Un movimento di acting-out, non di working-through.
Eppure Lacan ha insistito sul fatto che l'analisi è un legame sociale. In questo, egli è andato più avanti di molte altre scuole, in particolare britanniche, che leggono la pratica analitica sulla base del modello privatissimo della relazione madre-bambino. Contro "l'ideologia britannica" Lacan giustamente ha ricordato che così come il bebé e la madre non sono soli - il loro rapporto è già in qualche modo politico - analogamente la relazione analitica è a suo modo politica; anche se la coppia analitica, immersa nel transfert, spesso lo perde di vista. (Non a caso Lacan ha correlato il discorso analitico al discorso universitario e a quello padronale, oltre che a quello isterico.)
Ricordo che quando, nel 1975, Lacan parlò a Milano all'istituto culturale francese ad un gruppo di seguaci italiani, una giovane se ne venne fuori con una sorta di peana alla qualità a-sociale, eversiva, socialmente trasgressiva, della relazione analitica. Si avvicinavano i tempi dell'Autonomia. Al che Lacan reagì in modo deciso che no, la relazione analitica è un legame sociale. La sua apparenza intimistica non deve renderci ciechi alla sua faccia necessariamente pubblica. Se l'analisi è un atto politico, come pretendere allora che la società e lo stato non se ne preoccupino? E come potremmo noi ignorare queste preoccupazioni?
Il caso di molti lacaniani - che dicono il contrario di quello che la loro teoria predica - non è isolato. Mi ha sempre colpito quanto, nelle questioni sociali interne alla psicoanalisi, le posizioni politiche classiche tendano a rovesciarsi. Gli analisti di sinistra estrema rigettano con indignazione ogni intervento dello stato nel campo psicoterapico, giusto il contrario di quello che predicano in campo economico e sociale. All'inverso, i conservatori inclini al liberismo più sfrenato di solito sembrano i più propensi alle regolamentazioni statali. Lo abbiamo visto di recente in Francia: è stato il governo di destra a proporre una forma di legalizzazione della psicoanalisi, a cui molti politici di sinistra hanno reagito rivendicando la libertà della pura iniziativa privata in campo "psic". Le monde à l'envers.
Credo che questo rovesciamento delle posizioni politiche non sia aneddotico, ma riveli qualcosa di profondo del rapporto del nostro immaginario sociale all'ordine del desiderio. Questo ordine viene percepito, sia dalla destra che dalla sinistra, come antipodico, se mi si permette il neologismo, rispetto al supposto ordine della Città, come un luogo di eccezionalità che rovescia radicalmente il sociale. L'uomo e la donna di sinistra cercano nella psicoanalisi ciò che rischia di svanire nella loro concezione politica: la responsabilità cruciale del singolo. E l'uomo e la donna di destra cercano nella psicoanalisi quel che tende a scivolar via nella loro concezione: il senso della carità e della solidarietà. Ma mi chiedo se sia la sinistra che la destra non siano qui vittime di un pregiudizio culturale di matrice romantica. Comunque, la pratica analitica compie il prodigio di rovesciare i posti tra sinistra e destra.
Ad esempio, nel Manifeste pour la Psychanalyse che gli amici francesi ci hanno mandato contro il progetto francese di regolamentazione, si insiste sulla difesa della solitudine dell'analista rispetto al suo atto. Ma questa solitudine è un ideale, un po' come la solitudine cantata da Léo Ferré: mais... la solitude! Di fatto, purtroppo, l'analista non è mai solo, e non solo perché comunque è sempre in relazione a degli analizzanti. Parafrasando Sartre, possiamo dire: les autres c'est l'enfer auquel l'analyste est condamné.
Gi analisti francesi - più intrisi di romanticismo sessantottesco - denigrano la psicoanalisi tedesca in toto, nella misura in cui lo stato tedesco (stato provvidenziale, stato-mamma, stato-grazia) paga parte dell'analisi ai cittadini. Un gauchiste è convinto invece che un analizzante povero debba pagare il suo analista di tasca propria fino all'ultimo centesimo, magari costringendo la sua famiglia a saltare i pasti. Quando ho fatto osservare questo paradosso ad un analista francese di sinistra, mi ha risposto "Non vogliamo che l'analizzante sia aiutato dallo stato perché vogliamo rafforzare il suo senso di responsabilità e la sua autonomia." Ma questo è proprio il tema tipico del liberismo! La critica liberale batte sempre su questo tasto: che lo stato socialista è una Mamma infantilizzante, soffocante nella sua protezione del soggetto dalla culla alla tomba, e che invece occorre responsabilizzare gli individui, incitandoli all'autonomia. Autonomia, termine ambiguo: significa sia mancanza di dipendenza, sia darsi la legge da sé.

6.
Gli analisti si sentono coartati dalla legge Ossicini anche se questa non fa parola della psicoanalisi. In pratica, un analista potrebbe continuare tranquillamente a fare il suo mestiere, rigettando per sé l'etichetta sia di psicologo che di psicoterapeuta. Alcuni - pochi - più coerenti lo fanno. Del resto, fu la linea di difesa di Verdiglione al famoso processo: "non ho le responsabilità di un medico, io faccio solo cifrematica!"
Il punto è che spesso gli analisti vogliono il bianco e il nero contemporaneamente. Da una parte lamentano che la legge regoli la loro attività (anche se essa non fa parola della psicoanalisi), dall'altra invece vorrebbero essere in qualche modo politicamente riconosciuti - anche perché questo riconoscimento implica in prospettiva dei vantaggi concreti (come rimborso parziale delle sedute da parte dello Stato-Provvidenza). Alcuni analisti insomma chiedono in modo infantile dei privilegi inauditi: vogliono che lo stato li protegga e li riconosca, ma senza che loro in cambio debbano dare nulla come garanzia. L'analista ripete "svolgo un'attività socialmente encomiabile", ma quando la società gli chiede prove di questa encomiabilità, risponde che così si sente coartato. Si sa che lo stato - ovvero, l'Ego della società - controlla molto più decisamente non quando reprime, ma quando protegge. Comunque è derisorio chiedere di essere riconosciuti - quindi protetti - e non controllati.
La maggior parte degli analisti, di fatto, per non perdere allievi hanno dovuto adeguarsi alle norme legali. Io stesso ne feci l'esperienza quando dirigevo, con altri, un Centro di Psicoanalisi a Roma: subito dopo l'approvazione della legge Ossicini, buona parte degli allievi si volatizzarono. Perché volevano assicurarsi prima che il Centro sarebbe stato legalmente riconosciuto. Insomma, la legge Ossicini è stato un rivelatore di un bisogno di legalità e rispettabilità da parte delle nuove leve; bisogno che era rimasto inespresso nel vecchio regime. La legge Ossicini è stata una brutta sorpresa per l'ingenuo idealismo di tanti analisti: ha mostrato quanto fossero conservatrici e poco anarchiche le esigenze dei loro amatissimi allievi! volevano essere garantiti da diplomi, targhette, pezzi di carta, liste ed albi. E' emersa tra i rampolli una fame divorante di inclusione e di rispettabilità, di "spirito conformista del gregge" per dirla à la Nietzsche, che i leader avevano olimpicamente scotomizzato. In questo senso la legge Ossicini ha sortito un effetto di verità.
Ora, le questioni di formazione degli analisti sono particolarmente spinose nel campo psicoanalitico perché in questo ambito l'illusione intimista dell'analisi non può più essere mantenuta: nelle questioni formative il pubblico, cacciato dalla porta, rientra dalla finestra. Formare allievi significa preoccuparsi dei loro sbocchi professionali, del riconoscimento delle autorizzazioni che la scuola ha dato loro, dei legami con le carriere universitarie, ospedaliere, ecc. Ogni forma di legalizzazione delle pratiche analitiche riporta quindi la Torre d'Avorio analitica alla realtà; il Maestro ripiomba nel fango della polis.

7.
Con tutto questo non voglio dire, però, che sono da imitare gli analisti per tutte le stagioni: i faccendieri che si adeguano subito a norme e leggi perché la loro vera passione è il potere. L'opportunismo portò, ad esempio, alcuni analisti ariani a voler far sopravvivere la psicoanalisi nel Terzo Reich.
In un certo senso, mi sento preso tra Scilla e Cariddi. Da una parte la Scilla del LAI - il cuore - con le sue regressioni narcisistiche; dall'altra la Cariddi dell'opportunismo - la ragione calcolativa - di chi vuole restare a galla ad ogni costo. E ben sappiamo quanto gli analisti partecipino ai rapporti controversi, irrisolti, tra cuore e ragione!
Ora, è un segno della politicità della psicoanalisi il fatto che questa pratica sopravvive e si diffonde unicamente in paesi democratici e liberali - sia detto questo con buona pace dei freudo-marxisti. Tre anni fa ero a Cuba e ho conosciuto alcuni giovani "analisti" cubani: mi sembra che l'analisi non possa avere veramente spazio in un regime come quello di Castro. Sarebbe anzi interessante capire perché. Perché in un paese dove non esiste la libertà di stampa, ad esempio, l'inconscio si chiude? Questo può valere anche per paesi sedicenti liberali, del resto: ad esempio, se quello di Berlusconi diventasse un regime, ci sarebbe in Italia ancora spazio per la psicoanalisi? Non parlo di spazio legale: parlo di spazio mentale per fare analisi.

Un altro aspetto che mi lascia molto perplesso è il lamento di certi analisti sul degrado della clientela con cui hanno a che fare. Non a caso oggi si ricorda che Freud chiamò una volta i suoi pazienti "gentaglia". Non si riescono a trovare i buoni e ligi analizzanti di un tempo, quelli che si sottoponevano a tre o più sedute a settimana. Con quelli l'analisi era come una bella passeggiata tra gentiluomini in fiacre. Oggi la maggior parte degli analizzanti si rifiutano di fare anche due sedute a settimana. Inoltre vogliono vedere risultati a breve scadenza, altrimenti ti mollano. Non è più come un tempo, quando gli analizzanti si bevevano tutte le interpretazioni che passavano per la testa dell'analista, e lo ringraziavano con ossequiosi miglioramenti sintomatici. Allora gli analisti erano pochi e quindi pochi e scelti anche gli analizzanti, analisti e analizzanti venivano dallo stesso milieu borghese colto. Oggi, si dice, domina la cultura del narcisismo, la fretta di guarire, il consumismo psichiatrico, il disprezzo per la lunga ascesi analitica ("l'analisi è una sega!"), la paura di investire in una attività senza scadenze precise, ecc. ecc. Insomma, gli analizzanti sono diventati gentaccia. Sempre più in certi saggi clinici - soprattutto anglo-americani - si legge il livore contro un certo tipo di pazienti, la cui specificità soggettiva viene ridotta, de facto, alle grane e seccature che infliggono all'analista, il quale non riesce con loro a far rispettare le Sacre Regole del Setting.
Non a caso, molti analisti al vertice della carriera preferiscono formare allievi anziché continuare a vedere gente con problemi seri: con gli allievi, per i quali l'analisi è anche un apprendimento e un esame, la situazione idilliaca di un tempo si ricompone. Obbedienti e legati da un'ammirazione reverenziale per il loro maestro, gli analizzanti-allievi forniscono all'anziano, che ormai non capisce più gli inconsci del 2000, quella campana di vetro intersoggettiva di cui ha tanta nostalgia.
Quindi, alla rivendicazione di una psicoanalisi intimistica e deresponsabilizzata, si aggiunge la rivendicazione non meno nostalgica di una soggettività conforme alle vecchie regole analitiche, a cui si contrappone il nuovo Satana: la soggettività moderna "consumista". In ambedue i casi, vi leggo i sintomi di uno scollamento di certa psicoanalisi dalla realtà soggettiva del nostro tempo.
Non era così al tempo di Freud e delle prime generazioni analitiche. Non dicevano "com'erano belli i nevrotici della mia gioventù!". Perciò all'epoca la psicoanalisi ebbe un formidabile impatto: non resisteva alle nuove forme di soggettività, non le condannava moralisticamente, ma entrava in contatto trasformativo con esse. Oggi invece, molti analisti preferiscono l'anatema di tipo "francofortese" (alla Horkheimer, Adorno, Marcuse) contro i Tempi Moderni.
Insomma, molta psicoanalisi si attarda nella sindrome dell'anima bella descritta da Hegel. Tutto quello che ho detto finora tende a mostrare quanto in realtà tanti analisti partecipino di quel narcisismo - nella sua forma rivendicativa, nostalgica e querula - che essi denunciano. Così, ad esempio, conosco alcuni analisti che sparano a zero contro "la cultura dello psicofarmaco" e che poi, si sa, fanno loro stessi ampio uso di psicofarmaci quando si sentono in crisi.


Note:

1 Paolo Tucci mi dice che la differenza tra i due tipi è quella tra chi applica una tecnica e chi ha una prassi. Purtroppo la distinzione tra tecnica e prassi non è mai netta. Un avvocato, ad esempio, è un "tecnico" o un "prassico"? E le prostitute e gli stagnari, non devono anche essere in possesso di una certa tecnica? Ogni prassi comporta risvolti tecnici, ed ogni tecnica è inscritta in una prassi più ampia.

2 "Norme fondamentali": sono i presupposti iniziali su cui, secondo Hans Kelsen, si basa ogni sistema giuridico.

3 Qui la giustificazione paternalistica è parziale, in quanto si suppone che il paziente da TSO sia anche pericoloso per gli altri.

4 Cfr. ad es. John Horgan, La mente inviolata, Raffaello Cortina, Milano 2001, cap. 2 e 3.

5 Cfr. Lester Luborsky et al., "Comparative Studies of Psychotherapies: Is It True That Everybody Has Won and All Must Have Prizes?", Archives of General Psychiatry, 32, 1975, pp. 995-1008.


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