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PSYCHOMEDIA
SETTING INDIVIDUALE
Psicoanalisi



J E P (Journal of European Psychoanalysis), 2004, 18: 49-85

Psychoanalysis and the law. An italian discussion

A Round Table Discussion (March 14, 2004):
Bice Benvenuto, Sergio Benvenuto, Sergio Contardi, Giacomo Contri, Marco Focchi, Giorgio Landoni, Valeria La Via, Paolo Migone, Diego Napolitani, Paola Ronchetti, Paolo Tucci
(Vai alla traduzione italiana della Tavola rotonda)

Intervento di Paolo Migone*
Condirettore di Psicoterapia e Scienze Umane

"La psicoanalisi, la legge, il pubblico"



La relazione di Sergio Benvenuto mi ha provocato una duplice reazione: positiva per la piacevole lettura caratterizzata dalla qualità letteraria e anche da spunti ironici (caratteristica peraltro di tutti i suoi scritti), e contemporaneamente anche un imbarazzo causato da una domanda che mi facevo: come mai oggi vi è qualcuno che sente il bisogno di dire queste cose? Ritengo cioè che le osservazioni fatte da Benvenuto nel suo scritto dovrebbero essere note a tutti (almeno dal mio punto di vista), per cui trovavo un po' inquietante il fatto che si dovesse ritenere di dirle.
Dato il limitato tempo a mia disposizione non mi soffermerò sui passaggi di quella relazione, e farò alcune osservazioni su due aspetti: un aspetto pratico e un aspetto che possiamo chiamare teorico, per me più interessante.
Dal punto di vista pratico o legale, le cose sono già state ben spiegate dalla relazione di Valeria La Via per cui non saprei cosa aggiungere, se non cose marginali. La cosiddetta "psicoanalisi" (qualunque cosa essa significhi, e scritta con o senza la "o") non è regolamentata dallo stato, per cui in teoria chiunque può praticarla a patto che sia in regola col fisco, esattamente come la chiromanzia e altre pratiche non regolamentate. Possono scattare denunce da parte di ordini professionali e lo "psicoanalista" può essere punito o meno a seconda che si riesca a dimostrare che in questo caso si applica la legge che regolamenta la "psicoterapia". Non sono al corrente sull'esito di azioni legali avvenute negli ultimi anni, immagino però che molto dipenda dallo zelo di determinati avvocati, dalle forze in campo, ecc. Mi risulta però che alcuni anni fa un autorevole giurista di Bologna diede un parere favorevole sulla indipendenza della psicoanalisi dalla "psicoterapia" regolamentata. A parte questo, tutti conosciamo "psicoanalisti" molto bravi che lavorano tranquillamente pur non essendo "psicoterapeuti", né essendo iscritti agli albi professionali dei medici o degli psicologi, o anche non avendo alcuna laurea. Così pure sono noti quei casi di colleghi regolarmente iscritti all'elenco degli psicoterapeuti che non hanno la più pallida idea di cosa sia la psicoterapia e che commettono scorrettezze di ogni genere, con comportamenti che sarebbero considerati nocivi da qualunque approccio psicoterapeutico. Sappiamo anche che gli albi professionali non possono fare gran ché in molti di questi casi (per omertà, per reali difficoltà a reperire le prove, per la paura a testimoniare da parte dei pazienti stessi che come ritorsione possono venir denunciati per diffamazione, e così via). Nella mia esperienza, poi, ho notato che non raramente quei colleghi che erano i più incapaci e i più scorretti agli occhi della locale comunità professionale sono stati i primi ad entrare negli elenchi degli psicoterapeuti, se non addirittura a far parte delle commissioni che dovevano giudicare i requisiti per l'ammissibilità dei colleghi agli elenchi. Da che mondo è mondo, tutti sanno che i più "furbi" sono sempre i primi a rientrare nelle leggi vigenti. Ma non continuo con queste osservazioni perché penso siano scontate.
L'aspetto più interessante è il secondo, il rapporto tra psicoanalisi e psicoterapia. Ma va subito chiarita una cosa: qui non parlerò dell'aspetto che si può chiamare "tattico", che è meno interessante, cioè della scelta di coloro che sanno benissimo che psicoanalisi e psicoterapia sono la stessa cosa ma che scelgono di differenziarle per poter praticare la psicoterapia aggirando la legge. Come è noto, questi colleghi scelgono di fare la stessa cosa usando un nome diverso: sono gli psicoanalisti, gli psicopedagogisti, i counselors, i pedagogisti clinici, gli assistenti sociali, gli educatori professionali in pratica privata, i counselors filosofici, gli psicologi (che non hanno fatto le scuole quadriennali, i testisti, ecc.), i medici (non specializzati i psichiatria o psichiatria infantile), e così via in una serie infinita di professioni fino ai pranoterapeuti, ai chiromanti, ecc. Tutti questi colleghi possono sapere benissimo che di fatto non vi è alcuna differenza tra la loro professione e quella degli psicoterapeuti, essendo tutte helping professions (un discorso a parte meriterebbero i pranoterapeuti e coloro che giustificano l'effetto terapeutico con mezzi apparentemente "non psicologici" ma "fisici", come ad esempio un supposto calore della mano e non l'effetto placebo o psicoterapeutico che invece rappresenta il vero meccanismo di azione - cosa questa che però accomuna queste professioni a una certa psicofarmacoterapia ignorante [peraltro praticata dalla stragrande maggioranza degli psichiatri, per cui non dovremmo scagliare la prima pietra] - ma qui non voglio soffermarmi su questi dettagli per mancanza di tempo).
La questione veramente interessante per me è rappresentata dalla scelta di differenziare psicoanalisi da psicoterapia per motivi teorici autentici. Mi riferiscono cioè a coloro che hanno la sincera convinzione che la psicoanalisi non è psicoterapia. Dato che, in un momento in cui vige una legge come la 56/1989, non si può mai sapere dove arrivi la falsa coscienza di ciascuno, sarebbe bello se non vi fosse questa legge, così discuteremmo più serenamente le varie posizioni. La scelta di separare nettamente la psicoanalisi dalla psicoterapia fu fatta da autori per altri versi opposti. Fu fatta ad esempio in un primo momento dalla Società Psicoanalitica Italiana (SPI), sotto la presidenza Carloni, quando si tentò l'operazione, a mio parere puramente commerciale, di separare la psicoanalisi da tutte le altre psicoterapie per rimanere fuori dalla regolamentazione e non doversi immischiare con tutti gli altri metalli più vili. Il tentativo era quello che fare leva sul pubblico con un marchio forte (il brand name "psicoanalisi") nella speranza che potesse ancora tirare, e nel contempo evitare gli aspetti burocratici della legge rimanendo in una sorta di splendido isolamento. Questa scelta presto però dovette rientrare, sia perché nessun candidato rischiava di fare più domanda alla SPI, sia perché gli analisti della SPI improvvisamente si accorsero che allora dovevano fare tutte le fatture con IVA. Presto la SPI corse a fare domanda di riconoscimento (invertendo, come se niente fosse, di 180 gradi le proprie convinzioni teoriche precedentemente sbandierate), ma essendo slittati i tempi persero vari anni col risultato che la SPI fu riconosciuta tardissimo, e questo fu abbastanza imbarazzante.
Un altro collega che fece questa scelta fu Verdiglione, che dichiarò che lui non faceva psicoterapia ma solo lezioni di filosofia o qualcosa del genere. Ma era sotto processo, per cui forse era una situazione particolare.
Ma veniamo ad affrontare di petto l'aspetto che, come dicevo, è più interessante: la psicoanalisi e la psicoterapia sono uguali o diverse? Se non esistesse la legge 56/1989, come porremmo il problema? Come alcuni sanno, mi sono occupato di questo tema a fondo e da vari anni, ovviamente dal mio punto di vista e da una determinata prospettiva teorica. Riassumerò qui molto brevemente certi punti della mia analisi, secondo la quale psicoanalisi e psicoterapia si sovrappongono, e che sostanzialmente si rifà soprattutto all'ultimo Merton Gill (1984), e, prima ancora, alle posizioni degli autori intepersonalisti americani degli anni 1920-40 (Sullivan, Fromm-Reichmann, ecc.), che addirittura tendevano ad identificare psicoanalisi con "psichiatria" tout court.
Il motivo per cui ritengo che psicoanalisi e psicoterapia si identifichino è molto semplice. Innanzitutto, per psicoterapia io intendo "terapia" in senso lato, intesa cioè come "cambiamento". La questione del tipo di cambiamenti che vogliamo ottenere (psicologici, comportamentali, piccoli, grandi, rilevanti, irrilevanti, simili a quelli a cui mira la "psichiatria" o invece molto diversi, ecc.) a mio parere appartiene ad un altro livello di discorso, l'importante è che accettiamo il concetto di "cambiamento", anche solo quello della struttura psichica o il cosiddetto insight. Se avviene un cambiamento a livello di insight, anche minimo, questo in teoria non può non avere ripercussioni a livello di altre aree (ad esempio comportamentali, cioè "psichiatriche"). Se è vero che l'analisi non si propone a priori una meta terapeutica prefissata altrimenti non sarebbe analisi, è però vero che ha uno scopo, quello appunto di un cambiamento, altrimenti non avrebbe senso di esistere. Che un cambiamento poi sia quello voluto dalla società o dal paziente, sia mirato al conformismo o ad un anticonformismo, a una espressione o a una repressione di contenuti mentali, serva all'adattamento o a un disadattamento (più o meno rivoluzionario), questo dipende da vari fattori quali il contesto in cui vive la coppia terapeutica, i loro valori, il periodo storico ecc. A tutti sarà capitato a volte di notare che quando un paziente secondo noi "migliora" subito tutti i familiari e gli amici dicono che peggiora, o i familiari peggiorano o cercano di fargli interrompere la terapia; oppure a volte se per noi il paziente "peggiora" i familiari possono dire che migliora. Ma queste cose, così come le relative implicazioni teoriche, sono talmente scontate che non vale la pena soffermarvisi (né c'era bisogno dei sistemici ce le ricordassero).
Il fatto che psicoanalisi e psicoterapia si identificano poi era quello che riteneva Freud, che era un medico e voleva cambiare i pazienti, e che nel costruire l'edificio della psicoanalisi partì dalla clinica, da esigenze pratiche.
Una giusta obiezione che alcuni potrebbero fare qui è che bisogna vedere cosa si intende per "psicoterapia". Infatti, possiamo essere d'accordo sul fatto che la psicoanalisi mira al cambiamento (non importa se "terapeutico" o meno, dato che abbiamo stabilito che i concetti di "terapia", di "miglioramento", ecc., dipendono unicamente dai valori vigenti in un dato periodo storico-culturale e geografico) ma possiamo non essere d'accordo sul modo con cui si intende raggiungere questo cambiamento. Ad esempio, possiamo modificare un paziente con l'ipnosi, o con la suggestione, la manipolazione, ecc.: è questa psicoanalisi? In altre parole, bisogna chiarire se per psicoterapia si intende la cosiddetta "psicoterapia psicoanalitica" (che io identifico per psicoanalisi tout court) oppure tutta la psicoterapia come fenomeno più vasto. Nel primo caso, non possiamo far altro che inserirci nell'annoso dibattito sulla differenza tra psicoanalisi e psicoterapia psicoanalitica, dibattito che ha occupato il movimento psicoanalitico da molti decenni, in modo importante e ufficiale da circa la metà del 1900 soprattutto in America in clima di piena espansione della Psicologia dell'Io (all'interno di altre correnti psicoanalitiche - come quella kleiniana, lacaniana, ecc. - non a caso questo dibattito non si è posto perché mancava quella specifica teorizzazione sulle funzioni dell'Io, cioè delle difese che andavano capite, analizzate, rispettate, comprese, ecc., così pure come mancava tutta la impostazione della problematica dello sviluppo, dell'adattamento e così via [tra le tante teorizzazione che sono state pietre miliari a questo riguardo, e che hanno dirette implicazioni sulla tecnica, vedi Eissler, 1953]). Non posso qui riprendere questo dibattito perché occorrerebbe molto spazio e questa non è la sede, per cui mi limito a rimandare ad altri miei lavori, alcuni dei quali sono facilmente reperibili perché sono anche su Internet (Migone, 1991, 1992a, 1992b, 1995b, 1995c, 1998a, 1998b, 2000, 2001a, 2003, ecc.).
Quello che mi piacerebbe fare qui è assumere un ruolo forse ancor più provocatorio, e provare a sostenere che ormai vi è ben poca differenza tra psicoanalisi e tutte (o quasi) le altre psicoterapie, dato che ormai quasi tutte le psicoterapie sono più o meno "dinamiche". Non solo, ma una cosa è certa: ormai vi può essere ben più differenza tra due tipi diversi di psicoanalisi che tra una psicoanalisi e una terapia dichiaratamente definita come "non psicoanalitica". Se infatti accettiamo la definizione molto allargata di psicoanalisi che ad esempio ne dà Gill (analisi del transfert, ovvero della relazione, al di là di qualunque criterio estrinseco o formale), in molte terapie si cerca di analizzare la relazione e non si tiene nascosto al paziente quello che si riesce a comprendere dei suoi significati.
Mi viene in mente ora che alcuni anni fa su una rivista mi confrontai con un analista lacaniano (Franco Baldini) proprio su questo tema. Intervenni con un mio scritto (Migone, 1995c) rispondendo a certe sue affermazioni, e Baldini mi promise che avrebbe a sua volta risposto, ma non lo fece. Dato che la redazione del Journal of European Psychoanalysis è sensibile alla cultura lacaniana, mi sembra questa una buona occasione per riproporre i temi di allora, sperando di ricevere almeno questa volta delle critiche che ovviamente saranno le benvenute.

Terapia o ricerca della verità?
Baldini (1995) sottolineava che lo scopo della psicoanalisi è la ricerca della verità, e che questo non sempre implica risultati "terapeutici". Vedeva insomma una contrapposizione tra terapia e ricerca della verità, anche se nulla vieta che la ricerca della verità possa produrre effetti terapeutici (nel qual caso, tanto meglio); ma se la verità non produce effetti terapeutici, allora lo psicoanalista dovrebbe privilegiare la ricerca della verità, non la terapia, altrimenti diventerebbe purtroppo uno psicoterapeuta.
Questo, in sintesi, era il discorso di Baldini, se io non l'ho frainteso (lui, contrariamene alla promessa fatta, non mi rispose mai, per cui non ho potuto sapere se l'ho frainteso). Ma anche nel caso l'avessi frainteso, lo utilizzo ugualmente come pretesto per discutere questa posizione così come io l'ho enunciata, posizione che è interessante e che ha una sua dignità teorica, e che mi sembra sia seguita in vari settori della psicoanalisi (ad esempio lacaniani). Cercherò di dimostrare che questa discussione su una eventuale differenza tra psicoanalisi e psicoterapia basata sul fatto che l'una cercherebbe la verità e l'altra no, oppure che l'una baderebbe più dell'altra agli aspetti terapeutici, sia una polemica ormai superata, e che la domanda interessante è chiedersi perché ancora ci poniamo questi problemi, cioè cosa può nascondersi dietro ad essi. Voglio qui prescindere dal problema del significato che noi possiamo dare al termine "verità" (quale verità? secondo chi o secondo quale teoria? e che dire della problematica filosofica posta dalla critica ermeneutica che ha relativizzato il concetto di verità dell'interpretazione? ecc.). Discutere il significato della parola "verità" ci porterebbe troppo lontano. Vediamo se il mio discorso riuscirà a stare comunque in piedi, ad avere una sua coerenza, qualunque sia il significato che noi diamo alla parola "verità", e assumendo ovviamente che sia diverso da quello della parola "terapia", altrimenti cadrebbe tutto il senso della puntualizzazione di Baldini in favore della psicoanalisi come dotata di uno statuto diverso da quello della psicoterapia.
Io ho sempre ritenuto che la psicoanalisi sia una forma di terapia, nel senso che il nostro mestiere è quello di aiutare i pazienti, i quali vengono da noi appunto per questo; negarlo sarebbe ipocrita. Questa era anche l'idea di Freud, che scoprì la psicoanalisi proprio come una forma di terapia. La migliore definizione che trovo del nostro lavoro è quella di helping profession ("professione di aiuto"), definizione semplice, chiara, che scavalca tutte le altre definizioni e le questioni delle diverse teorie. Per "terapia" però intendo in senso lato, come dicevo, operare dei cambiamenti nel paziente in risposta a una sua domanda di aiuto. Sicuramente aiutare un paziente a scoprire la sua verità è un tipo di questi cambiamenti, che può avere delle ripercussioni sul suo "benessere" o sul suo comportamento, ripercussioni che ovviamente possono essere sia positive che negative.
Ma questo è il punto: cosa significa ripercussioni "negative" e ripercussioni "positive" della scoperta della verità? Prima ho tenuto in sospeso la discussione sul significato della parola verità, e ora potrei fare la stessa cosa per gli aggettivi "negativo" e "positivo". In fondo, i significati di questi due aggettivi dipendono dai punti di vista: come accennavo prima, uno "psicoanalista" può ritenere che un paziente che peggiora per il fatto di aver scoperto la verità (o addirittura si scompensa, viene ricoverato, o magari si suicida) è migliorato da un punto di vista "psicoanalitico", perché si è avvicinato maggiormente alla verità. Non mi interessa per ora discutere se questo sia "giusto" o "sbagliato", perché bisognerebbe definire rispetto a che cosa un comportamento è giusto o sbagliato, e questo mi porterebbe fuori dal filo logico che voglio cercare di seguire.
La parola sulla quale vorrei attirare l'attenzione è "ripercussioni". Ritengo infatti che faccia parte integrante del compito dello psicoanalista (o dello psicoterapeuta che dir si voglia) prestare attenzione a tutte le possibili ripercussioni che ogni intervento può avere sul paziente (compresa la scoperta - o la non scoperta! - di una supposta verità), cioè sul suo funzionamento globale, su quelle strutture che con la terminologia classica si chiamavano Io, Es, e Super-Io, e oggi magari alcuni direbbero sul suo Sé, sulla sua persona, sulla sua personalità ecc. Si tratta di saper capire il significato di quello che facciamo, saperlo analizzare, cercare di vedere, o prevedere, le "ripercussioni" dei nostri interventi "su qualcos'altro" della personalità del paziente. La scoperta della verità fa bene al paziente? Fa male? Intendo dire che prima ancora di discutere cosa significa "bene" o "male", ci interessa essere consapevoli che vi possono essere comunque delle ripercussioni.
E' talmente scontato che la verità può far male, che non occorre ripeterlo, così pure come è noto che a volte essa possa far bene (ciò vale per il paziente come per il terapeuta). Io per esempio posso ritenere che sia utile per un certo paziente farlo star male nel breve periodo perché penso che questo gli sia utile nel lungo periodo (un esempio tipico: il lavoro sul lutto, dove è stato dimostrato che aiutare il paziente a non rimuovere il ricordo doloroso può accorciare sensibilmente la durata del lutto). Oppure posso ritenere il contrario, cioè che sia utile farlo star bene soggettivamente nel breve periodo, secondo l'ipotesi (giusta o sbagliata che sia) che questo sia l'unico modo per convincerlo a non interrompere la terapia, così potrò lavorare con lui e farlo stare ancor meglio nel lungo periodo. Questi sono dettagli tecnici. Quello che mi interessa sottolineare è il principio secondo il quale noi dobbiamo considerare le ripercussioni di quello che facciamo.
Stabilire se determinate ripercussioni sono positive o negative potrebbe essere una questione etica, cioè inerente ai valori che adottiamo. E' Baldini (1995, p. 39), tra l'altro, che toccava il problema dell'etica: a questo proposito non sono sicuro di aver capito bene come si concilia una posizione etica con un privilegio della verità a scapito del benessere del paziente o degli aspetti "terapeutici" della psicoanalisi (come ho detto, qualunque definizione noi diamo al termine "terapia", è chiaro che in questo contesto essa significa qualcosa di diverso dalla ricerca della verità, altrimenti tutta la nostra discussione non avrebbe senso). Se si vuole dire che privilegiare la ricerca della verità a scapito del benessere del paziente è una posizione etica possibile, allora io non mi sento di aderire a questa posizione; con questo intendo dire che non sono d'accordo con un atteggiamento che persegua la ricerca della verità senza nessuna considerazione per le ripercussioni o le conseguenze che essa può avere (ripeto, questo vale qualunque cosa noi intendiamo per la parola "terapia", l'importante è che essa non sia sinonimo di ricerca di verità); ritengo pericolosa questa assunzione di valori (tra le altre cose, mi viene in mente la Santa Inquisizione), e non mi sembra che questa sia l'etica della psicoanalisi. Sarebbe comunque interessante approfondire questo punto, che mi rendo conto che è complesso e denso di implicazioni anche filosofiche.
Ma vengo alla osservazione che feci più precisamente a Baldini. Tutte queste problematiche non sono nuove in psicoanalisi: esse sorsero già dagli anni 1920-30 quando si impose la tematica della Psicologia dell'Io, cioè dell'analisi delle difese, e più tardi dell'adattamento, dello sviluppo, del lavoro con pazienti più difficili, e così via (Freud scrisse L'Io e l'Es nel 1922; Anna Freud scrisse L'Io e i meccanismi di difesa nel 1936; Hartmann scrisse Psicologia dell'Io e problema dell'adattamento nel 1937). In sostanza, queste problematiche sorsero quando si capì che la Psicologia dell'Es (che sottolineava l'importanza di far emergere il rimosso come compito essenziale dell'analista) doveva essere sostituita dalla Psicologia dell'Io (che sottolineava l'importanza non tanto di interpretare il rimosso, quanto di capire perché è necessario rimuovere; non tanto di analizzare l'Es ma prima di tutto le difese dell'Io), quando si capì cioè che l'analisi degli aspetti strutturali doveva avere preminenza su quelli del contenuto. Freud sapeva bene queste cose, quando sottolineava l'importanza del lavoro sulle resistenze e non quello sulla semplice trasmissione della verità. Baldini, che è un profondo conoscitore dei testi freudiani, sapeva queste cose. Cito ad esempio uno dei tanti passaggi di Freud, contenuto nel suo testo del 1910 sulla "analisi selvaggia" (molto esplicito al riguardo, scritto ben 12 anni prima de L'Io e l'Es in cui introdusse il concetto di Io, cioè il modello strutturale):

«E' un concetto da lungo tempo superato e derivante da apparenze superficiali, quello secondo il quale l'ammalato soffrirebbe per una specie d'insipienza, per cui, se si elimina questa insipienza fornendogli informazioni (sulla connessione causale della sua malattia con la vita da lui trascorsa, sulle esperienze della sua infanzia, e così via) egli dovrebbe guarire. Non è un tale "non sapere" per se stesso il fattore patogeno, ma la radice di questo "non sapere" nelle resistenze interne del malato, le quali in un primo tempo hanno provocato il "non sapere" e ora fanno in modo che esso permanga. Il compito della terapia sta nel combattere queste resistenze. La comunicazione di quanto l'ammalato non sa perché lo ha rimosso, è soltanto uno dei preliminari necessari alla terapia. Se la conoscenza dell'inconscio fosse tanto importante per il paziente quanto ritiene chi è inesperto di psicoanalisi, basterebbe per la guarigione che l'ammalato ascoltasse delle lezioni o leggesse dei libri. Ma tali misure hanno sui sintomi della malattia nervosa la stessa influenza che la distribuzione di liste di vivande in tempo di carestia può avere sulla fame» (Freud, 1910, p. 329).

Si veda anche il concetto di "elaborazione" (working through), formulato da Freud appunto non appena si rese conto che la ricerca della verità non sempre pagava in termini terapeutici, e che la psicoanalisi doveva per forza trasformarsi in una attività anche "rieducativa", in un lavoro psicoterapeutico "a tutto campo" in cui i fattori emotivi, e non solo quelli cognitivi, facessero parte integrante della tecnica (vedi ad esempio Friedman, 1978; Gedo, 1994; Migone, 1995a, pp. 103-108).
E' mia convinzione, esposta in vari scritti tra cui quelli prima citati, che la differenza tra psicoanalisi e psicoterapia non ha più senso di esistere, almeno nei termini con cui si poneva una volta. Questa differenza aveva senso prima che nascesse la Psicologia dell'Io, ma dopo l'introduzione dei concetti di difesa, di adattamento, ecc., necessariamente psicoanalisi e psicoterapia si sono sempre più sovrapposte. Non a caso il dibattito sulla differenza tra psicoanalisi e psicoterapia è continuato per decenni senza mai raggiungere una conclusione soddisfacente (vedi ad esempio Wallerstein, 1969, 1989; Kernberg, 1999; ecc.), e avanzo un'ipotesi per spiegare il motivo di questa difficoltà a dirimere la questione: il problema sottostante era soprattutto un altro, di natura politica, cioè il bisogno della corporazione degli psicoanalisti di difendere, per una questione di mercato, la identità della psicoanalisi come professione (limitare il marchio "psicoanalisi" a una ristretta cerchia di professionisti, senza farne appannaggio anche della più vasta schiera degli psicoterapeuti, permetteva di mantenere tariffe più alte grazie ai vantaggi del monopolio [vedi a questo proposito Migone, 1990, 1995a cap. 15, 2001a]).
Baldini (1995, p. 39) però, giustamente, sollevava anche un'altra questione, e diceva che non si può semplificare troppo la differenza tra la psicoanalisi e le altre psicoterapie, perché, ad esempio, certe psicoterapie "nemmeno ammettono l'ipotesi dell'inconscio": dovremmo chiamare anche queste psicoanalisi? Ovviamente no. Ma vorrei, a mia volta, problematicizzare anche questa osservazione, perché ritengo che a questo riguardo le cose sono molto cambiate, e non possiamo rimanere ancorati a vecchie stereotipie. Quali sono le psicoterapie che "nemmeno ammettono l'ipotesi dell'inconscio"? Ormai quasi tutti coloro che si autodefiniscono psicoterapeuti la ammettono. Uno psicoterapeuta che oggi affermasse che non esiste un funzionamento mentale al di fuori della consapevolezza farebbe la stessa figura di un medico che dicesse che il cuore non esiste. Infatti, i comportamentisti puri sono praticamente scomparsi, e i loro eredi sono i cognitivisti, i quali ora fanno a gara con gli psicoanalisti nel dare importanza all'inconscio (anche se enfatizzano un inconscio "cognitivo", che rappresenta solo una delle molteplici modalità di funzionamento inconscio, modalità che peraltro nella psicoanalisi recente è stata riscoperta ed è al centro dell'interesse di vari autori, tra cui ad esempio Fonagy, Stern ecc. - per un approfondimento sulle diverse modalità di funzionamento inconscio, vedi Westen, 1999). Vi sono molte più somiglianze tra certe scuole cognitiviste e psicoanalitiche che tra scuole psicoanalitiche tra di loro (si pensi solo all'interesse per la teoria dell'attaccamento di Bowlby, ai concetti di autoriflessione, mentalizzazione, ecc., divenuti cavalli di battaglia di molte scuole cognitiviste [Migone & Liotti, 1998; Migone, 2001b]). La stessa cosa si può dire dei sistemici, i quali (anche se per anni molti di loro non se ne rendevano conto, e in seguito finalmente ne hanno preso coscienza) hanno sempre "interpretato" la psicodinamica familiare inconscia, poco importa se preferivano usare il termine "ridefinizione" piuttosto che "interpretazione"; anche tra sistemici e psicoanalisti assistiamo negli ultimi anni a notevoli convergenze (per brevità, vedi Migone, 1995a cap. 2, 1987/88).
E che dire degli ipnotisti? Alcuni di loro sono così bravi che per determinati scopi riescono a utilizzare l'ipnosi all'interno di una psicoterapia dinamica (cioè di una "psicoanalisi"), e poi ad analizzarne successivamente le ripercussioni sul transfert; per non parlare poi della ipnosi ericksoniana o neo-ericksoniana, che incentra tutta sua teorizzazione sul concetto di inconscio, che è totalmente non direttiva e non manipolatoria, e che a livello clinico è praticamente identica alla psicoanalisi o alla terapia dinamica in senso lato (per un approfondimento, vedi Mosconi, 1998, 2002). La stessa cosa vale per certe tecniche di rilassamento, sessuali, di decondizionamento rispetto a certe fobie (come faceva già Freud con L'uomo dei lupi), farmacoterapiche, ecc., cioè per tutti quei "parametri" (Eissler, 1953) che inevitabilmente, in misura maggiore o minore, tutti gli analisti sulla faccia della terra hanno sempre adottato. La tecnica analitica classica o "pura" è sempre stata una finzione teorica, un modello ideale, utile nella misura in cui ci serve per chiederci perché poi nella maggior parte dei casi non riusciamo a seguirlo. E' proprio questa l'analisi delle difese, cioè la Psicologia dell'Io: chiedersi perché non si riesce sempre a fare l'analisi dell'Es, perché non si riesce sempre a dire la verità. La Psicologia dell'Io inoltre ci ha insegnato a concepire il comportamento difensivo del paziente non solo come qualcosa da eliminare con l'interpretazione (il che tra l'altro potrebbe avere anche un sapore moralistico), ma come l'unico modo che lui ha per funzionare, in certi casi per esempio per permettersi di venire in terapia: quindi qualcosa da valorizzare.
Per quale motivo potremmo avere interesse a non dire la verità - se ve ne è una da dire - a un paziente? Siamo costretti a "non fare l'analisi", a impiegare parametri (anche massicci, in certi casi, supponiamo, fino al ricovero coatto!) quando non possiamo farne a meno, nell'interesse del paziente, sempre pronti però a tornare a una situazione di dialogo, a una aperta ricerca della verità appena il paziente se lo può permettere. Ho fatto l'esempio del ricovero coatto, che sembra provocatorio, perché a ben vedere è solo un esempio macroscopico di tutte quelle situazioni microscopiche che si presentano quotidianamente nel lavoro coi nostri pazienti, quando siamo costretti, sempre a causa del livello difensivo del paziente, a posporre un approccio interpretativo. Come dissi a Kernberg in un confronto serrato su questo tema mentre criticavo le sue pozioni contenute in uno scritto del 1999 in cui cercava di definire le differenze tra "psicoanalisi" e "psicoterapia supportiva orientata psicoanaliticamente",

«Perché uno psicoterapeuta supportivo "orientato psicoanaliticamente" non dovrebbe analizzare il transfert e il controtransfert? Se questo terapeuta, dato che conosce la teoria psicoanalitica, è consapevole dell'esistenza del transfert e del controtransfert, e se crede che la loro analisi sia utile, perché dovrebbe deprivare il paziente di questa opportunità? Quale è il razionale di questa tecnica? D'altro lato, se uno psicoanalista crede che con un certo paziente in un dato momento una analisi del transfert o del controtransfert possa esser dannosa o inutile, perché dovrebbe farla? Se non la fa, diventa improvvisamente uno psicoterapeuta? E se la fa, e quindi danneggia il paziente, che tipo di tecnica psicoanalitica sta usando?» (in Galatariotou, 2000; vedi anche Migone, 2001a).

Kernberg ovviamente glissò su queste domande, ritengo perché da presidente dell'International Psychoanalytic Association (IPA) quale era non poteva permettersi di andare a fondo di determinate implicazioni, esattamente come fece Wallerstein nelle sue inconcludenti relazioni plenarie ai due congressi dell'IPA di Roma del 1969 e del 1989 (in un'altra occasione Wallerstein, da me conforntato, però fu costretto a darmi ragione [vedi Migone, 2001a]).
La mia definizione di "psicoanalisi" può sembrare troppo inclusiva, e non corrispondente a quella che si ha comunemente (si badi bene però che la definizione comune di psicoanalisi è legata solo ai criteri estrinseci - lettino, alta frequenza settimanale, ecc. - per cui è una definizione molto scorretta, rivela semplicemente un modo di ragionare "antipsicoanalitico"). Non a caso Gill propose di trovare un altro termine per questa concezione allargata di psicoanalisi legata solo ai criteri intrinseci (cioè al criterio della analisi del transfert): la sua proposta fu di usare il termine "terapia psicoanalitica" (anche se Gill era consapevole che ciò presentava il rischio di usare lo stesso termine che usò Alexander, il quale intitolò il suo famoso libro del 1946 Psychoanalytic Therapy, libro allora tanto contestato [vedi ad esempio Eissler, 1950]). La stessa scelta di usare il termine "terapia psicoanalitica" fu fatta da Thomä & Kächele (1985, 1988), che tagliarono la testa al toro intitolando i loro due importanti volumi Trattato di terapia psicoanalitica. A me sembra che usare un aggettivo o un sostantivo sia un po' la stessa cosa, di psicoanalisi pur sempre si tratta. Inoltre ritengo che sia molto più utile una definizione legata solo ai criteri intrinseci e non a quelli estrinseci, in quanto questa è una soluzione più "rivoluzionaria", ricca di implicazioni per il training, la professione, gli interessi corporativi delle scuole, e la teoria stessa. Non dimentichiamo poi che Freud (1932) era convinto che la psicoanalisi non è come un paio di occhiali che può essere messo e tolto a piacere, nel senso una volta che la si conosce si fa sempre psicoanalisi, non vi è una alternativa. Infatti, "Freud praticava solo l'analisi, qualunque fossero le circostanze" (Gill, 1984, p. 175; vedi anche Lipton, 1983).
Gli psicoterapeuti che "nemmeno ammettono l'ipotesi dell'inconscio" dunque non esistono praticamente più, quindi la "psicoterapia" vera e propria (quella non psicoanalitica) arriva quasi a scomparire, come Gill (1984) molto coerentemente arrivò a concludere. Mi rendo conto che questa proposta suona provocatoria, ma secondo me ha il vantaggio di essere meno contraddittoria di quelle posizioni che cercano, arrampicandosi sugli specchi, di dimostrare la differenza tra psicoanalisi e psicoterapia ricorrendo a concetti quali ricerca della verità versus terapia, se non addirittura a criteri estrinseci quali l'uso del lettino, l'alta frequenza settimanale, ecc. (ricordo un noto esponente della psicoanalisi italiana che una volta alla televisione addirittura si arrabattò a definire la differenza tra psicoanalisi e psicoterapia dicendo che nella psicoanalisi esiste l'inconscio, nella psicoterapia no; altri, comicamente, arrivano a dire che nella psicoanalisi si sviluppa il transfert e nella psicoterapia no).
Una obiezione che si può fare è che esistono vari modi con cui si ammette "l'ipotesi dell'inconscio", oppure vari modi con cui si intendono i contenuti dell'Es. Questo sicuramente è un punto dolente per la psicoanalisi, perché il concetto di Es, ovvero la teoria della motivazione, è l'aspetto della teoria freudiana che ha maggiormente subìto revisioni (alludo alla critica alla concezione "duale" delle pulsioni, al concetto di "scarica", ecc.). Si può dire che oggi la componente maggioritaria del movimento psicoanalitico ha modificato le ipotesi sulla motivazione e sulla natura della memoria inconscia, tanto da avvicinarsi molto alle concezioni di altre tradizioni psicoterapeutiche, per cui anche su questo terreno diventa sempre più difficile trovare delle differenze tra psicoanalisi e psicoterapia.
Vorrei dedicare l'ultima parte di questo mio intervento facendo alcune osservazioni su quella schiera (sempre più vasta) di professionisti che aiutano gli altri in vari modi, operatori che sono psicoterapeuti senza che loro lo sappiano: i pranoterapeuti, i maghi, gli omeopati, i chiromanti, ecc. (ovviamente parto dalla premessa che queste siano solo terapie suggestive - non voglio qui entrare in una discussione di questa mia affermazione, ma assumiamo che sia corretta). Come dobbiamo chiamare queste professioni di aiuto? Potremmo chiamare "psicoterapia" tutte le professioni di aiuto che dichiaratamente e consapevolmente utilizzano il rapporto interpersonale e la sua "psicodinamica" (necessariamente anche inconscia) come agente di cura (nello spirito di Balint, quando disse che nella psicoterapia e "il medico somministra se stesso come farmaco"), e in cui lo psicoterapeuta è disposto a parlarne col paziente, cioè non ha nessun interesse a nascondere quello che capisce o le "verità" che scopre. Se noi sappiamo che il pranoterapeuta, che è il moderno mesmerista, è di fatto uno psicoterapeuta, intendiamo dire che lo è malgré lui, cioè inconsapevolmente; se lo fosse consapevolmente, utilizzerebbe meglio il suo ruolo suggestivo, e in modo più colto, ottenendo maggiori risultati, e potrebbe domandarsi anche perché dovrebbe usare la suggestione in tutti i casi e non ottenere cambiamenti (magari più stabili) in determinati pazienti senza suggestione, aprendo così la strada alla psicoterapia dinamica proprio come fece Freud. Ma il pranoterapeuta si offenderebbe a sentirsi chiamare psicoterapeuta, perché non usa consapevolmente il rapporto interpersonale come agente di cura, bensì proprio una supposta energia che lui ritiene emanata dal calore delle mani. Ma bisogna fare attenzione a non deridere troppo l'ignoranza dei pranoterapeuti, perché essi agiscono proprio come quei medici che prescrivono le vitamine o i ricostituenti credendo che siano quelli ad aiutare il paziente (sono ignoranti tanto quanto i pranoterapeuti). La stessa cosa si può dire dello psichiatra che prescrive un determinato psicofarmaco credendo che sia solo quello ad aiutare il paziente (è ignorante delle più elementari nozioni di psicodinamica tanto quanto il pranoterapeuta, con l'aggravante che è laureato e dovrebbe essere più colto), o dello psicoanalista che profferisce la sua interpretazione "vera" (vera a seconda delle scuole, delle epoche storiche, ecc.) e crede che sia quella l'agente della cura, proprio come il mesmerista crede che siano le sue mani a curare (Migone, 1987). Non dimentichiamo dunque la trave che è nel nostro occhio, prima di vedere la pagliuzza in quello del collega pranoterapeuta. La sfida per la ricerca della verità è sempre aperta, ed è sicuramente un merito della psicoanalisi quello di aver intuito la complessità che si può nascondere dietro alle verità solo apparenti.
Tornando ai pranoterapeuti, si può fare l'ipotesi che vi sia un profondo motivo inconscio per cui questi moderni mesmeristi adoperano in modo così massiccio il meccanismo di difesa della negazione della più elementare cultura psicoterapeutica (sarebbe semplicistico parlare di ignoranza, quando questi operatori proliferano sempre di più nella civiltà occidentale, nelle nostre moderne città, lavorano dietro l'angolo di casa, molti di loro sono laureati, ecc.). Possiamo ipotizzare che se il pranoterapeuta ammettesse di essere uno psicoterapeuta il suo senso di onnipotenza potrebbe essere incrinato: l'atteggiamento scientifico dello psicoterapeuta è più umile, più consapevole dei suoi limiti. Non solo, ma la richiesta aperta di suggestione (e non di energia emanata dalle mani) da parte di certi pazienti richiederebbe un livello maturativo più alto, una qualche consapevolezza di una dinamica psicologica, una assunzione di responsabilità senza delega al somatico, un coraggio di conoscere i "veri" motivi del malessere. Si instaura così col terapeuta una particolare folie à deux, una collusione difensiva basata su una "fusione folle", sulla negazione stabile della verità. E' stato Langs (1985), tra gli altri, che ha studiato questi interessanti fenomeni nel rapporto analitico in modo molto acuto; si veda il suo libro dal titolo molto indicativo Follia e cura (Langs inizialmente voleva infatti intitolare questo libro "Cura attraverso la follia"). I pranoterapeuti (come altri "curatori"), si prestano inconsciamente a rispondere ai bisogni di questi pazienti, fornendo in effetti un tipo di cura, di sollievo momentaneo rispetto ad angosce più pressanti.
Ebbene, la caratteristica principale della psicoanalisi (o della psicoterapia come noi comunemente la intendiamo) è quella di cercare di capire veramente le cose, di aiutare il paziente dandogli tutti gli strumenti per conoscere se stesso e per rendersi autonomo, di analizzare insomma per quanto possibile la suggestione: ma tutto questo nella misura in cui ciò è consentito dalla cultura di appartenenza e della struttura difensiva del paziente e anche del terapeuta.
Sono perfettamente consapevole che questo mio modo di impostare la discussione sulla differenza tra psicoanalisi e psicoterapia sia molto radicale e contenga aspetti provocatori, ma ritengo che abbia il merito di costringere a vedere meglio quali sono gli aspetti che veramente caratterizzano del nostro lavoro. E' mia speranza poter ricevere delle critiche, che non potranno far altro che stimolare la riflessione mia e di tutti i colleghi.

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*Paolo Migone, Condirettore di Psicoterapia e Scienze Umane
Via Palestro 14, 43100 Parma, Tel./Fax 0521-960595, E-Mail <migone@unipr.it>

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