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PSYCHOMEDIA
TERAPIA NEL SETTING ISTITUZIONALE
Reparti Ospedalieri e SPDC



Verso un modello di trattamento per pazienti ricoverati in reparti psichiatrici per acuti

Vittorio Ferioli



Abstract

Viene proposto un modello di tecnica del trattamento, per pazienti ricoverati in reparti psichiatrici per acuti, chiamato "trattamento intensivo continuo".

L'obiettivo è coniugare le evidenze cliniche nel trattamento delle emergenza comportamentali con i fondamenti della tecnica psicoanalitica, applicati alla situazione specifica dei pazienti ricoverati nei reparti psichiatrici per acuti. Il "trattamento intensivo continuo" è una "situazione" costituita da un "setting" specifico, all'interno del quale è possibile il "processo" terapeutico che consiste nella transizione dalla condizione di "emergenza comportamentale" a quella di "sufficiente alleanza terapeutica".

Parole chiave : aggressività, alleanza terapeutica, consenso informato, contenimento, contenzione, emergenza comportamentale, ricovero psichiatrico, setting, transfert negativo.

Scopo del lavoro

Il trattamento per i pazienti ricoverati nei reparti psichiatrici per acuti (SPDC, ma non solo) costituisce un intricato crocevia di aspetti etici, giuridici, teorici, di appropriatezza dei trattamenti, costruzione di linee guida, standardizzazione ed economia sanitaria.

Il presente lavoro si propone, alla luce delle evidenze cliniche e assumendo come modello la teoria della tecnica psicoanalitica, di fornire spunti per l’elaborazione di una tecnica del trattamento psichiatrico dei pazienti ricoverati nei reparti psichiatrici per acuti.

Per costruire questo modello, è opportuno esaminare ciò che si fa, ma anche si vive e (quando le cose funzionano bene) si pensa nel reparto psichiatrico per acuti, luogo di un’esperienza totalizzante di contatto con la sofferenza psichica altrui e propria. Questo vale, beninteso, sia per il paziente, sia per i curanti. A un tale livello d’intensità e durata del contatto con la sofferenza è possibile constatare che “siamo della stessa sostanza di cui sono fatti” i nostri pazienti.

L’esperienza che più avvicinerei a quella del ricovero, per intensità e continuità, è quella del trattamento psicoanalitico. Compito dell'analista è contenere il paziente nella sua “pancia” e nella sua “testa”, ma anche di aiutarlo a uscirne.

Vorrei quindi rileggere il ricovero psichiatrico ospedaliero in chiave di "trattamento intensivo continuo", anziché di trattamento breve o, peggio, rapido.

Breve premessa teorica

Molti autori si sono occupati del contributo della teoria psicoanalitica al ricovero psichiatrico. Riprenderò solamente alcuni punti salienti che cercherò di sviluppare successivamente.

Menninger (Menninger, 1939) parla di trattamento ospedaliero il cui obiettivo è l’espressione di libido e aggressività secondo modalità meno dannose.

Gabbard (Gabbard, 1992) ritiene il controtransfert parte integrante del processo terapeutico e considera le risposte dello staff i principali fattori di guarigione.

Meccanismi di scissione, identificazione proiettiva e correlati vissuti controtransferali1 (sia in senso ristretto, “classico”, che “allargato”) dei terapeuti, producono l’esteriorizzazione delle relazioni tra il paziente e i suoi oggetti interni e, analogamente (si spera in misura minore), tra i terapeuti e i loro oggetti interni.

L’identificazione proiettiva, in quanto forma (primitiva) di comunicazione2, produce anche sollievo del paziente e veicola una ricerca di aiuto.

Il responsabile del reparto deve evitare di interpretare i sentimenti controtransferali e valorizzarne l’espressione nella riunione dello staff, perché non siano messi in atto (Gabbard, 2000).

E’ necessario l’addestramento dello staff al monitoraggio continuo della scissione e al rilevamento dei disaccordi al suo interno (comunicazione delle “differenze”). Ciò è possibile principalmente attraverso riunioni regolari e frequenti. Aggiungerei che lo stesso meccanismo può funzionare, per analogia, negli incontri con i familiari.

Conforto (Conforto, 1999) propone un’analogia tra ricovero e trattamento analitico nei suoi aspetti fondamentali di setting e processo terapeutico.

Il mio intento è affrontare il problema del ricovero psichiatrico ospedaliero, ricorrendo a costrutti teorico-tecnici fondamentali, per cimentarli, al livello di minor complessità possibile, con questioni di pratica clinica quotidiana.

Definisco il trattamento per i pazienti ricoverati nei reparti psichiatrici per acuti come “Trattamento (ospedaliero psichiatrico) Intensivo (intensità quantitativa e qualitativa del trattamento) Continuo (dura ventiquattrore al giorno: include tutto ciò che avviene in reparto)", ("TIC").

Il concetto psicoanalitico di setting è l'elemento metodologico unificante la teoria e la tecnica del TIC.

Il setting è l’“ambiente” (Lagache, 1951) nel quale avviene la cura, il processo terapeutico.

Nelle patologie gravi il setting riproduce le primissime cure materne, appagando i primi bisogni dello sviluppo (Winnicott, 1958).

La "situazione" (in analisi come in reparto psichiatrico per acuti) include il "processo", il trattamento (variabile) e il setting (costante) che contiene il processo (Bleger, 1967).

Il setting contiene il processo del ricovero, la cura.

Nel setting si “deposita” soprattutto la parte psicotica che rimane “muta”, cioè tende a non manifestarsi.

Il setting è concepito per far procedere la cura nel miglior modo possibile, implicando (Etchegoyen, 1986) una posizione non solo tecnica ma anche etica.

Nella situazione del TIC, a mio avviso, il setting dovrebbe avere una struttura sufficientemente trasparente da permettere di percepire e trattare le parti psicotiche che vi si depositano.

Per analizzare in che modo un tale tipo di setting possa essere "costruito", propongo alcune brevi considerazioni generali sul trattamento dei pazienti gravi.

Nel trattamento dei pazienti gravi, è necessario un contesto istituzionale costituito da più persone, il “gruppo dei curanti”, che garantisca una presenza costante (Correale, 1997; Rinaldi, 1995).

Il peso della “presa in carico” può essere tollerato dai singoli membri del gruppo solo attraverso la costituzione di una ”rete terapeutica" per il paziente e di una analoga “rete protettiva” per i curanti (Rinaldi, 1995).

Se si accettano queste premesse, si può sostenere che, nel ricovero psichiatrico ospedaliero (trattamento psichiatrico intensivo continuo), quando si parla di "terapeuta" vada inteso, in realtà, il “gruppo dei curanti”.

In questo modello, inoltre, tutto ciò che accade in reparto, per tutto il tempo del trattamento, è da intendere all’interno del setting, altrimenti è rottura del setting.

Aggressività, contenimento e setting

Premetto due citazioni che, a mio avviso, si possono applicare direttamente al ricovero, pur nascendo in ambito strettamente psicoanalitico.

“Nella Psicoanalisi tutti gli impulsi, anche quelli ostili, vengono utilizzati per il trattamento” (Freud, 1901, p.398).

"La pulsione di morte non comprende più senza distinzioni, ed esclusivamente, tutte le manifestazioni aggressive […] Una parte di ciò che si può chiamare “lotta per la vita” spetta, infatti, all’Eros [...] mentre include il carattere dereale della sessualità umana e la sua tendenza alla riduzione assoluta delle tensioni” (Laplanche, Pontalis, 1967, 11).

Ferro (Ferro, 2009) fa riferimento, in un’ottica bioniana, a una quota di elementi β (sensorialità, proto- emozioni) non trasformati dalla funzione α (integrativa e trasformativa), quindi non contenuti, perciò evacuati attraverso i sintomi e/o attraverso il movimento (distruttività). Più che di aggressività si potrebbe, quindi, parlare di contenibilità o evacuazione degli stati emotivi.

Credo che questi concetti si possano applicare direttamente anche alla situazione del ricovero, nel senso che un trattamento psichiatrico in regime di ricovero, per essere appropriato ed efficace, deve avere sempre tra i suoi obiettivi primari l’elaborazione degli impulsi auto- ed etero-aggressivi, (nel senso di ostili e distruttivi). Rientrano tra questi, tenendo presente quanto detto sopra, anche tutti gli aspetti aggressivi della sessualità (equivalenti ad attacchi al setting e/o abusi subiti dai pazienti) che trovano frequentemente espressione nel corso dei ricoveri.

Scelgo, in questo contesto, di non usare (riferendomi al paziente) il termine “agìto” che ritengo fuorviante: il setting di ricovero, diversamente da quello psicoanalitico, prevede che il paziente, letteralmente, “agisca”, quindi il problema è l’aspetto aggressivo, nel senso di ostile o violento, dei comportamenti del paziente.

La funzione di "contenimento" (Correale, 1999) è il risultato della somma di varie funzioni.

  1. Ristabilimento di un senso del limite (Correale, 1991; Kernberg, 1993), necessario al paziente che vive una condizione di mancanza di confini.

  2. Relativamente al concetto bioniano di “contenitore” (Bion, 1961), si può pensare al contenimento come all’individuazione di un luogo unitario e protetto, finalizzato a una integrazione.

  3. Riprendendo il concetto di “holding” di Winnicott (1958), il contenimento è assimilabile al tenere in braccio, proteggere, accudire, implicando funzioni sensoriali-affettivo-cognitive come il toccare, parlare, la "presenza", dirette a ricostituire le basi del “senso di sé” del paziente. (Correale, 1999; Lichtenberg, 1992)

  4. In una accezione più ampia il contenimento include anche il trattamento (cioè elaborazione e trasformazione) dell’aggressività, nel senso di ostilità e distruttività, dei pazienti (Ferro, 2009).

Un setting adeguato, permette e favorisce la funzione di contenimento.

Perché questo avvenga efficacemente, è necessario che sia elaborata anche la aggressività dei curanti.

Transfert, contro-transfert, empatia

Propongo solo qualche breve citazione teorica che possa servire da base sulla quale impostare un modello di tecnica del trattamento.

Il transfert va inteso (Laplanche, Pontalis, 1967) come complesso di affetti di segno positivo e negativo diretti verso il terapeuta (gruppo dei curanti, nel nostro caso).

Il transfert (Brenner, 1982) si sviluppa in ogni relazione nella quale una persona diventa importante per il soggetto.

Una reazione di transfert (Greenson, 1967) è fondamentalmente ripetitiva e inappropriata.

Formulo l’ipotesi che, nei pazienti ricoverati, soprattutto la componente negativa del transfert condizioni l’andamento del trattamento .

Tipiche manifestazioni del transfert negativo nella situazione del TIC sono: la ridotta compliance (sia al processo terapeutico, sia al setting) fino all’interruzione del trattamento (dimissione contro il parere dei sanitari) e le "emergenze comportamentali"3, in modo particolare i comportamenti violenti.

Non tutto ciò che il paziente manifesta è derivato dal transfert, ma sempre in questi casi c’è una componente di transfert (Etchegoyen, 1986).

Quindi, nello specifico del TIC, ritengo utile considerare il transfert, ed in particolare la sua componente negativa, prevalentemente come ostacolo al trattamento.

In questo modo, ricorro ad una "approssimazione", cioè una versione "semplificata", se si vuole "proto-freudiana", del concetto di transfert, essenzialmente perché mi sembra (in questo caso) più rispondente al modello.

Non intendo sostenere che il transfert dei pazienti gravi (in generale) non sia interpretabile, né che l'interpretazione non sia uno strumento utilizzabile con questi pazienti. Ritengo però che, nella situazione specifica del ricovero nel reparto per acuti, la componente del transfert utilizzabile (quindi interpretabile in modo proficuo per la cura) sia, il più delle volte, trascurabile.

Per quanto concerne il "contro-transfert", pur ritenendo opportuno partire da una definizione piuttosto "classica" di insieme delle reazioni (almeno inizialmente) inconsce del terapeuta (gruppo dei curanti) alla persona del paziente e più particolarmente al suo transfert, credo necessario "allargare" il concetto. Il contro-transfert, se prevalentemente inconscio, avrà una funzione inizialmente ostacolante la relazione, mentre un’esperienza di contro-transfert sufficientemente elaborata, quindi divenuta prevalentemente conscia o preconscia, sarà strumento utilissimo di comprensione della relazione (Bolognini, 1997).

Delle possibili “situazioni empatiche” descritte da Bolognini (1997) in analisi, ritengo particolarmente importante, nel TIC, la “condivisione prolungata di stati di sofferenza del Sé” .

Il processo si articola in due tempi: condivisione, a livello del Sé, seguita, quando possibile, da comprensione elaborativa.

Il terapeuta (nel nostro caso, il gruppo dei curanti), si trova a condividere col paziente un’area di esperienza emotiva pervasiva e poco esplicitabile che porta il curante a un vero e proprio “stato di contro-transfert” permanente, che il più delle volte procura disturbo e sofferenza. Il successivo lavoro di elaborazione, attraverso le riunioni del gruppo dei curanti e la supervisione, è necessario per la comprensione empatica.

Nella situazione specifica del ricovero psichiatrico per acuti, comunque, mi preme soprattutto mettere l’accento sulle disfunzionalità, non tanto dei pazienti, quanto del gruppo dei curanti (perché queste sono da trattare per prime attraverso la formazione, precondizione al saper trattare i pazienti).

In altre parole, non si deve presupporre che il gruppo curante sia “in assetto adeguato”. In questo modo si può cercare di evitare l’errore di manipolare i concetti di “identificazione proiettiva” e di “controtransfert allargato” per “addebitare” esclusivamente ai pazienti tutto ciò che accade (di negativo) nella relazione.

Alleanza terapeutica e "consenso informato"

Il primo scopo del trattamento (Freud, 1913) è di coinvolgere il paziente.

Con il termine di “alleanza terapeutica” (Zetzel, 1956) s’intende la relazione, tra paziente e terapeuta, relativamente razionale/adulta, in contrapposizione a quella di transfert, irrazionale/infantile.

Esiste una affinità concettuale tra i termini "alleanza terapeutica" e “consenso informato”: entrambi si riferiscono a una componente adulta e razionale della relazione. Il consenso non è un atto ottenibile una volta per tutte: è un processo continuo, da sottoporre a verifica periodica.

L'alleanza terapeutica, nella situazione del TIC, è un obiettivo, solo parzialmente raggiungibile, ma anche un fondamentale strumento di lavoro.

Il livello di alleanza terapeutica costituisce, quindi, un indicatore di processo ma anche di esito del trattamento.

Struttura e Processo del Trattamento Psichiatrico Intensivo Continuo

La situazione del Trattamento Psichiatrico Intensivo Continuo (TIC) è costituita da un setting, cioè una struttura che permette e favorisce il processo terapeutico. Questo consiste nel condurre il paziente da una condizione di emergenza comportamentale ad un miglioramento clinico tale da permettere un livello di alleanza terapeutica sufficiente, da intendere anche come consenso informato, compatibile con la dimissione.

Ciò avviene attraverso il contenimento, principalmente trattamento (elaborazione e trasformazione) dell’aggressività, nel senso di ostilità e distruttività, dei pazienti.

I processi terapeutici riguardano tutto lo staff, il gruppo dei curanti.

Le indicazioni che seguono riguardano tutto il gruppo dei curanti e sono in accordo con i suggerimenti del progetto EUNOMIA (Fiorillo et al., 2011).

La “fase I”, che chiamo “Ingresso, Accoglienza e Osservazione”, comincia nel momento dell'ingresso e termina dopo 72 ore, comunque solo dopo la cessazione degli episodi di emergenza comportamentale per 72 ore consecutive. Se il paziente, in una qualunque fase successiva a questa, presenta un’emergenza comportamentale, va considerato nuovamente in “fase I”.

La scelta del termine di 72 ore è motivata dal fatto che la letteratura segnala questo come periodo “critico” nel quale si verifica la maggior parte delle emergenze comportamentali. Pertanto, questa fase è estremamente delicata e richiede una particolare attenzione (nel senso di osservazione, ascolto e contenimento) al paziente da parte di tutto lo staff.

Il colloquio di ingresso è il primo momento d’incontro con il paziente.

Il paziente entra nel colloquio con tutto ciò che lo accompagna: oggetti personali, familiari, caregiver4), amici, operatori del Centro di Salute Mentale, del Dipartimento di Emergenza, Forze dell’Ordine, operatori di altre agenzie.

Ciò che accompagna il paziente entra nella situazione del Trattamento Intensivo Continuo e va preso in considerazione, quanto possibile e quanto necessario, sempre insieme al paziente, in modo che tutti gli elementi possano essere utilizzati per la cura.

Se si ritiene opportuno un colloquio separato, questo va dichiarato al paziente, in modo da rientrare nel setting, quindi non introdurre elementi di rottura del setting.

Questo primo momento d’incontro ha come obiettivi:

  • il contatto con col paziente, i caregiver e gli invianti;

  • l’orientamento diagnostico attuale;

  • l’impostazione e negoziazione del trattamento;

  • la ricerca attiva del consenso informato.

La tattica è: raccogliere elementi, fornire ascolto, sostegno e contenimento quanto più è possibile, ma frustrazione solo quanto è necessario.

Gli interventi hanno come obiettivo esplicito la riduzione della tensione. Quindi sono necessari:

  • l’assunzione di responsabilità del ricovero e del trattamento;

  • un’ipotesi, espressa sempre come preoccupazione (mai come minaccia), su ciò che accadrebbe senza un intervento terapeutico;

  • la dichiarazione che la dimissione costituisce un obiettivo comune;

  • la dichiarazione della necessità di rispettare la legge, espressa in termini di “non possiamo fare/non fare”.

Inoltre

  • Il paziente deve avere le informazioni rilevanti sul trattamento prima dell’ingresso in reparto, per quanto concerne gli aspetti diagnostici e terapeutici.

  • Si deve garantire la possibilità di contatto con i familiari e con le autorità, di poter ricevere visite e usare il telefono.

  • I diritti del paziente devono essere sempre garantiti in accordo col principio della “alternativa meno restrittiva”

  • In ogni passaggio del trattamento la comunicazione deve essere adeguata al paziente e l’informazione chiara.

  • Il paziente ricoverato contro la propria volontà deve mantenere i propri diritti. Pertanto bisogna proteggere i diritti dell’utente, proteggendo l’utente dalla violenza e dagli abusi.

  • Misure coercitive sono permesse solo in accordo con la legge e le norme etiche.

Accoglienza” significa accogliere, contenere e, per quanto necessario e possibile, soddisfare i bisogni, che non significa soddisfare le richieste del paziente.

Ogni inutile frustrazione è da evitare attivamente.

Vanno indicati al paziente un infermiere e un medico di riferimento.

L'“Osservazione Intensiva” è indispensabile per fornire sostegno e contenimento e per approfondire la ricognizione dei bisogni del paziente, la diagnosi, il grado di consenso informato, lo stato della relazione con i curanti e con l’ambiente del reparto,

Per tutta la durata della fase I è necessario continuare il lavoro per favorire il legame del paziente alla cura: negoziare avendo come obiettivo il consenso informato/ alleanza terapeutica. Il quadro clinico e la relazione con il paziente devono, di conseguenza, essere rivalutati frequentemente, almeno due volte al giorno.

E’ necessario intervenire tempestivamente su eventuali segnali premonitori di emergenza comportamentale.

In questa fase gli incontri di gruppo, con i familiari e con altre agenzie dovrebbero essere evitati, a meno che sia il paziente a richiederli.

La “fase II”, “Risposta al Trattamento”, inizia a un grado di stabilizzazione del quadro clinico tale che non si verifichino episodi di emergenza comportamentale e termina quando si è raggiunto un sufficiente cambiamento dei fattori che hanno determinato il ricovero (derivanti dal paziente e dal suo ambiente esterno), così da poter formulare un’ipotesi di dimissione.

Se il paziente è in Trattamento Sanitario Obbligatorio, dovrà essere recuperato un sufficiente grado di consenso da permettere il passaggio a Trattamento Volontario.

La risposta al trattamento è valutata principalmente dalla riduzione dei sintomi, dall’aumento del livello di alleanza terapeutica e dalla ripresa dei rapporti con l’ambiente esterno, anche attraverso le uscite (con e senza accompagnamento degli operatori) e i permessi a casa (nella giornata e poi di ventiquattrore o più).

Il paziente, di regola, può uscire: accompagnato da infermieri, da familiari oppure solo. Va sempre dichiarato il motivo dell’eventuale proibizione di uscire5.

La “fase III”, “Dimissione”, comincia nel momento in cui viene formulata l’ipotesi di dimissione, prosegue con l’approvazione della proposta, da parte del paziente e della maggioranza dello staff, e termina con l’uscita del paziente dal reparto.

Quest’ultima e delicata fase consiste principalmente in un’elaborazione da parte dei curanti, per quanto possibile condivisa con il paziente, della crisi e della risposta del paziente e del suo ambiente al trattamento, in termini di cambiamento sufficiente a permettere la dimissione.

Alcuni criteri per valutare l'idoneità di un paziente alla dimissione sono i seguenti.

Stabilizzazione: bisogna riportare il paziente a un livello sufficientemente sicuro di funzionamento. Ciò è possibile se i fattori che hanno portato al ricovero sono in remissione e il mantenimento delle terapie è garantito.

Questo significa che:

  • Non bisogna basarsi sul tempo trascorso dall’ultimo episodio di crisi, né sulla durata del trattamento;

  • la dimissione non è programmabile finché non si identificano e non si correggono i fattori precipitanti la crisi.

La disperazione (correlata o no alla depressione) espone a un elevato rischio di ricaduta.

E’ necessario che il paziente riesca a riconoscere e dare un senso ai fattori precipitanti il ricovero e percepirne il cambiamento importante, anche se persistono fattori di rischio stabili e non modificabili.

La sicurezza dell’ambiente esterno deve essere tale da permettere il rientro del paziente.

Deve essere raggiunto un sufficiente livello di consenso e collaborazione del paziente al trattamento, cioè di alleanza terapeutica.

Se i tempi sono troppo brevi per valutare l’efficacia di un trattamento, se i cambiamenti del paziente non sono spiegabili e/o mancano cambiamenti di altri fattori (esterni), sono più probabili pseudo-miglioramenti.

Convergenza delle informazioni provenienti da fonti diverse (componenti dell’equipe di reparto, operatori esterni, famigliari e ambiente esterno in genere): più le informazioni concordano, più è bassa la probabilità di ricaduta dopo la dimissione, con particolare attenzione alle informazioni riguardanti i fattori precipitanti il ricovero.

Continuità terapeutica: è più probabilmente dimissibile il paziente che dispone già di terapeuti esterni, se è possibile recuperare l’integrità dell’alleanza terapeutica, comprendendo le cause della sua rottura.

E’ correlata a una miglior prognosi post-dimissione la capacità del paziente di riconoscere i propri sentimenti verso la crisi e ricordare momenti in cui è stato male, dimostrando capacità di integrazione .

Trattamento delle emergenze comportamentali

Intendo utilizzare l’approccio alla condizione di emergenza comportamentale come paradigma della situazione di trattamento intensivo continuo.

La frequenza delle emergenze comportamentali durante il intensive trattamento è elevata: circa il 20% negli USA (Allen et al., 2001), il 37,2 % per i pazienti non volontari, di cui 8.5% in contenzione meccanica, per 3,5 ore in media (± 3 ore); in Italia invece il 15% dei pazienti è in trattamento non volontario, ma il 20% dei pazienti è sottoposto a contenzione meccanica per un tempo medio 16 ore (± 12 ore).

Poiché l'emergenza comportamentale rappresenta il punto di massima distanza dall’obiettivo di una sufficiente alleanza terapeutica, me ne servirò per descrivere il setting specifico all’interno del quale può essere trattata.

Come già detto sopra, possiamo immaginare che il processo terapeutico consista nel passaggio progressivo della relazione attraverso un gradiente di crescente alleanza terapeutica, dall'emergenza comportamentale ad un sufficiente grado di alleanza terapeutica/consenso informato.

Prevenzione

La prevenzione ha due componenti:

  • preparazione: costante allerta rispetto ai rischi potenziali per la sicurezza delle persone e dell’ambiente;

  • previsione: allerta rispetto a uno specifico paziente o situazione.

Bisogna riuscire a dare l’allarme e ottenere aiuto tempestivamente.

Nel Dipartimento di Emergenza occorre una sala di visita psichiatrica con ingresso separato, possibilmente vicino al posto di polizia interno.

Il reparto di psichiatria per acuti deve prevedere un ambiente spazioso, confortevole, sicuro e accogliente, per quanto possibile.

Attività “sicure” andrebbero fornite per l’esercizio fisico, mentale e per quelle interazioni che diminuiscano la tensione e siano alternative alla noia e alla violenza.

Almeno un’area soggiorno dovrebbe restare aperta per chi non riesce a dormire.

Serramenti, vetri, suppellettili e arredi devono rispondere a criteri di sicurezza.

Trattamento

Tutte le figure del gruppo curante devono essere coinvolte. I primi “strumenti” da utilizzare sono il contenimento e l’ascolto.

L’approccio al paziente richiede alcuni accorgimenti fondamentali:

  • non lasciare solo il paziente (o con un solo operatore, se insufficiente a contenere l’angoscia del paziente) perché ciò equivale al massimo rischio per la sicurezza. E’ un’indicazione semplice, sulla quale tutta la letteratura è concorde, ma è comunemente disattesa (più o meno consapevolmente) nell’operatività quotidiana. Rispettare questa raccomandazione può sembrare “scomodo”, ma dati univoci dimostrano, in accordo con la teoria, che al paziente in emergenza comportamentale va data più attenzione, non meno.

  • calma e sollecitudine;

  • Usare modi non aggressivi per ridurre i rischi: offrire assistenza (verbale e materiale), cibo, bevande, farmaci.

Se ciò non dovesse essere sufficiente, occorre dare al paziente una dimostrazione di forza, cioè mostrargli di disporre di un numero di operatori tale da poterlo contenere efficacemente.

Se ancora non bastasse, in presenza di un pericolo immediato e di risorse adeguate, si ricorrerà a un

  • intervento di emergenza, nel senso di intervento contro la volontà del paziente, che consiste principalmente nel contenimento fisico associato o meno a somministrazione di farmaci.

Deve essere prevista ed esplicitata una procedura scritta in merito all’attivazione delle Forze dell’Ordine e deve essere raggiunto un accordo preciso tra quest’ultime e il Dipartimento di Salute Mentale sulle modalità di intervento.

L’obiettivo a breve termine è la sicurezza di tutti e la collaborazione del paziente.

A questo punto è necessario monitorare ogni quindici minuti il paziente fino alla risoluzione dell’emergenza.

Nel caso in cui il paziente entri in reparto in una condizione di emergenza comportamentale e/o già sottoposto a contenzione, viene effettuata una “tranquillizazione rapida”, secondo linee guida, con l’obiettivo di raggiungere una stabilizzazione del quadro e una rimozione della eventuale contenzione6.

Comunque, per tutto questo tempo (e finché non è stabile), il paziente non deve essere lasciato solo.

Trattamento in acuto dei comportamenti violenti

Si distinguere tra aggressività nel senso di ostilità, che riguarda anche i comportamenti di minaccia verbale o fisica, e (nel senso di) violenza, che implica comportamenti a danno di oggetti o persone (includendo il paziente stesso).

Utilizzando il modello del “ciclo dell’aggressione” (Maier et al., 1995), vediamo quali interventi sono più indicati nelle diverse fasi di un episodio di violenza:

  1. Fase del trigger (fattore scatenante) caratterizzata da “arousal”, sono diminuite le capacità discriminatorie.

L’intervento è diretto al riconoscimento e rimozione del fattore scatenante, se improprio. Possono essere evitati o rimandate richieste premature di esame di realtà, iper-stimolazioni, eccessiva rigidità nell’applicare le regole di reparto. Non possono invece essere messi in discussione gli aspetti fondamentali del setting (rispetto delle leggi, delle persone, necessità di negoziazione per qualunque variazione del trattamento).

  1. Fase dell’escalation: evidenza di manifestazioni comportamentali di tensione e irrequietezza.

La tempestività degli interventi determina le probabilità di successo. In questa fase l’intervento consiste nella negoziazione mediante un appropriato approccio verbale, mirato all’attenuazione dell’atteggiamento aggressivo del paziente, attraverso il riconoscimento positivo delle sue richieste in modo da deviarne il percorso comportamentale.

L’allontanamento dal contesto può essere utile.

Queste due fasi costituiscono la preaggressione che richiede una tempestiva valutazione del problema e del rischio. E’ necessario che la preoccupazione dei curanti sia percepita dal paziente.

Al contrario, se il paziente percepisce indifferenza, questa costituisce un ulteriore fattore scatenante, in quanto è interpretata come debolezza e/o disattenzione dell’interlocutore. Ciò rappresenta un rinforzo positivo, un incentivo all’escalation aggressiva.

Se il paziente è noto, vanno considerati:

  • precedenti comportamenti violenti (in particolare, livello di pianificazione, circostanze, patterns comportamentali, grado di lesioni e danni provocati, obiettivi);

  • uso di sostanze (in particolare, attuale probabile intossicazione o astinenza);

  • diagnosi (particolarmente negli aspetti "dimensionali" attuali: agitazione, rabbia, disforia, discontrollo degli impulsi, comportamento disorganizzato, disturbi percettivi, disturbi della forma e del contenuto del pensiero, elevazione del tono dell’umore, disturbi cognitivi);

  • violenza subìta in famiglia e nell’ambiente;

  • livello di compliance al trattamento farmacologico;

  • variabili socio-demografiche positivamente correlate a violenza (giovane età, sesso maschile, basso livello socio-economico).

Se il paziente è sconosciuto, la prudenza deve essere massima, cioè tutti i fattori di rischio vanno considerati presenti fino a prova contraria, in modo da adottare scelte operative di sicurezza.

In ogni caso vanno considerati anche:

  • grado di dettaglio delle minacce e nell’esporre i piani di violenza;

  • disponibilità di armi proprie o improprie.

La "descalation" mira a recuperare la relazione col paziente, trasformando il confronto aggressivo in una soluzione “negoziale” del conflitto. Le raccomandazioni operative per la “riduzione progressiva del comportamento aggressivo e violento” (descalation) sono le seguenti (Maier e Van Rybroek, 1995):

  • non assumere un atteggiamento negativo verso il paziente;

  • non polemizzare o contrastare (evitare i “perché” e i “no”, porre invece domande aperte);

  • non invadere lo spazio occupato dal paziente, quindi mantenere una distanza utile;

  • stabilire un contatto verbale, accompagnando con il contatto dello sguardo, senza fissare in modo continuo il paziente;

  • rivolgersi al paziente usando il suo nome personale;

  • usare frasi brevi dal contenuto molto chiaro;

  • usare un tono di voce rassicurante;

  • mostrare di accogliere quanto sostenuto dal paziente;

  • fare subito presenti le proprie prescrizioni;

  • porre il paziente di fronte a scelte alternative, in modo da impegnarne l’attenzione e distrarlo dall’originario programma di scarica motoria;

  • quando la tensione si è ridotta, porre limiti crescenti fino al ristabilirsi del controllo e della sicurezza.

La comunicazione con il paziente deve essere diretta espressamente alla persona, utilizzando il nome o il cognome.

  1. Fase critica e aggressione: culmine dell’attivazione seguita dall’aggressione: è un atto violento, seguito da diminuzione della tensione, accompagnata da eventuali elementi di rinforzo positivo e conseguente gratificazione.

L’intervento, in questa fase, deve basarsi sulla sicurezza (per tutti) e sulla riduzione del danno (per tutti). Le indicazioni sono sintetiche e massimali: contenimento e protezione.

Vanno impiegate tecniche assertive di “contenimento fisico sicuro”, per impedire di portare a termine l’aggressione, bloccando l’evoluzione comportamentale, riducendo la gratificazione del paziente e aumentando il senso di sicurezza degli operatori e dei pazienti.

E’ consigliabile assumere la posizione laterale durante il colloquio, ruotati di circa 30° rispetto all’asse del paziente, per offrire un minore bersaglio rispetto alla posizione frontale e comunicare una migliore disponibilità al dialogo;

Il verificarsi di un comportamento violento comporta l’attivazione immediata dell'intero gruppo curante (Vanni et al, 1994).

Gli interventi vanno dal solo colloquio con i protagonisti dell’episodio, con o senza somministrazione di farmaci, fino all’immobilizzazione momentanea del paziente, attuata da quattro membri dello staff previa autorizzazione del medico. Se è necessario si attiveranno le Forze dell’Ordine.

Il paziente va abbracciato da dietro, bloccando le braccia e le gambe a livello delle grosse articolazioni (riducendo al minimo le pressioni su collo e torace), quindi va posizionato supino, possibilmente al letto. Va mantenuto continuativamente il contatto verbale con il paziente per comprenderne il vissuto, per rassicurarlo circa la finalità di aiuto della manovra e per recuperarne la collaborazione nel più breve tempo possibile. Durante la procedura si può ricorrere a trattamenti farmacologici. La durata della manovra è tra i cinque e i dieci minuti. Questo tipo di contenimento corporeo, di holding, che si contrappone alla contenzione, è necessario per dare sicurezza al paziente in questione e agli altri ricoverati.

Contemporaneamente o successivamente, lo staff cerca di stimolare una discussione con il paziente, tesa a ricostruire la dinamica degli eventi e portarlo a un sufficiente grado di controllo del proprio comportamento.

  1. Fase del recupero: graduale ritorno al livello basale di attivazione. Il soggetto è ancora potenzialmente recettivo a successivi fattori scatenanti che possono innescare una riacutizzazione della crisi.

Va mantenuto un monitoraggio attivo, evitando di fornire nuovi, con pressioni, richieste, rimproveri intempestivi. L’osservazione deve essere esplicita, per evitare, di nuovo, di suscitare nel paziente la percezione dell’indifferenza, della paura o di intenti ostili da parte del personale.

  1. Fase della “depressione post-critica”: possibile comparsa di sentimenti di tipo depressivo.

In questa fase, invece, è possibile una seppur minima elaborazione dell’evento, per risolvere i sentimenti più penosi. E’ necessario il confronto con la vittima (paziente od operatore), per evitare il sedimentarsi di sentimenti “inquinanti” la relazione.

Va rilevato che non è il comportamento violento (una delle possibili manifestazioni del transfert negativo del paziente) a causare la “rottura del setting” (il comportamento violento deve essere previsto dal setting), quanto, piuttosto, le reazioni emotive (controtransferali) del gruppo dei curanti che, se non elaborate, possono essere messe in atto a danno del setting e della relazione.

Contenzione

Con il termine di “contenzione” mi riferisco esclusivamente alla “contenzione meccanica”, quell’insieme di strumenti fisici, applicati a segmenti corporei o a tutto il corpo della persona, impiegati per limitare la capacità di movimenti volontari dell'individuo (Dodaro, 2011).

La pratica della contenzione solleva una grande quantità di problemi, di ordine tecnico, clinico, organizzativo, etico, deontologico, giuridico e medico-legale. In questa sede accennerò solo alcuni punti critici, con l'intento di lasciare assolutamente aperta la questione che merita una trattazione a parte.

Più ricercatori hanno rilevato che la contenzione meccanica rimane il metodo di gestione più usato per i comportamenti aggressivi nei reparti psichiatrici, specialmente per gli episodi gravi (Fisher, 1994; Sailas and Wajlbeck, 2005; Biancosino et al., 2009)

La “White Paper of the Council of Europe" dichiara che: ‘‘L’uso di brevi periodi di contenzione fisica (blocco fisico non prolungato) dovrebbe tener conto del rapporto rischi/benefici e la contenzione meccanica dovrebbe essere utilizzata solo come ultima risorsa e solo in casi eccezionali per periodi prolungati” (Steering Committee on Bioethics of the Council of Europe, 2005).

La pratica della contenzione è associata a morbilità e mortalità a breve e a lungo termine (queste ultime meno note), in particolar modo per trombosi venosa profonda e per embolia polmonare (Dickson e Pollanen, 2009).

La “contenzione” è ritenuta da molti autori (Mohr et al., 2003) un non-trattamento. I limiti di questa pratica sono: la dubbia collocazione tra gli interventi terapeutici, la mancanza di solide evidenze scientifiche, la scarsa attenzione data alle morti e alle lesioni correlate all’uso della contenzione.

Concludo con un’affermazione di Prinsen e Van Delden (2009): “Tutti gli aspetti etici possono essere usati sia a favore, sia contro un approccio non coercitivo. La totale mancanza di studi controllati circa i benefici delle misure coercitive in differenti popolazioni depone, comunque, contro l’uso di tali misure”.

Aspetti psicologici del trattamento farmacologico

È necessario fornire al paziente un buon motivo per sottoporsi al trattamento farmacologico, spiegandone sempre perché, come, quanto, quando.

Sono necessarie perciò negoziazione e verifica continua del consenso informato, anche e soprattutto per:

  • Trattamenti iniziati in urgenza (es. tranquillizazione rapida);

  • Trattamenti contro la volontà del paziente: bisogna tentare attivamente e continuamente di recuperare il consenso, anche parziale.

E’ opportuno ridiscutere il trattamento farmacologico ogni due giorni o a richiesta del paziente e, in ogni caso, prima di qualunque variazione, in funzione della migliore alleanza terapeutica possibile.

Questo comporta ascolto e ricostruzione della storia del paziente.

Il momento della negoziazione costituisce un importante elemento di valutazione clinica.

La condivisione dell’esperienza soggettiva del paziente (soprattutto se negativa) è un importante contributo alla alleanza terapeutica.

Richieste o preferenze farmacologiche del paziente (soprattutto in base alla sua esperienza) dovrebbero avere la priorità, salvo controindicazioni.

Bisogna spiegare, fin dall’inizio, che non è possibile non assumere la terapia farmacologica prescritta, ma si può discutere con il medico di un’eventuale sostituzione.

E' opportuno far scegliere al paziente, quando possibile: forma farmaceutica, via di somministrazione, terapia al bisogno, possibilità di anticipare la terapia fino a un’ora prima.

Per ogni farmaco introdotto, occorre spiegare sinteticamente al paziente, per poterlo utilmente coinvolgere nel processo decisionale, in funzione del consenso informato e alleanza terapeutica:

  • effetti desiderati;

  • tempi previsti d’insorgenza dell’effetto;

  • effetti indesiderati, spiegando al paziente se, come e in quanto tempo si possono risolvere. E’ consigliabile iniziare da quelli più frequenti ma senza trascurare, se ve ne sono, quelli più gravi, indicandone la frequenza approssimativa. Occorre indicare il rapporto rischi/benefici.

Bisognerebbe dare la priorità a farmaci che si avvicinino il più possibile alle seguenti caratteristiche:

  • disponibilità di varie forme farmaceutiche: i.v.; i.m.; orale liquida o ad assorbimento rapido sublinguale;

  • minor numero possibile d’interazioni farmacocinetiche e farmacodinamiche (sfavorevoli) con altri farmaci e sostanze d’abuso; infatti, il paziente in urgenza può avere altri trattamenti in corso (psichiatrici e non) che deve poter mantenere, perché la loro sospensione è pericolosa o perché la reintroduzione può essere problematica; naturalmente, il paziente in urgenza ha un’elevata probabilità di essere sotto l’effetto di alcol e/o sostanze d’abuso, assunte in tempi diversi e ignoti, i cui effetti avranno, molto probabilmente, durata diversa tra loro e imprevedibile, anche quando sia possibile l’esame tossicologico ;

  • effetto di rapida insorgenza e di durata non superiore alle 12 ore;

  • sicurezza in caso di somministrazioni ripetute e ravvicinate (in modo da non disporre di “un colpo solo”, con il conseguente rischio di sovra- o sottodosaggio);

  • disponibilità di farmaci antagonisti.

E’ opportuno seguire Linee Guida internazionali, esplicite, discusse e condivise da tutto lo staff, riguardo alla scelta di quali farmaci e quali dosaggi. Sapendo cosa si sta prescrivendo, somministrando e perché, si sarà più motivati e convincenti nell’approccio al paziente.

Bisogna mettersi in condizioni di poter motivare ogni deroga alle linee guida.

E’ sempre opportuno valutare un cambiamento di terapia farmacologica dopo tre giorni d’effetto insoddisfacente.

E’ consigliabile praticare tempestivamente la tranquillizzazione rapida per trattare le emergenze comportamentali.

E’ preferibile usare ripetutamente una o poche combinazioni di farmaci, piuttosto che “stratificare” molti principi attivi diversi, con effetti difficilmente valutabili e comparabili (Ferioli et al., 1994).

Bisogna motivare l’uso simultaneo di più di un farmaco della stessa categoria (es.: antipsicotici, antidepressivi, ansiolitici, stabilizzanti l’umore).

Sono da monitorare:

  • prescrizioni fuori linee guida e/o fuori scheda tecnica (per patologia e/o per posologia);

  • effetti indesiderati gravi.


Conclusioni

Molte sono le aree problematiche del trattamento dei pazienti ricoverati nei reparti psichiatrici per acuti.

La ricerca, attraverso apporti multidisciplinari, teorici, epidemiologici e clinici, può permettere di elaborare modelli e tecniche di intervento terapeutico sempre più efficienti ed efficaci.

Un trattamento specifico, che chiamo Trattamento Psichiatrico Intensivo Continuo, appropriato a condizioni cliniche di disturbo psichico acuto e grave, deve avere quale paradigma la costruzione e il miglioramento di un setting idoneo al processo specifico: il trattamento dell'emergenza comportamentale fino al raggiungimento di una sufficiente alleanza terapeutica. Questo richiede formazione specifica e ricerca sulla qualità dei trattamenti.

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* Psichiatra- Psicoanalista SPI
Bologna
email: feriovit@live.it
tel. 3358247359

Note

1 L'identificazione proiettiva è, come noto, un meccanismo di difesa inconscio, attraverso il quale aspetti propri (rappresentazioni del Sé e/o degli oggetto interni) vengono disconosciuti e proiettati in qualcun altro che si identifica inconsciamente con quanto viene proiettato e tende a sentirsi o a comportarsi in modo conforme a tale proiezione (Gabbard, 2000). Osservando il fenomeno dal lato del terapeuta (gruppo curante), a seconda del grado di consapevolezza dei curanti di questi movimenti inconsci da parte del paziente, si potrà parlare, decrescendo la componente conscia, di controtransfert concordante, complementare (Racker, 1953) o addirittura, quando la risposta dei curanti avviene in modo massiccio e largamente inconscio, di “controidentificazione proiettiva” (Grinberg, 1979).

2 Bion (1962) pone l’accento sul versante comunicativo dell’identificazione proiettiva, trattandola come comunicazione arcaica madre-bambino, valorizzandola in questo modo nella relazione oggettuale precoce. Il bambino mette nella madre, attraverso l’identificazione proiettiva, le proprie parti in difficoltà. La madre, attraverso la funzione di “reverie” (analogamente alla formazione del sogno), permette il passaggio dal processo primario del bambino al processo secondario. E’ il contatto emotivo intersoggettivo che da significato alla relazione madre-bambino.

3 Emergenza comportamentale è una situazione clinica che rende necessario un intervento di emergenza, inteso come “trattamento non volontario (Allen et al., 2001).

4 L' ingresso, soprattutto se il trattamento non è volontario, costituisce un importante evento stressante per i familiari/caregiver. Per favorire una partecipazione efficace alla cura è necessario coinvolgere senza sovraccaricare (Jankovic et al., 2011).

5 Analogamente a quanto detto sui comportamenti violenti e sulla "contenzione", si può ragionevolmente sostenere che anche il tasso di pazienti che non possono uscire (a maggior ragione se volontari) peggiori l’atmosfera di reparto, riducendo le potenzialità terapeutiche del "trattamento".

6 E’ presupposto che la contenzione sia un fattore sfavorevole sia per la relazione terapeutica che per l’atmosfera di reparto.



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