PM --> H P ITA --> ARGOMENTI ED AREE --> NOVITÁ --> ADOLESCENZA

PSYCHOMEDIA
GRUPPALITÀ E CICLO VITALE
Adolescenza


Psicoanalisi relazionale e psicopatologia dell’adolescenza: riflessioni su attaccamento, trauma e dissociazione i

Cesare Albasi, Marco Barra


Ogni clinico sa che l’adolescenza è un periodo delicato e particolare nello sviluppo, fondamentale per la struttura psichica di tutta l’esistenza. Cionondimeno, i modelli evolutivi della personalità e del funzionamento mentale sano e patologico che sono attualmente al centro dell’attenzione della psicoanalisi relazionale, sono maggiormente orientati all’elaborazione delle acquisizioni, di grande rilievo, provenienti dagli studi sulla prima infanzia; a differenza di alcuni decenni fa, quando i grandi autori che hanno gettato le basi del paradigma relazionale, come Winnicott, Sullivan, Erickson, per citarne alcuni, non avrebbero concepito un modello teorico di rilevanza clinica che non avesse centrato l’attenzione sull’adolescenzaii.

Se da un lato i modelli teorici dello sviluppo e della psicopatologia dell'adulto non approfondiscono le implicazioni della fase adolescenziale in modo compiuto, dall’altro le riflessioni dedicate al lavoro clinico con gli adolescenti stimolano costantemente il nostro desiderio di poterci sintonizzare con il loro affascinante universo in continuo cambiamento, per poter aiutare chi di loro si trova maggiormente in difficoltà.

Lavorare con gli adolescenti richiede un atteggiamento specifico, che ci pare possa trarre molto giovamento dai più recenti modelli teorici della psicoanalisi relazionaleiii. Con gli adolescenti, infatti, è necessario un lavoro di reciproca collaborazione, permettendo loro di essere, come già diceva Ferenczi (1932b), “analisti degli analisti”.

Secondo Hoffman (1998) le esperienze del paziente e del terapeuta sono “costruzioni di significati” basate su storie individuali. La capacità del clinico, secondo la prospettiva relazionale, dipende prevalentemente dalle sue risposte soggettive, sostituendo così, alla sua neutralità, il suo stato d’animo, i suoi sentimenti, le sue fantasie e i suoi pensieri, considerati il vero sentiero verso la scoperta dei problemi del paziente adolescente.

Le conoscenze sul trauma e la dissociazione, sull’attaccamento, sulla diade madre-neonato hanno ancora molto da dire per la costruzione di modelli clinici adeguati al lavoro con adolescenti e con bambini.

Come in precedenza trattato in modo più dettagliato (cfr. Albasi, 2006), tra i concetti che paiono caratterizzare maggiormente la psicoanalisi relazionale ci sono quelli di mente, relazione, salute e malattia, enactment, autosvelamento e negoziazione.


Adolescenza: normalità e patologia in una prospettiva complessa sullo sviluppo degli esseri viventi

Nell’orizzonte contemporaneo, la prospettiva epistemologica della complessità ci aiuta a vedere i fenomeni clinici e dello sviluppo con uno sguardo nuovo.

Sander (2007) afferma che la teoria del caos e il linguaggio dei sistemi dinamici non lineari, approcci che gravitano nel paradigma della complessità, costituiscono il sistema di pensiero e la prospettiva più adeguata per lo studio delle relazioni umane, dello sviluppo infantile, del cervello, della psicopatologia, della psicoterapia. Il modello di Sander permette di apprezzare la complessa costruzione di configurazioni soggettive molteplici che possono variare da un senso di coerenza e unità ad un senso di diffusione e mancanza di forma e organizzazione.

I sistemi presenti in natura hanno un’esistenza che si sviluppa nel tempo, per cui hanno una storia.

Se utilizziamo la metafora dei sentieri alternativi aperti per parlare dello sviluppo del Sé, in questa prospettiva i sentieri successivi saranno influenzati dal sentiero preso in precedenza. Traducendo questo presupposto nella storia di una mente individuale: la complessità delle relazioni realmente vissuta viene conservata nei processi interni (le strutture mentali), che vincoleranno le molteplici modalità di costruzione del significato dell’esperienza soggettiva.

Nel secolo scorso sono maturate conoscenze e teorie che hanno dischiuso ai nostri occhi altri aspetti fondamentali dell’universo, e hanno elaborato altri strumenti per pensare le singolarità, le realtà evolutive, e quindi la salute e la patologia. Nel discorso scientifico teniamo oggi conto di altre dimensioni, come: i principi organizzatori, le condizioni iniziali, i punti di vista degli osservatori ecc. Il metodo scientifico non è più unico ma, pluralistico, e le scienze che studiano fenomeni evolutivi guardano agli eventi unici e singolari (irripetibili) con la stessa dignità epistemologica con cui si indagano regolarità e grandi numeri; infatti, ogni sistema vivente è il risultato singolare e irripetibile della relazione tra una molteplicità complessa di variabili (non riducibili a poche, né semplificabili o controllabili e verificabili attraverso la ripetizione e la manipolazione in laboratorio). Nessun processo evolutivo è costituito da un’unica direzione. Lo sviluppo ha un carattere costruttivo, attivo e creativo; nell’adolescente queste caratteristiche sono connesse alla salute, e vanno riscoperte nelle situazioni patologiche (Cfr. Albasi, 2009). Il presentarsi alla nostra attenzione clinica di una particolare situazione adolescenziale va contestualizzato nelle “ragioni” della storia della persona, ma non è “necessario” (nel senso in cui lo è un effetto inevitabile di certe cause): quindi, non possiamo affermare che un adolescente si trova nella sua situazione clinica perché inevitabilmente, data la sua storia e i suoi genitori, non può che essere così. Il punto della traiettoria evolutiva in cui si trova è il frutto di una molteplicità di variabili e di fattori che, pur costituendo i vincoli attuali, possono essere ampliati da altri fattori, altre prospettive, che l’adolescente può costruire con il clinico e che possono attivare nuovi percorsi di sviluppo (Cfr. Pietropolli Charmet, 2000, 2003). Non vige il determinismo.

Come ha intuito Ceruti (1986), le scienze dei fenomeni viventi (evolutivi, con storia) devono spiegare i processi di cambiamento nei termini di vincoli e possibilità, e non in quelli di caso e necessità. È la specificità dei contesti dello sviluppo che offre vincoli e possibilità irripetibili (che funzionano come “attrattori” per la storia individuale).


Psicopatologia dell’adolescenza come adattamento (fallimentare) a uno specifico contesto evolutivo

La psicopatologia (come la salute) implica sempre lo sviluppo di forme di adattamento a specifici contesti. In questa prospettiva, lo sviluppo non è inteso come un semplice adattamento lineare all’ambiente (inteso come ambiente esterno ma interno riferendosi all’Es pulsionale freudiano, che rappresenta teoricamente il retaggio evoluzionistico lasciato nell’uomo), nel senso di un insieme di risposte date dall’organismo a problemi posti dall’ambiente (per cui la forma assunta dall’organismo era conseguente alla funzione di adattamento in quanto i problemi da risolvere per crescere erano posti dall’esterno o da leggi generali). Infatti, cambiando radicalmente prospettiva, ed adottando quella della complessità, un osservatore non può decidere quale sia la causa e quale l’effetto in una circolarità causale sistemica. Com’è possibile stabilire, e dare per assunto come modello normativo, che un componente del sistema, per esempio l’ambiente, ha un ruolo sempre attivo (di causa), e l’altro, l’organismo, passivo (di effetto)? Non è che due genitori psicotici avranno un figlio adolescente psicotico e nemmeno dobbiamo cercare dietro ad un adolescente psicotico due genitori psicotici. Non possiamo ipotizzare processi di causalità lineare, ma di causalità complessa. Adattarsi ad un contesto di figure di attaccamento psicotiche vincolerà lo sviluppo in modo rilevante, ma non causerà un effetto psicopatologico prevedibile a priori. D’altro canto, siamo in grado di ipotizzare, in termini di funzioni genitoriali e risorse mentali, ciò che è deficitario in un contesto per uno sviluppo sano (anche se l’adolescente potrebbe risultare più sano di quel che si potrebbe prevedere conoscendo i suoi genitori); e di ricostruire il ruolo e le responsabilità che alcuni aspetti del funzionamento delle figure di attaccamento hanno nell’organizzazione mentale dell’adolescente1.

Applicare l’ottica sistemica allo sviluppo umano, implica anche ipotesi differenti sui compiti dell’ambiente incarnato dalle figure di attaccamento: esse, di fatto, favoriranno lo sviluppo tanto più quanto si muoveranno entro questi princìpi sistemici di valorizzazione dell’incontro, di specificità singolare e irripetibile con il figlio. “Acquisendo via via una maggiore comprensione del processo della vita e del ruolo svolto dalla nostra consapevolezza nell’attuarne i principi, riusciremo a ottimizzare in maniera più efficace quello stato elusivo che chiamiamo salute” (Sander, 2000, p. 400).

Da questa prospettiva, ogni figlio ha bisogno di qualcosa di specifico, così come tutti i figli hanno un significato diverso per i loro genitori, nascono in momenti differenti della loro storia, e occupano una posizione e un ruolo diverso all’interno del sistema famigliare. Come i clinici esperti (medici e psicologi) sanno, non sono facilmente ricavabili principi evolutivi universali (le teorie stadiali sono sempre di più affiancate da concezioni complessiviste dello sviluppo): ogni bambino e ogni adolescente hanno bisogno che i loro contesti evolutivi (principalmente la coppia dei genitori) si adattino a loro (già Ferenczi lo scrive nel 1929). È curioso che in Italia si rischi culturalmente che tutto il peso della formazione alla genitorialità ricada, di fatto, sulle spalle dei pediatri (quindi non soltanto per quanto riguarda la cura e la prevenzione delle patologie somatiche, ma anche per lo sviluppo sano della personalità e per l’educazione).

Il funzionamento mentale dell’adolescente ha le sue radici nell’infanzia: le condizioni iniziali, come afferma la teoria dei sistemi, sono fondamentali per lo sviluppo; e nel sistema emergente bambino-figure di attaccamento (ambiente di accudimento) queste condizioni di incontro sono fondamentali per lo sviluppo del bambino, e all’interno di esse cominciano a prendere forma i livelli procedurali (non simbolici e pre-rappresentazionali) che avranno un ruolo fondamentale per la matrice delle strategie adattive di base alle sue relazioni e ai contesti di vita quotidiani a cui appartiene, al suo progetto di sé per il presente e per il futuro, che influiscono sulla salute, sulla patologia, sullo sviluppo dell’adolescente (Albasi, 2009).

Come affermano gli studiosi sistemici dello sviluppo, fin dall’inizio della vita le figure di attaccamento offrono un’impalcatura (scaffolding, Bruner, 1983), o un inquadramento (framing, Fogel, 1977; Fogel, Lyra, 1997), o una zona prossimale dello sviluppo (Vygotskij, 1978), che funzionano come “cornici” di sostegno (Fogel, Thelen, 1987), sfruttando le quali il bambino può dare un’organizzazione e rendere funzionanti potenzialità non del tutto realizzate (es. schemi di comportamento incompleti, come il camminare, o attività come il calmarsi). La figura di attaccamento sostiene lo sforzo del bambino e la sua capacità emergente sarà il frutto dell’interazione dinamica specifica di tutti gli elementi: il suo livello di competenze esistente al momento, l’azione sensibile di inquadramento e sostegno offerta dall’adulto, la natura del compito (Cfr. Maggiolini, 1990, 1991, 2002).

Utilizzando la metafora dei sistemi dinamici non lineari, impiegata da molti studiosi dello sviluppo, anche l’essere umano, dal punto di vista psicologico, non rimane in una condizione di equilibrio lineare, ma evolve in condizioni sensibili e vincolate dalle caratteristiche di partenza, in traiettorie che implicano possibili deviazioni multideterminate e aperte verso molteplici direzioni, negoziando in modo dialettico stabilità (organizzazione coerente) e cambiamento (novità, creatività e proprietà emergenti).

Nel ragionamento clinico sulla psicopatologia dell’adolescenza, informato dai principi sistemici, bisogna tener conto che la diagnosi risulta essere una valutazione dei vincoli presentati dal paziente nel sistema che sta costruendo con il clinico (che ha il compito di costruire come sistema evolutivo, di cambiamento, per il paziente). La sua organizzazione di personalità, i suoi disturbi, il livello delle sue funzioni mentali, pongono i vincoli alla costruzione del sistema che si crea con il clinico (Cfr. Dazzi et al. 2010; Barron, 2005; Lingiardi, Gazzillo, 2002; Western et al., 2004).


Il ragionamento clinico e l’argomentazione evolutiva: prospettive dello sviluppo in un ottica psicoanalitica relazionale

Per il ragionamento clinico, in un’ottica psicoanalitica, la prospettiva evolutiva è sempre stata centrale (Aparo, Casonato, Vigorelli, 1989; Hall, Lindsay, 1978). Essa, però, all’interno del contesto epistemologico della Modernità, non è stata scevra di problemi nella sua applicazione alla psicopatologia.

L’impostazione meccanicistica della metapsicologica pulsionale di Freud (applicata fedelmente da Abraham, e poi estesa dal punto di vista logico anche in modelli psicoanalitici differenti, come la psicologia dell’Io e la teoria delle relazioni oggettuali) ha comportato ipotesi evolutive che, seppur si collocavano coerentemente con le cornici epistemologiche passate, lasciavano scorgere i rischi di affermazioni metaforiche (“il passato è fondamento del presente. ‘Il bambino è il padre dell’uomo’ o, piuttosto, i bambini delle varie età e dei vari livelli evolutivi in un certo senso coesistono all’interno dell’uomo”; Mitchell, 1988, p. 132). In quella che Pine (1985) definisce l’“argomentazione evolutiva”, la reificazione di alcune ipotesi sullo sviluppo ha portato ad alcune assunzioni psicoanalitiche secondo cui la psicopatologia dell’adulto è sagomata da periodi fisiologici dello sviluppo, ai quali la mente è “fissata” (o per un ingorgo pulsionale che crea un conflitto irrisolvibile, o per un arresto dello sviluppo causato da un trauma). Le forme assunte dalla psicopatologia, quindi, avrebbero come un’edizione più antica, tanto più antica quanto più grave è la psicopatologia: più precoce (cioè più antica) è la fissazione, o l’arresto evolutivo, e più è grave la patologia. Nel linguaggio psicoanalitico di alcuni grandi autori, sono state utilizzate addirittura categorie psichiatriche per definire fasi e stadi dello sviluppo, come autismo e simbiosi (Mahler, 1968), posizioni schizoparanoide e depressiva (Klein, 1935) (cfr. Winnicott, 1965; Albasi, 2001).

Un problema che la reificazione dell’argomentazione evolutiva comporta per il ragionamento clinico, è la tendenza a descrivere le psicopatologie come “nuclei” statici (per esempio “nuclei psicotici”, ecc.), cioè attraverso concetti che sono metafore spaziali che falsano la naturale processualità e la dimensione temporale e attiva della mente. Le metafore evolutive vanno invece sfruttate per comprendere le soluzioni che la mente del paziente, che funziona a vari livelli, in senso orizzontale e verticale, ha trovato, o sta ancora cercando in modo attivo, anche catturando pragmaticamente il clinico in enactment interattivi.

I pazienti adolescenti, soprattutto quelli traumatizzati, invece di legarsi ai loro terapeuti per mezzo delle parole, lo fanno attraverso degli enactment, che, nell’esprimere inconsciamente, tramite l’azione, gli aspetti dissociati del sé e la rappresentazione dell’oggetto, possono assumere tante forme. Capirne il significato e l’evoluzione, quando questi sono messi in atto soprattutto da pazienti adolescenti, permette al terapeuta di scoprire le loro esperienze traumatiche passate.

Già Ferenczi (1920, 1932) aveva dedicato tempo ed energie a sviluppare il “ruolo dell’azione” nel trattamento analitico di pazienti difficili; solo negli ultimi anni questo ha assunto una posizione di rilievo, soprattutto, ovviamente, tra i terapeuti relazionali che hanno a che fare con pazienti adolescenti: è infatti attraverso l’azione che gli adolescenti sviluppano la definizione di sé (Chused, 1990) e che si difendono dalle paure rispetto a sentimenti di passività, debolezza, impotenza e timore della perdita dell’oggetto (Blos, 1963).

Jacobs (1991) ha sostenuto che l’enactment vada distinto dall’ “acting out”, sostenendo che mentre il primo si riferisce all’elusiva attività interpersonale, appunto quella tra paziente e terapeuta all’interno del setting analitico, il secondo, invece, è riservato ad un comportamento più impulsivo.

Renik (1994) sostiene che la formazione degli enactment, all’interno del processo terapeutico, prevede tre stadi: l’emergere del “mutual enactment” e l’attualizzazione dei mondi relazionali interni ed esterni; la percezione dei sentimenti di transfert-controtransfert; e infine, l’interpretazione dei mondi relazionali interni ed esterni del paziente. Nel lavoro con pazienti adolescenti traumatizzati, infatti, bisogna far emergere la loro aggressività naturalmente e progressivamente, tollerando comportamenti distruttivi solo entro certi limiti: solo così questi pazienti possono raggiungere quella che Balint (1968) chiamava una “regressione benigna” (Cohen, 2003). Le conseguenze degli enactments, però, possono sia essere progressive, come appena illustrato, sia essere responsabili di un più ampio processo di trasformazione, che crea, necessariamente, la definizione di uno spazio (il “mio-non mio”) (Freedman, 1994).

L’enactment viene anche concettualizzato come una mutua partecipazione a doppio senso, tra analista e analizzando; è visto infatti come la dimensione di un’esperienza che esterna e attualizza la vita interiore di conflitto e relazione del paziente con gli oggetti (McLaughlin, 1987). White (1992), per esempio, usa la parola enactment per spiegare la “riesperienza” di un ruolo assunto nell’infanzia, che viene recitato sul palco dello studio dell’analista: a quest’ultimo è data una parte che dovrà recitare; entrambe le parti in questa situazione perdono il loro senso di distanza, interagendo in modo verbale e non verbale, portando all’interno del setting delle dinamiche intrapsichiche sottoforma di interazioni. Questo processo di trattamento, appunto, deve essere considerato dai pazienti come un “gioco”, soprattutto se si tratta di pazienti adolescenti traumatizzati, in modo che si sentano liberi di giocare, al fine di creare un’esperienza collaborativa (Markman, 1997), attraverso la quale si possa trovare il vero significato dell’enactment, che spesso risiede nelle relazioni analitiche stesse (Schafer, 1992).

Gli analisti relazionali più tradizionali, infatti, sostengono che sia l’interazione che gli enactment siano inevitabili, continui, ma soprattutto utili per il paziente, il quale costruisce una nuova esperienza basata sulla “relazione”. Ogni nuovo significato a cui si arriva è il risultato di una negoziazione con qualcuno che arriva da un luogo diverso, ha una prospettiva diversa, ma che soprattutto cerca un tipo diverso di interazione (Stern, 1997). Gli enactment hanno infatti il potenziale terapeutico di provocare l’emergere di un nuovo significato e di un nuovo “essere nel mondo”, all’interno della relazione analitica (Hoffman, 1998).

Nel trattamento di pazienti adolescenti, i terapeuti sono costantemente tirati dentro e spinti fuori sia dai loro transfert che dai loro enactment (Cohen, 2003); inoltre, questi pazienti, soprattutto se traumatizzati, riescono a verbalizzare cosa sta succedendo a loro, solo se convinti che i loro analisti facciano loro i propri orrori, li tengano per loro, rispondano emotivamente (reenacting) e li restituiscano in una forma più modulata e contenuta. I pazienti adolescenti traumatizzati possono entrare in contatto con le loro emozioni attraverso l’enactment e quando il terapeuta rivela loro i suoi stati affettivi, anche attraverso l’espressione dei suoi occhi e del suo viso, cosa che avviene quando questi mette in atto un “ascolto traumatico” (Davies, 1997).

Il linguaggio del discorso e il linguaggio dell’azione si trasformeranno entrambi e diventeranno, in termini musicali, variazioni armoniche sullo stesso tema” (Levenson, 1972, p.81).

Male interpretata in senso letterale anziché metaforico, l’argomentazione evolutiva seduce per le possibilità che offre di descrivere il paziente “come se fosse un bambino” con certi bisogni e che cerca certe soluzioni che non trova, ma se reificata e capovolta può portare a fare ipotesi troppo lineari sul passato del paziente; così come ha portato a fare ipotesi e formulare previsioni sulla psicopatologia adulta sulla base delle vicende dell’esperienza infantile, ma “nessuna di queste aspettative sembra sorretta dall’evidenza” (Mitchell, 1988, p. 133). Come dice Daniel Stern nel suo Il mondo interpersonale del bambino, una pietra miliare per questi argomenti: “sebbene questo sia stato l’orientamento prevalente per molti decenni, finora nessuna ricerca longitudinale è giunta a confermare le previsioni molto precise avanzate da queste teorie. Danni e traumi psicologici sofferti in una data età o fase evolutiva dovrebbero essere predittivi di specifici problemi clinici successivi, di ciò non esistono verifiche sperimentali” (Stern, 1985, p. 40).

La stessa debolezza si riscontra in quei modelli che reificano la teoria dell’attaccamento, e vorrebbero far coincidere alcuni disturbi dell’adolescente con MOI determinati nel bambino, tramite ricostruzioni di sequenze causali fantasiose ricoperte di robusto scientismo (Cfr. Albasi, 2006).

Detto ciò, la tentazione opposta è quella di sostenere che non esiste nessuna catena causale tra l’infanzia, la storia personale, il passato e la situazione psicopatologica presentata. Anche questa posizione, clinicamente irragionevole, è frutto dello stesso errore logico, cioè quello di basarsi sulla causalità lineare come principio esplicativo dei fenomeni umani (come lo sviluppo o la psicopatologia); che invece, possono essere compresi soltanto in un ottica di complessità, in termini di causalità circolare e di sistemi.

Il motivo per cui le teorie lineari dello sviluppo e della psicopatologia (come quella del conflitto pulsionale-fissazione o del trauma-arresto evolutivo) hanno trovato modo di auto-confermarsi per anni, è legato al fatto che alcuni problemi evidenti nella psicopatologia adolescente esprimono il fallimento nei confronti di tematiche che sono fondamentali per l’esperienza umana lungo tutto l’arco evolutivo (come la definizione di sé e l’essere in relazione, la separazione e l’individuazione, la dipendenza e l’autonomia, l’autoregolazione degli affetti e la condivisione, l’amore e l’odio)2.

Ciò che rende così seduttiva la ricostruzione genetica, è la facilità con cui si può attribuire significato di causalità a parallelismi nelle strutture di esperienza, affermando che il fenomeno più antico, in qualche modo, sottende o provoca quello successivo (Mitchell, 1988). Concezioni stadiali dello sviluppo, che considerano archiviati alcuni temi, o concezioni della psicopatologia che assegnano priorità eziologica a momenti prefissati e conclusi non tengono in considerazione, da un lato, la complessità delle molteplici linee evolutive e la molteplicità dei livelli di funzionamento mentale e, dall’altro lato, la continuità dei rapporti nei contesti di sviluppo. I deficit o le conflittualità delle relazioni di attaccamento, che dipendono dalle personalità e dal funzionamento mentale dei genitori, rimangono tali per tutto l’arco evolutivo3. La psicopatologia prende forma quando le figure di attaccamento confermano in modi rigidi e ripetitivi, lungo l’età evolutiva, le stesse difficoltà a costruire un contesto relazionale adatto allo sviluppo. I bisogni precoci che vengono disconosciuti, più che “fissarsi”, si aggrovigliano alle strategie adattive che la mente opera. Lo studio e la comprensione degli anni dell’infanzia è importante, perché formano la matrice delle motivazioni (bisogni, desideri, ecc.) e dei modi (processi, strutture) che orientano la formazione delle relazioni di attaccamento.

Diventare persone implica una negoziazione continua all’interno della dialettica tra attaccamento e definizione di sé. Questi temi sono analoghi in tutte le fasi evolutive. Il contesto delle relazioni di attaccamento ha, quindi, un ruolo fondamentale e continuo nella creazione dell’esperienza personale e nella costruzione delle strutture interne. Le prime esperienze evolutive sono significative non perché depositano residui o fissazioni, ma perché attivano processi (interni e interattivi) e rappresentazioni che costituiscono la base dei modelli di funzionamento dell’individuo per la costruzione del suo mondo relazionale (MOI; Bowlby, 1969, 1973, 1980). “Comprendere il passato è fondamentale, non perché il passato sia nascosto nel presente o dietro il presente, ma perché la comprensione del passato fornisce indizi per decifrare come e perché il presente viene affrontato e modellato in un certo modo. (…) I residui del passato non liquidano il presente. Forniscono progetti per negoziare il presente. L’adulto (e l’adolescente, ndr.) cerca inevitabilmente l’interazione nel suo mondo interpersonale attuale, in una forma o nell’altra, lungo le linee che ritiene più sicure e più desiderabili” (Mitchell, 1988, p. 138).

Da questa prospettiva, la gravità della psicopatologia, o la primitività dell’organizzazione di personalità e del funzionamento mentale, non è “causata” dalla “precocità” dei problemi evolutivi, ma è vincolata dalla loro pervasività e rigidità lungo lo sviluppo. Le relazioni di più grave attaccamento traumatico vincolano lo sviluppo all’assenza di spazi per la crescita delle proprie caratteristiche peculiari e specifiche, sottraendo ingredienti per la costruzione di quelle risorse che permettono un buon funzionamento mentale. I contesti evolutivi più sani ma contrassegnati da intensa conflittualità nevrotica condizionano lo sviluppo del funzionamento mentale a forme di rigidità, irrisolutezza, inibizione ecc.

La prospettiva evolutiva rimane un ricco serbatoio di metafore per la comprensione della psicopatologia. Il ragionamento clinico contemporaneo si è arricchito di strumenti di pensiero che ne permettono un più proficuo utilizzo (che non va nel senso di argomentazioni eziologiche fondate su principi di causalità lineare, ma nel senso del ragionare evolutivamente), e di nuove metafore molto stimolanti offerte dalla teoria dei sistemi dinamici e dal paradigma della complessità.

La critica contemporanea alle dicotomie che hanno retto la modernità suggerisce una molteplicità di logiche del ragionamento clinico che cerchino tra loro rapporti dialettici e forme di integrazione nella valutazione della psicopatologia

L’intersoggettività è complessa in quanto implica il paradosso implicito nella tensione dialettica che connette l’identità e la relazione: l’essere se stessi proprio in quanto si è costruiti dalla relazione di attaccamento.

La sfida della complessità comporta una rinnovata fiducia negli strumenti scientifici per studiare la singolarità e la soggettività, sana e patologica, dove la salute e la patologia appaiono come fenomeni intrecciati e compresenti in ogni individuo e in ogni relazione. La valutazione della psicopatologia diventa un osservazione di livelli di organizzazione, come una molteplicità compresente di livelli dalla quale emergono vincoli e possibilità per lo sviluppo e la realizzazione sia dell’individuo sia delle sue relazioni.


Salute, sofferenza, sintomi: il ragionamento clinico e il rischio del riduzionismo

Lavorare con gli adolescenti in un contesto clinico implica una riflessione sulla sofferenza e sulla patologia, ma anche sulla salute.

Intendiamo la salute in un senso ampio, come una condizione nella quale l’adolescente sente di potersi realizzare nella propria esistenza, cioè fa esperienza della propria vita come un insieme di possibilità a sua disposizione per realizzare qualcosa che comincia a sentire come specificatamente proprio, sostenuta da risorse fisiche, psichiche, relazionali.

L’adolescenza è un periodo di rapide e profonde trasformazioni, e distinguere la psicopatologia dalla salute implica inevitabilmente scelte di fondo che orientino lo sguardo clinico: scelte epistemologiche, valoriali, teoriche, culturali, ideologiche, politiche (Laufer, Laufer, 1984). La definizione di patologia o di normalità di un adolescente è condizionata dai molteplici contesti sopra citati e non è mai definitiva.

Per l’adolescente, così come per i bambini e gli adulti, il dolore e la psicopatologia non hanno una relazione lineare fra loro4. Gravi psicopatologie possono non comportare un’esperienza soggettiva di intensa sofferenza; in alcune situazioni la sofferenza di un adolescente può esprimersi nel corpo, in altri casi la patologia si manifesta attraverso altre persone del contesto relazionale nel quale vive (inteso come sistema).

Nell’adolescenza si è chiamati a elaborare molti cambiamenti che implicano perdite (concrete o simboliche) e ad affrontare nuove esperienze emotivamente molto forti (come nell’ambito sentimentale o scolastico, o dell’amicizia) (Pietropolli Charmet, 1990, 1992; Maggiolini, Riva, 2006). Da un punto di vista evolutivo, va considerato che la stessa mente dell’adolescente si forma vivendo queste esperienze cruciali (non è già formata e attrezzata per viverle). Un buon funzionamento psichico pregresso offre risorse all’adolescente per sperimentare profondamente queste emozioni, e per sopportare la gioia o il dolore connesso a nuovi episodi esistenziali potenzialmente spaesanti o scompensanti, accogliendo il processo di elaborazione dei loro significati (Cfr. Maggiolini, 1988). Pensiamo, per esempio, alle perdite necessarie e a come queste possano essere elaborate soltanto attraverso un processo di lutto e cioè di profondo dolore5.

Alcune esperienze umane, però, non hanno nessun significato: è possibile chiamare “traumi” queste esperienze, in quanto squarciano la soggettività solcando indelebilmente i suoi processi costitutivi. I traumi sono sempre associabili a dimensioni clinicamente rilevanti, anche quando la resilienza dell’individuo lo sostiene nel condurre la sua vita nell’ambito della salute.

I traumi sono associati anche a patologie gravi, nelle quali l’esperienza interna di dolore è alterata proprio a causa della frammentazione della soggettività: il luogo dove viene sperimentata la sofferenza può essere cancellato dalla patologia. Se la psicopatologia prende il sopravvento in questi termini, essa può strutturarsi anche dando vita a una numerosa varietà di sintomi (che, come abbiamo detto, possono presentarsi nell’intorno delle persone prossime, data la dimensione relazionale fondante il funzionamento mentale (Albasi, 2010).

I sintomi vanno conosciuti e di fronte ad essi, in talune situazioni psicopatologiche, i ragionamenti clinici (sostenuti dalla logica nosografica) su casi differenti si mostrano così simili da convincere a ragionare per sindromi (collezioni di sintomi), con esordi e decorsi paragonabili. Alcuni approcci nosografici sono giunti a funzionare nella pratica clinica come se al di sotto di queste collezioni di sintomi si potessero rintracciare malattie (nello stesso modo in cui, per quanto riguarda il corpo, vengono diagnosticate e affrontate le malattie somatiche)6. Questo errore epistemologico si chiama ipostatizzazione.


ALCUNI CONCETTI TEORICI PER LA VALUTAZIONE PSICOPATOLOGICA DELL’ADOLESCENTE

Lo stesso concetto di mente, che può essere definito (e lo è stato) in molti modi, a un basso livello di astrazione teorica e rimanendo all’interno dei confini del contesto concettuale che stiamo delineando, può essere inteso come un “ricercare significati” (meaning making), una sorta di complesso apparato (un sistema di processi) volto alla ricerca del significato delle esperienze personali. La soggettività è il luogo dove i significati si formano, il luogo di costruzione del significato dell’esperienza. Se noi facciamo esperienza della mancanza di significato, è come se ci sentissimo privi soggettività, come se la mente in quel momento non funzionasse: siamo psichicamente morti. La vita mentale è costruzione di significati, e la psicopatologia è distorsione (fino al suo smarrimento) della vita mentale, di vario grado e in varie e differenti modalità.

Le configurazioni di personalità (come le chiama anche il PDM, PDM Task Force, 2006) possono essere intese come lo strutturarsi individuale di predilezioni e orientamenti per specifici pattern di significati; le configurazioni di personalità funzionano orientando la soggettività ad assegnare un valore “vitale” ad ambiti o temi idiosincratici (a discapito di altri)7. Il PDM ci orienta anche nel valutare i livelli di organizzazione nei quali queste configurazioni prendono forma8.

Altro concetto fondamentale e irrinunciabile per la psicopatologia è quello di relazione. Oggi esiste una convergenza tra i differenti orientamenti sul fatto che il significato delle esperienze personali viene costruito nelle relazioni, e la soggettività è in continua e reciproca definizione con l’intersoggettività. Noi abbiamo, quindi, bisogno di relazioni (significative) per costruire significati più consistenti, condivisi, convalidati, intersoggettivamente riconosciuti. La nostra mente struttura i propri processi di costruzione dei significati all’interno delle relazioni di attaccamento, relazioni nelle quali noi siamo riconosciuti nella nostra specificità di caratteristiche (di funzionamento mentale, di personalità, soggettive, ecc.). Quindi: non possiamo vivere senza significato e senza sentirci significativi per qualcun altro (che a nostra volta riteniamo significativo).

Un ulteriore nozione imprescindibile per la definizione del contesto clinico della psicopatologia è quella di sviluppo. Mente e soggettività sono entrambi processi, sono in continua costruzione; non sono punti di partenza ma risultati, e non possono essere dati per scontati: hanno bisogno di svilupparsi. La psicopatologia testimonia come lo sviluppo possa variamente fallire e la soggettività possa essere frammentata, discontinua, “spazzata via” proprio in alcune sue dimensioni o livelli importanti.

Il modo di costruire intersoggettivamente i significati delle esperienze si sviluppa lungo la storia delle relazioni. Le prime relazioni di attaccamento, ci dicono clinici e ricercatori, sono fondamentali per lo strutturarsi di processi mentali e relazionali, soggettività, significati. I primi obiettivi dello sviluppo riguardano la regolazione degli stati affettivi (Cfr. Maggiolini, 1988, 1991). Se il bambino fa esperienza della possibilità di regolare gli stati propri e delle sue figure di attaccamento, sia in modo autonomo sia in modo interattivo, all’interno di una varietà di scambi relazionali caratterizzati da organizzazione e da flessibilità, avrà l’occasione di fondare quel sentimento di vitalità che è il fondamento evolutivo del senso di avere una mente funzionante e una soggettività piena, consistente e ancorata al contesto di relazioni interpersonali significative. L’essere umano vive, infatti, nel paradosso di poter sviluppare una mente sana e funzionante solo se, fin dall’inizio della sua esistenza, è riconosciuto come significativo per qualcun altro (per le sue figure di attaccamento).

Inoltre, il contesto delle relazioni di attaccamento di un individuo costituisce la matrice per la ricerca del significato, sia dal punto di vista dei contenuti, sia dei processi. Dal punto di vista dei contenuti, costituisce il livello fondamentale che spinge le persone, per tutta la vita, a sentire che certi temi, ambiti, contenuti dell’esperienza, sono fonte indispensabile di significato; ciò può essere sperimentato con pienezza oppure, nel caso di psicopatologia, con conflittualità o deficitarietà, ma questi temi, ambiti e contenuti saranno comunque prioritari, cioè considerati più rilevanti. Come abbiamo detto, l’orientamento personale e specifico verso alcuni temi, ambiti e significati è un fondamento di quello che chiamiamo configurazione di personalità, o carattere. Dall’altro punto di vista, quello dei processi, la matrice delle relazioni di attaccamento costituisce il fondamento anche del sistema complesso di processi che si articoleranno nello sviluppo del funzionamento mentale.

Il riferimento alla complessità della dimensione evolutiva è un pilastro per la psicopatologia. La psicopatologia pertiene, dunque, lo scompaginarsi delle dimensioni di fondo della vita mentale, vale a dire della propria soggettività e delle proprie relazioni come sorgenti di significatività. La psicopatologia riguarda sempre strategie adattive, fallimentari, a contesti di sviluppo specifici e singolari; e va compresa in riferimento a compiti evolutivi specifici (per cui è fondamentale valutare il livello evolutivo dell’organizzazione della personalità).

L’intervento clinico sulla psicopatologia può essere pensato e declinato in questa cornice. Soggettività e relazione diventano, allora, sia oggetti sia strumenti della psicologia clinica: oggetti di osservazione per la comprensione della psicopatologia, strumenti di intervento e mezzi per il cambiamento. Se la psicopatologia vuole avere basi scientifiche, i concetti citati costituiranno anche oggetti di studio della ricerca scientifica (Cfr. Dazzi et al. 2006). Le basi scientifiche della psicopatologia non si possono fondare esclusivamente sulla costruzione di archivi sindromici, ma devono occuparsi di tutte le dimensioni che ne rappresentano i fondamenti: lo sviluppo, la soggettività, le relazioni, il funzionamento mentale, la personalità.

Nella relazione terapeutica, si rimane circondati da un ambiente carico di dubbi. È nell’immediatezza del contatto relazionale che si ha l’occasione di sperimentare autenticamente ciò che, pur essendo successo realmente al paziente, è ricoperto da una cortina dissociativa che ne rende opaca l’intensità e la drammaticità originarie (Davies, 1996). Un ambito tematico importante nel trattamento degli adolescenti consiste nel lavorare con la loro esperienza del segreto, obiettivo reso impervio da due ragioni: gli adolescenti lottano per mantenere la loro privacy, difendendo i segreti legati a relazioni intime, attività sessuali, ecc.; e, soprattutto, portano dentro di sé l’esperienza traumatica come una vergogna. È però necessario distinguere tra privacy e segretezza: la prima è una protezione difensiva dagli accessi non desiderati, la seconda, invece, un occultamento intenzionale (Imber-Black, 1998, cit. in Cohen, 2003).

La segretezza può esser rappresentata in diversi modi nelle sedute terapeutiche. Per esempio, l’atto di tenere i propri segreti, non rivelandoli a nessuno, genera ansia sia nei pazienti adolescenti traumatizzati che nei membri delle loro famiglie, ma può essere interpretato come un tentativo di trovare un equilibrio precario nel loro mondo interno, in modo da riuscire a tollerare le esperienze dolorose, e vivere nel mondo esterno (Cohen, 2003). Anche Skolnick e Davies (1992) discutono dei segreti nel contesto del lavoro clinico, secondo la prospettiva relazionale, sostenendo che questi possono essere impiegati come un aiuto per scoprire e fare esperienza dei vincoli intersoggettivi, come fenomeni transizionali e come veicoli per stabilire dei limiti sicuri tra se stessi e gli altri. In ogni caso, nel lavoro clinico con gli adolescenti i segreti possono essere eretti protettivamente, come soluzioni che nel passato assolvevano ruoli adattivi a contesti patologici, e si mostrano nel loro versante di materiale proposto per una negoziazione.

Inoltre, la psicoterapia con pazienti adolescenti è contrassegnata da relazioni fortemente mediate da interazioni emotivamente molto strette, metaforicamente “corpo a corpo”, che spingono alla sincerità e alla spontaneità. Con questi pazienti, l’onestà rimane sempre parte costitutiva dell’approccio terapeutico, e l’autenticità e la spontaneità del terapeuta (Mitchell 1997; Hoffman, 1998; Cohen, 2003), paiono elementi dal grande potenziale terapeutico ed evolutivo.

Altro aspetto di fondamentale importanza e centrale nella psicoterapia con gli adolescenti è quello dell'autosvelamento o self-disclosure.

La self-disclosure del terapeuta è spesso fondamentale per riconoscere e convalidare la realtà delle percezioni del paziente (Ferenczi, 1933), la sua stessa fiducia nella sua interiorità (nel suo mondo interno) come affidabile e consistente.

L’autosvelamento del terapeuta può offrire all’adolescente un’esperienza nella quale egli riconosca i suoi schemi interattivi più tipici, i suoi modelli operativi interni (MOI) e in particolar modo quelli dissociati (MOID) di cui non ha la possibilità di elaborazione cosciente. Gli adolescenti traumatizzati osservano come il terapeuta convalida la loro realtà attraverso l’autosvelamento, prendendosi le sue componenti di responsabilità sia per il fallimento che per la crescita della relazione terapeutica.

Molti adolescenti, fin dall’inizio del trattamento, sono soliti sfidare il terapeuta e indagare sulla sua vita personale, selle sue esperienze, sui suoi valori; questo accade perché è proprio in questo modo che i pazienti adolescenti esprimono le loro preoccupazioni riguardo la formazione e la definizione della propria identità. La Cohen (2003) nota che il suo essere espressiva, mantenendo comunque un senso di discrezione personale, da risultati molto positivi durante la terapia: i ragazzi che aveva in trattamento si aprirono, rivelando i loro disagi.


PROSPETTIVA EVOLUTIVA E IPOTESI SULLA GRAVITA' DELLA PSICOPATOLOGIA

Una delle più importanti ipotesi confluite nel PDM (PDM Task Force 2006) è quella che invita a osservare la psicopatologia, e più in generale il funzionamento dell’individuo, nella prospettiva evolutiva di livelli di organizzazione della personalità che rappresentano il modo in cui prendono forma alcune dimensioni centrali del funzionamento mentale (PDM Task Force, 2006, p. 14). Da questa prospettiva clinica, i disturbi sindromici e i sintomi presentati dal paziente (che il PDM presenta nell’Asse S) acquistano significati differenti a seconda della sua organizzazione di personalità e del suo profilo di funzionamento mentale.

Nell’ottica psicoanalitica, la prospettiva evolutiva rimane fondamentale (Aparo, Casonato, Vigorelli, 1989; Hall, Lindsay, 1978): intendiamo le organizzazioni di personalità come indicatori di un livello evolutivo raggiunto dalle differenti dimensioni del funzionamento mentale dell’individuo. Infatti, le funzioni mentali e l’organizzazione della personalità si sviluppano e sono, quindi, da considerare come ipotesi che indicano le potenzialità che l’essere umano ha di dare forma alle sue risorse (interne e ambientali) e alla sua salute. La salute implica l’esperienza di poter vivere la propria esistenza come occasione di realizzazione di se stessi, di sviluppo delle proprie potenzialità e risorse, nel senso di autenticità e spontaneità. Le funzioni mentali e l’organizzazione della personalità individuale, però, possono anche non svilupparsi compiutamente secondo le loro potenzialità, ed evolversi in un modo distorto da conflitti o danneggiato da processi dissociativi.

Nella diagnosi della psicopatologia, la valutazione della gravità è intuitivamente di primario rilievo ma non di immediata concettualizzazione. La diagnosi nella logica categoriale non ci permette di graduare la gravità di una sindrome nosografica (per definizione, in quanto funziona dicotomicamente “tutto o niente” sulla base di soglie diagnostiche; diagnosticare un disturbo di personalità o una sindrome clinica non ci informa della sua gravità, che può essere differente tra un paziente e l’altro a cui viene attribuita la stessa diagnosi). Sia per il lavoro con il paziente sia per il dialogo tra clinici, è importante avere un linguaggio per parlare della gravità della situazione presentata dal caso clinico in un modo articolato non soltanto in senso quantitativo, ma anche qualitativo: non è soltanto utile dire quanto “è grave” un paziente ma anche concepire livelli qualitativamente differenti della sua patologia, che presentano problemi specifici.

L’Asse P del PDM ci offre la possibilità di descrivere le configurazioni di personalità del paziente; il loro eventuale scompenso in senso patologico riguarda sia un punto di vista quantitativo, in termini di rigidità dei pattern caratteristici di quella configurazione e della loro pervasività nel funzionamento negli ambiti dell’esistenza di un individuo; sia, una valutazione di dimensioni qualitative per articolare un profilo del paziente più ricco e vivo9. Dimensioni importanti sono quelle dei livelli di organizzazione della personalità.

Seguendo la tradizione psicoanalitica in merito a questo problema diagnostico, il PDM suggerisce di distinguere dei livelli principali di organizzazione della personalità. Tradizionalmente, le organizzazioni discusse nella letteratura (Kernberg, 1984; Kernberg, Caligor, 2005; Bergeret, 1974) sono quelle nevrotiche, borderline (come sappiamo, termine anche utilizzato nosolograficamente per indicare un Disturbo di Personalità dal DSM-III, 1980, in avanti, ma qui invece inteso come organizzazione di personalità) e psicotiche. Nel PDM, invece, gli autori hanno scelto di non prendere in considerazione un’organizzazione di personalità psicotica, riservando il termine psicotico alla patologia conclamata che manifesta il fallimento o scompenso nell’organizzare un livello di funzionamento di personalità che riesca a sostenere l’individuo nell’adattamento (verso le proprie caratteristiche interne e verso l’ambiente esterno) senza comportare una rottura dell’esame di realtà.

Con questo, è importante comprendere che ogni livello di organizzazione di personalità può funzionare, date le sue specifiche caratteristiche e punti di debolezza determinati dal livello evolutivo, sostenendo l’individuo nei suoi compiti di sviluppo e nel suo adattamento; oppure, di fronte a determinati compiti evolutivi, può scompensarsi in svariati modi comportando all’individuo più precisi problemi da risolvere e forme di disturbo (che possiamo valutare e diagnosticare nelle prospettive offerte dall’asse P o S del PDM).


La salute come complesso processo risultante da distribuzione e integrazione nei differenti livelli evolutivi di organizzazione della personalità

L’ipotesi che la personalità si organizzi a differenti livelli discontinui offre spunti interessanti per comprendere il funzionamento di un individuo sia nella salute sia nella patologia. Potremmo dire che le differenti organizzazioni sono il risultato di come i molteplici livelli di funzionamento dei MOI danno forma alla realtà interna e relazionale, e contribuiscono alla costruzione del significato delle esperienze. La salute, come detto in precedenza, è il frutto di processi di distribuzione e di integrazione dei molteplici livelli dei MOI, in un costruttivo rapporto dialettico tra loro, che contribuiscono a fare esperienza della realtà come insieme di occasioni e risorse per esprimere creativamente se stessi con un senso attivo di costruzione della propria identità e delle proprie relazioni di attaccamento (che vengono connotate in modo personale e unico).

In una visione più ampia della salute mentale, non categoriale ma dimensionale e processuale, ipotizziamo che essa non coincida linearmente con il livello sano di organizzazione della personalità ma sia una proprietà emergente del sistema unico e singolare che si costruisce nell’articolazione molteplice e integrata dei tre livelli (sano, nevrotico, borderline); infatti, anche i livelli di funzionamento diversamente evoluti da quello sano (oltre ad essere inevitabilmente presenti in ogni persona e quindi rendendo più realistico e fruibile il concetto di salute), hanno modo di contribuire al sistema mentale se questo è flessibile.

Il livello nevrotico enfatizza alcuni punti critici per l’esperienza dell’individuo offrendogli una mappa di ciò che può metterlo in difficoltà emotivamente o metterlo alla prova nei suoi temi più conflittuali, sui quali può trovare spunto per confrontarsi e crescere nella conoscenza di quelle sue specificità e idiosincrasie che gli complicano le relazioni con gli altri e con la sua interiorità. Il livello borderline può con-fondere i confini tra livelli dei MOI, dati i processi dissociativi che rendono deficitarie alcune funzioni di integrazione ma, così, mostrando nuove possibili connessioni, nuovi modi, molto personali, di “vedere” le cose, che a un loro primo apparire possono spaventare, dato che sono sia connessi con affetti negativi ma, ancor di più, connessi con l’assenza di affetti e di significati (per cui appaiono come mostri e fantasmi10), ma che proprio in quanto non si inseriscono in visioni già coerenti (causa la disconnessione dei MOI che li governano), spingono a cercare alternative per trasformare le bizzarrie a cui sono legati e possono essere fonte di altri spunti creativi al servizio dello sviluppo e della salute.

La salute può riguardare questa complessità di processi, se essi sono in un rapporto in cui la distribuzione e l’integrazione stanno in una tensione dialettica flessibile e costruttiva.


I livelli di funzionamento e la salute

La salute del paziente, bambino, adolescente o adulto che sia, riguarda la sua possibilità di realizzare al meglio se stesso nella sua storia, per come è fatto e per le risorse che può sviluppare nella sua esistenza (nel contesto in cui si trova, in parte dato e in parte costruito da lui stesso).

Rimanendo nell’ottica evolutiva, l’esistenza implica lo sviluppo, cioè una storia personale. Durante la propria vita è necessario negoziare continuamente stabilità (identità) e cambiamento (in termini sistemici: organizzazione e apertura). Il cambiamento implica per definizione la perdita. La vita è costellata da perdite necessarie (Viorst, 1986; Massone, 2001), che culminano (anche cronologicamente) con la propria morte (su cui abbiamo vari sentimenti e forme di conoscenza, sia il senso primitivo sia delle rappresentazioni sovradeterminate da vari livelli di funzionamento, compresi i valori socio-culturali e le convinzioni filosofiche e religiose, ecc,), e che confrontano l’individuo con sofferenza ricorrente e spesso lo introducono in fasi differenti del corso della sua esistenza11. La concezioni della salute e della psicopatologia, in una prospettiva evolutiva, devono tenere in considerazione il regolare cambiamento delle condizioni di vita e la conseguente attenzione per le funzioni mentali, che possiamo dunque intendere come risorse: risorse a disposizione dell’individuo per realizzarsi in modo attivo nell’incontro e nel confronto con l’ambiente nelle diverse fasi della sua esistenza, da una parte facendo fronte alle difficoltà che essa gli pone ma dall’altra sapendo utilizzare ciò che gli è favorevole (senza gettare ciò che può avere valore), e godere della bellezza.

Durante la vita, la sofferenza può esprimersi a diversi livelli, più simbolizzati oppure più somatizzati, o entrambe le cose; e coinvolgere o meno le figure di attaccamento che sono vicine. Questo non è malattia. Quando una persona soffre perché sta confrontandosi con i compiti evolutivi che la vita gli presenta, il modo di esprimere la sofferenza può riguardare tutti questi livelli che possono essere più o meno di “disturbo” per le persone del contesto. Il rischio è di considerare più patologici i modi che sono più di disturbo per gli altri (e chi lavora clinicamente con bambini e adolescenti questo lo sa molto bene). I sistemi diagnostici, e perfino la psicoanalisi, veicolano, di fatto, il valore attribuito al controllo che una persona è in grado di esercitare sulla sua sofferenza attraverso la coscienza e i simboli (le parole e il pensiero, l’Io). Ed è pur vero che essere in grado di avere delle rappresentazioni simboliche del proprio stato influisce sullo stato stesso: le rappresentazioni hanno impatto contenitivo sulla sofferenza (nel senso psicoanalitico), la rendono meno spiazzante per il soggetto12.

Nell’ottica della molteplicità, però, i modi di esprimere e veicolare la sofferenza, considerati più primitivi se adottiamo un punto di vista gerarchico delle funzioni mentali come nel modello freudiano, perché legati al funzionamento dei livelli impliciti della mente, non possano invece essere considerati “strutturalmente” patologici (non dobbiamo confondere i livelli impliciti del funzionamento mentale, che pur primari possono svilupparsi e diventare sempre più flessibili e integrati, con i processi dissociativi che possono strutturarsi e diventare rigidi e pervasivi al livello di organizzazione borderline)13. Se vivere vuol dire anche crescere e soffrire, la valutazione della salute psichica di un adolescente deve includere le sue modalità di sperimentare ed esprimere la sofferenza come componenti della sua salute mentale. Queste modalità vanno considerate in merito a quanto siano delle risorse per l’adolescente in rapporto ai suoi contesti, interpersonali, sociali e di organizzazione della sua stessa personalità.

Per esempio, se in momenti critici per l’esistenza di un adolescente il suo corpo esprimesse dei sintomi, questa situazione, che rimane clinicamente rilevante, può rivelare un’evoluta l’integrazione somatopsichica (anziché una malattia psichica). Analogamente, se, in questi momenti, in modo non consapevole (né dichiarativo né mediato da rappresentazioni simboliche), un adolescente coinvolge le sue figure di attaccamento agendo nei loro confronti così da indurre sofferenza, questo, che resta di interesse clinico, potrebbe testimoniare un funzionamento integrato dei livelli procedurali con gli stati di sofferenza che attivano: la fiducia e la sicurezza di una buona relazione di attaccamento, costruita saldamente a livello implicito e procedurale, può concedere di sperimentare le figure di attaccamento come risorse interpersonali con importante potenziale impatto trasformativo sulla sofferenza stessa (Pietropolli Charet, 2000) (per l’appunto in modo intuitivo e senza la mediazione prioritaria dei processi simbolici)14.

Una mente sana è quella che mostra processi flessibili e modulabili, e di integrazione e di distribuzione ai vari livelli di funzionamento (sia sul piano verticale sia su quello orizzontale).

Sul piano verticale, permette l’integrazione dei livelli impliciti con quelli espliciti, in una libertà di movimento che concede all’individuo una confidenza con la propria interiorità e una possibilità di lasciarsi guidare intuitivamente anche dai livelli non simbolici impliciti.

Sui piani orizzontali, la configurazione della personalità (del carattere) sostiene l’individuo a integrare: le istanze della sicurezza identitaria (sentirsi sempre se stessi) con quelle della passione del contatto e del legame (sentirsi tutt’uno con la persona amata); propria auto-organizzazione e la propria definizione di sé con la dipendenza e l’intimità con le figure di attaccamento; da altri punti di vista, sempre sul piano orizzontale, a integrare i differenti pattern tematici (ambiti di significato), affettivi e cognitivi, e i molteplici ruoli affettivi e sociali (elaborati in differenti MOI).

Il percorso evolutivo individuale seleziona delle configurazioni di personalità che possono mostrare sensibilità specifiche per alcuni temi, alcune credenze, idiosincrasie per alcuni affetti, stili difensivi specifici, ma questo non implica patologia se questi pattern mostrano flessibilità e non sono pervasivi. In un ragionamento clinico che voglia tener conto di questi aspetti in una personalità sana, nella valutazione del paziente tramite il QFM (Sistema di Valutazione del Funzionamento Mentale e dei livelli di organizzazione di personalità; www.pdm-qfm.com), possiamo registrare qualche dimensione idiosincratica minoritario al livello nevrotico. Tramite l’Asse P, possiamo utilizzare termini psicopatologici per connotare queste configurazioni per poterle meglio utilizzare più direttamente nel ragionamento clinico. Infatti, se nel nostro ragionamento clinico siamo in grado di sintetizzare alcuni aspetti del carattere di una persona (per esempio i temi e gli ambiti che lo preoccupano idiosincraticamente di più, le sue credenze rispetto a se stesso e gli altri ecc.) con termini di rilievo psicopatologico abbiamo maggior facilità a comprendere quali sono gli aspetti dell’esperienza più critici per il paziente, anche se egli (per es. basandosi su risorse eccezionali che gli hanno permesso di elaborare strategie particolarmente funzionali anche in un contesto evolutivo sfavorevole e che proponeva criticità in quegli ambiti critici), può aver fatto di questi aspetti dei momenti di forza per il suo funzionamento15.

Utilizzare termini psicopatologici per definire le configurazioni di personalità non ci deve quindi spingere a patologizzare le caratteristiche del paziente.

Seguendo il PDM, il livello patologico (la gravità) lo stabiliamo definendo il livello di organizzazione di personalità.


Salute, sofferenza, trauma in adolescenza

Naturalmente, gli adolescenti, così come bambini e adulti, soffrono molto anche senza essere patologici. Possiamo incontrare adolescenti che, pur avendo un buon sostegno offerto dalle risorse del loro funzionamento a livello sano, possono essere molto sofferenti e indurre una valutazione diagnostica che li sottostima. Non dobbiamo confondere l’intensità dei sentimenti con il grado di patologia. Gli adolescenti e gli adulti sani si innamorano “follemente”, amano ardentemente, si arrabbiano furentemente, possono provare gelosie violente, lottare per la propria realizzazione, o sacrificare tutto, fino a consumarsi, per i valori in cui credono, e giungere alla battaglia16.

Non è patologico di per sé ciò che è intenso. Come dice Hamilton, “non è l’intensità degli affetti che indica questo o quel livello nel continuum evolutivo: è il grado di integrazione di quei sentimenti a determinare la maturità o l’immaturità, la salute o la malattia” (1990, p. 182).

In alcune circostanze della vita, possono soffrire molto di più le persone sane di quelle con organizzazioni patologiche, in quanto sostenute da una solida struttura; e in questi casi la sofferenza può essere una misura del valore di ciò che li fa soffrire. D’altro canto, un paziente che manifesta una psicosi, il peggiore dei deragliamenti del funzionamento mentale, può giungere a non soffrire più anche di fronte a eventi per lui gravi e a “staccare la spina”, a “scollegarsi” dalla sua soggettività e quindi non organizzare più significati della sua esperienza che lo confronterebbero con realtà difficili.

La capacità di affrontare gli eventi critici e sconvolgenti dell’esistenza, venendo coerentemente sconvolti in modo temporaneo dalla loro violenza, è una capacità che richiede risorse sane.

Questo tema evoca il discorso degli eventi potenzialmente traumatici, della resilienza, dello stress, delle capacità di coping. Anche su questi concetti la letteratura è amplissima e una loro discussione articolata risulterebbe molto impegnativa.

Sono questioni molto importanti per la psicopatologia, ma spesso su questi termini non c’è accordo unanime oppure riappare vigorosa la tendenza al riduzionismo empirista, speso all’insegna della pubblicistica scientista che invade le riviste più in voga nella nostra epoca, che a loro volta invadono il campo della cultura moltiplicandosi a dismisura.

Un ragionamento clinico che applica il concetto di trauma agli eventi esterni, quando contemporaneamente afferma che gli effetti per l’individuo non sono stati traumatici, utilizza (nei termini) una logica causale lineare e una prospettiva dicotomica sul rapporto tra l’individuo e l’ambiente che rende confuso il concetto stesso di trauma. In un ottica sistemica, è traumatica l’esperienza di uno specifico rapporto soggettivo tra individuo e ambiente (se la soggettività ha il suo posto nel ragionamento clinico, è auto-evidente che traumatico è ciò che ha degli effetti); il trauma non si può definire a priori in modo oggettivo, ma si definisce come caratteristica emergente dal mancato incontro di specificità e di fallimento del processo di riconoscimento interno al sistema costituito dalle figure di attaccamento e dal bambino.


Trauma, dissociazione e il livello borderline di organizzazione della personalità

Nella comprensione dei deficit del funzionamento mentale che caratterizzano i livelli borderline di organizzazione della personalità, i concetti di trauma e dissociazione sono tra i protagonisti della riflessione clinica e scientifica di questi ultimi decenni. Attorno ad essi ha preso vita un fervido dibattito in molti ambiti delle discipline psicologiche, psichiatriche, neuro-psichiatriche e neuroscientifiche17.

Nei manuali nosologici si tenta di definire il trauma in senso ateoretico e sindromico, senza far riferimento all’eziologia (assunzione evidentemente contraddittoria). La comprensione del trauma sembra, invece, richiedere una formulazione di modelli, prima ancora che la definizione di classi di malattia; di teorie e lenti di osservazione della realtà dei suoi processi, prima di una sua classificazione tra altre sindromi; di ragionamenti clinici sulla sua eziologia, sulla storia delle persone, su individui, soggettività, significati, relazioni. Lo studio del trauma è una sorta di sfida alla logica nosografica, categoriale e descrittiva. Nessuna categoria nosografica può dire di avere “l’esclusiva” del trauma, che è un concetto psicopatologico in grado di aiutarci a comprendere i livelli borderline di organizzazione della personalità.

Nella ricerca clinica sul trauma, dunque, è di notevole rilievo il momento teorico: essa richiede un’attenta concettualizzazione sia delle proprietà e dei processi interni e relazionali che ne costituiscono l’essenza, sia delle condizioni critiche, sia dei processi specificatamente volti a fronteggiarlo, in particolare i processi dissociativi. Con riferimento a questo obiettivo, coniugando le tradizioni dell’Infant Research, della teoria dell’attaccamento e della prospettiva relazionale in psicoanalisi18, stiamo sviluppando il concetto di Modelli Operativi Interni Dissociati (MOID)19. Il concetto di MOID è un’ipotesi che riguarda i processi di strutturazione della psicopatologia che sono legati all’esperienza del trauma. È uno sviluppo del concetto di dissociazione, di cui cerca di interpretare alcune dimensioni evolutive, processuali, relazionali, esperienziali e strutturali.

I MOID sono una dimensione del livello procedurale del funzionamento psichico, ma non lo esauriscono; riguardano la sua componente dissociata, che rimane primitiva e senza connessioni, e si sviluppa soltanto al livello borderline (a differenza del resto della conoscenza implicita).


Dissociazione e MOID

Per comprendere il concetto di MOID riflettiamo su quello di dissociazione formulato dai principali autori che, a partire dalle intuizioni cliniche e teoriche di Ferenczi, se ne sono occupati20. Secondo questa prospettiva, nel caso di conflitti intrapsichici, difese di livello nevrotico, di cui la rimozione viene considerata un modello paradigmatico, comportano un blocco, o un’inibizione, di connessioni che sono state precedentemente stabilite; mentre la dissociazione si riferisce a connessioni che non si sono mai formate, che sono state impedite in anticipo. La rimozione è un processo attivato dall’esperienza del conflitto, mentre la dissociazione è attivata dal trauma. L’esperienza del conflitto necessita una prioritaria formulazione più evoluta di contenuti e funzioni psichiche, che invece il trauma e processi dissociativi (come i MOID) danneggiano.

La dissociazione può essere interpretata (sul piano verticale e sul piano orizzontale) come una rottura delle potenziali connessioni sia tra i livelli di funzionamento mentale impliciti ed espliciti sia tra i differenti MOI. Gli autori citati ipotizzano che questa rottura traumatica venga attivata dalla mente in anticipo. Non si tratta, quindi, di una rottura ma di una mancata connessione. Meglio ancora, se volessimo esprimere questo concetto di dissociazione con i termini paradossali che richiede, dovremmo intendere la mancanza di connessioni, tra il livello implicito e quello esplicito nelle esperienze traumatiche, come una perdita della possibilità di connessioni (che è una potenzialità naturale della mente). Questa perdita ha un valore sia retrospettivo sia prospettivo: retrospettivo in quanto “rende non accaduta” un’esperienza; prospettivo perché si perdono le connessioni che costituiscono i registri psichici (nei MOI) per riconoscere, comprendere, formulare significati fondamentali per la vita umana e potenzialmente implicati nelle esperienze e nelle relazioni di attaccamento (come rabbia, conflittualità, sessualità, seduzione, piacere, ecc., in particolare, gli ambiti dove le sfumature interpretative di significato fanno la differenza). La perdita di questi registri non ha, però, soltanto la conseguenza del mancato riconoscimento (come una cecità) dei significati dei gesti reciproci; paradossalmente, lascia anche sia un senso di ineluttabile attesa inconscia per il verificarsi di qualcosa che pertiene ad essi (rabbia, aggressione, abuso e trascuratezza, manipolazione, ecc. che, sul piano della psicopatologia descrittiva, può tradursi variamente in ansia, depressione, sintomi dissociativi, impulsività e disturbi delle condotte, dipendenze, ecc.), sia l’incapacità di riconoscere esperienze relazionali centrate a livello procedurale su questi registri (e quindi di agire interpersonalmente senza connessioni tra livelli: o a livello di enactment procedurali dissociati, che sono il livello del funzionamento dei MOID, o a livello di difese persecutorie o razionalizzazioni, ecc.) Questa che può apparire come una sottigliezza teorica ha importanti ricadute cliniche: la perdita della potenzialità di costruire connessioni tra i livelli di elaborazione dell’esperienza rimane per l’individuo come un deficit, cioè non l’inibizione conflittuale di una funzione mentale, ma proprio la mancanza della capacità di sentire ed esprimere le diverse sfaccettature della sua esperienza, che rimane elaborabile e formulabile soltanto al livello borderline di organizzazione. Per cui, certe dimensioni di essa è come se non esistessero: per esempio, alcuni pazienti valutano soltanto in senso razionale, oppure soltanto in senso emotivo, l’impatto delle persone e degli eventi su di loro. Considerando il rapporto tra la dissociazione in senso verticale e la dissociazione in senso orizzontale, altri pazienti mostrano di non essere in grado di cogliere le sfumature di uno specifico ambito di significato, elaborato da un registro troppo grezzo: per esempio, l’aggressività può essere sperimentata ma non modulata tra implicito ed esplicito (per esempio, la seduzione può spaventare o può irritare senza opportunità di prenderci gusto e giocarci, ecc.).

Questo è il processo paradossale tipico del trauma e dell’abuso: chi è stato abusato dissocia l’esperienza (la elimina dalla propria soggettività) e contemporaneamente ha il terrore che si possa ripetere qualcosa che forse non riconoscerebbe, nemmeno se fosse lui a provocarlo o indurlo. Si è rotta la sua fiducia e la sua sicurezza di base, e il suo coraggio e la sua motivazione ad esplorare l’esperienza. Si è organizzato il livello borderline nel quale i MOID danneggiano il funzionamento mentale e relazionale.

Alcune tradizioni cliniche hanno offerto dati e riflessioni sui danni che il trauma provoca a certe funzioni psichiche, come le funzioni di mentalizzazione e di simbolizzazione (Fonagy, Target, 2001; Bleiberg, 2001), e sull’esclusione di esperienze affettivamente cruciali da elaborazione mentale più articolata a livello esplicito (che coinvolge la narrazione delle esperienze). Vorremmo, però, sottolineare che di massima importanza è dirigere la nostra attenzione clinica e i nostri modelli teorici sui danni che il trauma comporta ai livelli impliciti (frammentati dalla dissociazione sia verticale sia orizzontale): il trauma fa perdere la confidenza con l’esperienza interna, l’attitudine a integrare autoregolazione e regolazioni interattive dei propri stati, la capacità di fidarsi delle valutazioni intuitive come informazioni essenziali per orientarsi nelle relazioni intime e di attaccamento.

La configurazione dissociativa dell’attaccamento traumatico, sia in senso verticale sia orizzontale, si instaura propriamente nei MOID e danneggia la costruzione delle relazioni di attaccamento. In questo ambito della conoscenza relazionale implicita procedurale, delle capacità su “come” si costruiscono relazioni di attaccamento sicure, risiede l’essenza patologica del trauma. Il trauma incide nelle competenze di base implicite che sono necessarie per poter sperimentare la propria esistenza come un insieme di potenzialità per realizzare se stessi nella vita intima di relazione.


Un paradigma per comprendere il trauma: l’abuso sessuale

Prendendo in considerazione, a scopo teoretico21, soltanto una tipizzazione schematica della situazione di abuso intra-familiare, questa ci rimanda un’immagine che possiamo considerare tipica di alcuni elementi del trauma (anche sulla scorta dei molti dati clinici di cui disponiamo in questo ambito), e che può essere formulata, a tutti i livelli, facendo uso continuo di paradossi22.

Il bambino, che ha bisogno del contatto e della tenerezza della figura di attaccamento, viene avvicinato sensualmente dal genitore. Il bambino è spaventato e confusamente attivato da questa visita. Il genitore lo tratta come partner sessuale, ma questo non ha senso per il bambino, che sperimenta con violenta intensità la vicinanza fisica e sensuale del genitore, ma non è evolutivamente in grado di attribuire soggettivamente un significato sessuale alla propria esperienza interna di contatto con il genitore. Il senso di confusione cresce e così il terrore, entrambi accentuati, in un tutt’uno spaesante e travolgente, dall’intensa attivazione.

In questa paralizzante e confusa situazione senza via d’uscita, il bambino sente naturalmente (per il sistema motivazionale dell’attaccamento) la spinta a rivolgersi al genitore stesso, suo naturale riferimento per la ricerca del significato di ciò che succede e di quel sentimento di protezione e di sicurezza interna che sono la base che gli permette di sentirsi (psichicamente) vivo. Il genitore, sessualmente eccitato, esclude dalla sua mente il punto di vista della soggettività e della sensibilità del figlio e del suo estremo bisogno di regolazione di quegli stati interni confusi, di paura ed eccitazione, e di un significato per essi; fin dall’inizio di questa esperienza, ciò non era presente nella sua mente, pertanto il figlio viene spogliato della dignità personale di soggetto diverso, dipendente e bisognoso di lui per la definizione di se stesso e del proprio significato, per la definizione della realtà, per la propria vita mentale. Il genitore dice al figlio che non deve provare paura, che questo è una specie di regalo, una prova del suo più profondo amore e della sua predilezione per lui (magari anche in riferimento ad altri fratelli o sorelle). Questa versione fa aumentare confusione e timore, perché in nessun modo questi stati, affetti e emozioni in gioco, incontrano ciò che il figlio (proprio nella urgente necessità del riferimento genitoriale) sente in sé e nell’altro. La versione perversa imposta dal genitore, evidentemente, non si prefigge di rispettare, né tanto meno di comprendere, ciò che il figlio sente o sta sperimentando, ma, al contrario, manipola seduttivamente la visione delle cose; ma per crescere sano, il bambino ha bisogno di uno spazio mentale specificatamente a lui dedicato dalle figure di attaccamento, di una posizione e di un atteggiamento dei genitori rivolti verso di lui nell’impresa di comprenderlo nella sua specificità e diversità (intrinseca all’essere un bambino). Nell’abuso sessuale troviamo la massima espressione dell’assenza totale di queste funzioni.

Possiamo continuare ad immaginare: dopo l’atto di abuso sessuale, tutto sembra ordinario nella casa, ritornato alla quotidianità come se niente fosse successo. Di fatto, la nostra mente ha un processo che può rendere un’esperienza “come se non fosse successa”: la dissociazione.

Dal punto di vista esperienziale, nel bambino vengono “spazzate via” (dissociate) la specificità di un proprio significato in via di formazione sulla base di quello che egli sperimentava così intensamente e, ancora più nel profondo, il senso di poter avere una mente viva, che ricerca attivamente significati e riconoscimento nella relazione, entrambi “mortificati” perché violati nella loro potenzialità intrinseca e stravolti nel loro opposto: da fondamento della sua esistenza psichica, la sua interiorità si buca, drammaticamente e paradossalmente, si lacera lasciando un vuoto nel fondamento della soggettività (un buco di soggettività), e il senso di una potenzialità interrotta, di qualcosa da portare a compimento: il significato di se stessi come persone da desiderare, ma anche da proteggere e salvaguardare nel nucleo della propria vitalità (un senso di potenzialità che naturalmente spinge verso un suo compimento con speranza, la speranza che è il versante fenomenologico ed esperienziale dell’istinto di autoconservazione).

Dal punto di vista processuale-strutturale, questo vuoto è organizzato dalla formazione di processi che chiamiamo MOID: essi configurano la doppia motivazione: a) di riferirsi alla figura di attaccamento (motivazione dell’attaccamento), in questo caso perversa, confusiva e spaventante; b) di salvaguardare un progetto posticcio di ricerca di sicurezza interna, instaurando un sistema che esclude anticipatoriamente le connessioni di questo intricato bozzolo di esperienza scompensante con il resto della mente. Il senso di agency resta congelato (la mente deve arretrare proprio nel suo fondamento, cioè l’attiva proposta di significati soggettivi per un’esperienza così coinvolgente; essa deve “cessare di vivere per continuare a vivere”). Il nesso tra livello implicito e quello esplicito viene bloccato difensivamente prima che si formi: questo blocco dissociativo si iscrive nella mente come processo strutturante le specifiche memorie dell’esperienza traumatica (entrandone anche strutturalmente a far parte, per ciò che concerne la dimensione dei processi); questa memoria procedurale sarà disconnessa dalle altre conoscenze implicite, una memoria procedurale della ricerca interrotta di significato, che spinge per essere rigidamente rimessa in gioco in forme di enactment.

Questo esempio di dissociazione su entrambe le dimensioni, verticale e orizzontale, sia sul piano esperienziale che processuale, è la base per lo strutturarsi dei MOID.

Esito della formazione dei MOID è, quindi, la perdita del contatto con porzioni rilevanti della propria soggettività (in dimensioni fondanti l’esperienza intensa di ingredienti essenziali per la costruzione di relazioni intime d’attaccamento). Dal punto di vista dei significati della sua esperienza, cioè dei contenuti, il bambino perde l’occasione per integrare nel ricordo di questi eventi la loro connotazione soggettiva, di formare memorie integrate di importanza centrale per la sua identità (il senso del suo significato e valore personale, la definizione di sé). I ricordi dell’abuso permarranno nella sua mente “in negativo”, nella forma paradossale di un “buco di soggettività” insostituibile e irrecuperabile, in quanto non costituito (non costruito, ma anzi anticipatoriamente annullato nella potenzialità di prendere forma compiuta nella connessione tra livelli). I MOID sono ladri di soggettività.

Questi ricordi potranno forse essere raccontati, ma il loro racconto sarà attivamente privato ab origine di significato soggettivo profondo (che non si è mai costituito in modo articolato) da processi impliciti anticipatori che fanno parte dei MOID.

Soggettivamente, quindi, l’individuo rimane con la paradossale impressione di irrealtà di quanto così realmente vissuto. È come se il genitore abusante suggerisse che “non è reale” ciò che sta vivendo, confermandolo nei momenti e giorni successivi con i gesti e le parole. Il bambino avverte, perciò, che quanto è accaduto non potrà essere raccontato a nessuno se non con il rischio di essere visto come folle (che è come si sente lui, nella vertigine del suo vuoto di soggettività)23, o sperimentando il rischio di sentire come se stesse “eliminando” le proprie figure di attaccamento e restando solo. Soli e folli, oppure: tutto questo via! La sua mente si appella ai MOID, tragedia e salvezza, che animano un sotto-mondo interno di processi “guardiani e custodi” di questa complessa vicenda, ma che consegnano al resto della mente il brivido nauseante della presenza (silente, in quanto non rappresentata a livello esplicito, ma attiva) di contenuti primitivi ed inesprimibili24.

L’abuso sessuale intra-familiare rappresenta un paradigma per la comprensione del trauma in quanto esprime il fallimento di tutte le dimensioni fondanti lo svilupparsi dei MOI: un’esperienza intensa di disgiunzione tra gli stati, senza possibilità di negoziare una riparazione, non integrabile, collocata in un contesto relazionale più ampio che nega la soggettività e i bisogni del bambino e manipola, anche a livello esplicito, la versione della realtà.

Appaiono ora più delineate alcune dimensioni psichiche del trauma e dei MOID: nella mente si struttura un sottosistema di processi che frammenta le esperienze relazionali, privandole del senso di soggettività tramite una molteplice rottura di nessi, connotandole con una sorta di istruzione-regola retrospettiva al “non essere reali”; una forma di diniego onnipotente25 messo in atto per non sentirsi folli, ma che, una volta inserito nel MOID, agisce anche come sistema di aspettative inconsce, creando una sorta di anticipazione invalidante il futuro, che altera l’esperienza di crescita e cambiamento evolutivo, condannando ad un senso di “presente infondato”, privo di articolazioni (il paziente vive come se “sapesse” che si verificherà qualcosa di spaventoso, perché non sa elaborare questo vissuto in una prospettiva temporale non potendo elaborarlo come ricordo simbolizzato tramite rappresentazioni; cfr. Bromberg, 1998). Altri sottoprocessi parte di questa struttura conservano (dissociati, quindi perennemente primitivi) gli aspetti motivazionali essenziali che sono stati bloccati (l’agency, la regolazione degli stati interni, il bisogno di sicurezza, la ricerca di significato, il riconoscimento) (Cfr. Albasi, 2006, 2010).


Attaccamenti traumatici

Considerando queste come alcune dimensioni essenziali del trauma, se esse appaiono in paradigmatica evidenza nell’intensità dell’abuso sessuale, non sono però prerogative esclusive di questa esperienza puntuale. La violazione della soggettività del bambino, il suo disconoscimento e la sua manipolazione da parte delle figure responsabili del suo sviluppo, e l’invalidazione dei processi mentali che nell’incontro relazionale sono attivi per costruire il significato dell’esperienza soggettiva necessaria alla sua crescita, sono caratteristiche delle relazioni traumatiche, di contesti relazionali e situazioni interattive più ubiquitarie e frequenti26. Questi possono riguardare: sia modalità ricorrenti di relazionarsi al bambino (pervasive e continue risposte caotiche ed incoerenti, che disorganizzano il sistema dei MOI, senza più connessioni); sia un disconoscimento sistematico, ma circoscritto in particolari e selettivi ambiti di significato dell’esistenza (come, per esempio: sessualità, sensualità o riferimento al piacere e al corpo; aggressività, conflitto o bisogno di affermare se stessi; desiderio e bisogno di dipendenza, di vicinanza e di contare sull’aiuto totale della figura di attaccamento; desiderio e bisogno di autonomia, bisogno di sperimentare il senso di realizzazione personale). Alcune figure di attaccamento non sono in grado di riconoscere o tollerare o di prendersi carico di alcune di queste dimensioni, che vengono sotto-elaborate dai MOID nel bambino (per cui finiscono per essere silenti, come “non esistenti”, ed egli non avrà registri e sensibilità per esse, che non solo non lo sosterranno più nella comprensione del suo mondo interpersonale, ma spingeranno a varie forme di enactment).

La specificità traumatica dell’esperienza dell’incesto è la falsificazione della esperienza soggettiva da parte delle figure di attaccamento, il suo disconoscimento sistematico. Il sistema delle strutture che dà vita alla soggettività, cioè i MOI, viene alterato evolutivamente e si sviluppano i MOID.

Se dal trauma focale (l’evento di abuso), sulla scorta delle caratteristiche che lo contraddistinguono dal punto di vista della soggettività e delle strutture mentali, ampliamo la prospettiva, possiamo definire attaccamenti traumatici i legami che vincolano ad una figura di attaccamento che sconfessa la propria esperienza soggettiva, ne discredita la validità, sgretola e frantuma dimensioni importanti della propria realtà interna, favorendo lo sviluppo di MOID (questo vale per la relazione genitore-bambino ma anche per ogni relazione di attaccamento, da cui, cioè, si dipende per il proprio funzionamento mentale; quindi, anche quelle con partner sentimentali nell’età adulta, la relazione psicoterapeutica, ecc.).

Lo sviluppo e il funzionamento dei MOID si situa nel contesto di un attaccamento traumatico.

Questo è il significato clinico psicopatologico essenziale del concetto: l’individuo è privato degli strumenti per costruire e sperimentare il fondamento delle relazioni intime d’attaccamento (quelle in cui si riconosce e identifica), che permetterebbero l’espressione delle sue potenzialità specifiche e lo farebbero crescere, consentendogli di sperimentare la sua esistenza da protagonista e foriera di occasioni e possibilità per realizzare qualcosa di proprio e personale. Il paradosso dei MOID consiste nel posizionare il soggetto in un’assenza di soggettività, il paradosso di sentirsi pleonastici nelle proprie relazioni (per alcuni pazienti: come visti dall’esterno, come nell’impressione di vederle in un film). L’individuo si trova a rimettere in scena, nelle sue relazioni intime, il fallimento profondo dell’incontro di specificità tra la propria soggettività e quella della figura di attaccamento, chiedendo a livello implicito agli altri di “aiutarlo” a riconoscere qualcosa che non è mai stato conosciuto (Albasi, 2001a, b, 2004d, 2006), richiesta che contiene il bisogno paradossale di essere riconosciuti sia per quel che si è sia per quel che si può diventare.

Nelle relazioni di attaccamento traumatico, I MOID funzionano bloccando anticipatoriamente alcune possibili formulazioni del significato soggettivo di dimensioni centrali dell’esperienza d’attaccamento, dei propri e altrui gesti, stravolgendo la comprensione del loro andamento, dell’intimità e, quindi, anche la possibilità di far sì che le relazioni siano occasione di accoglienza e di riconoscimento di bisogni, di potenzialità, di crescita, di benessere. Questa penuria di senso distorce lo sviluppo delle relazioni d’attaccamento cortocircuitandole in enactment deleteri.

I MOID comportano particolari stati di coscienza sottilmente dissociativi, nei quali il soggetto passa attraverso eventi e relazioni della sua vita come se, in parte, fosse contemporaneamente altrove (Albasi, 2004a). I MOID mantengono vivo un “altrove” nella mente di una persona, un altrove che ha la logica del paradosso, indefinito e complesso, di promesse perdute e potenzialità, di vuoti e di densità in contrasto: il paradosso di assenza di organizzazione e di rigidità di organizzazione. L’individuo sente di dipendere da questo “altrove” (pur volendo fuggire difensivamente da esso), perché è lì che si è smarrita la potenzialità di incontro intimo con se stesso e con l’altro; questo altrove può essere una scommessa alle corse, una sostanza stupefacente (con il suo “giro” di “sotto-cultura” e di “compagnie” attorno), l’attrazione sessuale per un minore, l’abbuffata con purganti al seguito, il fare a botte, o qualsiasi altro rifugio della mente (Steiner, 1993). I MOID che governano questo altrove trasmettono una confusa speranza, richiedono una discontinua ma fedele dedizione, sono trappole dove il miraggio della propria vitalità, del proprio “se stessi”, andrebbe diversamente scoperto ed elaborato; se preso così com’è, a grandi dosi, può rovinare la vita rendendola misera e degradarla nell’inconsistenza di un processo potenziale interrotto, riattivato continuamente in un circolo vizioso. Il cambiamento richiede la ricerca di un’elaborazione di alternative nelle quali vivere autenticità e affettività smarrite, sottratte al soggetto, che i MOID mostrano, seduttivamente, soltanto in una loro veste posticcia.

I MOID sono un processo e non corrispondono ad un contenuto particolare (o a un sintomo psichico). Il concetto di MOID non si definisce in base ad un particolare tipo di contenuto mentale (pensiero, affetto, ruolo o posizione della figura pre-rappresentazionale in gioco, come, per esempio, vittima, aggressore, o salvatore, ecc.)27. Non possiamo dire se i MOID contengano confusione e angosce dissociate, piuttosto che potenzialità creative (come il vero Sé di Winnicott, 1965) bloccate nell’interazione traumatica: né male né bene, né buoni né cattivi (dal punto di vista dei contenuti). I MOID testimoniano l’interruzione di possibilità di regolazione di affetti, indipendentemente dalla loro natura (non solo quelli negativi28). Anzi, dolore e affetti negativi possono essere ricchi di senso in certi contesti sia valoriali (pensiamo alla rinuncia o al sacrificio) sia biologici (pensiamo al parto), e non essere per nulla tramatici ma avere significato evolutivo. Al contrario, alcuni pazienti hanno fatto esperienza di non essere mai riconosciuti quando “stavano per rallegrarsi”, o erano gioiosi, ecc. (pensiamo ad un bambino che entra in stanza animato di gioia e la madre, sistematicamente, gli dice di smetterla, perché gli fa venire il mal di testa). Anche la gioia e gli affetti positivi possono non essere integrabili, essere “MOIDati”29.

L’ipotesi che i MOID non dipendano dalla “negatività” degli affetti dis-regolati che possono veicolare, permette un atteggiamento clinico favorevole alla presa in carico di patologie come le dipendenze (Caretti, La Barbera, 2005; Lingiardi, 2008) o le perversioni, spingendo a cercare, con il paziente, qual è il processo interrotto coinvolto nella sua psicopatologia, alla ricerca degli affetti positivi nascosti. Nel riattualizzare i MOID, il paziente cerca forme di vitalità specifica dissociata, e non semplicemente di evitare il dispiacere o cercare il piacere; sono un mondo a parte nel mondo del soggetto, che egli non “conosce” (in senso dichiarativo), ma che contemporaneamente attende sempre che si attualizzi e si verifichi, favorendo così (inconsapevolmente) che questo avvenga, ma come se provenisse sempre dall’esterno, restituendogli l’impressione che sia qualcosa di familiare e paradossalmente sconosciuto, di intimamente estraneo.

Questi brevi appunti non fanno altro che segnalare l’opportunità di approfondire l’utilizzo del PDM per la valutazione del trauma e dei MOID accennati in questo lavoro (per un approfondimento cfr. Albasi, 2006; 2009 e l'appendice).


Adolescenza, trauma e psicoterapia

Incontrando i MOID, il terapeuta si confronta con l’intimità alienata del paziente30. Nel corso di una psicoterapia, il livello borderline si esprime nell’interazione terapeuta-paziente, cattura la soggettività del terapeuta, provoca trionfi e catastrofi del suo controtransfert (Giovacchini, 1989), necessita del suo uso del sé (Jacobs, 1991).

Il trattamento terapeutico, per lavorare su questi livelli, deve permettere al paziente lo sviluppo di modalità alternative di costruire relazioni intime (MOI alternativi), che egli possa riconoscere come proprie e vitali, nelle quali possa identificare qualcosa di suo e di vivo, di importante e significativo, nelle quali lasciarsi andare per trovare se stesso. Con queste forme di patologia, il processo psicoterapeutico è attraversato dalla rivitalizzazione, dolorosa, delle aspettative e degli affetti disconnessi dai MOID, e dalla riattivazione, attraverso un inevitabile momento di coraggio (Ferenczi 1920-32, 1932a), della speranza di incontrare possibilità relazionali più sicure e funzionali allo sviluppo, che aprano nuove vie per vivere la fiducia in una relazione d’attaccamento31. MOI alternativi possono offrire una diversa integrazione tra livelli di funzionamento e altri registri per elaborare l’esperienza interattiva precedentemente sottoposta ai MOID, che possono quindi disattivarsi, disturbare meno, pur restando potenzialmente a disposizione. Nel paziente, grazie alla psicoterapia, si altera l’equilibrio tra MOI e MOID con il quale è cresciuto. La negoziazione intersoggettiva attuata nel dialogo terapeutico permette di avere fiducia in nuove possibilità relazionali.

La relazione con lo psicoterapeuta può arricchire e creare alternative ai MOI, funzionando come relazione d’attaccamento. Uno degli scandali della psicoterapia psicoanalitica è che, per essere quella relazione professionale che aiuta la crescita psichica, deve essere più simile ad una relazione sentimentale che non ad altre relazioni professionali (come quella con il medico, l’avvocato, l’architetto, il panettiere, ecc.); funziona efficacemente tanto più quanto un paziente accetta di provare forti sentimenti legati a quella relazione, di prendersela se il terapeuta non lo capisce, ad avere più fiducia in sé se durante la psicoterapia, a vivere esperienze più intense ed autentiche, a correre coraggiosamente il rischio di dare al terapeuta anche il potere di ritraumatizzarlo, o di farlo crescere. Allora, la psicoterapia diventa una relazione di attaccamento, con una sua storia, e questa esperienza si insedia nella mente del paziente diventando per lui un riferimento al quale ricorrere spontaneamente per sperimentare e comprendere se stesso e il mondo che lo circonda.

Se la relazione terapeutica è una particolare relazione di attaccamento, tutta spesa alla rincorsa della soggettività del paziente per esplorare la sua esperienza e pensarla, ma anche per offrire altra e nuova esperienza nella quale ci si prende cura di lui, la terapia non è basata sul primato dell’interpretazione o dell’ampliamento della consapevolezza esplicita, ma sull’ampliamento dei MOI in tutti i loro livelli e nelle loro connessioni. Questo principio è ancora più saldo nel caso di pazienti con danni alla funzione riflessiva, come i pazienti traumatizzati.

Il trattamento psicoanalitico è stato inventato da Freud come “cura di parole”, che enfatizza la dimensione simbolica e svaluta (concettualmente) quella dei gesti32. Forse oggi possiamo relativizzare questa prospettiva e guardare la psicopatologia e la psicoterapia anche dal punto di vista opposto: i pazienti traumatizzati sono deficitari a livello implicito procedurale e necessitano di aiuto su questo livello. Nel caso del trauma e della dissociazione abbiamo bisogno di teorie più sofisticate del livello implicito e della dimensione procedurale e di come trattarli psicoterapeuticamente. Lo sviluppo del concetto di MOID cerca di perseguire questo obiettivo.

Lo studio dei meccanismi e dei segni del trauma invita a tornare su alcune riflessioni sui fondamenti dell’attività clinica: nell’ambito della psicopatologia, il lavoro sul caso deve essere fondato sul riconoscimento della soggettività del paziente, della sua unicità e singolarità, delle sue peculiarità e idiosincrasie, dei suoi gusti, delle sue sensibilità, dei suoi dolori, di ciò che lo fa gioire e ciò che lo intristisce, di quanto lo eccita e quello che lo infastidisce, ecc..

Il trattamento degli adolescente, in particolar modo se traumatizzati, non può, né per principio né di fatto, essere lasciato all’applicazione di tecniche standard (Barron, 2005). Hoffmann (1998) suggerisce, per incontrare il paziente, di “gettare il libro”, nel senso di non dipendere da tecniche preordinate. Il metodo deve nascere dalla costruzione di una relazione che, attraverso la negoziazione della molteplicità, possa generare forme di ricerca personale dell’espressione ed una soggettività più libera grazie ad un movimento più creativo, flessibile e organizzato dei MOI nelle loro connessioni (orizzontali e verticali). Il clinico è il responsabile di un metodo non un esecutore di tecniche.

Rimane la centralità del metodo. Quello che il clinico può offrire nella presa in carico di pazienti traumatizzati è la garanzia di un metodo. E il metodo clinico è un metodo che si fonda sul lavoro sul caso singolo (individuo, famiglia, bambino, adolescente ecc.). È l’attenzione alla singolarità che qualifica il metodo clinico.

Il metodo di presa in carico psicoanalitica relazionale valorizza la soggettività e l’intersoggettività di clinico e paziente, impegnati in una relazione di attaccamento coinvolgente.

Il paziente e il clinico sono sullo stesso piano come persone. La differenza tra loro è posta dalla domanda di aiuto del paziente e dalla responsabilità del clinico di offrire aiuto. Il clinico, per aiutare il paziente, oltre alla sua esperienza di persona formata, offre la sua formazione professionale specifica in un metodo, e di questo si fa garante autorevole.

Si fa, infatti, garante di un metodo che è volto all’esplorazione curiosa e disponibile dell’esperienza soggettiva e delle strutture del paziente in relazione con lui, all’interno della tensione dialettica tra sé come persona (sullo stesso piano del paziente) e sé come autorità professionale (testimone di un sapere sul quale è più autorevole del paziente, e che mette a disposizione). Il metodo psicoterapeutico (relazionale e intersoggettivo) si fonda quindi su un rapporto dialettico: la dialettica tra essere persone che condividono la situazione umana con il paziente e l’essere dei professionisti esperti e garanti di un metodo (cfr. Hoffman, 1998).

Nel lavoro clinico, occupandosi dei suoi problemi, della sua sofferenza, della sua psicopatologia, si interviene per favorire il cambiamento nella situazione dell’adolescente.

La domanda dell’adolescente è sempre, almeno implicitamente, una domanda di aiuto, di crescita, di realizzazione di sue potenzialità coartate (“di salute” nel senso più ampio) (Cfr. Vanni, 2005, 2009).

Una specificità dell’intervento clinico nell’ambito psicopatologico (in qualsiasi contesto vogliamo immaginarlo e con qualsiasi problema o patologia) riguarda l’attivazione di processi di ricerca dei significati e di significatività. L’adolescente ha bisogno di ritrovare, o trovare, il senso del proprio funzionamento mentale come qualcosa di affidabile e dotato di valore interpersonale. L’ampliamento della conoscenza del paziente su di sé, sul funzionamento delle proprie relazioni, o sul proprio passato, è un aspetto importante dell’intervento, ma non sufficiente33.

Il trattamento dell’adolescente è fondato sull’incontro: il paziente incontra il clinico, la persona del clinico (che ha una formazione professionale ma che, proprio in funzione di essa, sa incontrare personalmente il paziente) e affronta un lavoro terapeutico con lui. Le differenze individuali e la soggettività sono, perciò, non il “difetto” da eliminare (inseguendo ideali di obiettivazione riduzionisti ed estranei al lavoro clinico) ma l’ingrediente essenziale della pratica clinica.

Il clinico è orientato da una prospettiva teorica, condivisa nella sua comunità, e fa affidamento su una formazione condotta all’interno di un determinato approccio: ma il suo intervento con l’adolescente porterà risultati nella misura in cui sarà personale e creativo, e quindi unico e singolare, e rivolto alla specificità e irripetibilità del paziente e della sua situazione.

Centralità assume la differenza di atteggiamento relazionale che il clinico adotta seguendo l’approccio teorico della sua formazione e l’esperienza che propone (pensiamo anche alle differenze nei setting, che fanno da cornice alle relazioni terapeutiche, agli obiettivi dei progetti terapeutici, ai livelli di funzionamento mentale e relazionale attivati ecc.).

La sottolineatura delle differenze è importante non tanto per inseguire la chimera che vorrebbe dimostrare che alcuni quadri patologici indicano trattamenti orientati da paradigmi differenti (perché questo non ha né fondamento scientifico né logico; Albasi, 200934), ma quanto per evidenziare che trattamenti diversi offrono esperienze distinte. Intendiamo la psicoterapia non come un intervento rivolto alla psiche, ma un intervento attuato attraverso la psiche, cioè con strumenti psicologici, immateriali (le parole, la relazione, gli affetti, la condivisione di significati, ecc.). Essa, prima ancora che offrire risposte certe al paziente (bambino, adolescente o adulto), offre un metodo per cercare risposte e significati, e per cercare modi di fare un’esperienza più viva e più ampia di se stessi e degli altri. Il processo psicoterapeutico è un’esperienza personale di incontro intimo che, con il tempo, diventa per il paziente un suo luogo metaforico di pensiero. Questo pensare comune, intrecciato in un dialogo intenso e coinvolgente e in una relazione che diventa vieppiù significativa, si consolida con il tempo in un riferimento per l’esistenza dell’adolescente che egli farà proprio (lo interiorizzerà in quanto, come abbiamo detto, oggi sappiamo che la mente vive e si sviluppa all’interno di relazioni di attaccamento, e quella con il terapeuta diventa tale; acquisirà funzioni psichiche, amplierà la propria base di esperienza, ecc.).

Per esemplificare le differenze, pensiamo come alcuni approcci, come la maggior parte di quelli psicoanalitici, enfatizzano la costruzione di una storia lunga e intensa tra terapeuta e paziente: la dipendenza, l’intimità, la regressione vengono visti come strumenti al servizio del trattamento. Al contrario, altri approcci, come quelli sistemico relazionali, tendono a limitare al massimo la dipendenza affettiva, ecc.

Quindi, anche se, in senso ampio, l’obiettivo è per tutti gli approcci quello di aiutare l’adolescente rispetto alle dimensioni relazionali, evolutive, soggettive e intersoggettive dei suoi problemi e alla sua psicopatologia, in senso specifico gli obiettivi del lavoro dei singoli terapeuti nelle psicoterapie reali sono diversi.

Abbiamo oggi a disposizione un orizzonte di intenso confronto e di fecondo scambio tra i paradigmi psicopatologici, che permette sia la valorizzazione reciproca di identità e di specificità sia la costruzione di una cultura clinica comune, che riconosce la centralità dell’esperienza dell’altro e l’esigenza di una sua comprensione non riduzionista, articolata e complessa.


PER LA VALUTAZIONE DIAGNOSTICA PSICODINAMICA IN ADOLESCENZA

NOTE SUI LIVELLI DI ORGANIZZAZIONE DELLA PERSONALITA SECONDO IL PDM-MANUALE DIAGNOSTICO PSICODINAMICO

Il PDM ipotizza tre livelli di organizzazione della personalità nell’adulto: sano, nevrotico e range borderline. Nella nostra operazionalizzazione dei costrutti del PDM (Albasi, 2009; www.pdm-qfm.com) abbiamo utilizzato questi livelli di organizzazione anche per l’adolescente.

Nel sistema QFM abbiamo elaborato in senso dimensionale i tre livelli di organizzazione come segue.

Livello delle risorse che sostengono l’organizzazione sana e l’integrazione

Livello nevrotico dei conflitti

Range Borderline, del trauma e dei processi dissociativi, dei deficit disorganizzanti.

Ogni livello di organizzazione è inteso come una dimensione del funzionamento: il paziente va valutato su ognuna di queste dimensioni, in tutte le capacità.

Le capacità mentali sono da intendere come funzioni che contribuiscono a dar forma alle organizzazioni della personalità su più di un livello.

L’esperienza acquista il suo significato personale grazie al funzionamento delle capacità mentali; per cui possiamo osservare, come espressione dei tre livelli di organizzazione: un’integrazione sana dei significati, una distorsione conflittuale di essi (che impoverisce l’esperienza e la carica di sofferenza), una radicale mancanza di possibilità nel formularli.

Leggiamo nel PDM: “A questo punto, bisogna notare che nonostante la nostra tendenza diagnostica a collocare il centro di gravità psicologica di un soggetto a un certo punto del continuum che va dall’organizzazione sana a quella borderline grave, molte persone presentano aspetti che potrebbero essere rispettivamente considerati sani, nevrotici e borderline” (p. 14).

Ogni livello rappresenta, per il clinico, una prospettiva osservativa (in questo senso è una dimensione diagnostica) dalla quale osservare il funzionamento delle capacità del paziente.

La diagnosi dimensionale è coerente con il modello della molteplicità dei livelli di organizzazione.

Il PDM, quindi, promuove l’ipotesi di una molteplicità di livelli di funzionamento mentale secondo la quale ogni individuo può avere delle capacità-funzioni mentali che sostengono un’organizzazione sana, altre che, invece, operano a livelli nevrotici o borderline.


Livello delle risorse che sostengono l’organizzazione sana e l’integrazione

La capacità che funziona a questo livello costituisce una risorsa che sostiene il funzionamento mentale e l’organizzazione della personalità del soggetto e gli permette di integrare aspetti differenti della sua esperienza in modo sano.

Se una capacità mentale opera a questo livello di sviluppo, assume un ruolo di regolazione strutturalmente consistente ma flessibile, e favorisce uno “spazio interno” vitale per la costruzione del pensiero e l’elaborazione degli affetti; l’eventuale esperienza di conflitti non altera l’organizzazione della personalità in quanto la capacità facilita l’integrazione psichica e il loro superamento. La molteplicità degli ambiti dell’esperienza e dei significati alternativi di essa rappresentano, quindi, un arricchimento della soggettività.

A questo livello, l’individuo si sente soggettivamente sostenuto dalla capacità (per es. si sente sostenuto dall’avere ideali, dal poter pensare per rappresentazioni simboliche, dal vivere appieno l’intimità ecc.).

Il livello sano di funzionamento non deve essere fatto coincidere con il livello cosciente o con la consapevolezza (né, di per sé, con la capacità di tradurre in linguaggio verbale l’esperienza). Infatti, la salute è particolarmente legata ai livelli impliciti del funzionamento mentale, come al livello procedurale (che orienta l’individuo nella costruzione del suo mondo interno e relazionale). Non è indice di salute soltanto il pensare prima di agire, ma anche il saper agire intuitivamente e il saper correggere e regolare le proprie azioni.


Livello nevrotico: la funzione è disturbata da conflitti

Osservare il paziente dal punto di vista della dimensione nevrotica ci permette di evidenziare eventuali conflitti che hanno un ruolo strutturale nella sua organizzazione.

Al livello nevrotico, una capacità mentale non sostiene l’individuo nella risoluzione dei suoi conflitti ma, al contrario, veicola i conflitti stessi. In questo senso, la capacità concorre all’organizzazione nevrotica, caratterizzata da mancanza di flessibilità (rigidità), inibizioni, ambivalenze, ecc..

Come abbiamo detto, se la capacità mentale funziona al livello sano essa è una risorsa per la risoluzione dei conflitti e l’integrazione. Mentre, il fallimento dell’integrazione di livello nevrotico è costituito dalla necessità di conservare un’esperienza interna rigidamente ipercoerente a discapito di alcuni aspetti di sé soggettivamente inaccettabili (a differenza degli aspetti dissociati, quelli conflittuali sono però evoluti a livelli più articolati e integrabili dell’esperienza).

La molteplicità degli ambiti dell’esperienza individuale può essere elaborata a livelli differenti; quindi, a ragione dei significati specifici in gioco, i conflitti possono caratterizzare alcuni ambiti e non altri (sessualità, aggressività, dipendenza, autonomia, autorità, perdita, rifiuto, controllo, ecc.; cfr., per es., i pattern tematici, o Tensioni/preoccupazioni principali, che il PDM indica per i disturbi di personalità). Il PDM si riferisce a questo aspetto clinico come pattern di sofferenze limitate ad aree specifiche o ambiti di difficoltà (p. 15).

Dal punto di vista del livello nevrotico, il termine di “deficit” in senso letterale (e non concettuale) rimanda all’impoverimento dell’esperienza che l’organizzazione nevrotica impone all’individuo, esemplificato dall’inibizione di una o più capacità mentali. La valutazione clinica tramite il QFM permette anche questa distinzione e suggerisce al clinico di discernere qualitativamente il malfunzionamento della capacità (scarsa risorsa? Inibizione? Deficit evolutivo di origine traumatica?).


Range Borderline, del trauma e dei processi dissociativi, dei deficit disorganizzanti.

La capacità non si è compiutamente sviluppata. Un contesto di attaccamenti traumatici ha strutturato, nello sviluppo, processi dissociativi che concorrono a organizzare a livello borderline la personalità. Il livello delle funzioni mentali rimane primitivo, cioè molto deficitario, e non sì è articolato a sufficienza per permettere una piena esperienza “interna” dei significati personali (a differenza degli altri livelli di organizzazione, lo “spazio interno” non viene costruito dalle capacità mentali). Infatti, dal punto di vista di questo livello di organizzazione, si osservano esternalizzazioni, somatizzazioni, passaggi all’atto, induzione negli altri di stati del sé, possibile indebolimento dell’esame di realtà; nelle situazioni peggiori, la frammentazione e la disintegrazione psichiche non permettono una coesione dell’esperienza sufficiente per la costruzione di relazioni interpersonali stabili.

La deficitarietà borderline, come abbiamo detto, è di una qualità specifica rispetto all’assenza di risorse (che nel QFM va valutata nei primi item delle triplette): anche un paziente con poche risorse funzionerà in modo deficitario nella sua vita, ma la specificità del livello borderline si distingue per qualcosa di attivo e organizzato (mostrando il paradosso di una disorganizzazione rigidamente organizzata). Il clinico fa esperienza di “sentire poco” il paziente, con scarse risorse, mentre può sentire un’attivazione molto intensa (indipendentemente dal contenuto di questa esperienza, che può andare dalla rabbia, alla noia ecc.) con pazienti che funzionano in modo spiccato al livello borderline.

La deficitarietà borderline è uno strutturarsi attivo della capacità mentale di base al servizio dell’esclusione anticipatoria della formulazione di significati dell’esperienza. Questo funzionamento disorganizza l’esperienza, interna e di relazione; mentre una scarsità delle risorse la rende superficiale.

Soggettivamente, la differenza tra livello nevrotico e livello borderline: il livello nevrotico organizza l’esperienza e spinge a vivere con senso di disagio e di limitazioni personali le proprie relazioni con gli altri e con se stessi; porta a pensare “sto male, aiuto”. Invece, il livello borderline spinge a fare qualcosa a se stessi o agli altri, o a mettersi in condizioni di subire. Non conduce a pensare “sto male” ma, piuttosto, il malessere porta a manipolare i propri (o altrui) stati interni o i stati somatici (le condizioni del proprio corpo, come nel caso di controllo delle condotte alimentari o assunzione di sostanze psicotrope).

Il livello borderline di organizzazione, così come il concetto di inconscio dissociato, non vanno confusi con il livello procedurale di funzionamento mentale: infatti, pur essendo inconscio, il livello procedurale può essere motivo di funzionamento sano oppure dissociato.

 

Riflessione su livelli di organizzazione e gravità

Nella prospettiva della diagnosi dimensionale, il livello di gravità può essere distinto dai livelli di organizzazione (questa è una elaborazione squisitamente dimensionale e qualitativa dei concetti del PDM che, pur discostandosi dall’uso che nel PDM si fa dei concetti di “livello evolutivo - livello di organizzazione - livello di gravità” come sinonimi, è uno sviluppo coerente con la sua impostazione diagnostica ed epistemologica).

In primo luogo, il livello di gravità diagnostica non si evince esclusivamente dall’Asse M né dalla valutazione dimensionale dei livelli di organizzazione, ma deve tener conto della diagnosi su tutti gli Assi e dimensioni.

Secondariamente, il contributo che può dare il sistema QFM alla valutazione della gravità è propriamente dimensionale, per cui è quantomeno articolato nei tre livelli di organizzazione. In altri termini, la gravità dipende sia dalla scarsità di risorse sia dall’intensità dei conflitti sia dalla pervasività della dissociazione. Questo implica anche che un paziente con un alto livello di patologia nevrotica può essere più grave di un paziente al quale sono stati attribuiti punteggi bassi al livello borderline.

In ogni caso, questa prospettiva diagnostica suggerisce di non valutare la gravità riducendola a un’unica dimensione o continuum.

La fenomenologia clinicamente rilevante osservata nella situazione del paziente, acquista una valenza specifica a secondo del livello di organizzazione. Per esempio: la tematica del controllo può essere nevrotica o borderline; la difesa dell’idealizzazione può contribuire all’organizzazione nevrotica o a quella borderline; lo stesso dicasi per i sintomi, ecc.

Nella psicoterapia, a secondo dei livelli del funzionamento mentale che si prendono in considerazione, l’adolescente e il clinico possono: contare sulle risorse, elaborare i conflitti, fare esperienza di cura di sé.


BIBLIOGRAFIA

Albasi, C. (2001b), “Dissociazione e psicopatologia”. III congresso nazionale dell’Associazione Italiana di Psicologia, sezione di Psicologia Clinica, 29 settembre, Mondello. In: Riassunti delle comunicazioni, a cura di Salerno A., Istituto Carlo Amore, Napoli, pp. 181-183.

Albasi, C. (2003b), “Regolazione degli affetti e molteplicità dei Modelli Operativi Interni. Le radici relazionali della dissociazione”. In Granieri, A., Albasi, C. (2003), Il linguaggio delle emozioni. Lavoro clinico e ricerca psicoanalitica. UTET Libreria, Torino.

Albasi, C. (2004b), “Il concetto di dissociazione nella psicoanalisi relazionale”. In www.psychomedia.it.

Albasi, C. (2004c), “Mentalizzazione, dissociazione, enactment. Considerazioni teoriche sulla relazione terapeutica nel trattamento con il paziente difficile”. In Connessioni, 8 (4), pp. 83-96.

Albasi, C. (2004d), “Modelli Operativi Interni Dissociati. Contributi concettuali per la psicoterapia psicoanalitica tra prospettive relazionali e teoria dell’attaccamento”. In Psichiatria e Psicoterapia, 23 (4), pp. 282-299.

Albasi, C. (2004e), “Prospettive sulla dissociazione e modelli psicoanalitici della mente”. In Abilitazione & Riabilitazione, 13 (2), pp. 9-28.

Albasi, C. (2005a), “Modelli Operativi Interni Dissociati e specificità del processo di riconoscimento”. In Ricerca Psicoanalitica, 16 (3), pp. 331-354.

Albasi, C. (2005b), “Il conoscere relazionale implicito e il concetto di Modelli Operativi Interni Dissociati (MOID)”. In Abilitazione & Riabilitazione, 14 (2), pp. 25-40.

Albasi, C. (2006), Attaccamenti traumatici. I Modelli Operativi Interni Dissociati. UTET, Torino.

Albasi, C. (2007), “Modelli Operativi Interni Dissociati e memoria relazionale implicita”. In Seganti, A., Salvatore, S. (a cura di), La Ricerca in psicoterapia: relazioni, emozioni e salute. Quattro Venti, Urbino.

Albasi, C. (2008a), “Modelli Operativi Interni Dissociati: una prospettiva relazionale sull’attaccamento, il trauma, la dissociazione”. In Caretti, V., Craparo, G. (a cura di), Trauma e psicopatologia. Un approccio evolutivo relazionale. Astrolabio, Roma.

Albasi, C. (2008b), “Modelli Operativi Interni Dissociati, funzionamento mentale e psicopatologia”. In Abilitazione & Riabilitazione, 1, pp. 9-36.

Albasi, C. (2009), Psicopatologia e ragionamento clinico, Raffaello Cortina, Milano.

Albasi, C., Borgogno, F., Granieri, A., Ardito, R., Cassullo, G., Freilone, F., Gandino, G., Lasorsa, C., Perfetti, A., Ricco, C., Veglia, F. (2007), “La psicologia clinica oggi, tra teoria e pratica, formazione e ricerca: piccolo contributo a un dibattito aperto”. In www.rivistadipsicologiaclinica.it.

Albasi, C., Boschiroli, A. (2003), “Sándor Ferenczi: per un pensiero clinico vivo”. In Boschiroli, A., Albasi, C., Granieri, A. (a cura di) (2003), Incontrando Sándor Ferenczi. Temi ferencziani nella pratica clinica contemporanea. Moretti e Vitali, Bergamo.

Albasi, C., Brockmeier, J. (1997), “La rottura della canonicità”. In Gallo Barbisio, C., Quaranta, C. (a cura di), Trasformazioni e narrazioni. Tirrenia Stampatori, Torino.

Albasi, C., Lasorsa, C., (2007), “QFM-27. Questionario sui livelli di Funzionamento Mentale”. In www.pdm-qfm.com.

Albasi, C., Sechi, G. (2003), “Il contributo di Sàndor Ferenczi allo studio dei fenomeni dissociativi”. In Boschiroli, A., Albasi, C., Granieri, A. (a cura di), Incontrando Sándor Ferenczi. Temi ferencziani nella pratica clinica contemporanea. Moretti e Vitali, Bergamo.

Amadei, G. (2005), Come si ammala la mente. Il Mulino, Bologna.

Anderson, F.S., Gold, J. (2003), “Trauma, dissociation, and conflict: The space where neuroscience, cognitive science, and psychoanalysis overlap”. In Psychoanalytic Psychology, 20 (3), pp. 536-541.

Aparo, A., Casonato, M., Vigorelli, M. (1989), Modelli genetico evolutivi in psicoanalisi. Il Mulino, Bologna.

Aron, L. (1996), Menti che si incontrano. Tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2003.

Aron, L. (1998), “Il corpo nel modello pulsionale e nel modello relazionale”. In Aron, L., Sommer, F.S. (a cura di), Il corpo nella prospettiva relazionale. Tr. it. La Biblioteca, Roma 2004.

Aron, L. (2000), “L’autoriflessività e l’azione terapeutica della psicoanalisi”. Tr. it. in www.selfrivista.it, 1 (1).

Aron, L., Harris, A. (a cura di) (1993), L’eredità di Sàndor Ferenczi. Tr. it. Borla, Roma 1998.

Balint, M. (1968), The Basic Fault, London: Tavistock.

Barron, J. (a cura di) (1998), Dare un senso alla diagnosi. Tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2005.

Bateson, G. (1972), Verso un’ecologia della mente. Tr. it. Adelphi, Milano 1979.

Bateson, G. (1979), Mente e natura. Tr. it. Adelphi, Milano 1984.

Benjamin, J. (1995), Soggetti d’amore. Genere, identificazione, sviluppo erotico. Tr. it. Raffaello Cortina, Milano 1996.

Bion, W.R. (1959), “Attacchi al legame”. In Bion, W.R., Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico. Tr. it. Armando, Roma 1970.

Bion, W.R. (1962a), “Una teoria del pensiero”. In Bion, W.R., Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico. Tr. it. Armando, Roma 1970.

Bion, W.R. (1962b), Apprendere dall’esperienza. Tr. it. Armando, Roma 1971.

Bleiberg, E. (2001), Il trattamento dei disturbi di personalità nei bambini e negli adolescenti. Un approccio relazionale. Tr. it. Giovanni Fioriti, Roma 2004.

Blos, P.(1963), The concept of acting out in relation to the adolescent process. J. Child Psychiat., 2: 118-136.

Bonomi, C., Borgogno, F. (a cura di) (2001), La catastrofe e i suoi simboli. Il contributo di Sándor Ferenczi alla teoria psicoanalitica del trauma. UTET, Torino.

Borgogno, F. (1999), Psicoanalisi come percorso. Bollati Boringhieri, Torino.

Borgogno, F. (2004), Ferenczi oggi. Bollati Boringhieri, Torino.

Borgogno, F. (2007), The Vancouver interview. Frammenti di vita e opere d’una vocazione psicoanalitica. Borla, Roma.

Bowlby, J. (1969), Attaccamento e perdita. L’attaccamento alla madre. Tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1989, vol. 1.

Bowlby, J. (1973), Attaccamento e perdita. La separazione dalla madre. Tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1978, vol. 2.

Bowlby, J. (1980), Attaccamento e perdita. La perdita della madre. Tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1983, vol. 3.

Brenner, I. (2001), Dissociation of Trauma: Theory, Phenomenology, and Technique. International University Press, Madison.

Brière, J., Conte, J. (1993), “Self-reported amnesia for abuse in adults molested as children”. In Journal of Traumatic Stress, 6, pp. 21-31.

Bromberg, P.M. (1998), Standing in the Spaces. Essays on Clinical Process, Trauma, and Dissociation. The Analytic Press, Hillsdale, New York.

Bromberg, P.M. (2006), Awakening the Dreamer: Clinical Journeys. The Analytic Press, Hillsdale, New York.

Bruner, J.S. (1983), Autobiografia. Alla ricerca della mente. Tr. it. Armando, Roma 1984.

Bucci, W. (1997), Psicoanalisi e scienza cognitiva. Una teoria del codice multiplo. Tr. it. Giovanni Fioriti, Roma 1999.

Bucci, W. (2003), “Varieties of dissociative experience: A multiple code account and a discussion of Bromberg’s case of William”. In Psychoanalytic Psychology, 20 (3), pp. 542-557.

Cardena, E., Nijenhuis, E.R.S. (2000), “Embodied sorrow: A special issue on somatoform dissociation”. In Editorial Journal of Trauma and Dissociation, 1 (4), pp. 1-6.

Caretti, V., Craparo, G. (a cura di) (2008), Trauma e psicopatologia. Un approccio evolutivo relazionale. Astrolabio, Roma.

Caretti, V., La Barbera, D. (a cura di) (2005a), Alessitimia. Astrolabio, Roma.

Caretti, V., La Barbera, D. (a cura di) (2005b), Le dipendenze patologiche. Clinica e psicopatologia. Raffaello Cortina, Milano.

Ceruti, M. (1986), Il vincolo e la possibilità. Feltrinelli, Milano.

Chefetz, R.A., Bromberg, P.M. (2004), “Talking with «Me» and «Not Me»”. In Contemporary Psychoanalysis, 40 (3), pp. 409-464.

Chused, J.F. (1990), Neutrality in the analysis of action-prone adolescents. Journal of the American Psychoanalytic Association, 38, pp.679-704.

Cohen, E.(2003), Playing hard at life. A relational approach to treating multiply traumatized adolescents, Hillsdale, NJ: The Analytic Press (2003).

Davies, J.M. (1996a), “Dissociation, repression and reality testing in the countertransference. The controversy over memory and false memory in the psychoanalytic treatment of adult survivors of childhood sexual abuse”. In Psychoanalytic Dialogues, 6 (2), pp. 189-218.

Davies, J.M. (1996b), “Linking «pre-analytic» with the post-classical: Integration, dissociation, and the multiplicity of unconscious process”. In Contemporary Psychoanalysis, 32 (4), pp. 553-577.

Davies, J.M. (1997), “Dissociation, therapeutic enactment and transference-countertransference processes”. In Gender and Psychoanalysis, 2, pp. 241-259.

Davies, J.M. (1998), “Multiple perspectives on multiplicity”. In Psychoanalytic Dialogues, 8 (2), pp. 177-195.

Davies, J.M., Frawley, M.G. (1991), “Dissociative process and transference-countertransference paradigms in the psychoanalytically oriented treatment of adult survivor of childhood sexual abuse”. In Psychoanalytic Dialogues, 2 (1), pp. 5-36.

Dazzi N., Speranza A.M. (2005), Attaccamento e psicopatologia, Infanzia e Adolescenza. Raffaello Cortina, Milano.

Dazzi, N., Lingiardi, V., Gazzillo, F., (2010), La diagnosi in psicologia clinica, Raffaello Cortina, Milano.

Diamond, D. (2004), “Attachment disorganization: the reunion of attachment theory and psychoanalysis”. In Psychoanalytic Psychology, 21 (2), pp. 276-299.

Ehrenberg, D.B. (1992), The Intimate Edge: Extending the Reach of Psychoanalytic Interaction. Norton, New York.

Eigen, M. (1996), La morte psichica. Tr. it. Astrolabio, Roma 1998.

Eigen, M. (1999), Cibo tossico. Tr. it. Astrolabio, Roma 2003.

Eigen, M. (2001), Legami danneggiati. Tr. it. Astrolabio, Roma 2007.

Fairbairn, W.R.D. (1929), “Dissociation and repression”. In Birtles, E., Scharff, D. (a cura di), From Instinct to Self: Selected Papers of W.R.D. Fairbairn. Routledge & Kegan, London 1995, pp. 65-91.

Fairbairn, W.R.D. (1952), Studi psicoanalitici sulla personalità. Tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1970.

Fast, I. (1998), Selving: A Relational Theory of Self Organization. The Analytic Press, Hillsdale, New York.

Ferenczi, S. (1920-32), “Frammenti e annotazioni”. In Opere. Tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2002, vol. 4.

Ferenczi, S. (1932a), “La confusione delle lingue tra adulti e bambini”. In Opere. Tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2002, vol. 4.

Ferenczi, S. (1932b), Diario clinico. Raffaello Cortina, Milano 1988.

Flax, J. (1996), “Taking multiplicity seriously: Some consequences for psychoanalytic theorizing and practice”. In Contemporary Psychoanalysis, 32 (4), pp. 577 595.

Fogel, A. (1977), “Temporal organization in mother-infant, face-to-face interaction”. In Schafter, H.R. (a cura di), Studies in Mother-Infant Interaction. Academic Press, London, pp. 119-152.

Fogel, A., Thelen, E. (1987), “Development of early expressive and communicative actions: Reinterpreting the evidence from a dynamic system perspective”. In Developmental Psychology, 23, pp. 747-761.

Fogel A., Lyra M.C.D.P (1997), “Dinamica dello sviluppo nelle relazioni”. In Carli, L. Rodini, C. (a cura di) (2008), Le forme di intersoggettività. L’implicito e l’esplicito nelle relazioni interpersonali. Raffaello Cortina, Milano.

Fonagy, P., Target, M. (2001), Attaccamento e funzione riflessiva. Tr. it. Raffaello Cortina, Milano.

Frankel, J. (2001), “Identificazione reciproca con l'aggressore nella relazione analitica”. In Bonomi, C., Borgogno, F. (a cura di), La catastrofe e i suoi simboli. Il contributo di Sándor Ferenczi alla teoria psicoanalitica del trauma. UTET, Torino, pp. 198-213.

Freedman, R. (1994), More on transformation: Enactments in psychoanalytic space. In The Spectrum of Psychoanalysis, ed. A.R. Richards & A.D. Richards, Madison, CT: International Universities Press, pp.93-110.

Ghent, E. (1992), “Paradox and process”. In Psychoanalytic Dialogues, 2 (2), pp. 135-159.

Giovacchini, P.L. (1989), Trionfi e catastrofi del controtransfert. Armando, Roma 1997.

Goldberg, A. (1999), La mente che si sdoppia. Tr. it. Astrolabio, Roma 2001.

Goldberg, P. (1995), “«Successful» dissociation, pseudovitality, and inauthentic use of the senses”. In Psychoanalytic Dialogues, 5 (3), pp. 493-510.

Hall, C.S., Lindzey, G. (1978), Teorie della personalità. Tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1986.

Hamilton, N.G. (1990), Teoria delle relazioni d’oggetto e pratica clinica. Tr. it. Franco Angeli, Milano, 1994.

Harris, A. (1996), “The conceptual power of multiplicity”. In Contemporary Psychoanalysis, 32 (4), pp. 537 553.

Herman, J.L. (1992), Guarire dal trauma. Tr. it. Edizioni Magi, Roma 2005

Hoffman, I.Z. (1998), Rituale e spontaneità in psicoanalisi. Tr. it. Astrolabio, Roma 2000.

Holmes, J. (2001), Psicoterapia per una base sicura. Tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2004.

Horowitz, M.J. (2003), Sindromi di risposta allo stress. Tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2004.

Howell, E.F. (2005), The Dissociative Mind. The Analytic Press, Hillsdale, New York.

ICDL-DMIC Work Group (2005), Interdisciplinary Council on Developmental and Learning Disorders Diagnostic Manual for Infancy and Early Childhood. Mental health, developmental, regulatory-sensory processing and learning disorders. Interdisciplinary Council on Developmental and Learning Disorders, Bethesda.

Jacobs, T.J. (1991), The Use of the Self: Countertransference and Communication in the Analytic Situation. International Universities Press, Madison.

Klein, M. (1935), “Contributo alla psicogenesi degli stati maniaco-depressivi”. In Scritti (1921-1958). Tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1978.

Laufer, M., Laufer, E. (1984), Adolescenza e breakdown evolutivo, Bollati Boringhieri, Torino, 1986.

Lingiardi, V. (2002), L’alleanza terapeutica. Teoria, clinica, ricerca. Raffaello Cortina, Milano.

Lingiardi, V. (2004), La personalità e i suoi disturbi. Lezioni di psicopatologia dinamica. Il Saggiatore, Milano.

Lingiardi, V. (2008), “Playing with unreality: Transference and computer”. In International Journal of Psychoanalysis, 89, pp. 111-126.

Lingiardi V., Gazzillo F. (2002), La valutazione della personalità nel modello di Drew Westen., Raffeallo Cortina, Milano.

Lingiardi, V., Del Corno, F. (2008), “Presentazione all’edizione italiana”. In PDM Task Force (2006), PDM. Manuale Diagnostico Psicodinamico. Raffaello Cortina, Milano 2008.

Liotti, G. (1995), “Disorganized/disoriented attachment in the psychotherapy of the dissociative disorders”. In Goldberg, S., Muir, R., Kerr, J. (a cura di), Attachment Theory: Social Development and Clinical Perspectives. The Analytic Press, Hillsdale, New York.

Liotti, G. (1999a), “Disorganized attachment as a model for the understanding of dissociative psychopathology”. In Solomon, J., Gorge, C. (a cura di), Attachment Disorganization. Guilford Press, New York, pp. 291-317.

Liotti, G. (a cura di) (1999b), Le discontinuità della coscienza. Franco Angeli, Milano.

Liotti, G. (1999c), “La disorganizzazione dell’attaccamento come modello per comprendere la psicopatologia dissociativa”. In www.selfrivista.it, 1, 3.

Liotti, G. (2005), La dimensione interpersonale della coscienza. Carocci, Roma.

Lyons-Ruth, K. (1999), “The two person preconscious: Intersubjective dialogue, enactive relational representation, and the emergence of new forms of relational organization”. In Aron, L., Harris, A (2005), Relational Psychoanalysis, Analytic Press, Hillsdale (NJ).

Lyons-Ruth, K. (2003), “Dissociation and the parent-infant dialogue: A longitudinal perspective from attachment research”. In Journal of the American Psychoanalytic Association, 1 (3), pp. 883-911.

McLaughlin, J. (1987), The play of transference: Some reflections on enactment in the psychoanalytic situation. Journal of the American Association, 35, pp. 557-582.

Maggiolini A. (1990), “Il nuovo valore. Rappresentazioni di sé nella prima adolescenza”. In Pietropolli Charmet, G. (a cura di), L'adolescente nella società senza padri, Unicopli, Milano.

Maggiolini, A. (1991), Ruoli affettivi e adolescenza, Unicopli, Milano.

Maggiolini, A. (2002), “Iniziare l'adolescenza”. In CENTRO ITALIANO DI PSICOLOGIA ANALITICA (a cura di), L'inizio, Raffaello Cortina, Milano.

Maggiolini, A., Riva., E., (1998), Adolescenti trasgressivi, Franco Angeli, Milano.

Maggiolini, A., Pietropolli Charmet, G., (2004) (a cura di), Manuale di psicologia dell'adolescenza: compiti e conflitti, Franco Angeli, Milano.

Mahler, M. (1968), Psicosi infantili. Tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1975.

Markman, H. (1997), Play in the treatment of adolescents. Psychoanalytic Quarterly, 66, pp. 190-218.

Massone, G. (2001), Amori e amore. Itinerari per la coppia e la famiglia. CdG, Pavia.

Mitchell, S.A. (1988), Gli orientamenti relazionali in psicoanalisi. Tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1993.

Mitchell, S.A. (1992), “True selves, falses selves, and the ambiguity of the authenticity”. In Skolnick, N.J., Warshaw, S.C. (a cura di), Relational Perspectives in Psychoanalysis. The Analytic Press, Hillsdale, New York.

Mitchell, S.A. (1993), Speranza e timore in psicoanalisi. Tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1995.

Orange, D.M. (1995), La comprensione emotiva. Tr. it. Astrolabio, Roma 2001.

Orange, D.M., Atwood, G.E., Stolorow, R.D. (1997), Intersoggettività e lavoro clinico. Il contestualismo nella pratica psicoanalitica. Tr. it. Raffaello Cortina, Milano 1999.

Organizzazione Mondiale della Sanità (1992), International Classification of Diseases (ICD-10). Masson, Milano.

Pavia, C., Vigna Taglianti, M. (2008), “Intersoggettività e campo psicoanalitico : tra soggetti, oggetti e racconti”. Relazione presentata presso l’ASP-IPP, Torino 26 febbraio.

PDM Task Force (2006), PDM-Manuale Diagnostico Psicodinamico. Tr. it.. Raffaello Cortina, Milano 2008.

Pewzner, E. (2000), Introduzione alla psicopatologia dell'adulto. Tr. it. Einaudi, Torino 2002.

Pietropolli Charmet, G. (1990) (a cura di), L'adolescente nella società senza padri, Unicopli, Milano.

Pietropolli Charmet, G. (2000), Adolescente e psicologo, Franco Angeli, Milano.

Pietropolli Charmet, G. (2003), Crisis Center. Il tentato suicidio in adolescenza, Franco Angeli, Milano.

Pietropolli Charmet, G., Rosci, E. (1992), La seconda nascita,Unicopli, Milano.

Pine, F. (1985), Teoria evolutiva e processo clinico. Tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1995.

Pizer, S.A. (1998), Building Bridges: The Negotiation of Paradox in Psychoanalysis. The Analytic Press, Hillsdale, New York.

Putnam, F.W. (1997), La dissociazione nei bambini e negli adolescenti. Una prospettiva evolutiva. Tr. it. Astrolabio, Roma 2005.

Putnam, F.W. (2005), Dissociation: New research insights into an old condition. Relazione presentata al convegno internazionale L’era dell’eccesso: clinica e psicodinamica delle nuove dipendenze, Palermo, 28-29 ottobre.

Renik, O. (1994), Countertranference enactment and the psychoanalytic process. In Psychic Structure and Psychic Change, ed. M. Horowitz, O. Kernberg & E. Weinshel, Madison, CT: International Universities Press, pp. 135-157.

Sander, L.W. (2000), “Where are we going in the field of infant mental health?”. In Infant Mental Health Journal, 21 (1-2), pp. 5-20.

Sander, L.W. (2007), Sistemi viventi. L’emergere della persona attraverso l’evoluzione dell’autoconsapevolezza. Raffaello Cortina, Milano.

Sandler, J., Fonagy, P. (a cura di) (1997), Il recupero dei ricordi di abuso: ricordi veri o falsi?. Tr. it. Franco Angeli, Milano 2002.

Schafer, R. (1992), Rinarrare una vita. Tr. it. Giovanni Fioriti Editore, Milano (1999).

Steinberg, M., Schnall, M. (2000), La dissociazione. Tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2006.

Steiner, J. (1993), I rifugi della mente. Tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1996.

Sullivan, H.S. (1940), La moderna concezione della psichiatria. Tr. it. Feltrinelli, Milano 1961.

Sullivan, H.S. (1950), “The illusion of personal individuality”. In Sullivan, H.S. (1964), The Fusion of Psychiatric and the social sciences. Norton, New York.

Sullivan, H.S. (1953), La teoria interpersonale della psichiatria. Tr. it. Feltrinelli, Milano 1962.

Sullivan, H.S. (1956), Studi clinici. Tr. it. Feltrinelli, Milano 1971.

Thomas, P.M. (2005), “Dissociation and internal models of percepition: Psychotherapy with child abuse survivors”. In Psychotherapy: Theory, Research, Practice, Training, 42 (1), pp. 20-36.

Tronick, E.Z. (1989), “Emotions and emotional communication in infants”. In American Psychologist, 44, pp. 112-127.

Van Der Kolk, B.A., Mcfarlane, A.C., Weisaeth, L. (1996), Stress traumatico. Tr. it. Magi, Roma 2005.

Vanni, F. (2005), “Note sulla costruzione di saperi intorno a un oggetto: la persona adolescente”. In

Viorst J. (1986), Distacchi. Tr. it. Frassinelli, Milano 1987.

Vygotskij, L. (1978), Il processo cognitivo. Tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1980.

Williams R. (2009), Trauma e relazioni. Le prospettive scientifiche e cliniche contemporanee. Raffaello Cortina, Milano.

Winnicott, D.W. (1958), Dalla pediatria alla psicoanalisi. Tr. it. Martinelli, Firenze 1975.

Winnicott, D.W. (1965), Sviluppo affettivo e ambiente. Tr. it. Armando Editore, Roma 1970.

Winnicott, D.W. (1971), Gioco e realtà. Tr. it. Armando Editore, Roma 1974.

White, R.S. (1992), Transformations of transference. The Psychoanalytic Study of the Child, New Haven, CT, Yale University Press, 47, pp.329-348.

Western D., Shedler J., Durrett C., Glass S., Martens A. (2004), Diagnosi di personalità in adolescenza, Infanzia e Adolescenza, 3, 1.



Note:

1Confronta a tal proposito Dazzi, Speranza, 2005, Western et al., 2004, Maggiolini et al., 2004.

2 Anche limitando la nostra osservazione al livello procedurale del funzionamento mentale, “uno dei maggiori contributi dell’Infant Research alla comprensione della genesi della psicopatologia consiste nell’aver individuato che i principi regolatori delle interazioni rimangono costantemente presenti, a livello implicito” (Amadei, 2005, p. 74).

3 Vogliamo sottolineare l’estrema importanza dell’adolescenza (determinante per la formazione della personalità e per la psicopatologia, per tutta la vita), importanza ampiamente consolidata nella clinica (e ambito clinico al centro delle riflessioni di grandi autori come Winnicott, Erickson, Sullivan ecc.), ma che non trova attualmente un giusto riconoscimento nei modelli teorici sullo sviluppo e sulla psicopatologia dell’adulto. Per Anna Freud era la “cenerentola della psicoanalisi”. Come fa anche notare Fabio Vanni (2005), c’è un problema teorico in alcune correnti della psicoanalisi che considerano con grande attenzione la formazione delle strutture mentali nell’infanzia e gli esiti nell’età adulta (anche in termini di opzioni terapeutiche), ma non modellizzano l’impatto specifico delle dimensioni adolescenziali nello sviluppo e nella psicopatologia.

Altro problema delle teorie psicoanalitiche più recenti riguarda la mancata elaborazione delle conoscenze dell’Infant research nell’ambito clinico dei bambini in età scolare (i modelli e i concetti dell’Infant research vengono trasferiti direttamente sulla clinica dell’adulto).

Il PDM dedica grande spazio alla tassonomia della psicopatologia dell’adolescenza e dei bambini mettendolo insieme; non accenna però a modelli teorici specifici sull’impatto dell’adolescenza nello sviluppo delle organizzazioni di personalità o dei disturbi di personalità o dei sintomi. Riporta uno schema teorico molto scolastico, dove ripercorre le principali tappe dello sviluppo dall’infanzia all’adolescenza, e ci pare già di grande importanza che un manuale diagnostico faccia anche riferimento, pur sinteticamente, ad un modello di sviluppo sano (PDM Task Force, 2006, pp. 232-233).

4 La sofferenza è parte della vita e, come ci ricorda il suo significato etimologico (da sufferre, portare sotto), costringe l’essere umano a confrontarsi con gli aspetti della sua interiorità che richiedono ancora la ricerca di un senso. La sofferenza può essere essenziale per trovare se stessi così come può stravolgere e far impazzire. Facendo ancora riferimento alla etimologia, la psicopatologia è un discorso sulla sofferenza, per cui si pone come sguardo riflessivo che apre al ragionamento su di essa.

5 La letterata e psicoanalista Judith Viorst (1986) ha scritto un bel libro divulgativo intitolato proprio Necessary losses (in italiano tradotto con il titolo di Distacchi) nel quale possiamo leggere una sintesi di tutti i momenti di perdita che caratterizzano l’esistenza umana, dalla nascita alla morte.

6 “In patologia generale, il medico viene consultato per problemi specifici (dolori, febbre, eruzioni cutanee, paralisi, ecc.) che sono tutti sintomi o segni che, raggruppati in un certo modo, possono condurre a una diagnosi e, nel migliore dei casi, alla scoperta di un’unica causa, con il duplice vantaggio: di rendere conto dell’origine dei sintomi (diagnosi eziologica); di giustificare e permettere l’applicazione di una terapia appropriata. È possibile applicare questo modello al campo delle malattie mentali? Durante l’Ottocento lo hanno pensato, soprattutto in virtù degli enormi successi ottenuti dal modello anatomo-clinico, secondo il quale a un insieme di segni clinici caratteristici corrisponde una lesione specifica in un determinato organo. (…) questo modello, solitamente assai efficace in patologia generale, e particolarmente in neurologia, non ha dato risultati altrettanto spettacolari nel campo della patologia mentale” (Pewzner, 2000, p. XVII).

7 Per esempio, una configurazione di personalità ossessiva orienta la soggettività ad assegnare valore al controllo, alla pulizia, al potere, ecc. La soggettività sarà pervasa da questi temi in modo tanto più rigido e costrittivo quanto più la personalità sarà disturbata.

8 Un po’ schematicamente potremmo anticipare alcuni temi che tratteremo più a fondo nel corso del libro. Più articolato e flessibile è il funzionamento mentale, più armoniche e meno rigide sono le configurazioni di personalità, e conseguentemente più la soggettività sarà piena e vitale. In questo caso parliamo di livello sano. Se l’esperienza soggettiva è frammentata, poco vitale e senza energia, senza il senso di vivere una vita significativa, e con possibili distorsioni del contatto con gli altri, secondo il PDM possiamo parlare di un range di gravità della situazione definibile borderline. Mentre se la soggettività è travagliata da un’intensa conflittualità, la personalità sembra organizzata al livello nevrotico. Nell’Appendice è possibile rintracciare una sorta di percorso diagnostico che, anche tramite lo strumento del QFM-27 (Albasi, Lasorsa, Porcellini, 2007), orienta all’utilizzo del PDM.

9 Dal punto di vista psicoanalitico è possibile, quindi, diagnosticare i pazienti secondo la loro organizzazione di personalità considerando questo concetto in due sensi: uno maggiormente discontinuista e strutturale (Bergeret, 1974); oppure ipotizzando un continuum di gravità che va da una organizzazione relativamente sana, ad una nevrotica, ad una organizzazione collocabile in un range borderline che racchiude problemi di fragilità strutturale caratteristiche di personalità al limite di un funzionamento psicotico fino a situazioni meno gravi, quasi nevrotiche (in quanto non sembra messo fortemente in discussione la tenuta del loro esame di realtà nella vita quotidiana) ma comunque caratterizzate nel loro funzionamento da aspetti borderline. Entrambi i sensi ci aiutano a comprendere sia le caratteristiche qualitativamente differenti dei livelli di funzionamento sia le sovrapposizioni e le sfumature individuali.

10 Come avviene durante le psicoterapie, quando alcuni pazienti che giungono ad attivare processi integrativi di dimensioni dissociate (MOID) si trovano a dover sostenere transitoriamente angosce intense di varia natura (per es. depressiva, come nel caso di pazienti che devono separarsi affettivamente da figure di attaccamento invischianti; o persecutoria, come per chi riconosce la mostruosità di alcune esperienze infantili, ecc.). Questo contatto con il livello di funzionamento borderline e con i MOID è seminale per il loro sviluppo e il loro cambiamento.

11 Ricordiamo anche l’etimologia della parola “crisi”, che deriva da quelle greche e latine che significano separare ma che contengono rimandi anche alla decisione e alla scelta; indica perciò un momento che separa uno stato o un modo di essere precedente da quelli differenti che seguono, senza accezioni negative.

Nel linguaggio della teoria dei sistemi aperti, dinamici e non lineari (come quelli viventi studiati in biologia, e come l’uomo e il suo sistema psichico) le organizzazioni sono sempre più o meno instabili ed evolvono in modo non esattamente prevedibile, generando sia stati transitori di ordine che di disordine. La dinamica delle organizzazioni emergenti e i cambiamenti catastrofici, che invece implicano turbolenze, è discontinua, cioè avviene per salti improvvisi e riorganizzazioni (più che in modo regolare e continuo). I punti energetici che comportano la discontinuità e il cambiamento (sempre altamente specifico) sono detti punti di biforcazione, che dipendono da innumerevoli variabili (rendendo così la probabilità di previsione molto bassa) e aprono vincoli e possibilità per il sistema che può aumentare il grado di ordine interno alla propria organizzazione, complessificando il suo rapporto con l’ambiente (la complessificazione, cioè l’aumento di organizzazione interna, è caratteristica dei sistemi aperti e questo li rende resistenti ai cambiamenti “passivi” ma li predispone a interazioni costruttive e creative con l’ambiente.

12 Tutto il processo psicoanalitico classico, per come l’aveva immaginato Freud, enfatizzava molto questo principio del nostro funzionamento mentale. Freud ha espresso questa idea attraverso molte metafore e concetti (affermando che l’Io prenderà il posto dell’Es, che l’energia libera sarà legata dal pensiero ecc.) e, di conseguenza, lo strumento psicoanalitico dell’interpretazione è stata per anni considerata lo strumento principe del trattamento clinico (con il suo potere di racchiudere in rappresentazioni simboliche l’esperienza soggettiva e intersoggettiva), il metro sul quale ogni altro intervento doveva essere misurato.

13 Questo problema concettuale lo ritroviamo nei modelli attuali che fanno coincidere i livelli impliciti con i livelli dissociati. Come abbiamo altrove trattato più diffusamente (Albasi, 2006), i processi dissociativi riguardano solo una specifica dimensione dei livelli impliciti, che invece possono essere sani e integrati, pur nella loro natura distributiva specifica che li differenzia dai livelli simbolici nel costruire vita mentale e relazionale, e salute.

14 In un modello teorico differente, Bion (1959, 1962a, 1962b), ha trattato il concetto di identificazione proiettiva distinguendolo in normale e anormale, e considerandolo anche un mezzo per comunicare stati mentali. Non è questa la sede per discutere le differenze tra questi concetti. In un modello come quello discusso in questo volume, che si colloca in una prospettiva relazionale e utilizza i concetti ai livelli impliciti e ai processi dissociativi, non è necessario ipotizzare nozioni come quella di identificazione proiettiva, in quanto la comunicazione nelle relazioni intime avviene in gran parte ai livelli impliciti e procedurali, che contemporaneamente le strutturano. La nostra mente ha primariamente una struttura relazionale, e non una struttura monadica di origine pulsionale che, solo successivamente, si metterebbe in contatto affettivamente tramite processi come l’identificazione proiettiva.

15 Per esempio, un individuo che cresce a contatto con figure di attaccamento che non sono in grado di sostenere una forte dipendenza, diciamo con stili di attaccamento evitanti, può aver sfruttato altre risorse che lo hanno sostenuto nel fare dell’autonomia un punto di forza, da bambini avranno magari gattonato e camminato presto, da adulti avranno assunto posizioni da leader ecc.; tutto questo senza necessariamente sviluppare uno stile di attaccamento patologico o disturbi narcisistici (aspetti dipendenti da carenze sul versante del contatto con gli altri).

16 Pensiamo a come il massimo modello del pacifismo, il Gesù di Nazareth del “porgi l’altra guancia”, abbia anche affermato “Non sono venuto a portare la pace, ma la spada”, e sostenuto la differenziazione e il conflitto come condizioni per una nuova integrazione: “Perchè sono venuto a dividere il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera; e i nemici dell’uomo saranno i suoi famigliari” Matteo 10, 34-38.

17

18 Soprattutto da Ferenczi, Balint, Fairbairn, Winnicott, Sullivan, fino ai contributi attuali come quelli seminali di Mitchell, Bromberg e molti altri citati oltre.

19 (Albasi, 2003b, 2004b, c, d, e; 2005a, b, 2006, 2007, 2008a, b; Albasi, Brockmeier, 1997; Albasi, Capello, 1995; Albasi, Boschiroli, 2003; Albasi et al., 2007).

20Ferenczi (1932a, 1932b), Albasi, Sechi (2003), Aron, Harris (1993), Borgogno (1999, 2004a), Mitchell (1993), Sullivan (1940, 1950, 1953, 1956), Janet (1889), Fairbairn (1929, 1952), Winnicott (1958, 1965, 1971), Bromberg (1998; 2006); Chefetz, Bromberg, (2004), D.B. Stern (1997, 2005), Pizer (1998), Mitchell (1992, 1993), Davies (1996a, 1996b, 1997, 1998), Davies, Frawley, (1991), Harris (1996), Fast (1998), Flax (1996), Frankel (2001), P. Goldberg (1995), A. Goldberg (1999), Pavia, Vigna Taglianti (2008) (cfr., sul tema, anche i seguenti importanti contributi: Amadei, 2005; Anderson, Gold, 2003; Aron, 1996, 1998, 2000; Bonomi, Borgogno, 2001; Borgogno, 1999, 2004a, 2007; Brière, Conte, 1993; Brenner, 2001; Bucci, 1997, 2003; Cardeña, Nijenhuis, 2000; Caretti, Craparo, 2008; Caretti, La Barbera, 2005a, b; Diamond, 2004; Eigen, 1996, 1999, 2001; Ehrenberg, 1992; Herman, 1992; Holmes, et al., 2005; Horowitz, 2003; Howell, 2005; Liotti, 1995, 1999a, 1999b, 2005; Lingiardi, 2004, 2008; Lyons-Ruth, 1999, 2003; McFie, Cicchetti, Toth, 2001; Main, Hesse, 1992; Meares, 2000; Nijenhuis, 2004; Ogden, 1989, 1994; Orange, 1995; Orange, Atwood, Stolorow, 1997; Putnam, 1997, 2005; Sandler, Fonagy, 1997; Steinberg, Schnall, 2000; Shore, 2001; Thomas, 2005; van Der Kolk et al., 1996; Williams, 2009; per una discussione più estesa si rimanda ad Albasi, 2004e; 2006).

21 Dal punto di vista clinico e della ricerca empirica, ci sono molte osservazioni e dati convergenti sul legame tra disturbi borderline e le differenti forme di abuso (abuso sessuale, fisico, maltrattamento, trascuratezza). Per esempio, Bateman e Fonagy (2004), da un’analisi della letteratura sul disturbo borderline, affermano che probabilmente più del 90 per cento di chi soffre di questo disturbo di personalità abbia subito abusi sessuali.

22 Come Winnicott (1956, 1965), Sander (2007), Mitchell (1988, 1992), Ghent (1992), Hoffman (1998), Pizer (1998) hanno messo in luce (per rimanere soltanto nell’ambito della nostra disciplina), il paradosso è al centro di ciò che più conta per la vita mentale (identità, creatività, umorismo, sentimenti, relazioni, il nascere e la vita stessi, ecc.); l’identità, per esempio, si fonda su di un paradosso: gli esseri viventi, per avere un’identità, devono negoziare continuamente il cambiamento, per essere sempre se stessi devono essere sempre un po’ diversi. Bateson (1972, 1979) era convinto, come Hegel, che il paradosso non potesse essere escluso dal pensiero e dalla comunicazione umana, e che gli esseri umani, anziché cercare di scioglierli in nome di una pretesa logica lineare, dovessero piuttosto imparare a convivere con i paradossi, ad “abitarli”, a muoversi con disinvoltura nello stesso universo in cui essi hanno stabile dimora. I paradossi, infatti, per loro natura, non sono risolvibili (diversamente dai conflitti), si sostanziano di tensioni dialettiche (che costituiscono la loro struttura) e giungono a essere potenzialmente traumatici se non possono essere negoziati (cfr. Pizer, 1998). L’attaccamento traumatico si fonda sulla paradossale essenza di tutte le relazioni di attaccamento (in ogni età o ruolo), che è ciò su cui insiste la loro delicatezza e complessità di contatto e differenziazione, riconoscimento reciproco e affermazione di sé, identità e cambiamento, dipendenza e autonomia, ecc. Siccome le relazioni di attaccamento hanno valore per la stessa vita mentale, esse la mettono in gioco in maniera totale. Questo le rende complesse, sfaccettate, stratificate, multiformi; i gesti e le comunicazioni, al loro interno, veicolano un carico denso di molteplici significati, che necessitano di continui riconoscimenti e negoziazioni.

23 Questa dimensione del trauma ha una sua dignità clinica psicopatologica autonoma, in quanto è comune nei pazienti che cercano il coraggio di raccontare in terapia esperienze che essi vivono come incomunicabili, inesprimibili, estranianti; essa dipende dai MOID che ne cancellano la dimensione di soggettività, che avrebbe dato senso e validità interna di realtà all’esperienza raccontata.

24 Potremmo evocarli con le espressioni: “ricerca interrotta di significato di ciò che non può avere significato”, “vitalità mortificata”, “affetti smarriti”, “cancellazione e oltraggio e vilipendio della propria ragione d’essere, della propria significatività e del proprio valore come persone”; il tutto avvolto in confusione, rabbia, disgusto incipienti, non elaborati, non integrati e inutilizzabili come fonti e sorgenti di soggettività.

25 Il termine è mutuato dalla prospettiva psicoanalitica intrapsichica, ma ricordiamo che, nella prospettiva relazionale, i processi difensivi non sono da intendere come meccanismi che la mente attiva dal nulla, bensì come modalità apprese in un contesto interattivo per elaborare (o distorcere una elaborazione più articolata) le esperienze che attivano affetti e pensieri potenzialmente scompensanti il contatto sia con l’interiorità sia con le figure di attaccamento.

26 Come dice Bromberg “la presenza del trauma e della dissociazione si riscontra nel funzionamento della personalità non solo delle persone la cui storia è contrassegnata da enormi violenze fisiche o da abusi sessuali, ma anche in quello di chi è cresciuto senza tali storie” (2003, p. 690).

27 Tronick (1989) dice che esiste una rappresentazione già a tre mesi perché il bambino nell’esperimento del volto immobile (Tronick et al. 1978) evidenzia delle aspettative (così come nell’esperimento del falso precipizio di Emde et. al, 1978), ma va intesa in senso procedurale, implicita, presimbolica, senza consapevolezza.

Anche le ricerche sul priming: la memoria senza consapevolezza, distinta da quella dichiarativa, è anche localizzata, come dicono gli studi neuroscientifici, altrove.

28 Durante una psicoterapia il concetto può rivelarsi utile per comprendere il cambiamento del paziente proprio al presentarsi di contenuti esperienziali nuovi, come la comparsa di figure persecutorie o stati depressivi che segnalano il contatto con i MOID.

29 A questo proposito, Sullivan (1953) utilizzava i concetti di me-buono (affetti positivi), me cattivo (affetti negativi) e non-me (dissociato): il me-cattivo è riconosciuto ed entra in dinamiche mentali conflittuali, non dissociative.

30 Il trattamento non può considerare, inoltre, i sintomi come qualcosa che va semplicemente eliminato: essi sono rappresentanti di universi paralleli, di un altrove, nei quali troviamo ciò che il paziente crede più intimo e importante e lo fa sentire vivo. Questi “sintomi” sono l’espressione di MOID con tutta la loro complessità paradossale: nel sintomo, nello stato interno correlato, nell’universo parallelo annesso e nel sistema di interazioni che vi si struttura attorno, sono intrecciati, come in un bozzolo che risulta “intimamente estraneo” al soggetto, sia la sua patologia, che la sua vitalità interrotta, sia il suo tentativo di fare qualcosa con il senso confuso di mortificazione interna, sia la ricerca di evasione da questo pesante vissuto.

31 Come ha fatto notare Winnicott (1965, 1971), il vivere relazioni ricche di significati ha a che vedere con la creatività personale. La realizzazione dell’incontro intimo con l’altro (con la figura di attaccamento) fonda la creatività individuale (il senso di saper dare attivamente una forma personale alla propria vita di relazione) sul gesto spontaneo riconosciuto intersoggettivamente (Benjamin, 1995; Sander, 1995).

32 Tutti riconosciamo che, nella vita quotidiana, il prendersi cura dell’altro è sostenuto da gesti significativi, da azioni concrete con denso valore comunicativo; per molti anni si è voluto pensare che, nel prendersi cura psicoanalitico, questo non valesse. Questa distorsione che spogliava le parole della loro dimensione relazionale pragmatica, del loro impatto nel funzionamento implicito, e la parallela svalutazione ideologica dei gesti e delle inter-azioni, è ancora più grave nel trattamento di pazienti traumatizzati, come aveva riconosciuto precocemente Ferenczi, perché è proprio a questo livello che essi hanno bisogno di aiuto, in quanto essi soffrono di una patologia delle conoscenze relazionali implicite per la costruzione di legami di attaccamento, che sintetizziamo nel concetto di MOID.

33 Anche il rilievo, molto attuale, assegnato alla costruzione di nuove narrazioni, come fulcri organizzatori della conoscenza soggettiva che riguarda l’ambito delle relazioni, va compreso in quest’ottica: nell’ottica, ossia, della co-costruzione intersoggettiva del senso di libertà di muoversi nella creazione di nuovi punti di vista, attraverso i quali il paziente possa sentire significativa la propria storia rinarrata dialogicamente.

34 Inoltre, ogni paradigma teorico ha, al suo interno, sviluppato intuizioni specifiche per i diversi disturbi

i Questo lavoro si basa sullo sviluppo di considerazioni in parte già trattate in: Albasi (2009) Psicopatologia e ragionamento clinico, Raffaello Cortina, Milano.

ii Come fa notare Fabio Vanni (2005), c'è un problema teorico in alcune correnti della psicoanalisi che considerano con grande attenzione la formazione delle strutture mentali dell'infanzia e gli esiti nell'età adulta (anche in termini di opzioni terapeutiche), ma non modellizzano l'impatto specifico delle dimensioni adolescenziali nello sviluppo e nella psicopatologia; per Anna Freud era la cenerentola della psicoanalisi.

iii Nella letteratura più recente, la pubblicazione che affronta più sistematicamente l’applicazione dell’orientamento relazionale nel lavoro con gli adolescenti con storie traumatiche è il libro di Etty Cohen (2003).





PM --> H P ITA --> ARGOMENTI ED AREE --> NOVITÁ --> ADOLESCENZA