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PSYCHOMEDIA
GRUPPALITÀ E CICLO VITALE
Adolescenza


Nuove famiglie, nuovi ruoli, nuove soggettività

Luigi Cancrini


Relazione presentata il 28 maggio 2007 a Roma al Convegno I.P.R.S.
L'adolescenza "liquida": Nuove identità e nuove forme di cura


Che ci siano novità nelle famiglie è un dato di fatto: è un mutamento irresistibile quello a cui stiamo assistendo.
Il numero di famiglie organizzate sul vecchio modello diminuisce e crescono le nuove famiglie. Per "nuove famiglie" io intendo le famiglie che non sono legate dal matrimonio, quelle in cui c'è un solo genitore - le famiglie monoparentali -, quelle ricostituite: sono situazioni oggettivamente nuove che propongono una serie di difficoltà anche nell'intenderne il senso.
In questi mesi, addirittura, sono state al centro di una grande battaglia politica: le nuove famiglie hanno diritto ad essere considerate famiglie anche loro oppure no? Questo è il tema su cui si discute in tutta Europa in vario modo.
Io vorrei iniziare con il proporre una riflessione che nasce da una ricerca sociologica fatta in Spagna alcuni anni fa: hanno comparato i dati relativi agli adolescenti ed ai giovani che venivano da famiglie "normali" e da famiglie atipiche, dalle "nuove" famiglie. La conclusione molto semplice è che il rischio di psicopatologia nei figli non è differente.
Questo è un dato secondo me di grande rilievo: cambiano le famiglie ma la psicopatologia ha come una sua densità, una sua inerzia, continua ad esistere mentre le famiglie cambiano. Ma tra "modo" di organizzazione della vita famigliare e "rischio" di psicopatologia non c'è una particolare differenza.
Neanche mi sembra che si possa dire che i modelli educativi hanno una grande importanza dalle ricerche che abbiamo. Famiglie lassiste o famiglie molto severe non sembra che producano grandi differenze nel comportamento reale dei figli. Ora, se noi pensiamo a questo, io credo che dobbiamo riflettere subito dopo sul punto successivo: i modi in cui le persone si mettono insieme, si organizzano, si sposano, non si sposano, fanno figli, non ne fanno, è importante, ma è importante fino ad un certo punto. Quello che sembra contare, per quello che possiamo capire, nella crescita di un bambino sano, è la qualità del rapporto che questi genitori hanno con lui. E' la qualità, non la formalità del rapporto. Allora questo è un punto su cui, come psicoterapeuti, ci troviamo tutti abbastanza d'accordo. Io dico sempre, quando si discute in luoghi "politici"o giornalistici, che quando una famiglia viene nel nostro centro, e la incontriamo - o direttamente capita a me d'incontrarla, o sono gli allievi che la raccontano -: che siano sposati o no i genitori non è rilevante, quello che è rilevante è la qualità del rapporto che questi genitori hanno o non hanno con i figli. Allora la qualità del rapporto ci propone una riflessione su ciò che è alla base della psicoterapia da Freud in poi: la centralità della relazione fra le figure genitoriali ed il bambino che cresce.
Questo è il primo punto su cui volevo riflettere proponendo l'idea che, se dobbiamo fare una prevenzione del disagio psichico, il punto di vista sociologico si rivela insufficiente a darci indicazioni importanti, mentre si rivela centrale il punto di vista psicologico e psicoterapeutico.
Un secondo punto su cui volevo riflettere è l'idea della crisi dell'adolescenza.
E' vero che Freud insiste sul fatto che l'adolescenza determina - per le modificazioni anche ormonali, fisiche, corporee - una serie di conseguenze. Questa bufera, però, oggi siamo portati a considerarla come più ampia di quella legata allo sviluppo della sessualità, perché guardiamo tante altre cose, cioè il tipo di rapporto che ormai l'adolescente stabilisce fuori della famiglia come prova fondamentale per lui della sua forza, della sua capacità di stare nel mondo e così via.
Questa crisi - Freud lo dice bene, anche se questa parte del discorso è meno sottolineata - si sviluppa in un modo o nell'altro a seconda di quelli che erano gli equilibri precedenti. Cioè, non è la crisi che determina il fenomeno, ma la crisi lo rivela.
Diciamo che nell'adolescenza vengono al pettine nodi che si sono stretti in precedenza. I momenti cruciali della vita di un bambino o di un ragazzo non sono solo quelli dell'adolescenza, sono anche e soprattutto gli anni precedenti. Allora quello a cui ci troviamo di fronte nel momento dell'adolescenza è una grande crisi che è una messa alla prova di tutto ciò che è stato fatto dal bambino ed è anche, al tempo stesso, una difficile prova della maturità affettiva dei suoi genitori. Questo è un tema molto complesso: nella crisi dell'adolescenza ci si trova di fronte alla necessità di adattamenti, e gli adattamenti riescono se la persona è abbastanza forte per poterli affrontare. Ma la forza che determina gli esiti non è solo quella del ragazzo che cresce, bensì anche quella dei suoi genitori.
Quindi, l'adolescenza è sì una crisi del soggetto-adolescente, ma è anche il momento in cui la famiglia dimostra le risorse che può mettere in campo rispetto alla salute del figlio o della figlia. Allora la gravità di alcune reazioni non è legata direttamente all'adolescenza - perché quella ci doveva essere comunque -, la gravità è legata a ciò che era accaduto prima.
L'esperienza di lavoro che facciamo con il Centro Aiuto al Bambino maltrattato e alla Famiglia - in cui noi lavoriamo soprattutto sui bambini prima dei dieci anni, che ricevono maltrattamenti o abusi - ci segnala che la loro adolescenza sarà diversa da quella degli altri bambini che non hanno subito le stesse cose. L'adolescenza è per loro molto evidentemente il rendiconto di quello che è successo prima.
In un libro di recente pubblicazione ho cercato di riprendere un po' le fila di questo discorso seguendo un ragionamento psicoanalitico molto classico che è quello di Kernberg, il quale parla di tre grandi compiti evolutivi. Il primo (quattro-otto mesi) è, molto schematicamente, quello della delineazione del sé dall'altro; il secondo, con un epicentro di drammaticità intorno ad un anno e mezzo di vita (intorno ai quindici-diciotto mesi) riguarda la scissione buono-cattivo, e quindi il tempo dell'integrazione delle immagini buone o cattive; poi (dai tre anni e mezzo ai quattro-cinque anni) la fase dell'Edipo e dell'identificazione di genere. A queste tre fasi corrispondono compiti evolutivi che, se non sufficientemente ben compiuti, presenteranno il loro conto nel momento dell'adolescenza. Se quello che non si è compiuto bene è il compito che riguardava l'individuazione del sé, il conto sarà drammatico, sarà quello delle crisi psicotiche aperte oppure di quei grandi sistemi scissi di cui parlava Sullivan, per cui una crosta di normalità nasconderà un deficit drammatico della capacità di relazione con l'oggetto. Se il compito non sufficientemente eseguito è quello dell'integrazione, avremo quei grandi sbalzi di comportamento dell'adolescente che danno luogo a delle difficoltà di livello borderline. Se il compito che non è stato adempiuto è quello invece dell'individuazione al tempo dell'Edipo, allora avremo piuttosto una patologia di tipo nevrotico. Sono schematismi, chiaramente, che però che ci danno l'idea di dove andare a lavorare.
Se rifletto da questo punto di vista, quello che mi dico oggi è che, nella situazione concreta degli adolescenti di oggi, in seguito ad un grande cambiamento culturale che c'è stato rispetto alla prima metà del novecento - e quindi al tempo in cui ha lavorato Freud, quando è nata la psicoanalisi più tradizionale - ci sono stati delle modificazioni importanti nelle modalità educative. Secondo questa mia prospettiva, oggi il bambino rischia di più - statisticamente intendo - riguardo al problema dell'integrazione, e rischia invece un po' meno dal punto di vista della repressione sessuale e della identificazione di genere. Il risultato è che noi abbiamo molte più psicopatologie di livello borderline e molte meno psicopatologie di tipo schiettamente nevrotico nel senso più tradizionale del termine.
La terza riflessione che vorrei proporre riguarda appunto queste situazioni con psicopatologie di livello borderline. Vorrei proporvi prima di tutto una riflessione basata su una ricerca poco conosciuta e secondo me molto importante. E' uno studio fatto in Canada, a Toronto (Toronto Study ...), ed è una ricerca fatta su seicentocinquanta ragazzi studiati a tredici, quindici e diciotto anni. Questi erano ragazzi segnalati per difficoltà, in modo molto generico, e quindi dal più lieve al più grave. I ragazzi sono stati sottoposti, in queste tre fasce d'età, ad una valutazione che includeva delle scale che permettevano di considerarli portatori in quel momento di un disturbo di personalità.
Circa una percentuale tra il trenta ed il quaranta per cento di questi ragazzi soddisfaceva i criteri del disturbo di personalità a tredici, a quindici, a diciotto anni, però con due sostanziali e imprevedibili annotazioni dei ricercatori. La prima è che non sono gli stessi ragazzi a tredici, a quindici, a diciotto. Molti dei tredicenni a cui si potrebbe far diagnosi di disturbo di personalità sono normali a quindici oppure a diciotto. Ci sono new entry a quindici e a diciotto, il dato finale è che la presenza di un disturbo a tredici o a quindici, non è predittivo per un disturbo di personalità a diciotto. Comprendete come questo sconvolge molte delle cose che pensiamo di queste situazioni, perchè ci mette di fronte alla fondamentale reversibilità di disturbi che invece nell'accezione comune sono considerati stabili.
Cosa significa questo dal punto di vista psicopatologico? Significa che l'insieme delle reazioni con cui la persona si confronta nel mezzo sociale, manifestando anche il suo disturbo, è tale da determinare o la nascita del disturbo in chi non ce l'aveva o il ritorno indietro, la regressione del disturbo in chi non ce l'aveva. Allora questo ci mette di fronte a questa immagine di fluidità, di adolescente liquido ( la parola è usata in un altro senso, però io voglio segnalare l'estrema fluidità dei problemi presentati dalla persona nella fase dell'adolescenza).
Questa fluidità ci deve indurre a una grande prudenza. Io, per esempio, ritengo di dover invitare tutti coloro che lavorano con gli adolescenti a non porre diagnosi di disturbo di personalità fino a quando la persona non è cresciuta abbastanza. D'altro canto è ciò che ci dice il DSM IV, quindi una fonte abbastanza insospettabile!.
Badate bene, non è un semplice accorgimento, è un punto fondamentale, la fluidità e la reversibilità dei disturbi dell'adolescente è un punto di grandissima importanza per noi che siamo chiamati a guidare le risposte in modo che siano quelle giuste rispetto ai disturbi comportamentali.
Da un punto di vista più generale l'adolescente ci mette di fronte ad un punto che io considero molto rilevante e che ho posto al centro della riflessione di un mio lavoro sul tema: il fatto cioè che il funzionamento borderline non sia il risultato di una struttura di personalità ma che sia una modalità di funzionamento psichico a cui possiamo tutti regredire con maggiore o minore facilità. Insomma le modalità del funzionamento psichico del livello borderline sono quelle che con più chiarezza mettono in evidenza la plasticità del funzionamento della mente in rapporto a situazioni di difficoltà, che sono situazioni di difficoltà di vario tipo.
Per non stare sempre e ossessivamente stretti sull'angoscia dell'adolescente con gravi problemi, pensiamo per esempio a quello che accade alle persone che hanno un grande successo nella vita e che si trovano ad avere intorno una "corte" di persone che gli dicono sempre si. Nella storia dei grandi dittatori, da Francisco Franco a Mussolini, a Hitler, a Stalin, a Robespierre, questi sono sviluppi di personalità che vanno verso la gravità in rapporto al successo.
Ad esempio, quelli di noi che lavorano con i tossicodipendenti da cocaina, si trovano di fronte un grande numero di persone di successo che crollano con la cocaina quando hanno raggiunto già i trentacinque, i quaranta, avendo avuto fino ad allora una vita "normale".
Allora le trappole della vita non sono soltanto le avversità, una trappola della vita può essere anche la disarmonia del successo e questo credo sia un punto sul quale dobbiamo riflettere molto anche come psicoterapeuti.
Nel libro di Gabbard sugli "scivolamenti" degli psicanalisti, il problema degli psicanalisti con gravi problemi narcisistici e dello sviluppo narcisistico verso livelli di grande gravità dopo i quarantacinque, i cinquanta anni - nel momento del successo, dopo che sono stati allievi perfetti - mette un campanello d'allarme interessante rispetto anche ad ognuno di noi. Insomma aver successo non è una grande fortuna se esso è eccessivo. Io credo che questo sia un punto su cui dobbiamo riflettere bene tutti.
Un'ultima riflessione che voglio fare è a proposito delle depressioni nell'adolescenza. Io anche qui sono portato ad essere molto cauto. Alla parola depressione io do un senso descrittivo, non diagnostico. Io credo che il fatto che un adolescente abbia momenti di depressione - meno male! - è assolutamente normale. L'adolescente vive per esagerazioni, integrare l'immagine di se stesso chiede dei momenti di depressione e dei momenti di esaltazione. La parola depressione dovrebbe, secondo me, uscire dal vocabolario diagnostico in adolescenza. Io credo che dovremmo riflettere molto bene. E credo che anche associare la parola depressione ai tentativi di suicidio è una cosa su cui dobbiamo riflettere molto bene.
Concludo con una citazione letteraria, anzi due.
Per uno di quei casi della vita mi sono trovato a comprare due libri in viaggio nelle librerie dell'aeroporto. Uno era un libro che si chiama Neve, di uno scrittore turco che ha vinto il premio Nobel, in cui si racconta di un poeta che, tornando da un asilo politico, si reca in una piccola città nel nord della Turchia, nella zona curda, perché è incuriosito nominalmente da un'epidemia di suicidi che c'è tra le giovani donne in quella cittadina. In realtà poi - lui spiega mentre racconta - va lì alla ricerca di una donna di cui pensa di essere innamorato da quando era al liceo e di cui ha saputo che vive lì e che ha divorziato dal suo marito.
Ci interessa l'epidemia di suicidi. L'epidemia di suicidi è legata al fatto che il governo turco ha imposto alle donne turche di togliersi il velo per poter frequentare le istituzioni pubbliche, la scuola e l'università. L'uccisione di se stesse è protesta e testimonianza. Lui gira per queste famiglie e ci parla, la cosa da cui è più colpito è il fatto che i familiari delle ragazze con cui parla non sono in nessun modo in grado di ricostruire il senso di quello che la ragazza ha fatto. Allora lui nota queste due cose: il valore testimoniale del suicidio e l'incapacità di riconoscerlo da parte della famiglia. La ragazza vive drammaticamente una violenza, o quella che lei percepisce come una violenza, e nessuno nella famiglia le da uno spazio di ascolto; hanno sedici, diciassette, diciotto anni queste ragazze e muoiono così.
L'altro libro, diversissimo, è l'ultimo libro di Camilleri, è una ricerca su un episodio avvenuto nel '44-'45. Si parla di un attentato fatto vicino ad Agrigento, il tentativo di uccidere un vescovo, un vescovo diremmo oggi "di sinistra" che combatte contro il latifondo, che sta dalla parte dei contadini, insomma che sente il "sociale", il nuovo che emerge. Quando questo vescovo viene colpito - e starà tra la vita e la morte per un certo tempo - una cosa strana si produce in un convento della Sicilia, che è il convento del paese di Palma di Montechiaro, da dove vengono i Tommasi di Lampedusa, questo convento è stato fondato da un'antenata di colui che scriverà il Gattopardo.
Qual è il fatto curioso che colpisce Camilleri in una nota che lui legge? Il fatto che dieci suore, le più giovani del convento - anno 1944-45 - si sono lasciate morire per ottenere in cambio la vita del vescovo. Anche questi sono dieci suicidi, suicidi che avvennero probabilmente per inedia, cioè con un digiuno prolungato fino alla morte.
Allora, questi fatti sono due epidemie di suicidi religiosi, uno collegato all'anoressia e al sacrificio nella religione cattolica, l'altro con gesti violenti di rifiuto. Ecco, questi sono, secondo me, suicidi adolescenziali. Il suicidio adolescenziale, nella mia esperienza, è nella grandissima parte dei casi suicidio di testimonianza e di protesta. Non è depressivo. Certo non si compiono in una atmosfera allegra, però non è fatto depressivo. La depressione è un'altra cosa. Queste sono affermazioni impotenti, non riuscite, come dei gesti sbagliati, assurdi, ma compiuti in ordine ad un qualche cosa che, in quel momento dentro la persona, ha assunto una prevalenza assoluta. E questo ricorda le overdose, le morti per strada, i rischi che tanti giovani corrono. Non sono suicidi depressivi, sono un giocare con la vita prendendo troppo sul serio il significato che può avere per gli altri. C'è un'illusione megalomanica in quello che da la sua vita a Dio perché salvi il vescovo e in quello che si uccide per protesta per un velo. C'è l'idea che si possa cambiare il mondo con un gesto privato. Questo è tipico dell'adolescente.
Io ricordo sempre - perché è una cosa secondo me importante da dire - di due persone che hanno compiuto tentativi molto drammatici di suicidio nell'adolescenza. Una collega psicoterapeuta che l'aveva compiuto a diciotto anni e un collega medico che l'ha compiuto quando ne aveva venti. Tutti e due volando dalla finestra e salvandosi in modo del tutto casuale, lui addirittura, cadendo dal quinto piano, era "atterrato" sul tettuccio di una cinquecento, fratturandosi soltanto il mignolo della mano sinistra. Tutte e due queste persone hanno avuto dopo una vita splendida, come tutti, normale. Allora, su questa tematica del suicidio e della depressione io sollecito una riflessione per proporre l'idea che il gesto di un adolescente è naturalmente esagerato e quindi il suicidio o il tentato suicidio fanno parte del "vocabolario" dell'adolescente ma non è indicativo in modo così immediato di una gravità del disturbo. Insomma, abbiamo a che fare, quando degli adolescenti stanno male, con situazioni sulle quali noi dobbiamo sentire un grande dovere, una grande responsabilità di intervento. Le categorie psicopatologiche usate troppo presto possono mortificare l'intervento medesimo. Noi dobbiamo capire cosa c'è dietro un gesto che ha un'intenzione positiva, vitale, anche nel gesto di chi tenta il suicidio.
Credo che questo sia il messaggio che come psicoterapeuti dobbiamo dare: l'adolescente è una persona che sta affrontando un rendiconto della sua vita insieme ai suoi genitori. Questa difficoltà è per principio, in linea di massima, reversibile ed aiutabile, purché se ne intenda il senso. E' chiaro che da questo punto di vista le uniche risposte possibili siano quelle psicoterapeutiche.
Voi sapete che è stato recentemente segnalato, tra gli adolescenti trattati con antidepressivi, un aumento serio di suicidi. L'ha segnalato la Food & Drugs Administration americana, ponendo un problema secondo me di grande importanza, perché se noi diamo gli antidepressivi agli adolescenti che si vogliono suicidare li spingiamo in una direzione patologica. Li aiutiamo in quella direzione. Qui c'è un problema di grande responsabilità della famiglia, e degli psicoterapeuti che debbono farsi sentire rispetto a queste tematiche.
C'è una psichiatria un po' barbara, secondo me, un po' violenta e afasica, che rispetto ai problemi che le persone hanno, rispetto all'adolescenza, mostra tutti i suoi limiti. Abbiamo credo un compito importante e una grande responsabilità.

Bibliografia

J. Barudy e M. Dantagnan, Los Buenos, Los Buenos tratos a la infancia, Gedisa Editorial, Barcellona, 2005

Toronto Adolescent Longitudinal Study, in: Korenblum M. et al (1990), "Personality status: changes through Adolescence". Psychiatric clinic of North America, vol. 13(3) 389-399.

Gabbard G.O, Lester E., Violazioni del Setting, Cortina Raffaello Editore, 1999.

A.Camilleri, Le pecore e il pastore, Sellerio Editore, Palermo, 2007
O. Pamuk, Neve, Einaudi, 2007


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