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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: CICLO VITALE
Area: Exitus e Lutto

Gli anziani e la morte: vissuti e fantasie (1)

di Guido Gori


Lavoro presentato al Centro Psicoanalitico di Firenze
11 Febbraio 2010


Questo argomento, non troppo allegro, contiene alcune riflessioni che nascono dalla mia identità professionale di gerontologo-psicoanalista. Sono riflessioni che non derivano da materiale emerso da classici trattamenti psicoanalitici, ma da relazioni con anziani degenti in ospedale o che ho incontrato in attività ambulatoriale ospedaliera o che ho seguito in ambito psicoterapico. In quest’ultimo caso si è trattato di soggetti ultraottantaciquenni che chiedono un incontro perchè desiderano parlare di qualcosa del presente o del passato che li turba, ma nei quali poi si intuisce la rilevanza del tema della fine della vita.

Tratterò in questo mio articolo: 1) Linguaggio di anziani sulla morte. 2) Cenni a ricerche gerontologiche sul tema. 3) Esperienze personali con anziani malati gravi, vicini alla morte. 4) Esperienze personali con anziani sani, in incontri psicoterapici.

1) Linguaggio

Una frase che ho udito molte volte nelle mie quotidiane conversazioni in ospedale con pazienti e familiari: “ morire improvvisamente è più facile per chi muore, ma è più duro per chi resta. Quando la morte è un processo lungo è vero l’opposto”. Ma pensare che per chi muore sia preferibile una morte improvvisa equivale a non dare valore alle opportunità offerte da una malattia di lunga durata, come è emerso da molti soggetti che, malati gravemente da tempo, lasciano trasparire dalle loro frasi alcuni desideri e bisogni. Ad esempio: lasciare in ordine le proprie cose, condividere e rivivere ricordi, perdonare ed essere perdonati, “guardarsi indietro” come fase importante del presente nella fase conclusiva della vita.

Ancora a proposito del linguaggio quando un soggetto anziano si viene a trovare al confine tra la vita e la morte spesso sentiamo dire “ ha vissuto a lungo” oppure “ ha raggiunto l’età per morire”. Espressioni simili, anche nel linguaggio della vita quotidiana, sembrano testimoniare che, almeno per gli altri, la morte di una persona anziana, sia un evento accettato in modo naturale. D’altra parte nella nostra vita l’immagine della morte si forma precocemente nell’infanzia ed è prevalentemente quella di un vecchio, per lo più di un nonno, la prima che ci capita di sperimentare come una nuova, inevitabile dimensione della esistenza.

Ma le stesse espressioni valgono anche per l’anziano?

Frequentemente assistiamo a espressioni o a comportamenti che illustrano lo spostamento in termini razionali di un tema difficilmente vissuto in termini emotivi.

Infatti nei riti funerari spesso i più numerosi partecipanti sono anziani, la lettura dei necrologi sul giornale è un atteggiamento prevalentemente senile, come se una angoscia sottostante età correlata trovasse riparo nella constatazione che la morte è quella degli altri. Molti soggetti di età avanzata, specie di sesso femminile, di fronte alla avvenuta morte di un coetaneo usano espressioni del tipo “ …era ben composto…aveva un volto disteso…” come se la durezza dell’evento potesse essere meglio elaborata se diluita con elementi di vitalità o vagamente estetici.

Tutto questo riguarda la morte oggettiva, cioè espressioni di anziani di fronte alla morte altrui, ma qual è il linguaggio nel riferirsi alla propria morte? La morte soggettiva è assai difficile da immaginare, l’antitesi con la vita la carica di valenze tali da offuscarne la riflessione e l’analisi. Alcuni soggetti di età avanzata parlano della morte come momento di liberazione dagli stenti e dalle limitazioni, quindi ne parlano volentieri, in maniera esplicita: “…non la temo….anzi la desidero….” come se riattualizzassero il vecchio detto di Giovenale morte magis temuenda senectus est. E’ un dato che corrisponde ad una acquisita serenità interiore o è una formazione reattiva? Coloro che hanno parlato disinvoltamente di morte molto spesso di fronte al morire assumono atteggiamenti diversi da quelli espressi a parole, lasciando così intuire che sentimenti inaccettabili sono stati sostituiti con pensieri diametralmente opposti che hanno consentito di avvicinarsi al tema senza particolare angoscia.

Negli anziani l’atteggiamento verbale più comune in riferimento alla propria morte non è in termini espliciti, ma allusivi: “ …quando me ne sarò andato…riposerò..avrò preso il volo…quando la sorella morte toccherà la mia spalla…e con voce amica mi dirà…alzati è l’ora…”. Quindi molto spesso nel parlare della propria morte questa viene inserita in una dimensione di apparente benessere e comunque di distanza dal termine di finitezza, con ovvi scopi difensivi.

2) Cenni a ricerche gerontologiche

Kubler-Ross sostiene che negli anziani c’è una migliore elaborazione degli stadi psicologici del morire: superamento della negazione, della rivolta, del patteggiamento, della depressione e più facile raggiungimento della accettazione. C’è una pianificazione dell’evento, anche se pensieri ed espressioni nei riguardi della morte tendono a crescere (On death and dying, 1969). Rientrano in questo contesto la frequenza con cui molti anziani si dedicano ai loro preparativi funerari, come ad esempio l’acquisto della cassa mortuaria, il settore del cimitero in cui avverrà la sepoltura, la stesura testamentaria, la richiesta messa per scritto di essere sepolto accanto al congiunto defunto. In tutto ciò possiamo facilmente cogliere svariati movimenti intrapsichici, come il desiderio di garanzia di un potere postumo, il desiderio di sopravvivenza e di influenza su coloro che rimangono, il prolungamento fantasmatico dell’unione dopo la morte, come se questa non avesse interrotto ciò che c’era in vita. Da Liebermann e Coplan (Developmental Psychology, 1968) è stato individuato il limite di questa relativa serenità della morte in vecchiaia: vale soltanto per i casi protetti da una particolare stabilità psicologica e sociale. In primo piano è la relazione con figli e nipoti.

In “Osservazioni sui centenari” (capitolo di: Dolore e angoscia di morte. A cura di G.Fossi e P.Benvenuti, 1988) vengono riportati alcune interviste a soggetti di tale età, viventi in casa con i familiari, sul tema della morte: “Morire, che brutta parolaccia! L’altro giorno è morto A., ma lui aveva 88 anni, lui era vecchio!”

Una donna di 107 anni quando ha saputo di una ultracentenaria di 110 anni che vive in Russia , alla figlia che le leggeva la notizia riportata sul giornale ha risposto: “ Ma allora vuol dire che anch’io potrei vivere ancora altri tre anni!”

Si trattava di soggetti con forte coesione del gruppo familiare e sociale che evidentemente rende meno drammatica l’idea della morte quale realtà dell’ultima parte della vita, e svolge anche un grande ruolo nel generare vitalità ed attaccamento alla vita.

3) Esperienze con anziani malati gravi.

Nella vita ospedaliera, di fronte a soggetti che sono in critiche condizioni di salute e che avvertono l’approssimarsi della fine uno stato d’animo che frequentemente si percepisce è la paura di morire in solitudine o in abbandono. Questo tema è stato descrittto da de M’Uzan che ha concettualizzato la necessaria presenza di un oggetto prescelto, di una relazione privilegiata (M.de M’Uzan, Le travail du repas, 1977).

Nella nostra esperienza non si tratta di un qualsiasi bisogno relazionale, ma di una crescente necessità di comunicazione non verbale e fondamentalmente fisica. L'importante è che questo oggetto prescelto sia capace di esporsi senza eccessiva angoscia al momento captativo del morente, realizzando una buona fusione tra ciò che egli è e la sua rappresentazione nell'animo del paziente. Aspetti importanti della prossemica qui sono: una giusta distanza, uno sguardo diretto, un tono della voce rivolto all’ancora vivente, come per fare appello alle risorse più profonde della sua vita. Il vecchio prossimo alla morte forma con il suo oggetto ciò che de M'Uzan chiama la sua ultima diade, con evidente allusione alla madre di cui l'oggetto è la tardiva reincarnazione.

4) Esperienze con anziani sani, in incontri psicoterapici.

Il recente interesse che la psico-analisi ha rivolto al problema dell'invecchiamento, dopo anni di scarsa valorizzazione delle dinamiche intrapsichiche della tarda età, ha prodotto numerosi esempi di trattamenti in cui è stato messo in evidenza che il materiale fornito da un vecchio paziente è, non raramente, in relazione con la morte che si avvicina. Erikson descrive la questione dell' “integrità in contrapposizione a disperazione e avversione” come compito fondamentale dell'ultimo stadio della vita, quando il soggetto avverte che la vita è ormai al termine e dove l'integrità si riferisce all'accettazione del proprio ciclo vitale, e che quanto egli ha fatto nella sua esistenza adesso non è più modificabile (E.H. Erikson, Identità and Life Cycle, 1959). Kernberg riporta che quando la propria vita non è accettata come definitiva, l'imminenza della morte può generare angosce che derivano dal fatto che non c'è più il tempo per iniziare un altra vita e tentare strade alternative per raggiungere l'integrità (O.Kernberg, Mondo interno e realtà esterna, 1986).

Questi stati d'animo sono tratteggiati nel racconto di Tolstoj “La morte di Ivan Ilic” quando il protagonista viene improvvisamente a trovarsi di fronte alla malattia e alla morte, e gli passò per la mente un dubbio angoscioso sul senso della propria vita trascorsa, che quanto fino ad ora gli era sembrato inammissibile, cioè di aver vissuto come non si doveva, invece era l'assoluta verità.

La riflessione psicoanalitica ci mette spesso in contatto con gli aspetti inconsci della angoscia di morte in tarda età. Sono frequenti gli scompensi emotivi e gli stati depressivi al raggiungimento della stessa età in cui morì il vecchio genitore. In vecchiaia più che in altre epoche della vita l’immagine che più frequentemente è evocata dall’idea di morte è quella della notte, del sonno, della posizione distesa. L’idea del corpo immobile, con perdita di contatto con la realtà, come avviene nel sonno, evoca spesso fantasmi intollerabili. E’ per questo motivo che certi anziani, non affetti da patologie cardiorespiratorie, dormono soltanto da seduti, dopo aver passato gran parte della notte continuamente affaccendati. Mi sembra evidente la paura della posizione distesa, per intuibili richiami, e la consistenza della idea che attività e morte non possono coesistere. Quindi valorizzando ancora il ruolo della paura inconscia della morte in vecchiaia contrariamente allo stereotipo che vuole il vecchio pronto a lasciare il mondo la realtà è assai diversa. Molti vecchi esprimono col corpo e con il comportamento il rifiuto a morire: ad esempio non è infrequente incontrare scompensi emotivi in anziani di fronte a malattie somatiche lievi, ma indicative di una modificazione legata all’invecchiamento e che può indicare che ora il corpo sta cambiando e perde vigore. Certi anziani negano la morte con artificioso giovanilismo o con frenesia ipomaniacale in attività limitate dagli anni. Se bisognosi di sostegno o di dipendenza la vivono con vergogna o senso di fallimento e spesso sviluppano atteggiamenti svalutativi e sprezzanti verso coloro da cui dipendono. Gli stessi soggetti possono sviluppare una depressione per perdita di funzioni narcisisticamente investite: esiste anche la possibilità di suicidio come recupero del potere perduto, tramite cioè una imposizione del tempo e delle circostanze della morte. Molti invece moltiplicano fantasie di rassicurazione e utilizzano certi eventi che accadono tipicamente in tarda età come luoghi in cui depositare meccanismi inconsci di continuità: ad esempio in non pochi casi i nonni “rivivono”attraverso la relazione col nipote, sperimentando in fantasia la propria immortalità derivante dal perpetuarsi della genealogia.

Da incontri psicoterapici in cui si è affrontato questo tema è emerso che è importante non morire in solitudine ma nell’ambito di una trama di relazioni: in tale contesto alcuni autori hanno recentemente sottolineato l’importanza di dare qualcosa agli altri, avere una sollecitudine rivolta verso l’esterno ( vedi ad esempio il “mourir utile” di D.Quinodoz) . A me è risultato che hanno un significato determinante non tanto le relazioni esterne quanto quelle interne: cioè mettere”ordine” nel proprio mondo interno e riconciliarsi dentro di sé con le persone che contano o che hanno contato nella vita, anche se adesso non sono più presenti. Spesso un soggetto che si racconta molto affaccendato nel risistemare la casa, gli appunti, gli scritti, i libri, le fotografie fa capire di avere il bisogno di mettere in ordine certi suoi affari esterni, ma spesso lancia dei messaggi sul suo desiderio di creare un nuovo ordine interno. Cioè si tratta di soggetti che di fronte al tema della morte soggettiva avvertono un lavorìo dentro di sé, tendente alla riconciliazione, alla riparazione di quella persona nel proprio mondo interiore, in modo che diventi un oggetto interno totale e non parziale.

Quindi ripensando ad alcuni incontri con anziani che parlano di fine della vita, della loro prossima morte reale o immaginaria, ho avvertito il loro bisogno di compiere un processo caratterizzato da questi punti:

*Trovare delle giustificazioni, o meglio una loro più approfondita comprensione di certi atti commessi e quindi potersi immaginare perdonabili.

*Cercare di perdonare interiormente una persona che li aveva feriti.

*Cercare una dimensione intrapsichica di relativa serenità con il torto, l’offesa, l’ingiustizia agita o subita.Questo introduce al concetto di morire in pace con se stessi (Danielle Quinodoz), cioè sentirsi in pace con gli oggetti che abitano il proprio mondo interno.

* Questo lo si capisce anche dal fatto che certi anziani muoiono nel breve tempo in cui l’oggetto prescelto si è allontanato, come per allentare la presa e non essere trattenuti a vivere dalla persona cara, e per non essere presi dall’angoscia di far soffrire quelli che restano.

Quindi il significato del mondo interno ha un valore molto intenso, e superiore a quello della realtà esterna, anche in un momento così particolare come nella fase terminale della vita e di fronte alla morte.



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