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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: MODELLI E RICERCA IN PSICHIATRIA

Area: Psichiatria e psicologia dell'emergenza

Piccolo gruppo di cura presso una tendopoli aquilana

Marta Boaretto



Immota manet” è scritto sullo stemma della città di L'Aquila: è un motto che si ripete fra i protagonisti della vicenda del sisma abruzzese, dando il nome a documentari, comitati per la ricostruzione, gruppi su Facebook, fornendo in ultima il nome ai desideri e alle paure più profonde. L'Aquila “rimane immobile”: sembra l'espressione di una saggezza popolare che garantisce che nella storia la città è sempre rimasta salda, imperturbabile, vincitrice di fronte alle avversità. A tale lettura rassicurante si contrappone, e probabilmente coesiste, il pensiero minaccioso, la paura, che la città di fronte alla tragedia si fermi, rimanga paralizzata, forse in attesa. Credo che le due immagini della città, quella onnipotente e quella impotente, quella della solidità e quella della paralisi, si alternassero nella mente degli aquilani, rappresentando in metafora proprie paure e vissuti in reazione al trauma recente.

Il presente articolo fa riferimento all’esperienza effettuata, quale psicologa volontaria della Federazione nazionale Psicologi per i Popoli, presso alcune tendopoli aquilane nel periodo estivo post sisma; in particolare intende dare una lettura in chiave psicodinamica e gruppoanalitica di uno dei gruppi di cura1 realizzati, assieme ad alcune colleghe, a favore degli abitanti di un campo di competenza.

Per avvicinarsi ai temi e ai processi attivati nel gruppo, risulta fondamentale riferirsi al concetto di trauma, alle sue caratteristiche peculiari di imprevedibilità e violenza, quale ‘rottura della pelle psichica’, di ferita profonda che, attraverso la fisicità, stravolge l’apparato psichico e la sua precedente organizzazione. Esso rappresenta “l’incontro con il reale della morte” (De Clercq & Lebigot, 2001), rispetto a cui la mente non possiede rappresentazioni, e l’individuo precipita nel dominio dell’irrappresentabile.

La difficoltà di simbolizzazione alimenta miti, false credenze, modelli esplicativi per trovare un senso all’evento tragico ed inspiegabile. L’impegno delle figure istituzionali di fornire spiegazioni scientifiche al sisma e al suo evolversi non possono placare l’ansia, né restituire l’illusione di un possibile controllo razionale sull’imprevedibile. Alternanza di pensieri di impotenza e onnipotenza, depressivi e maniacali intessono l’evolversi delle interazioni all’interno dei campi. Non solo le persone condividono le medesime strutture, i medesimi spazi, esse soprattutto subiscono il contagio di emozioni, suggestioni, dicerie, così che, per accordo tacitamente condiviso, vengono individuati capri espiatori, colpevoli, e cattivi. Risentimento, rabbia, invidia difendono dal terrore di perdere l’oggetto d’amore e dal timore di non esserne degni e di meritare quindi la sua punizione.

La scelta del dispositivo utilizzato fa riferimento al modello di gruppo di cura a breve termine per pazienti vittime di trauma già esperito con un gruppo per pazienti cardiopatici e loro familiari all'interno di una clinica (Corbella, 2003, 2008), nonché con l’esperienza della Unit for the study of trauma and its aftermath presso l'Adult Department della Tavistock Clinic (Young, 1998). Il presupposto teorico assume il gruppo quale spazio e tempo privilegiato per l’evocazione del preconscio attraverso l’intersoggetività, nel consentire l’elaborazione dell’esperienza e la sua traformazione.

Un piccolo gruppo in tendopoli

Seguendo Savino2, una delle persone che avevano aderito all'idea di realizzare alcuni incontri di gruppo, dovemmo infilarci fra le tende fino a raggiungere uno spiazzo nascosto ed ombreggiato dalla vegetazione, invisibile dai principali tragitti del campo. Questo divenne il luogo del piccolo gruppo.

I incontro: La rabbia generata dall’impotenza e la creazione del capro espiatorio

La seduta si apre con l’evidenziazione da parte di Rosalia che “Qua non ci trova nessuno!”, un bel modo per delimitare il setting dell’incontro, e allo stesso tempo per delineare un immaginario rifugio in cui soltanto ‘gli intimi’ sono ammessi.

Il primo tema ad affiorare riguarda le rimostranze rispetto alla deprivazione da poco avvenuta del presidio medico sanitario interno al campo e perciò al grave rischio cui viene esposta l’integrità della popolazione: “In un campo la prima cosa dovrebbe essere il presidio, prima del mangiare…” afferma Lucia. Non sono sufficienti i servizi ordinari perché si rivendica l’eccezionalità della situazione ed il diritto agli aiuti aggiuntivi, come se la condizione di ‘terremotato’ fosse divenuto uno status acquisito, una ‘bisognosità’ vittimistica.

Lucia: Ci pigliano per i fondelli, intanto una, qua, l’altro giorno si è ricoverata all’ospedale.”

La ferita a livello psichico pare non possa essere ripristinata: viene rivendicato il bisogno di risarcimento in termini di supplemento di servizio quale garanzia di sopravvivenza. Affiora una forma di deresponsabilizzazione personale e di gruppo esplicitamente manifestata nell’aspettativa che qualcuno risolva i propri problemi (Assunto di dipendenza in alternanza con attacco e fuga, Bion, 1971).

Prevale il risentimento ed un atteggiamento ambivalente nei confronti degli aiuti, che cela aspetti di dipendenza intrecciati a desideri di autonomia. A volte il risentimento può nascondere la rabbia poiché esso tradisce l’impressione d’essere stati vittime di una ingiustizia. In questo senso il risentimento nasconde la percezione della personale responsabilità o eventualmente del senso di colpa. Il risentimento può portare ad uno stato di prostrazione che si manifesta in un bisogno prolungato di dichiarare le ingiustizie subite, corrispondentemente al bisogno di allontanare da sé sentimenti cattivi, proiettandoli nel mondo esterno o in altre persone. Di conseguenza la vita è percepita come mondo pieno di pericoli, ingiustizie, incomprensioni e le persone in sostanza risultano essere meschine, ingannevoli, interessate, imbroglione. La foga rivendicativa fa riecheggiare antiche ingiustizie e precedenti tradimenti. A livello sia personale sia collettivo la rabbia ha sempre una funzione coesiva; il risentimento è funzionale in quanto, nella pretesa di aiuto, gli individui possono mantenere e conservare precedenti strutture psichiche interne. Non è il desiderio di cambiamento a prevalere, quanto piuttosto il bisogno di possedere l’oggetto materno idealizzato, oggetto buono, totalmente appagante, e di eliminare quello cattivo.

L’invidia verso chi è ritenuto privilegiato può derivare da difese dall’angoscia interna, cioè il terrore di perdere l’oggetto di amore, il senso di colpa per non esserne degni. La fame insaziabile delle persone non può mai essere soddisfatta; la profonda sensazione di aver sempre subito torti non può trovare un adeguato risarcimento poiché questi devono essere riparati ad un livello intrapsichico profondo. Anche nei confronti del sistema degli aiuti emergono quindi atteggiamenti ambivalenti: una parte più matura li accetta, una più arcaica, derivante da una ferita narcisistica profonda, li svaluta, con pesanti implicazioni sull’efficacia dell’intervento di soccorso. Da un lato vi è un forte desiderio di ritorno alle proprie case, dall’altro l’idea dell’autonomia, della separazione dalla ‘società ritrovata’, disorienta. Ritornare nelle proprie case significa che il pericolo è scemato e non si avrà più bisogno dell’aiuto altrui, dall’altra ritornare nelle proprie case significa abbandono, rappresenta perdita non tanto di aiuti materiali quanto di un tessuto relazionale rassicurante e protettivo. Il risentimento protegge dall’immensa sofferenza che deriverebbe dall’essere consapevoli della dipendenza da altri, anche se ritenuti non giusti, non buoni e instabili nella relazione.

Il colpevole di non rispondere a bisogni ritenuti fondamentali quali quelli della salute e del rischio di vita viene individuato nell’Autorità locale. Le ritenute inadempienze delle autorità preposte sembrano fungere da giustificazione non solo della propria rabbia ma anche della propria impossibilità di trovare soluzioni ai problemi. Vengono così a delinearsi situazioni di ambiguità ed ambivalenza, giocate tra desiderio ed impossibilità, ovvietà e drammaticità, passività e creatività, ma anche tra tensione verso la ricerca di una soluzione ai problemi, in contraddizione con il bisogno di far perdurare un equilibrio appena assestato nella conservazione di un presente certamente precario ma comunque rassicurante.

Il presente non è controllabile, il futuro non è prevedibile. Il senso di colpa per non aver dato valore ai primi avvertimenti della sequenza sismica (“Da ottobre sentivamo le scosse! Siamo stati incoscienti: quelli erano avvertimenti!”, “Il terremoto ci ha raccomandati: ci ha avvertito tre volte!”) viene proiettato all’esterno, sulle Autorità.

Emerge la drammatica convinzione di un tradimento da parte di chi invece doveva fornire protezione e salvezza. Se la casa, quale contenitore materno, non è affidabile perché inghiotte nell’oscurità, l’Autorità, istanza paterna, tradisce con l’inganno (“C'erano settemila sacchi neri alla Guardia di Finanza... e dicono che sono arrivati altri tremila sacchi”, “In Protezione Civile se ne stavano tutti pronti…qualcosa sapevano”, “ 'State tranquilli!' ci avevano detto...”). Sono rimasti i fratelli, la comunità.

Si apre una discussione sulle zone a rischio sismico in quel momento, nel tentativo di localizzare con precisione dove sia adesso ‘la frattura’. Savino parla di un contrasto più verso Sulmona che a L’Aquila: forse il pericolo si sta allontanando e lo sguardo dei presenti si sposta altrove. In fondo si tratta anche di scoprire delle somiglianze tra quello che è avvenuto sul proprio territorio e quello che adesso potrebbe succedere altrove, relativizzando quindi l’accaduto.

Il proprio trauma, inoltre, è situato in un tempo presente che può essere messo in continuità col tempo passato:

Maria: L’ultimo grosso terremoto era stato nel 1915. Era inverno...

Savino: Il terremoto c’è sempre stato.”

La ricostruzione temporale degli eventi sismici in questa interazione prefigura il recupero del senso e nuovamente la relativizzazione dell’accaduto nel creare una memoria condivisa, risorsa del gruppo, in cui le categorie di spazio e di tempo vanno a costituire trama ed ordito di un possibile tessuto personale e sociale di elaborazione.

La possibilità di normalizzare e prendere le distanze, l’attribuire un ordine agli eventi distruttivi e quindi costruirne la pensabilità attraverso i riferimenti geografici e storici, hanno un effetto rasserenante sulle emozioni del gruppo, che nell’interscambio rilegge positivamente alcuni episodi.

Lucia: E i dolci per la Pasqua! Mai viste tante uova di Pasqua!

Maria: Abbiamo fatto solo qualche notte in macchina, poi è arrivato di tutto…”

La sovrabbondanza degli aiuti pare aver saziato la disperazione della fame ‘primordiale’ che il trauma ha evocato. In senso metaforico, quindi, ciò rappresenta un tentativo di dare organizzazione mentale, attraverso i riferimenti spazio-temporali, all’evento distruttivo, nel proporsi come cibo buono, sostanzioso, appagante che rigenera nuove energie. Gli assunti di dipendenza e di attacco e fuga connessi alla rabbia, alla rivendicazione, alla colpevolizzazione, evolvono verso una riscoperta di primi spiragli di autonomia e reazioni di individuazione matura (“...ho una voglia di tornare ad andare a far la spesa! ...stupendo ricominciare a fare qualcosa, a pagare, a prendere il portafoglio per pagare le spese”).

Nella normale evoluzione ‘a spirale’ (Corbella, 2003) delle acquisizioni del gruppo, appena intravista la possibilità di una normalizzazione, ricompare il fantasma della paura (“A casa da me balla tutto…”) e con esso la difensiva necessità di controllo.

L’impossibilità di provare fiducia per figure di riferimento che confermino le attese determina il passaggio da un assunto di base di dipendenza ad uno di attacco fuga (Bion, 1971) in cui si profila l’immaginario di un ipotetico nemico su cui riversare tutte le parti dolorose di sé, portatrici di drammatici vissuti di colpa. Tale nemico, il capro espiatorio, ha dapprima le sembianze di figure istituzionali (Sindaco, Protezione Civile, Associazioni di volontariato), in seguito dei compaesani trasferiti ‘sulla costa’. Ancora una volta la difficoltà di risolvere l’ambivalenza tra spinte di autonomia (ritorno alla normalità) e bisogni di dipendenza (rivendicazione per i danni subiti) porta ad individuare un nuovo capro espiatorio, nella figura degli aquilani spostati sulla costa ed ospitati negli alberghi. “Questi hanno capito l’affare delle ferie e hanno fatto i furbi… Quando torneranno si prenderanno quel che trovano… e adesso vedremo! …il figliol prodigo! Ha fatto la bella vita e poi ritorna!...”

Il mondo interno di una persona che abbia vissuto un trauma non è appagato da spiegazioni che ricorrano alla casualità; esso conserva, al limite come elemento rimosso, il ricordo; prova inevitabilmente, fra gli altri, sentimenti di rabbia, distruttività (Garland, 1998), vergogna (Corbella, 2008), colpa (Lebigot, 2008). Tuttavia tende ad individuare un oggetto cattivo esterno da sé, come responsabile del dramma vissuto.

Nell’applicare il pensiero kleiniano alle problematiche connesse al trauma, Taylor (1998, p. 53) recupera l’immagine degli stati psichici definiti come persecuzioni interne, quali primitiva forma del senso di colpa. Essi “risultano particolarmente insopportabili per l’Io che viene in genere indotto a liberarsene più che a conoscerli” attraverso la proiezione sull’esterno del mondo interno e delle dinamiche tra i suoi oggetti interni. Attraverso l’identificazione proiettiva le parti inaccettabili del Sé, correlate a sentimenti dolorosi e di colpevolezza, vengono scisse e proiettate su un oggetto che ne percepisce l’assonanza. L’identificazione proiettiva infatti ha luogo in una relazione in cui sia il soggetto che l’oggetto restano coinvolti.

Ritorna la paura sotto forma di minaccia di disgregazione della comunità, valore della cultura locale. Serpeggia la previsione che “...non saremo messi tutti insieme, noi di ‘Verde’3. Ci dislocheremo chissà dove… ci sono i peruviani, i rumeni, gli stranieri…ci hanno promesso, poi ci hanno preso in giro, ci allontanano, non ci uniscono.”

E ricompare il consueto processo di gruppo per cui al riattivarsi della paura legata al rientro nelle case, le energie negative vengono convogliate sul capro espiatorio individuato in un’autorità locale, ancora una volta il Sindaco.

Il tema di chiusura dell’incontro rimanda al tema d’apertura: appartarsi, nascondersi, mimetizzarsi per non essere trovati (“Qua non ci trova nessuno!”) e conservare intatta, inviolata l’ultima risorsa, la comunità e in essa i legami che si stanno costruendo.

II incontro: il presente come caos

L’incontro prende l’avvio dal racconto di un sogno portato da una partecipante anziana del gruppo. Sogna di essere a letto, nella sua camera, a casa. C’è stato il terremoto e la casa è caduta ‘dietro’. Si è svegliata molto agitata urlando ed ha svegliato i vicini di tenda.

In un processo di interiorizzazione che allude ad una rielaborazione dell’evento, il terremoto è “buttato alle spalle” ma “la paura ce l’abbiamo dentro”, “abbiamo veramente la paura di rientrare”. Il sisma appartiene al passato, la paura paralizza il presente.

Se nel primo incontro ad ogni ambivalenza si ricorreva alla costituzione di un capro espiatorio, ora il gruppo di fronte alla paura adotta una diversa strategia: l’evocazione del pensiero magico.

Maria: Domani porto il libro dei sogni.

Lucia: Così giochiamo i numeri!

Maria: Eh sì, la smorfia napoletana.

Teresina: Così facciamo una bella vincita.

Lucia: Facciamo i napoletani… e lo siamo anche noi.”

Il secondo pensiero primitivo a cui il gruppo ricorre riguarda la categorizzazione dei ‘buoni’ e dei ‘cattivi’: “…a Napoli si ammazzano, ma non dicono chi è stato.”, “…ma no, non è come a Napoli , figuriamoci. Qui è normale.” Misconoscendo alcuni aspetti di sé l’io colloca proprie parti inaccettabili su un oggetto esterno che assume le sembianze di un persecutore. Le parti buone, scisse, vengono invece idealizzate (posizione schizoparanoide). I buoni e i cattivi vengono rappresentati nella metafora dei gatti randagi bianchi e neri che entrano nelle tende di notte. Il trauma ha demolito i confini, confuso i territori, deprivato le persone della proprietà e di notte, quando la coscienza si affievolisce, emergono sotto forma di fantasmi e di incubi.

Lucia: Può entrare di tutto!”

Non esistono difese adeguate, non ci sono più certezze. Più forte diventa allora il bisogno di comprendere il dentro e il fuori, gli amici e i nemici, i buoni e i cattivi. Se i buoni siamo noi (“non è come a Napoli”) i cattivi sono gli stranieri (“i peruviani, i rumeni…”). E’ il momento in cui si definiscono anche l’inclusione o l’esclusione al gruppo, in base a criteri di simpatia, ruolo e genere.

Dopo quattro mesi di sospensione del normale svolgimento dei compiti domestici (le donne) e lavorativi (gli uomini) anche la rievocazione delle differenze di ruolo o delle specificità in base al genere (a partire da una cultura tradizionale tipica del luogo) consente la ricostruzione dei riferimenti dell’identità e dell’alterità.

A diversi livelli di ricostruzione del sé, si fa chiarezza sui confini delle proprie appartenenze a partire dalla tendopoli, passando per il piccolo gruppo e la famiglia. Di fronte alla distruzione della catastrofe si attiva il tentativo di ridefinire criteri organizzatori di una ricostruzione in rapporto allo ‘spazio’ (la casa: precedente/nuova), alle regole della convivenza civile (“la legge che ci sta adesso…”) ed interpersonale (buoni/cattivi), alle differenze ed alle specificità di genere (il femminile/il maschile).

Solo le primarie sicurezze consentono l’affiorare delle emozioni connesse alla relazione, ai riferimenti affettivi rassicuranti in cui si evoca tenerezza ed intimità, in un contesto innaturale di promiscuità e di confusività.

Leonina: Son cinquant’anni che sto con questo… Io sto in una tenda, lui in un’altra con un’altra donna. (Ride, e le altre spiegano che al marito hanno assegnato una tenda con una suora).

Lucia: Hanno scelto gli altri ... manca l’intimità della famiglia. Io, per esempio, prima tornavamo a casa e ci raccontavamo la giornata. Adesso quasi quasi ci schiviamo quando ci incontriamo nel campo.

Leonina: E’ la prima volta che dormo lontana da mio marito. (Fa finta di piangere, ridendo). Sto così male senza di lui (Sarcastica)! Mi sono accorta che sto bene senza.

Maria: Il marito invece di mangiare con lei mangia con una suora. (Ride)”

Silvia: Le amicizie sono ormai sparpagliate…”

Sprazzi di ironia e sarcasmo difensivo consentono il riaffiorare di un sano principio di realtà che ricolloca la vita in primo piano. Tuttavia come prefigurare un ‘dopo’ se non c’è chiarezza sul presente (“E’ tutta divisa la vita, tra il prima e il dopo”), se il trauma corrode certezze, continuità nella percezione di eventi immani, che hanno distrutto luoghi, rappresentazioni, appartenenze, progetti?

Dopo la paura si intravede la possibilità di uscire dagli stereotipi e guardare alle cose in modo nuovo. Ma il pensiero primitivo appena superato, orientato al ripristino di un pensiero più maturo, riprende surrettiziamente terreno, tornando alla ricerca di colpevoli, dei buoni e dei cattivi.

Il trauma porta alla regressione, ad un pensiero arcaico, in cui la categorizzazione dicotomica (buoni/cattivi) semplifica l’approccio alla relazione e soprattutto facilita la ricerca di appartenenza affettiva e sociale. Allo stesso tempo, tradisce il disagio dell’ambivalenza sul dove collocarsi, sul dentro e sul fuori, di sé, dei gruppi, degli spazi e degli ambienti di vita.

Nell’oscillazione ambivalente dell’elaborazione, si fa strada un nuovo fantasma: i cattivi siamo noi. Il senso di colpa emerge dalle macerie dell’io devastato. Lebigot (2008, p. 113), riferendosi all’incontro dell’inconscio del soggetto con la morte, afferma che esso “è al contempo errore e punizione, errore per aver contemplato ciò che è proibito vedere, castigo per uno sbaglio ancora da identificare. A livello cosciente ciò si traduce con un senso di colpa, in parte misterioso, in parte ricollegabile ad un avvenimento della vita del soggetto o alle circostanze del trauma.”

Il senso di colpa viene esplicitato in relazione al fatto di non essersi salvati, di aver tradito gli insegnamenti tramandati dalle generazioni precedenti relativamente alle misure preventive da adottare in caso di sisma, dalla convinzione di non essere più persone capaci di gestire la propria vita e quella della comunità (“In cinque mesi, alle macerie eravamo, alle macerie siamo”).

Sotteso al rammarico per la propria inadeguatezza traspaiono conflitti inconsci che in qualche modo avevano dato forma allo scenario della tragedia, trascurando le precauzioni, le norme di sicurezza, i dati storici e scientifici. Dal profondo sembrano agire forze che sfidano la morte, vissuti di onnipotenza, maniacalità, depressione. L’evento risulta in parte cercato oltre che subito, poiché genera minor angoscia sentirsi colpevoli piuttosto che impotenti. La convivenza prolungata con il pericolo senza portarne le conseguenze diviene una consuetudine di sfida alla morte che alimenta un’illusione di immortalità, fino all’evento irreparabile. In questo senso Bell (1998, p. 44) afferma: “…ritengo che paradossalmente si tratti anche di incidenti; il paziente è ormai talmente convinto della propria onnipotenza che ha completamente perso il contatto con la realtà della morte”.

Dopo elaborazioni depressive di colpa e di impotenza, il gruppo cerca dapprima di razionalizzare, di trasferire, di ricorrere a luoghi comuni. Successivamente l’interazione verbale si destruttura.

Si forma molto brusio, si parla dei politici, dei terreni, della faglia, dei danni alle chiese. Michele comincia a parlare della festa della Perdonanza e di Colle Maggio. Lucia ci spiega dalle origini la storia di questa ricorrenza, a partire dalla Bolla di Celestino. E’ la festa che sanciva l’indulgenza (“E’ la festa del perdono ... E’ una bella festa!”).

Il perdono alla propria colpa che ha creato devastazione viene ‘salvato’ dalla memoria, dalla tradizione. Riferimenti biografici e narrativi ricostruiscono la storia della comunità e con essa la possibilità di ricollocarsi in un territorio di senso ad alto valore identitario.

Tuttavia, niente potrà essere come ‘prima’. Esiste un presente mal definito, che infrange la continuità del tempo, la continuità della vita.

Maria: ... prima, quando c’era la festa a ‘Verde’, facevano gli spari alla montagna, ora li fanno in pianura. Col terremoto non si possono fare più.”

Cambiano i riferimenti spaziali. Si capovolge l’ordine dei punti cardinali, il nord è diventato sud, il sud nord. L’orientamento spaziale abbisogna di una bussola, l’organizzazione temporale interpella un nuovo calendario.

Botti, spari, sassi, crepe, il sogno terrificante, la gatta del sogno di Rosalia, le urla, il terrore: la confusione fa riaffiorare la paura. Ritorna il nemico, il mostro immane che ha distrutto tutto e tutti, e che è ancora presente, vive nella comunità.

Anche l’elicottero che sorvola in quel momento risveglia nella memoria la sequenza dell’orrore; è esso stesso veicolo per ritornare all’evento.

Leonina: Qua! Siamo qua! Vieni giù! Porta le caramelle!

Maria: Dopo il terremoto passavano gli elicotteri. Mia figlia salutava, ma pensavano chiedessimo aiuto, stavano facendo le manovre per scendere, poi mio figlio ha fatto cenno che non serviva.

Leonina: Eh sì! Stiamo aggiustate! Vi ricordate il primo giorno, stavamo sotto il baraccone. Un dolore…

Maria: Ancora non era coperto. C’era la pioggia, la grandine, l’elicottero, le scosse del terremoto come onde del mare…tutti a urlare!

Lucia: Io la grandinata l’ho rimossa. Ma quando è stata?

Maria: Forse il giorno dopo…

(Si confrontano sul giorno, ragionano su quale fosse la notte, cercano assieme di definire la data).

Maria: Se non era il sei notte, era il sette mattina. Ho pensato: “questa è la fine”. E’ da ottobre che andiamo scappando per il terremoto.”

Lucia: Dicono che le campane si spostano a certe intensità del terremoto. Qui si devono essere spostate.”

Paura ed impotenza creano rimozione, paralizzano la memoria, rendono complessa la ricostruzione narrativa degli eventi; i membri del gruppo si interscambiano le evocazioni ed insieme, in una interazione interdipendente, cercano di ricostruire il tempo, le sue successioni. Cercano, insomma, di creare una nuova memoria del gruppo, un nuovo contenitore dove la realtà possa declinarsi dentro ad uno spazio esistenziale e ad un tempo consequenziale.

Leonina: Eh, L’Aquila era bella veramente.

(Rosalia canta una canzone aquilana e poi ci racconta che L’Aquila è famosa per “le 99 cannelle, 99 chiese, 99 piazze, 99…tutto!”)

Maria: In ognuna delle cannelle c’è un viso scolpito. L’acqua fresca è buona anche da bere. Nessuno sa dove va…così lo raccontano. Là non è mai mancata l’acqua e non si sa neppure da dove viene. Pare che il costruttore sia sepolto lì, sotto la fontana.”

La bellezza della città del passato esplode nel ricordo, nella nostalgia. L’ ‘estetizzazione’ del dolore consente la narrazione dei sentimenti che iniziano ad articolarsi in parola. E’ possibile ora attribuire una forma al passato, ma la percezione del presente fa paura.

Ricordi piacevoli sublimano il passato, previsioni sgradevoli delineano il prossimo futuro, in un’alternanza quasi ritmica (altalena, ninna-nanna) di ‘bello’ e di ‘brutto’ che descrivono il presente incerto, sconnesso, inquietante.

Anche i sogni possono essere belli o brutti, terrificanti od appaganti. Ma non si sa bene in quale sogno potersi collocare. L’incertezza ricerca ancora una via di fuga dalla rabbia nell’individuare un colpevole da punire.

Leonina: Io so’ de razza mezza pazza. Lui è cattivo…e per forza! La suocera mia era cattiva, era tutta nera. La pelle nera. Ma è morta! Che venisse qui! Ora può pure venire! Che il terremoto le ha fatto una crepa sulla tomba!”

Viene squarciata ogni remora, nell’urlo estremo del naufrago che sfida le leggi della natura infausta, nella vendetta per la madre-matrigna da punire per sempre, nel pudore senza veli di chi ha perso tutto, oltrepassando la legge compassionevole che avvolge nel silenzio chi non c’è più. Anche le tombe sono state violate, così come tutto è violato, decomposto.

I sopravvissuti non sono del tutto morti, potranno riemergere dalle rovine recuperando la parola. Essa crea bellezza ed orrore, ricordo e previsione, legami e odio. Essa dispone di un potere creativo in cui si ricostruisce il mondo, prefigurandone nuovi assetti. Il trauma annega nel caos la vittima, il cattivo, il colpevole. La parola restituisce una forma organizzativa agli eventi, ai luoghi, al tempo, alle appartenenze, ai sentimenti.

E’ possibile “buttare alle spalle” la paura solo dopo averne parlato, si può dimenticare solo quello che si è potuto ricordare ( Bion, 1962).

Marta: Ci sarete domani?

Rosalia: Speriamo!”

III incontro: il lutto

Leonina ha una grave crisi respiratoria, sta male e ha la maschera dell’ossigeno. Ha gli occhi chiusi e non risponde alle domande. L’incontro si apre con mestizia. L’ ossigeno, gli occhi socchiusi, la mancanza di parola, il pallore: restituiscono a tutte le cose il loro posto nella desolazione dell’incerto.

Si cerca di ricostruire riferimenti del gruppo: i sogni, il riposo della notte, il lavoro ad uncinetto, il ricamo, lo svolgersi delle attività consuete che segnano il tempo della nuova vita nel campo ed il recente tentativo di riorganizzare personali interessi. Si cerca soprattutto di ricostruire il filo delle precedenti interazioni del gruppo per dare un ordine al significato di quanto i nostri incontri avevano fatto affiorare.

Si parla di nostalgia e di amarezza. Impotenza e smarrimento sono come una muta parola, un grido taciuto, un silenzio. “S’è rotto lo specchio magico in cui mi vedevo identico, e in ogni frammento ritrovo un pezzo di me” recita Fernando Pessoa.

La nostalgia è uno specchio deformato, che restituisce immagini infrante e dissonanti nella percezione di sé, nell’oscillare fra ciò che era e ciò che non siamo più. La nostalgia si appella alla memoria, la evoca nel supplicare la restituzione di immagini integre, di parole certe, di persone care, di luoghi posseduti, di momenti segreti. Nel senso di impotenza e di scoramento affiora un percorso di consapevolezza della parte di sé che è rimasta frantumata fra le macerie della propria casa: la propria identità.

“Piuttosto che affrontare il senso di colpa per essere sopravvissuti e la rabbia per essere stati abbandonati da coloro che sono morti, alcuni sopravvissuti possono scegliere un percorso di minor resistenza. L’elaborazione del lutto per il sé di prima del trauma e per l’altro, l’oggetto perso, soprattutto in un mondo che sembra irrimediabilmente danneggiato, viene percepita come impossibile” (Garland, 1998, p. 18). La malinconia diviene una sostituzione patologica del lutto; essa prende il posto del pianto per la scomparsa di una persona cara o per la perdita di una parte del sé non precedentemente danneggiata. In tal modo alcuni sopravvissuti evitano l’elaborazione del lutto stesso nell’identificarsi con l’oggetto morto (Freud, 1915).

Tuttavia, nell’ambivalenza tra impotenza (o potenza reale) ed onnipotenza, se un futuro non è pensabile per gli anziani, si intravvede una mal definita possibilità di futuro per i giovani, una nuova generazione, il dopo: il dopo-terremoto (“Per voi giovani c’è tempo di vedere L’Aquila ricostruita...Comunque sarà diversa da quella che è ora”). Vi è la fantasia di un passaggio-delega dei compiti ricostruttivi da una generazione all’altra, ma anche un tentativo di sopravvivenza trasferita su altri, altri che comunque appartengono a questa comunità affranta dalla malinconia.

Lucia: ‘Verde’ ormai è finito ... non ci sono più i vicoletti dove ci nascondevamo, dove facevamo i primi ricami, dove andavamo con i primi ragazzi. In ogni pietra di ogni posto c’è un ricordo. Non ho voluto vedere com’è adesso il paese: non ci andrò. E’ contro il mio essere non affrontare le cose, ma questo non lo voglio vedere.

Maria: Don Antonio ci ha portati in centro a L’Aquila… un’ansia a vedere quella villa! Ti rendi conto che la distruzione è sempre più grande di come la immagini… 'oddio il balcone non ci sta più!'… è tutto rotto, lesionato, mi ha fatto proprio brutto.”

Pensando ai giovani e spostando su di loro il compito del futuro, l’oppressione pare allentarsi: le emozioni trovano parole. Ciò che prima risultava indicibile, non descrivibile, ciò che poteva solamente essere dichiarato, non pensato, ora si connota, si aggettiva, si declina.

L’eredità consegnata alle nuove generazioni, tuttavia, risulta loro troppo gravosa, in quanto essi stessi ancora coinvolti nel trauma, in un dolore che genitori e nonni non riconoscono ma di cui si appropriano, identificandosi con l’oggetto perduto.

La rabbia per l’impotenza genera un’altra volta la dicotomia fra ‘buoni e cattivi’. Mossi dall’invidia, i ‘cattivi’ sono dapprima coloro che hanno ‘ancora tempo’ davanti a sé: su di loro ricade la ‘responsabilità/colpa’ della ricostruzione. In un secondo momento ‘i cattivi’ diverranno i giovani che hanno cercato la fortuna fuori dal territorio: su di loro si fa ricadere la colpa del tradimento. La soluzione alla dicotomia si esplica nell’individuazione del capro espiatorio esterno al gruppo, che permette il recupero di una parvenza di serenità.

Il pensiero della casa riappare come un possibile contenitore della rabbia, dell’incertezza. I legami instaurati nella nuova comunità risultano di conforto; sono rassicuranti nella condivisione del comunicare. Tuttavia, la realtà, a guardarla fra gli spiragli della destrutturazione, è sempre portatrice di paura.

Leonina ha un’altra forte crisi. I presenti si preoccupano e si premurano per lei, fino a quando ella si riprende. La tensione pare allentarsi, la conversazione si fa più lieve, e si ritorna a parlare di facezie, di abbigliamento inadeguato, di interessi connessi alle occupazioni ordinarie, ai propri lavori manuali (uncinetto, confezione di sciarpe, cappelli), e si brinda con l’acqua! “Marco, racconta delle barzellette!

Marco invece parla della situazione della sua casa, e che in giornata ci sarebbe stata la perizia tecnica. C’è un muro della casa accanto che pende ma, dice Marco, anche cadesse non urterebbe la sua casa. Parla poi di una sua amica Eleonora che “stava sotto quella notte”.

L’ amenità della precedente conversazione pareva velare il vero argomento della seduta: la morte. Il grave malessere di Leonina aveva evocato fantasmi che solo ora possono spogliarsi della finzione, per assumere il non-volto del dolore, del lutto. Faticosamente, le persone presenti sembrano ricuperare la percezione della realtà.

Marco: Il mobile è rotto, è tutto umido, hanno trovato una foto sulla strada.

Maria: E’ di Daviduccio! Povero Daviduccio, nemmeno la foto …

Lucia: Ma l’avete raccolta?”

Case, mobili, oggetti, persone: tutto appartiene al dolore. Non esiste gerarchizzazione nella perdita, quando ‘si è perdita’. Si descrivono macerie senza evocare riparazioni, ci si proietta nella morte altrui (conoscenti, parenti, amici) connessi alla medesima morte. ‘Si è lutto’ per quella parte smarrita di sé: “Una parte del lutto … è rivolto a se stessi, al mondo che si è perso, alla vita e all’identità precedenti al trauma” (Garland, 1998, p. 18).

Marco: E’ morta un’amica mia, una bambina di otto anni.

Maria: Era tanto bellina!

Marco: Uno è morto sotto un santo, si vede dentro, è tutto crollato.

Maria: Non è morto a letto, stava scappando.

Leonina: Era uscito, poi è tornato dentro a prendere i soldi ed è morto.

Lucia: Non lo possono riportare al cimitero nostro.

Marco: Pure Maria (la bambina morta) devono riportare qui.”

Storditi e increduli … scendiamo le scale della nostra casa, chiudiamo quella porta per sempre: camminiamo interminabilmente per strade di polvere … Dormiamo con i nostri figli nelle stazioni, sulle gradinate delle chiese, negli alberghi dei poveri: scompare a poco a poco ogni orgoglio. Abbiamo della vera fame e del vero freddo. Non sentiamo più paura: la paura è penetrata in noi, è una sola cosa con noi…” (Ginsburg, Le piccole virtù).

Nella confusività, si perde la separazione fra sé e gli altri, fra sé ed i propri oggetti, fra il proprio dolore e l’altrui dolore. Tutto è lutto. E’ lutto la fotografia, ultima immagine di vita, è lutto il balcone crollato, il proprio letto, e il muro sconnesso. E’ lutto la propria casa in macerie. E un’ultima ‘casa’ si invoca per chi non c’è più. Una casa per contenere le spoglie. Una casa per racchiudere il silenzio: urlante impotente lugubre, e l’immagine di volti senza fierezza. Una casa, finalmente, per il sé perduto, insieme agli oggetti dei morti, ai luoghi percorsi insieme, ai giochi condivisi, alle parole sperdute nel più totale e sordo dei silenzi.

IV incontro: la tradizione e i riti

E' l’ultimo degli incontri. Mancano due persone, forse in seguito ai discorsi dolorosi fatti nel giorno precedente, o forse per evitare il dolore del separarci. Appare da subito il desiderio di non parlare della separazione; il tema viene evitato tramite argomenti futili. Insoddisfazione, malumore, inquietudine sono palpabili e rendono difficoltosa la comunicazione. Constatare che gli aiuti materiali sono scemati, viene probabilmente messo in associazione con il fatto che anche noi, in qualità di psicologhe volontarie, avremmo tolto la nostra presenza e la cura offerta al gruppo.

Si prefigura una separazione che alimenta la rabbia e il risentimento verso le persone con cui si condividono le difficoltà della convivenza. Si intravvede la possibilità di un passaggio da una posizione schizo-paranoide ad una più matura posizione depressiva, capace di leggere con un maggior grado di consapevolezza la realtà sia esterna che interna. Si possono quindi individuare ‘parti buone’ nell’altro, come ‘parti cattive’ presenti dentro di Sé:

Leonina: La gente è cattiva! Tutti! Vecchi e giovani!

Domenica: Ora non sopporti più niente! Siamo stressati.

Leonina: E’ aumentata la cattiveria! Ce n’è tanta tra di noi: conviene star zitti e non dir niente!”

Domenica racconta episodi di dissidio con i vicini di tenda per motivi futili

Domenica: Le persone false non mi piacciono.

Leonina: La gente che al paese sembrava onesta qui si è rivelata falsa!”

Risulta difficile ricuperare la fluidità delle interazioni precedenti. I presenti continuano a spostare le tematiche, incapaci di controllare emozioni represse che tuttavia aleggiano come nuvole opprimenti sul flusso delle parole. L’argomento della paura pare essere il più familiare, quello in cui non è necessario l’investimento di pensiero e di simbolizzazione.

E’ dall’inizio della seduta che, a mo’ di battute a volte spiritose, a volte convinte, ritornano frasi, immagini, evocazioni di natura religiosa (“andiamo in pace”, “amen”, “grazie a Dio”, “ci stava il padre, il figlio... e lo Spirito Santo!”) frammiste a rimandi correlati a feste, festeggiamenti, ricorrenze, ritualità (“Il prossimo anno fanno 50 anni di matrimonio”, “ho festeggiato il compleanno il 7 maggio”, “entro Natale”, “il giorno della Candelora” ...).

I rituali (Freud, 1970) risultano funzionali alla costituzione dell’ordinamento sociale. Nel trarre origine da antichi tabù, essi contrastano impulsi aggressivi e sessuali, evitando la trasgressione ed espiando, allo stesso tempo, la colpa. La presenza del rito è universale, trasversale ad epoche e culture; il suo valore è eminentemente simbolico e allo stesso tempo è apportatore di forme strutturanti, trasmutative e terapeutiche (Widmann C., 2007).

Al rito l’uomo è ricorso per fronteggiare momenti terrifici della sua lotta contro le forze della natura; esso accompagna da sempre i passaggi delle stagioni, delle coltivazioni, delle migrazioni. I riti segnano i grandi passaggi dell’evolversi della vita dell’individuo stesso: la nascita e la morte, il passaggio all’età adulta, i matrimoni, le ricorrenze, fino all’ultimo rito, quello dell’estremo saluto. Il sistema delle ritualità connota gli stessi sistemi simbolico culturali delle società di appartenenza, e gli individui se ne appropriano in processi identificatori, nell’assunzione dell’identità etnica e personale. Ad essa si riferiscono le persone nei grandi momenti di crisi, nei momenti, cioè, di passaggio, quelli in cui le trasformazioni necessarie mettono in discussione appartenenze, riferimenti, l’identità stessa.

In questo momento di ‘passaggio’ del gruppo, che dovrà affrontare la separazione da noi e dagli altri partecipanti, nonché a breve la chiusura dei campi stessi, l’appellarsi al rito può significare il ricorso ad un sistema regolativo delle emozioni depressive e di rabbia per la perdita.

Tante persone si sono alternate di settimana in settimana nei campi: ciascuno con proprie competenze, diversi atteggiamenti, svariate forme comunicative. Vengono enumerati tanti dottori “...e nessuno sapeva misurare la pressione!” Forse anche noi siamo vissuti come ‘traditori’, inadeguati al bisogno di contenimento, di stabilizzazione. Soprattutto, non siamo state in grado, come forse era nelle aspettative, di ripristinare la condizione normale del ‘prima’, annullando l’evento terribile e con esso il dolore, la distruzione. E’ preferibile quindi negare il dolore della separazione ed agirla: ‘Rimaniamo soli, stiamo più spicci!’.

Dalla delusione e dalla rabbia ci si può difendere con l’ironia, l’irrisione, quasi a ridimensionare la paura di una nuova separazione, di una ulteriore perdita dell’oggetto ‘buono’: “Maria vieni!!! Ci stanno le psicologhe!” “... Pissecoleghe”.

Di una situazione analoga parla la Garland: “...si apettavano da me non solo che ripristinassi l’oggetto buono ma che fossi quell’oggetto buono che avrebbe ricreato la pace e l’armonia e li avrebbe protetti da altri orrori… mi resi conto che molto prima che arrivassi avevano iniziato a chiamarmi, con un misto di ironia e intensa speranza, ‘l’esperta’ e perciò sapevo che la delusione e la rabbia che si sarebbero scatenate nelle settimane successive quando il gruppo avesse scoperto che non ero in grado di allontanare la loro angoscia… sarebbero state molto acute e dolorose” (Garland, 1998, p. 203).

Il gruppo stava elaborando dipendenza ed aspettative idealizzate come quelle di un infante nei suoi primi rapporti con la madre.

Giulia: A che ora andate via?”

Leonina: Non andate da quei terremotati (riferito alle persone dell’altro campo): state con noi!”

Arriva Flaviano che si avvicina a me e comincia a chiedermi cosa ne sarà di loro, come faranno con la casa e l’auto distrutta, chi darà loro i soldi.

In un’alternanza di euforia e depressione, si riprende a parlare di ricorrenze, di feste, ovvero dei riferimenti di vita comunitaria che li accompagneranno dopo la nostra partenza. In parte, può essere anche una sfida rivolta a noi, o un modo di proiettare su di noi i vissuti di esclusione e di abbandono, superando in questo modo aggressività ed invidia.

Aleggiano, tuttavia, anche le ansie per il futuro.

Maria: noi abbiamo bisogno di festeggiare!

Teresina: Arianna oggi si è rifatta il colore!”

Ma ancora una volta è troppo difficile, forse anche da parte nostra, verbalizzare il dispiacere per una relazione che si interrompe, e si ricercano espedienti per superare la posizione depressiva, siano esse le feste o un nuovo aspetto fisico. La ‘festa’ di cui forse inconsapevolmente si andava alla ricerca doveva segnare invece un momento di passaggio, il saluto.

Conclusioni

L’esperienza gruppale rappresenta un’occasione di “complessa metamorfosi delle immagini di madre cattiva” (Ganzarain, 2000, p.91), permettendo di esperire a livello profondo l’ambivalenza delle rappresentazioni, nel consentire cioè il passaggio dalla polarizzazione ‘buono-cattivo’ (posizione schizo-paranoide) all’integrazione nella medesima realtà dell’uno e dell’altro aspetto (posizione depressiva). Questo passaggio è possibile nella presentificazione, nel qui e ora, di una immagina materna ‘positiva’ di cui il gruppo diviene metafora e nel contempo realtà vissuta. Esso è benefico, rappacifica con il senso di impotenza di cui i traumatizzati sono portatori. Il gruppo si assume la fatica di contenere le angosce, alleviando i singoli componenti dalla percezione di essere unici e soli protagonisti del dolore. Tramite esso paura e rabbia, ferita e perdita, diventano parlabili, possono essere dette, soprattutto ascoltate.

Nel corso dei quattro incontri il gruppo ha elaborato un suo percorso. All’inizio tutto era descrittivo, nella constatazione della distruzione, della paura, della confusione. Rabbia e rivendicazione manifestavano la traumaticità della perdita e dell’identificazione con essa. La ferita profonda minacciava l’integrità creando stagnazione nell’impotenza, alternata a colpevolizzazioni ed aggressioni verso i traditori. La paura percorreva la profondità dell’essere, come il tremare della terra sospinta dall’energia sismica incontrollabile. Mancavano i riferimenti, le appartenenze. Lentamente vanno emergendo emozioni, desideri, rimpianti nella ricostruzione di orientamenti collegati ai ricordi, alle consuetudini, all’ordine fornito dai sistemi culturali di appartenenza. La frattura della terra è anche, metaforicamente, frattura nella continuità del tempo: il prima e il dopo sono disconnessi, poiché non c’è ordine nel presente. Il pensiero arcaico prevale sul pensiero simbolico. Affiora a tratti il senso di realtà, ma è difficile e pauroso rimarginare questo presente tanto frantumato. Dal profondo emergono parole, quelle parole di dolore che come spade aprono gli squarci della morte. Il lutto avvolge ogni cosa: i morti ed i sopravvissuti, tutto è lutto. Soccorrono le ritualità, da un'antica memoria, nata dall’origine del costituirsi della comunità. E’ nel suo grembo che ci si ritrova, ci si accomuna, in una diversa coesione di appartenenza, per affrontare una nuova separazione.

Gli incontri sono terminati. Noi ripartiremo, come tanti altri prima di noi.

Rimangono le parole, l’accoglienza di un contenitore buono, la storia che ha ripreso il suo filo.

Nel cammino verso la simbolizzazione dell’evento forse saranno proprio le parole ad incontrare l’effrazione traumatica e a restituirle salvezza, dentro una storia che nuovamente potrà ricomporre l’oggi e l’ieri, il perduto con un nuovo seppur diverso progetto.

Bibliografia

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1 Il progetto fa parte dell’intervento di Psicologi per i Popoli Veneto coordinato dal Dott. Luca Pezzullo e supervisionato in loco dal Prof. Marco Longo. Devo alla Dott.ssa Silvia Corbella indicazioni metodologiche, confronto teorico e la supervisione sul materiale clinico raccolto.

2 I nomi dei partecipanti al piccolo gruppo presenti nel testo sono fittizi.

3 Località in cui era stata allestita la tendopoli.


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