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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: MODELLI E RICERCA IN PSICHIATRIA

Area: Psichiatria e psicologia dell'emergenza

Misure antisismiche per la mente: tollerare l'insicurezza in situazioni di emergenza?1

Ambra Cusin



Il vero senso del mistero …

è la manifestazione del modo con cui,

nel corso dei processi che governano la storia umana

e che ci comandano di prevedere un futuro

secondo l'insegnamento del passato,

si introduce l' Imprevedibile, che spezza la catena

delle necessità ed introduce la novità inattesa.

p.E. Balducci Gli ultimi tempi, Borla,Roma

 

La prima volta che partecipai ad un intervento di emergenza ero studentessa di psicologia. Era il ’76 ed ero partita subito per il Friuli come volontaria. D’estate poi avevo fatto due settimane in tendopoli a Gemona con un progetto della Facoltà di Padova.

Nel 2009 quando c’è stato il terremoto in Abruzzo sono partita dopo qualche giorno e forse avrete letto, pubblicate su Psychomedia, le impressioni che avevo buttato giù di getto per descrivere l’angoscia di un fine settimana, in un albergo della costa pieno di sfollati. Sono andata poi in estate, una settimana a fare animazione. Partire come psicologa era complicato a causa dell’accreditamento alla Protezione Civile, cosa che invece è stata più facile grazie agli scout di cui faccio parte. Sono potuta tornare anche a ridosso di Natale quando le persone erano appena entrate nelle nuove case.

Quello che vorrei raccontarvi sono alcune impressioni che ho riportato da queste esperienze e che credo possano stimolare la riflessione oltre che essere una base su cui cominciare a costruire, come psicologi ad orientamento psicoanalitico di gruppo, degli interventi di emergenza, chiedendoci innanzitutto se è possibile e pensabile una psicoanalisi dell’emergenza, o meglio , se esiste qualche modalità della psicoanalisi che operi per aiutare a tollerare l’insicurezza in situazioni di emergenza.

Io credo che si possano pensare a degli interventi, in rete con altri colleghi, che non si limitino ai “debriefing e ai defusing”, con cui apparentemente si tranquillizzano le persone accogliendo il loro trauma, ma in cui si cerchino dei modi più articolati per:

  • sviluppare modalità con cui, in maniera gruppale, le persone possano dare senso, nel tempo, al trauma, per quanto riguarda sia le realtà personali che quelle del gruppo in cui sono inserite (famiglia, quartiere, società, contesto culturale , ecc.)

  • costruire modelli di intervento volti a sviluppare la capacità di affrontare assieme, senza disperdersi, anche i momenti più catastrofici, ovvero imparare a costruire la cultura del rischio da abbinare a quella della sicurezza. Oggi si fa un gran parlare di sicurezza, ma io credo che possiamo dirci sicuri solo quando conosciamo i modi per guardare in faccia alle nostre insicurezze, all’ignoto e imprevedibile che sta fuori e dentro di noi.

  • Imparare in definitiva ad attrezzarsi e ad attrezzare i singoli e i gruppi ai rischi inevitabili che il vivere, in quanto tale, comporta pur restando vigili nell’impegno civile a costruire per esempio “case sicure” e a formare la cittadinanza ad affrontare le catastrofi (si veda il comportamento maturo dei giapponesi nel recente terremoto). Il problema è qui lo sviluppo della coscienza e responsabilità civile, la sensibilizzazione alla necessità di sentirsi responsabili che al fondo ha a che fare con la pensabilità. Quando faccio un pensiero e lo comunico, faccio una pubblic/azione e quindi ne devo divenire responsabile. Tanto più questo vale per un’azione, anche se è essa si limita alla mia vita privata. Il senso di responsabilità personale, anche nel privato è fondamentale per una convivenza che si definisca civile.

  • Evidenziare il modello psicoanalitico più adeguato per avviare nella popolazione colpita da traumi collettivi azioni di cittadinanza attiva, ovvero quei processi di ricostruzione che partono dalla vittima del trauma, allo scopo di proteggerla così dalla passivizzazione.

  • Lo “state tranquilli, ci pensiamo noi” viene vissuto da un lato come rassicurante, soprattutto nella prima emergenza, ma dall’altro poi ha dei terribili risvolti violenti. La violenza è data dal fatto che oltre ad espropriare i singoli della capacità di decidere si finisce per costringere una intera popolazione a strutturarsi come un gruppo di bambini incapaci, irresponsabili, da proteggere ed educare dimenticando la componente adulta e responsabile che finisce per addormentarsi e bidimensionalizzarsi o in una ossequiente dipendenza (assunto di base di dipendenza) o in una ribellione che rischia al fondo di divenire paranoica e autodistruttiva (assunto di base di attacco e fuga) (Bion, 1948).

Nella mia esperienza in emergenza, mi sono resa conto di come il modello psicoanalitico mi abbia permesso di reggere maggiormente allo stress, all’impotenza, al senso di inutilità, ma soprattutto mi abbia aiutata ad accorgermi, con un continuo lavoro di controtransfert, come e quanto essere “soccorritori” sia un ruolo attraente, seduttivo, eccitante. Tale seduzione si insinua tra le pieghe della mente e, quasi come un rumore di sottofondo (Amati, Brunori, Curi Novelli, Cusin, 2010), impedisce e ostacola l’auto analisi. Si è troppo “risucchiati” in un ruolo di aiuto che risulta estremamente gratificante (che soprattutto nella prima fase ha a che fare con la vita e con la morte). Di fatto si interviene con persone che stanno significativamente peggio di noi, e questo divario diviene, per chi attua l’intervento, rassicurante: è l’altro a stare male, noi siamo quelli che aiutiamo e quindi stiamo bene! Ma questo non è vero.

Ricordo come al mio rientro dalla costa abruzzese, nell’ aprile 2009, per una settimana ho avuto difficoltà ad ascoltare i miei pazienti. La mia mente era intasata dai ricordi di ciò che avevo visto e sperimentato che, se anche era stato poco, era risultato comunque molto coinvolgente e sconvolgente.

E dunque sul sostegno ai soccorritori andrebbe fatta una prima riflessione relativa al lavoro di contenimento e formazione dei medesimi, che noi spesso possiamo trovarci a fare, se impegnati in un’attività di emergenza. Formazione da fare attraverso un gruppo di lavoro che possa non solo aiutare a contenere l’inevitabile disagio e impotenza, ma contribuire ad elaborare, cioè a digerire contenuti terribilmente indigesti.

Penso che nessuno possa avere la preparazione per certi orrori. Penso che la nostra umanità mai dovrà sentirsi “pronta” ad affrontare certe cose. L’essere pronti significa al fondo raggiungere un grado di indifferenza che sola può aiutare veramente a non “sentire” la sofferenza. Ma l’indifferenza ci dice De Masi (2006) si lega alla de-umanizzazione. Penso che il disagio emotivo sperimentato sia invece una risposta importante ed umana che va valorizzata, e non evacuata come si tende a volere attraverso un certo stile di intervento più comportamentale. Evacuare infatti è la parola giusta per dare il senso di quello che spesso queste persone chiedono e che viene dato loro. Usare dello psicologo come fosse un gabinetto in cui buttare quello che non si riesce a digerire o che non si vuole trattenere nella propria interiorità.

Credo che come psicoanalisti si potrebbero pensare a delle modalità per intervenire in emergenza con lo scopo di aiutare le persone appunto a “digerire” piuttosto che “evacuare o vomitare” le esperienze drammatiche sperimentate. Nel digerire è implicito che una parte dell’esperienza viene trattenuta e assorbita, resa utile per l’organismo. Cosa di questi fatti drammatici può essere trattenuto perché utile a sviluppare una relazionalità umana veramente tale? A fare sì che il trauma possa essere colto nelle sue componenti trasformative, per migliorare l’esistenza. Che significato hanno gli incubi che spesso i soccorritori fanno dopo aver partecipato, per tante, troppe ore, ai soccorsi? Il sogno credo sia una forma di elaborazione che ha la capacità di trasformare e dare un senso ad esperienze altrimenti indigeribili. E’ un primo tentativo di digestione. Lo è anche l’incubo? E cosa rappresenta l’insonnia in questi casi?

Al mio ritorno dall’Abruzzo la prima volta, dopo aver soggiornato piena di paura in un albergo della costa al sesto piano… ho sognato di essere in cima ad una casa in costruzione, con attorno delle impalcature e guardavo in basso dove vedevo piccolissime persone e oggetti. Mi sentivo tanto, troppo in alto e avevo paura di precipitare. Era un luogo simile alla torre del film Il Signore degli anelli. Vi ho dato un sacco di elementi dunque per cogliere il vissuto di onnipotenza che stritola il soccorritore, che si sente molto in alto e teme di precipitare dal vertice di “bontà” cui è giunto e per questo forse deve reiterare il suo impegno più per placare la sua ansia e “non pensare” che per aiutare veramente.

Infine quanto noi come psicoanalisti che lavoriamo grazie all’unico strumento efficace che abbiamo e che è il nostro apparato mentale, rischiamo di mettere a repentaglio questo strumento mettendoci in situazioni, anche per noi, fortemente traumatiche?

Voglio approfondire però ora ad un altro aspetto: quello del lavoro che ho svolto soprattutto con un gruppo di bambini in tendopoli.

Sono stata, nell’estate 2009 a Camarda: Camarda è la classica “ridente località” alle pendici del Gran Sasso, aggrappata sulla roccia, guarda alla valle, verso L’Aquila del cui comune fa parte.

Non ci sono stati morti a Camarda. Per questo nessuno ne ha parlato. Non è né Onna, né Paganica, né Villa Sant’Angelo. Camarda non è L’Aquila. Non l’abbiamo vista alla TV. Camarda è per certi versi inesistente. Anche per me lo è stata, fino ai primi di agosto del 2009.

La notte del terremoto, pochi minuti dopo il sisma, mentre ancora una ragazzina dodicenne stava sotto le macerie con fantasie che noi non possiamo immaginare, gli abitanti di Camarda iniziarono a vedere e sentire (sottolineo queste “sensazioni” perché l’aspetto sensoriale mi pare in questo caso primario) la lunga colonna di macchine e di sirene di Polizia, Carabinieri, Vigili del fuoco, Protezione civile, Croce rossa e volontari che attraversavano la strada principale, unica per raggiungere L’Aquila (l’autostrada era inagibile). Soccorsi che come un fiume in piena travolgevano le loro storie, senza curarsene, disinteressandosi completamente di chi, bambini, giovani, adulti e anziani, aveva visto crollare le proprie case, ma soprattutto le proprie certezze, senza la “fortuna” di morire lì sotto.

Per una intera settimana a Camarda gli abitanti riferiscono di aver dormito in macchina e solo grazie a generosi volontari di associazioni private dicono di aver potuto usufruire di un pasto caldo. Per una settimana pare che neanche il prete si sia fatto vivo con i suoi parrocchiani … troppo spaventato dall’accaduto!

Il vissuto di abbandono - si badi bene alla parola “vissuto” che sottolinea come di questo fatto non si conosca la Verità, ma mi sia stato tramandato un “vissuto”, racconto personale di un gruppo, è molto intenso..

Gli abitanti di questo borgo, la cui storia si perde nei racconti dei pastori che per primi lo hanno abitato molti secoli orsono2, già lacerati da conflittualità precedenti - legate credo a inconsce invidie verso i molti figli di questa terra trasferiti in metropoli lontane e con maggiori opportunità di vita, ma ancora formalmente legati dal possesso di case, divenute ormai di vacanza, in Camarda, e peraltro estranei al tessuto sociale del luogo (Cusin, 2010) - hanno vissuto un trauma collettivo potente e devastante che ha “ucciso”, o, speriamo, forse solo gravemente danneggiato, il tessuto sociale di solidarietà e collaborazione che solo può aiutare un paese a ricostruirsi.

Le cose che racconterò hanno il sapore delle incoerenze incrociate delle realtà individuali, frutto di fantasie, di vissuti, di storie che si sono intrecciate con verità nascoste a cui mai si avrà accesso, ma che posseggono la forza delle verità provenienti dall’inconscio, dagli strati profondi e arcaici della mente che inevitabilmente vengono intaccati da episodi drammatici e improvvisi (anche se, purtroppo preannunciati) quali quello del terremoto.

Scrive Janine Altounian (in La psicoanalisi e i suoi confini, G.Leo 2009) “nella fondazione culturale che fa seguito all’esperienza della messa a morte (in questo caso della morte delle proprie certezze e speranze, dei parenti e amici residenti nei comuni limitrofi, dei compagni di scuola, delle proprie case così come le si era abitate ed arredate e che mai potranno ritornare come prima)3 i gesti venuti da altrove precedono le parole… le loro tracce sono (in) un’eredità apparentemente estinta (ma che ) costringe ad operare come ‘artigiani della vita’, a reinvestire malgrado tutto… le astuzie e gli espedienti che permettono di circondarli (i propri figli) di una protezione precaria (pagg. 186-187)4.

Mi sono recata lì come adulta scout, assieme ad altri 6 amici (di cui tre hanno lavorato in un altro paesino) per un periodo di servizio in tendopoli.

Tra i compiti di uno scout c’è quello per me evocativo di essere “pronti a servire”quindi a svolgere qualsiasi compito sia necessario, ragionevole e venga richiesto da chi ha l’onere di gestire l’organizzazione.

Quando arrivo ho nella mia testa una bozza di progetto, ipotizzato grazie alle reminescenze di un’epoca lontana in cui avevo fatto l’insegnante, ma soprattutto porto con me l’assetto mentale della psicoanalista che non può astenersi dal leggere, silenziosamente, in ciò che appare banale o casuale agli altri, segni e gesti importanti e degni di attenzione, ma anche intrecci con i vissuti e le emozioni personali (quello che all’interno di una seduta è il controtransfert), l’immagine di un qualcosa per certi versi misterioso, ma certamente dotato di senso e significato che attende solo di essere pensato.

Mi sento quindi disponibile ad essere e a fare, a pensare e ad agire, a conciliare queste attività fondamentali dell’essere umano, all’interno di ciò che mi verrà richiesto.

Fin dai primi attimi il mio sguardo viene attratto da un cucciolo, un gattino malconcio, morente, che agonizza sulla scala che conduce al container dei servizi igienici. Vengo a sapere che è curato dal veterinario e in effetti durante la settimana lo vedrò progressivamente migliorare e riacquistare vitalità. Questo gattino da subito acquista per me la capacità di essere il rappresentante di un vissuto di speranza e rinascita per gli abitanti della tendopoli. Una sorta di emergente gruppale del desiderio di vivere nonostante tutto. In effetti viene curato e coccolato da tutti: anziani, adulti e bambini. Laddove c’è un crocicchio di persone, lì c’è il gattino che per ora non ha nome. Un giorno mi accorgo che i bambini si sono riuniti a chiacchierare in piedi, in gruppo, sono in cerchio e al centro a terra, tranquillo dorme il gattino, protetto dai loro corpi, grandi al confronto, tutti tesi a tutelare qualcosa di piccolo e indifeso, malato e sofferente, che non riesce a chiedere con le parole, ma può farlo solo attraverso il disagio di una malattia nel corpo. Veramente mi sembra che questo gattino si stia facendo carico dei vissuti di cui i bambini, e gli adulti, non riescono a parlare, e, assumendo il ruolo di mascotte del campo, svolga un compito importante: l’essere il depositario delle cure che i bambini non riescono a chiedere. Comprendendo questo mi rendo conto che devo avvicinarmi a loro silenziosamente, senza imporre alcun progetto, ma sapendo osservare e ascoltare il non detto, facendo attenzione ai segni e segnali. Ci sono cose che, dopo un trauma così potente, per essere non solo dette, ma semplicemente pensate, hanno bisogno di anni di silenzio e nascondimento (Zaijde, 1995). Non è facile, come qualcuno forse crede, sciogliere le emozioni in narrazioni! Solo molto tempo dopo alcuni pensieri possono legarsi tra loro e collaborare a costruire una storia. E un terapeuta non deve mai forzare il racconto. Esistono ricostruzioni che vengono fatte attraverso il racconto di fatti con l’illusione che questo basti. Ho la sensazione che a volte si faccia raccontare per eliminare, o controllare, ogni emozione, riducendo dunque le persone nell’a-mozione ovvero nell’assenza di movimento interno, in un pensiero appiattito, che crede, si illude di stare meglio perché non pensa!

Le idee che mi ero portata appresso per sentirmi sicura nell’affrontare questa esperienza per certi aspetti nuova e sconosciuta subiscono quindi subito un terremoto: devo abbandonare le certezze e mettermi a disposizione, in ascolto, dipendente dagli avvenimenti.

Fin da subito mi vengono affidati dei bimbi molto piccoli: 3 -5 anni. Uno di questi, Alberto, è estremamente vivace ed intelligente: ha la capacità di cacciarsi nei guai, a causa della sua grande curiosità, e del bisogno di provocare, nel giro di un attimo. A me questa sembra una richiesta di attenzione continua, che non lascia tregua e che mi comunica forse il bisogno di mettere in me quell’aspettativa di onnipotenza negli adulti, andata forse smarrita con l’esperienza del terremoto. I genitori infatti non sono stati capaci di proteggere i propri figli dalle case che cadendo distruggevano i loro giochi, i loro oggetti transazionali, la forma della loro cameretta. Questi sono bambini che hanno lasciato il loro pallone in poggiolo, assieme al triciclo, la notte del 6 aprile e da quel giorno nessuno ha potuto più andare a recuperare quei giochi perché la casa è inaccessibile. E così quella casa è rimasta ancora oggi!

Alberto durante una gita alla cascata dello Schioppo, che avevamo organizzato per tutti i bambini, assieme ai volontari della Caritas e del Coni, tornando, mentre percorriamo un sentiero in discesa, di nascosto dagli adulti, prende un sentiero diverso (che peraltro è chiaro che si ricollega dopo un centinaio di metri al sentiero che stiamo percorrendo). Alberto sembra segnalare così che vuole percorrere strade nuove e diverse. Sembra orgoglioso di questa sua “bravata”. Il suo mi appare come un desiderio sano, creativo, che è l’emergente della voglia di questo paese di prendere una strada nuova rispetto a quella della rassegnazione e della dipendenza dagli aiuti di stato.

Lo seguo a distanza, correndo anch’io dietro a lui, ma senza chiamarlo e lo osservo: corre soddisfatto per arrivare prima di tutti gli altri, per fare loro una sorpresa, un agguato. Ma… negli ultimi metri, quando già è in vista degli altri si distrae, la sua presunzione, e forse quella che Meltzer chiama prosopopea ovvero –K, sembra prendere il sopravvento e il senso di colpa, per la sua hyubris (arroganza di conoscere strade e vie nuove), lo fa inciampare e cadere a pancia in giù davanti a tutti. Lo soccorriamo: piange perché un’enormità di spine piccolissime, di qualche pianta grassa, hanno punto la sua manina. Sarà un volontario della Caritas a portarlo in pochi minuti sulle spalle, all’ infermeria del campo (ululando come una vera croce rossa mettendo in scena così quegli aiuti immediati che invece, al momento del bisogno, il paese non aveva ricevuto). L’episodio di Alberto sembra voler segnalare, e drammatizzare, che non bisogna percorrere strade nuove, che può essere pericoloso essere curiosi e sicuri di sé. Fare di testa propria. Del resto lo segnala Bion (1963) quanto la curiosità sia pericolosa e venga punita (nei miti del Paradiso terrestre, Torre di Babele e di Edipo).Bisogna ubbidire e stare in fila con gli altri… Questo ha la sua porzione di verità, ma che significato acquista in un bambino, e in un contesto sociale, che si trova costretto da eventi più grandi di lui, e della sua famiglia, a dover affrontare in modo nuovo e creativo, strade diverse dalle solite? Cosa gli riserva la vita? Solo spine dolorose nelle mani? Cosa ricorderà il suo inconscio, quali rappresentazioni verranno conservate di questo minimo episodio? Il giorno dopo non se ne parla e io mi dimentico di chiedergli come è andata… complice anch’io di una rimozione collettiva necessaria?

Una sera, mentre armeggiamo con il computer nella tenda adibita a ludoteca (in una zona lontana dalle tende e dalla vita della tendopoli, ma vicina alla “tana” degli adolescenti) alcuni ragazzi over 15 anni si avvicinano timidamente e si mettono a scambiare qualche parola con noi.

I ragazzi adolescenti sembrano essere i più sofferenti: non parlano con nessuno, vivono isolati. Da qualche tempo sono riusciti a farsi concedere dal capo campo – della protezione civile – una grande tenda tutta per loro in cui sono stati messi dei video-game con collegamento elettrico – la cui presenza mi sembra significativa di un’assenza totale di progetti di rielaborazione del trauma per questa fascia di età che viene delegata ad una “macchina” invece che a delle persone – e delle brandine. Nella tenda c’è un tavolo con una bottiglia di superalcolico che troneggia assieme a bicchieri sporchi e cartacce. Per terra lattine e bottiglie vuote di birra quasi a significare che l’unica cosa da fare è obnubilarsi e dimenticare. Nella tenda regnano sovrani la sporcizia e un disordine caotico e inquietante. Nessuno si azzarda ad avvicinare i ragazzi. Sarà dopo aver intrecciato con noi alcuni embrionali relazioni che improvvisamente un giorno, ad ora di pranzo con una calura insopportabile, tutti gli adolescenti svuoteranno e puliranno, riordinandola, la tenda/tana! La motivazione di questo improvviso segnale di attenzione verso se stessi mi è ancora misteriosa.

E’ da quel giorno che ho compreso le potenzialità vitalmente seduttive del computer: molto si potrebbe dire sulla capacità di utilizzare questo strumento per mettersi in contatto con la pulsione di vita!

Con il mio gruppo c’è Franz, un attempato signore di 62 anni con grande esperienza di lavoro con gli adolescenti (ha fatto a lungo il capo nel movimento scout giovanile quando era ragazzo). Il suo computer diviene una sorta di cetra di Orfeo (Cusin, 2009) con cui lui inizia a proteggere questi ragazzi dal canto delle sirene della rassegnazione e dell’impotenza, che sembrano aver attratto distruttivamente questi ragazzi “interrotti” .

“Posso andare su internet? Posso consultare il mio profilo su Face book? Vuoi che ti mostro il film della mia classe all’Aquila, è su youtube… - di richiesta in richiesta si comincia a chiacchierare. Io mi fermo a parlare con Veronica, 15 anni, mentre Franz all’una di notte intraprenderà un’avvincente partita di calcetto con i tre “boss” della tana. Un test a cui sembra sopravvivere e che lo inserisce subito tra i pochi eletti che hanno accesso a quel mondo.

Veronica inizia a parlare con me del più e del meno. Sembra che il gruppo l’abbia mandata in avanscoperta da me per vedere se ci si può fidare di noi, se ci si può aprire, almeno un po’ per raccontare. Anche qui la sento come portavoce del gruppo di adolescenti, la sua storia è la storia di tutto il gruppo, dei giovani “interrotti” del paese, di quelli rimasti “bloccati nell’ascensore” come avevo descritto in un precedente lavoro on-line (Cusin, 2009).

Ascolto e senza accorgermi mi trovo precipitata in una realtà piena di rabbia, di rivendicazione di presunte ingiustizie (Veronica è stata bocciata a scuola e il prossimo anno non potrà essere in classe con i suoi amici). L’evento della bocciatura, sebbene distinto, è vincolato a quello del terremoto e il vissuto di questa ragazzina sensibile e intelligente, ma troppo arrabbiata e scontrosa, accorpa le cose incapace di differenziarle: il terremoto le ha portato via un progetto di vita, emarginandola dal gruppo di amici ed è per lei in questo momento impossibile distinguere la sua mancanza di diligenza negli studi, dall’evento distruttivo del terremoto. La sua distruttività inconscia è vincolata al terremoto e si sente terremotata internamente e impotente ad iniziare una ricostruzione. Quando le chiedo se questa scuola le piace mi comunica che non le interessano le cose che studia, ma che lì ci sono i suoi amici ed è per questo che vuole continuare lì. Non sa cosa altro vorrebbe fare. E’ come impedita a pensare, la sua mente è tutta piena di “Mario” un ragazzo molto amico che non c’è più… è rimasto sotto le macerie all’Aquila. Assieme ad altri 4 suoi compagni di classe. Quando mi mostrerà il video su Youtube della loro classe, girato qualche settimana prima del 6 aprile, vedrò i volti di tanti ragazzi sorridenti e provocatori come tutti gli adolescenti. Belli come il sole. Cinque di essi sono morti sotto le macerie. Veronica non mi dice chi sono e io non posso chiedere. Lei ha bisogno che io li pensi tutti vivi o tutti morti. Forse anche lei si sente morta perché senza progetto. Morta quando mi dice che odia i bambini piccoli (i suoi cuginetti che le girano attorno pieni di richieste). Eppure durante la gita lei si offre volontariamente di accompagnarci perché conosce il sentiero e con i bimbi sa essere, forse re-attivamente, affettuosa e protettiva. Il suo sguardo dolce buca i nostri cuori quando ci fermiamo a guardare le foto.

Un’altra sera sarà Lucia a bloccare noi quattro adulti verso mezzanotte con il suo racconto di quella notte. Le sue parole ci immobilizzeranno nonostante la stanchezza di una giornata come sempre troppo piena. Non riusciamo né vogliamo fermare questo fiume in piena che parte in un racconto senza veli, pieno di verità, di vissuti che nessuna parola o reportage giornalistico potrebbe descrivere. Ho solo la memoria di una cascata (come quella visitata al mattino) che precipita su di noi travolgendoci al di là di ogni ragionamento. I miei amici si difendono poi, razionalmente, affermando che non bisogna credere a tutto quello che le persone della tendopoli dicono, che certe cose non è detto che siano vere. Ma la teoria psicoanalitica insegna come la verità sia diversa dalla Verità. E tra me e me mi chiedo se il racconto di Lucia non esprima una verità dettata dal vissuto personale del trauma e per questo assolutamente vera per Lucia. “per sei giorni non si è visto nessuno a soccorrerci, abbiamo dormito nelle macchine, nessuno ci ha dato le tende o ci ha portato qualcosa da mangiare, solo i volontari di …” Nessuno significa la Protezione Civile che è intervenuta appena dopo sei giorni.

Ma quanto questo vissuto va commisurato all’enormità di soccorsi e aiuti transitati per Camarda in quei sei giorni in cui nessuno è sostato per soccorrere gli abitanti del paese, ma si sono indirizzati tutti nei centri più colpiti. O forse più famosi mediaticamente: L’Aquila, Onna, San Demetrio…. Quanto la proporzione, e il divario, tra questa enormità di forze sfreccianti sulla strada e il numero di volontari che si sono prodigati in zona, è troppo grande da dare la sensazione di “nessun aiuto”? Quanta distanza tra l’importanza istituzionale della Protezione civile e quella di sparuti volontari di associazioni modeste, ha comunicato agli abitanti una loro importanza marginale. Voi non avete morti per cui non contate nulla! Quali significati acquista tutto questo a livello inconscio?

Noi psicoanalisti a queste “sfumature” prestiamo attenzione perché sappiamo che il trauma si inscrive in esse.

Un giorno ho deciso di tirar fuori da una borsa, che avevo provvidenzialmente portato con me, alcuni teli di stoffa colorata: giallo, nero, rosso, viola, blu, verde, arancio… Lunghi teli che mi hanno accompagnato nei tanti corsi di approccio corporeo.

Raccolgo vecchi scatoloni abbandonati dai volontari della cucina e invito i bimbi piccoli a giocare. Immediatamente molti bimbi accorrono: è troppo divertente farsi trascinare in improvvisate automobiline, o costruire culle protettive per le proprie bambole, nascondersi sotto le stoffe in improbabili ricoveri. Soprattutto è divertente distruggere grandi torri di cartone che crollano miseramente e che io instancabilmente ricostruisco (La torre di Camarda era una delle attrazioni turistiche del paese… è crollata frantumandosi e distruggendo i molti tetti delle case sottostanti). Da sempre i bambini piccoli amano distruggere le torri di dadi che mamme premurose costruiscono per loro, ma per questi bambini cosa significava distruggere la torre ri-costruita più volte da me?

Alla sera con uno stereo e delle casse acquistate su due piedi in un grosso centro commerciale nei pressi dell’Aquila (i centri commerciali misteriosamente non sono crollati come le case dei comuni mortali o gli alloggi per gli studenti… mistero inquietante che certi sociologi potrebbero dipanare…) cerco di creare un setting. Elsa, 8 anni infatti il giorno prima si era messa a ballare mentre provavo le musiche per una festa. C’è una piccola pedana di legno nella tenda della ludoteca (10 mt per 5 circa). Io stavo provando i passi. Di fianco a me, mi accorgo che la piccola Elsa si muove spontaneamente al ritmo della musica. A momenti vedo che questo movimento le dà un piacere immenso: ha gli occhi chiusi e ritmicamente ondeggia flessuosa.

Comincio a danzare con lei. Sono forse un po’ ridicola, non ho certo né la sua grazia, né la sua dolcezza, ma spontaneamente mi lascio guidare dalla musica: so che la spontaneità permette al corpo di dire cose che le parole non si concedono.

Elsa mi chiede allora se il mattino dopo possiamo danzare ancora… ma la pedana è piena di sassolini che gli altri bambini maschi si sono divertiti a lanciarle incerti se applaudirla o lapidarla, percorsi dall’invidia per questa sua abilità o forse per una femminilità ancora tutta embrionale. Tutto il campo infatti è su ghiaia che in caso di pioggia protegge dal fango. Le prometto che al mattino successivo l’avrei aspettata alle 10 e che se qualcuno avesse voluto danzare con lei, lo avremmo accolto volentieri.

Al mattino dopo di buon ora mi metto a ramazzare la pedana liberandola dai sassolini così che i piedi non si feriscano e possano danzare nudi sul pavimento. Lavo il pavimento pieno di polvere. Fuori dalla tenda appendo un grande foglio con scritto: ore 10 stage di danza! E poi sulla pedana metto alcuni cartelli: solo a piedi nudi.

Lentamente arriva Elsa con l’amica. Senza dire una parola si tolgono le scarpe e iniziano a danzare. Uso le musiche coinvolgenti di un cd di musica indiana pellirossa: è una musica che seduce alla vita e …come un novello Orfeo sento il desiderio di riempire le loro orecchie di qualcosa che possa riparare le ferite dall’interno: come se facessi la fantasia di poter immettere un anticorpo attrezzato a rendere antisismiche le loro strutture mentali.

Pian piano si avvicina anche qualche maschio: Mario, che ha già undici anni mi chiede se può partecipare. Gli dico che l’unica regola è di stare sulla pedana per danzare a piedi scalzi, lasciando le parole giù e permettendo che il nostro corpo esprima quello che desidera.

Mario sceglierà la stoffa rossa e non l’abbandonerà più. Più volte verrà richiesto di fare lo stage di danza e Mario sarà uno degli affezionati ballerini. La stoffa rossa lo avvolgerà, con essa si rotolerà sul pavimento, lasciandosi accompagnare, e cullare, in questo rotolamento, dalle mie mani in un abbraccio rispettoso della distanza che potrà forse fargli sentire che c’è un contenitore rosso come il sangue e il fuoco, caldo come le mie mani e come la vita, in cui essere protetto. Mario è il ragazzino più violento del gruppo, è quello che la sera prima aveva iniziato a lanciare i sassi, è quello che distrugge i giochi e picchia i più piccoli, ma sarà anche il danzatore più creativo del gruppo, che attirerà altri maschi, disposti ad imitarlo (lui è “il capo” dei piccoli). Da questa danza nascerà il canovaccio di una coreografia che presenteremo al pubblico della tendopoli (mamme, nonni, volontari, amici e fratelli maggiori, nascosti dietro le “finestre di plastica” della tenda). Ci accorderemo su alcuni movimenti base, lasciando alla spontaneità il resto. Mario vorrà danzare come primo ballerino con me in una lotta tra tessuti che si scontreranno ruotando attorno ai nostri corpi al ritmo via via più frenetico della splendida musica di Vangelis “The conquist of Paradise”. Elsa avvolta da giorni in un telo nero tutto ricamato, metterà forse in scena un lutto che non si può pensare. Mino inventerà movimenti sincopati e frammentati come le tante pietre staccate dalle case del paese. Tutti insieme creeranno un finale che non avevamo programmato, ma di grande effetto che mi rammenterà come i bimbi abbiano spesso un asso nella manica che, se diamo loro uno spazio adeguato, riescono a tirare fuori, trascinando noi adulti, in una speranza insperata.

Ma la cosa che più mi toccherà emotivamente sarà quando, sabato, ultimo mio giorno di presenza in tendopoli, ormai stretta tra preparativi e pulizia della tenda, i bimbi mi chiederanno di danzare ancora, non stanchi di questa possibilità ricca di potenzialità emotivo/espressive: “Ambra danziamo ancora con le stoffe?” La loro richiesta mi fa pensare al ricordare, ripetere e rielaborare freudiano: “L'analizzato non ricorda assolutamente nulla degli elementi che ha dimenticato e rimosso, egli piuttosto li mette in atto, li ripete, ovviamente senza rendersene conto" (Freud, 1914). Il paziente non si libererà, finché rimane in trattamento, da questa coazione a ripetere e alla fine ci si rende conto che proprio questo è il suo modo di ricordare.

Ebbene io ci sto, ma chiedo loro di pulire la pedana come avevano spontaneamente scelto di fare assieme la sera dello spettacolo: armati di scope e moccio, da soli l’avevano rimessa in sesto, pronta per accogliere gli “artisti”!

Torniamo ancora a danzare assieme, una danza che ad un certo punto è così coinvolgente che fa tremare la pedana… “il terremoto”, dice Asia… “siamo noi il terremoto!” e noi a mimare con le stoffe il movimento ondulatorio e sussultorio, a mettere in scena il trauma in una forma nuova, dove sono loro la terra viva che si muove, dove possono sentirsi, per gioco, padroni di un evento che li ha travolti e che ha reso impotenti, in un tempo in cui questo è impensabile, i loro genitori.

Mentre la pedana trema e le stoffe ondeggiano ritmicamente sussultando e nascondendo alternativamente i nostri volti, sento l’emozione sommergermi, lacrime invisibili ai bimbi rigano il mio volto, percepisco intensa, depositata dentro di me, una piccola porzione delle loro paure e l’accolgo con la gioia di condividere un momento, minimo, ma importante dell’elaborazione di questo evento significativo delle loro giovani vite.

Poi in un attimo tutto si ristruttura, l’ansia non può essere tutta depositata in me e un pochina si gioca tra di loro scatenando un conflitto tra i maschi che abbandonano le stoffe e si picchiano come solo a quell’età si riesce a fare. E’ per me il segnale che la “seduta” è finita e che devo accettare l’impotenza di un mio sogno onnipotente di cambiare tutto in un attimo!

Rimettiamo a posto e andiamo a pranzo.

Quando entro nella grande sala mensa penso di voler pranzare con gli altri volontari così da scambiarci indirizzi e saluti. Sono tra i primi della fila al self service.

Con il mio vassoio scelgo un tavolo libero, ci sono sei posti, gli altri mi raggiungeranno fra un po’, penso: li vedo lontani fare la fila per avere la pastasciutta.

Ma… ad uno ad uno si avvicinano i bambini: Posso sedermi vicino a te? Posso pranzare qui?

E allora i gesti lasciano spazio alle parole e in questo ultimo scampolo di tempo, proprio poco prima di salutarmi, mi raccontano dei loro progetti per il futuro: chi vuole fare l’imbianchino, chi la parrucchiera, chi l’assistente sociale, chi la maestra… professioni concrete, da bambini…

Ma anche mi raccontano della loro scuola… terremotata, con danni forse irreparabili (è in effetti una delle scuole da ricostruire ex novo), con le crepe che facevano paura già molti giorni prima del 6 aprile… “pensa se il terremoto fosse venuto quando eravamo in classe saremmo morti tutti…”

Ci sono parole così semplici e concrete, che a volte ci dicono i nostri pazienti, e che quel giorno mi dissero i bambini di Camarda, che hanno il potere di “bucarti il cuore”, di penetrare dentro per non uscirne mai più, ma permettendo legami che possono finire nella quotidianità, ma che resteranno per tutta la vita nella mente.5

Credo sia indispensabile, nel lavoro con dei bambini in situazioni di emergenza, proporre loro attività ludiche il meno strutturate e saturate possibile (far trovare loro dei materiali di recupero: stoffe, carta da impacco, palloni di varie dimensioni, vecchi scatoloni, cerchi, colori a dita, colori da teatro, abiti per travestimenti, animaletti di plastica, argilla per costruzioni, ecc.) da proporre abbinando le sessioni di incontro alla musica, che offre un contenitore mentale e favorisce la concentrazione: ovviamente è necessario saper scegliere musiche adatte, non troppo conosciute, con suoni a volte primitivi, non necessariamente armonici, che alternino suoni sul cotè eccitatorio e su quello depressivo per stimolare da un lato l’emergere della vitalità e dall’altro la possibilità dell’elaborazione del lutto e dell’impotenza. Proporre alternativamente queste attività ed essere aperti a comprendere e interpretare i movimenti individuali e del gruppo (l’individuale è sempre un emergente gruppale), cogliere queste cose nella riservatezza della propria mente, lasciando ai bambini la libertà di decidere quando passare alla parola, al racconto o al disegno.

Fondamentale è lasciare liberi i bambini di decidere il timing delle cose da fare (non siamo al Club Mediterranee!) e non interpretare noi con le parole, ma interagire con la nostra spontaneità e personalità. Esserci.

Rispetto alla cittadinanza attiva posso segnalare un progetto, partito dai servizi per la salute mentale di Trieste, che appoggia e sostiene appunto i vari atti di partecipazione della cittadinanza, supportandoli con un lavoro che mette in rete enti pubblici e associazionismo locali proprio per riavviare l’economia, la cultura, la religiosità, le relazioni, e altro.

Mi ha detto un collega abruzzese, in serie difficoltà economiche dopo il terremoto, entrato nella categoria dei “nuovi poveri”, che gli era venuto in mente quanto un parroco dell'unica chiesa rimasta in piedi a L'Aquila, San Francesco d'Assisi a Pettino, amava ripetere: "Non pensate di venire qui e di risolvere chissà cosa. La vostra presenza ci è di conforto perché ci spronate a reagire e ad impedire che assumiamo un atteggiamento vittimistico" Per inciso Pettino, il suo paese, è stato l'unico quartiere de L'Aquila che ha rifiutato la Protezione Civile, in quanto riteneva che una  presenza esterna avrebbe di fatto espropriato gli aquilani da quel rimboccarsi le maniche che solo porta ad essere artefici della ricostruzione. Mentre di fatto si è assistito ad una sorta di militarizzazione che in alcune zone si è fatta sentire particolarmente persecutoria. Gli abruzzesi ora ci chiedono di ascoltarli, di sentire lo stato di paralisi in cui sono ridotti, di prendere atto che si può annullare ogni forma di "voglia di ricostruire" dietro una falsa solidarietà fatta con uno "stiamo provvedendo per voi".”

Ebbene io credo che un importante lavoro di sostegno, soprattutto nella seconda fase dell’emergenza, quella che può durare anni e che avviene quando i riflettori di televisioni e giornali si sono spenti, consiste appunto nel non essere qualcuno che ricostruisce per loro, ma essere dei punti di appoggio, qualora serva, a loro discrezione, mentre loro ricostruiscono la loro regione e le loro vite. Bisogna aiutare a riprendersi e reagire tollerando il sentimento di rabbia da un lato e di rassegnazione dall’altro. Comprendendo che la sensazione che sia tutto bloccato e fermo ha a che fare con il vissuto profondo che loro sono bloccati e fermi, in attesa del salvatore. Penso ai due ragazzi nell’ascensore dell’albergo (Cusin, 2009), a cui ho accennato all’inizio, che, sfollati, si raccontavano come quell’ascensore tendesse a bloccarsi e a tenere a lungo ferme senza poter far nulla le persone… E questo sentimento a volte viene stimolato dallo stile di alcuni atti politici perché la ricostruzione, certamente necessaria, se imposta è più facile da gestire.

Invece il modello che in Friuli ha funzionato è stato il modello della "cittadinanza attiva". Del gruppo di lavoro in definitiva, della partecipazione.

Chi deve metterci forza e lavoro è la popolazione colpita dal disastro, anche nell'aiuto e nel sostenersi l'uno con l'altro che però, dopo la fase iniziale, si trasforma purtroppo in competizione, in una sorta di attacco, senza possibilità di fuga . Dove la fuga avviene forse con il disagio psichico, con l’immobilizzazione. Credo sia un interessante ossimoro l’immagine di una fuga che avviene attraverso una paralisi!

Il fatto che noi, esterni, continuiamo a sostenere che il loro attivarsi è possibile e che il futuro potrebbe essere migliore può smuovere rabbia, forse utilmente, perché nella condizione in cui sono sembra che ciò non sia vero. E questa rabbia va compresa ed è giusto che venga espressa. Magari il sostegno consiste proprio nell’ accogliere la loro rabbia. Credo sia fondamentale anche arrabbiarsi per poter rinascere dalle macerie!

In questa settimana di permanenza a Camarda ho capito che un intervento di emergenza deve prevedere il contributo anche di professionisti formati analiticamente, capaci di accogliere intrapsichicamente il nuovo, lo sconosciuto, l’impensabile così da condividere profondamente l’esperienza del trauma, tridimensionalizzandola (piuttosto che appiattirla nella semplicistica e saturante diagnosi di PTSD) così da essere strutturati il più possibile in maniera antisismica, ovvero - come più volte ripeteva Resnik nei suoi gruppi di analisi – in modo sufficientemente e adeguatamente elastico e sensibile alla vita.

 

Bibliografia

J. ALTOUNIAN, (2009) “Di che cosa sono testimonianza le mani dei sopravvissuti. Dell’annientamento dei viventi, dell’affermazione della vita” in G.Leo: La psicoanalisi e i suoi confini, Astrolabio, Roma

S. AMATI, P.BRUNORI, M. CURI NOVELLI, A. CUSIN (2010): “Rumori di sottofondo” in Violenza: esplorazioni, di M. Fabra e A. Iannaccone Pazzi ( a cura di), Quaderno degli Argonauti, n. 20/2010, CIS Editore, Milano

W..R. BION (1948), Esperienze nei gruppi, Armando, Roma, 1971

W.R. BION (1963), Gli elementi della psicoanalisi, Armando, Roma, 2003

A. CUSIN (2009), Il mito di Orfeo: una riflessione sugli effetti delle parole dell’analista, letto al Centro Veneto di Psicoanalisi, aprile 2009

A. CUSIN (2009), Appunti dalla costa abruzzese, la situazione dopo il terremoto.www.psychomedia.it

A.CUSIN (2010), “Il vento fa il suo giro” in C. Bertogna, A. Cusin: L’inquietante enigma che ci abita, Transmedia, Gorizia,

S. FREUD (1914), Ricordare, ripetere, rielaborare, vol 7, Opere, Boringhieri, Torino

F. DE MASI (2006), “Stati traumatici e processi di de-umanizzazione”, letto nell’ottobre 2006 al Ghisleri di Pavia. Una trattazione più completa di questo tema è pubblicata in Trauma, Deumanizzazione e Distruttività. Il caso del terrorismo suicida, ed. Franco Angeli, Milano, 2008.

D. MELTZER (2004), Transfert, adolescenza, disturbi del pensiero, Armando, Roma

N.ZAIJDE (1995), I figli dei sopravvissuti, Morett&Vitali, Bergamo, 2002

Ambra Cusin

Via Pisoni, 13 – Trieste

040 5705135 . e-mail ambracusin@yahoo.it

1 Questo lavoro è stato letto al Primo Seminario Terremoto dell'esperienza: la latitanza istituzionale del Ciclo di seminari

organizzati dal Collegio Ghislieri Pavia sul tema “La Solitudine.Esplorazioni”

2 Interessante è la storia, tra mito e realtà, della Madonna che gira con un preciso rituale, sotto forma di quadro per le case degli abitanti di Camarda, e che da qualche tempo, dopo essere stata “salvata” dalle macerie e portata in tendopoli, è sparita. Per conoscere meglio la storia guardare sul sito www.mascifvg.it il diario dei giorni di servizio tra l’1 e l’8 agosto 2009.

3 Parentesi mie.

4 Sono molto interessanti le diatribe tra abitanti in cui ci sono accuse reciproche da parte di chi ha la casa poco danneggiata a chi vive in tendopoli di “approfittare degli aiuti e vivere a spese dello stato” e degli altri, quelli che abitano nelle tendopoli, di accusare chi sta nelle case di chiedere aiuti per piccoli lavori e danni precedenti al terremoto.

5 Non ho qui il tempo di raccontare come i bimbi più piccini abbiano messo in scena Cappuccetto Rosso, che con un finale a sorpresa, creato da me che non tolleravo veder morire il lupo (il piccolo Alberto) lo facevo cacciare nel bosco ad ululare alla luna. Non ho tempo neanche di raccontare del vecchio signor Giuseppe, ex alpino e pastore abruzzese, che ha voluto guardare i bimbi giocare con le stoffe e si è lasciato avvolgere nella stoffa rossa, come un novello brigante per poi cantare con me le vecchie canzoni degli alpini e della guerra!

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