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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: MODELLI E RICERCA IN PSICHIATRIA

Area: Medicina di Base e Psichiatria

Sull'esperienza di un Gruppo Balint extra istituzionale a Crema


di Giancarlo Stoccoro* e Franca Beatrice**



"Sentirsi male sembra voler dire
che il dolore impedisce
l'ascolto di se stessi.
La malattia conduce
Il suo corpo lontano,
troppo distante per essere udito"
(V. Magrelli, Nature e venature)


"Il fatto che la medicina odierna non possegga una propria dottrina sull'uomo malato è sorprendente ma innegabile. Essa evidenzia manifestazioni dell'essere malati, differenze tra cause, conseguenze, rimedi delle malattie, ma non individua l'uomo malato. La sua coscienza scientifica non le permette di parlare di un mistero così enorme, e così voler dire e insegnare qualcosa di scientifico dell'uomo malato sarebbe al di sotto della dignità o al di sopra dell'umiltà di questa coscienza. Certamente, il medico al letto del paziente parla con lui e di lui. Ma poi passa dalla sfera della scienza a quella della prassi (salendo o scendendo?), e lì di nuovo è tutto completamente diverso... proprio questo passaggio è interessante e anche di più: per il discepolo dell'arte, per il medico, è il luogo delle tensioni, degli stati d'emergenza, dei problemi di formazione, è l'origine di una catena specifica di movimenti di vita e di pensiero".
(Vicktor von Weizsäcker, La filosofia della Medicina, 1926)
Introduzione
Nella mia pratica quotidiana mi sono accorto di quanto questo scritto di von Weizsäcker, medico-psicosomatico e filosofo che si proponeva di rimettere in sesto la scienza, affermando che "per comprendere il vivente bisogna prendere parte alla vita", a distanza di quasi ottant'anni sia ancora di grande attualità. In qualità di consulente psichiatra e psicoterapeuta nei diversi reparti dell'ospedale, in pronto soccorso e durante i frequenti contatti con i medici di base per la gestione dei pazienti sul territorio, ho avuto occasione di verificare quanto sia imprescindibile recuperare sempre il paziente come "persona" e il medico come "medicina", cioè di come il modo di elaborare e sentire la relazione col malato influisca sul comportamento professionale, sulle decisioni diagnostico-terapeutiche e sulle risposte del paziente e del suo ambiente.
Michael Balint (medico e psicoanalista nato a Budapest nel 1896 e morto a Londra nel 1970) già alla fine degli anni '40 a Londra istituì, insieme alla moglie Enid, seminari di ricerca e di addestramento, i cosiddetti gruppi Balint, per sensibilizzare i colleghi alle componenti interpersonali della terapia. In essi psicoanalisti e medici partecipano a un lavoro comune, che non è terapia di gruppo, bensì un operare, avendo il paziente come punto di riferimento, sul contro-transfert, cioè sul "modo in cui il medico utilizza la sua personalità, le sue convinzioni scientifiche, i suoi modi di reazione automatici", al fine di ottenere "una modificazione notevole, seppur parziale", della sua personalità. Borgogno (1979) afferma che essi offrono "uno spazio di ripensamento e di riflessione sul proprio lavoro e, in molti casi, una concreta occasione di contenimento emozionale e di maggiore integrazione della propria esperienza".
I gruppi originariamente erano costituiti da 8/10 medici generici e uno o due psichiatri-psicoanalisti che si riunivano una volta alla settimana per un periodo di due-tre anni. La discussione verteva quasi invariabilmente su osservazioni recenti di malati, riferite dal medico curante stesso. Balint riteneva fondamentale che si creasse un'atmosfera di libero scambio, in cui ogni partecipante potesse presentare i propri problemi con la speranza di riuscire a chiarirli attraverso l'esperienza degli altri.
I gruppi Balint sono per tradizione orientati verso il paziente, ma recentemente sono più centrati sul medico, con maggiore enfasi sul contesto nel quale i medici presentano e raccontano le loro "storie". Grazie agli apporti e ai cambiamenti delle diverse tecniche di gruppo, siano esse psicoanalitiche o meno, attualmente le "funzioni terapeutiche del gruppo" sono molto più evidenti (Tizon Garcia, 1997).
Sono molto diffusi sia in Europa che in America; esistono una federazione internazionale e diverse federazioni nazionali. In alcuni Paesi (per prima al mondo la Croazia) sono stati introdotti come parte ufficiale dell'educazione dei medici di famiglia (Kulenovic et al., 2000). Tali gruppi si sono rivelati utili per tutti gli specialisti (internisti, gastroenterologi, ortopedici, fisiatri etc.) e in generale per "aiutare chi aiuta", cioè per tutti gli operatori sanitari e sociali. Varie ricerche hanno dimostrato che i gruppi Balint contribuiscono a prevenire i disturbi legati allo stress lavorativo (burn out). Questo tipo di gruppo è stato applicato con successo anche agli studenti di medicina e agli insegnanti.
Negli ultimi anni però il metodo Balint è stato anche contestato per la centralità delle teorie psicodinamiche a scapito di altri orientamenti (per esempio quello cognitivo-comportamentale), per la controversia sulla necessità di un training psicoterapico individuale per i medici e per il rischio che i medici formati con tale metodo focalizzino troppo la loro attenzione sui fattori psicologici (nei paesi anglosassoni è stato coniato il termine "to balint" per descrivere ironicamente i medici di famiglia che offrono interpretazioni psicoanalitiche a pazienti che non ne hanno fatto richiesta). Un altro problema è la costituzione dei cosiddetti gruppi "balintoidi", nei quali la diffusione del metodo avviene secondo un filone di improvvisazione e senza una comunità d'intenti, come già paventato da C.L. Cazzullo.
Nonostante queste critiche i gruppi Balint rimangono "il miglior modo per riflettere sul proprio stile comunicativo e sulle emozioni che i pazienti suscitano in noi" (Garcia-Compayo et al. 1995).
Recentemente è stato pubblicato il resoconto sull'esperienza, tuttora in corso, della USSL 26 di Melegnano (MI) di sensibilizzazione del medico di famiglia all'uso di se stesso come strumento diagnostico e terapeutico nel riconoscimento dei disturbi psichici nei pazienti (Pergami et al. 2001). In quest'esperienza l'approccio psicodinamico è stato integrato con il metodo cognitivo-comportamentale.


La costituzione di un gruppo Balint a Crema

"Non chiedere la strada a chi già la conosce, ma a chi come te la cerca"
(E. Jabès, Il libro dell'ospitalità)

"Viandante la via si fa con l'andare", diceva Antonio Machado. Se è vero che per riuscire a lavorare occorre avere almeno un paziente ma anche un collega in grado di ascoltarci, "strada facendo", soprattutto all'interno del percorso di lavoro istituzionale, mi sono accorto di quanto spesso manchi questa seconda opportunità. L'idea di costituire un gruppo Balint è nata quindi da una reciproca esigenza d'incontro con medici specialisti e medici di base, conseguente non solo alla difficoltà di comunicazione sulla gestione dei casi, ma anche al desiderio di non essere più soli con i propri pazienti.
Più volte, durante la richiesta di una consulenza "senza qualità" (Petrella) in veste di psichiatra, ho avvertito la necessità di decodificare la domanda del collega richiedente. Mi sono così accorto che il consulente presta maggior ascolto al medico consultante che non al paziente e che il suo scopo primario è "migliorare la capacità, la conoscenza e l'obiettività del consultante e non quella di trattare il singolo cliente o paziente" (U'Ren).
La mia formazione psicoanalitica e gruppoanalitica mi ha portato a pensare di inscrivere in una cornice più ampia lo spazio d'incontro con i colleghi, quasi sempre limitato a una singola consulenza. Più volte ho ripensato al periodo di formazione durante la specializzazione in psichiatria e a quanto mi fosse utile proprio quel gruppo di confronto settimanale con i colleghi, sotto la supervisione di una ricercatrice dell'università.
La disponibilità, per non dire l'entusiasmo, con cui è stata accolta la mia proposta d'avvio del gruppo Balint si è inizialmente scontrata con problemi organizzativi, di politica aziendale, mascherati dalla cronica mancanza di tempo, schiacciati da concetti come efficacia, efficienza e qualità. Di fatto all'interno dell'Istituzione si parla molto di formazione permanente; spesso però si tratta solo di acquisire tecniche e nozioni sempre più specialistiche e parcellari che, se da un lato accrescono l'identità di tecnico, sono dall'altro lato di scarso aiuto nella gestione delle emozioni sempre in gioco nell'incontro tra persone.
Insieme a una collega psicologa-psicoterapeuta, operante in una provincia limitrofa (cui si è aggiunta in seguito una psicologa tirocinante in qualità di osservatrice partecipe e recorder), ho così dato inizio, nel gennaio 2001, a incontri extra istituzionali con medici di base e ospedalieri, dove poter sperimentare un tipo di contatto in cui non esiste più chi insegna e chi impara, bensì chi vive insieme agli altri gli aspetti psicologici a differenti livelli di penetrazione. L'ambizioso scopo è stato quello di riunirsi per "pensare in comune", consapevoli che "il gruppo, quando funziona adeguatamente, amplia la capacità di pensare dei singoli membri" (Tizon Gancia, 1997).
Il gruppo si riunisce una sera al mese, al di fuori dell'orario lavorativo, per circa due ore. La partecipazione è aperta, volontaria e gratuita. Non c'è stata una preselezione dei partecipanti, così come facevano i coniugi Balint per i loro gruppi, ma è stata offerta ai colleghi, in vario modo contattati, la possibilità di intervenire liberamente.
Non vengono affrontate situazioni di casi clinici seguiti contemporaneamente dai conduttori del gruppo e dai medici presenti.


Alcuni esempi tratti dagli incontri tenuti a Crema nel 2001

"La verità non è affatto nella domanda. Meno ancora nella risposta. Essa è nella provocazione dell'una e nello sconvolgimento dell'altra" (E. Jabès, Il percorso)

Non è certo possibile farsi un'idea precisa di che cosa sia un gruppo Balint e comprendere a pieno il suo significato senza averlo realmente sperimentato, proprio perché, come diceva il suo fondatore, "deve essere al di là di ogni spiegazione a parole, un'esperienza vissuta, dinamica e strettamente personale". Ritengo tuttavia che possa essere utile riportare degli esempi tratti dalle trascrizioni degli incontri, prima di presentare alcune considerazioni preliminari sull'esperienza in corso.
Dal gennaio al dicembre 2001 ci siamo incontrati 11 volte e la partecipazione media è stata di 6 medici (con un minimo di 4 e un massimo di 7), oltre ai due conduttori e alla psicologa recorder. Oltre a 6 medici di base, dei quali almeno 2 hanno partecipato con assiduità, sono stati presenti 2 gastroenterologi, un internista oncologo, un pneumologo, un neurologo, un dentista e un fisiatra. Negli esempi che seguono ho dovuto apportare alcune piccole modifiche per rispettare la privacy dei colleghi intervenuti e dei loro pazienti.
I° esempio
Si tratta del primo incontro, che ha visto la partecipazione di 5 medici (due medici di base: B1 e B2; l'oncologo: A; una gastroenterologa: C1; la dentista: D), oltre ai due conduttori.
I presenti vengono brevemente informati su come dovrebbe funzionare il gruppo. A ognuno viene data una copia delle linee guida essenziali sui gruppi Balint. Dopo una breve presentazione dei partecipanti, lo psichiatra conduttore ricorda che Balint spesso soleva sollecitare i colleghi a parlare dell'ultimo caso visto nella giornata.
A inizia a raccontare della situazione che l'ha coinvolto particolarmente proprio poche ore prima di venire al gruppo. Caso: il paziente è un uomo di 62 anni, ricoverato in neurologia, e per il quale viene richiesta la consulenza di un oncologo (A). Il medico che fa la consulenza propone una chemioterapia, ma il paziente non era a conoscenza della sua malattia tumorale. A rimane molto colpito dalla situazione imbarazzante nella quale si è trovato. Emerge che A era stanco e questo gli avrebbe impedito un'attenta valutazione della possibilità che il paziente non fosse informato sul suo stato di salute. Il paziente verrà poi trasferito proprio nel reparto del consulente oncologo, che si impegnerà a occuparsi personalmente del caso.
Interviene B1, la quale racconta la propria esperienza di paziente oncologica, segnalando la scarsa sensibilità del collega che a Bergamo, nel sottoporla a una scintigrafia total body, le ha detto: "Vediamo innanzitutto se ci sono metastasi vertebrali e cerebrali" (la collega ha subìto l'asportazione della tiroide per un tumore). Seguono alcuni commenti da parte dei partecipanti, che mostrano la loro disapprovazione per una simile condotta.
Il secondo caso viene portato da B2: "l'ennesima signora che nello stesso giorno mi chiedeva alcuni giorni di malattia e lamentava dolori diffusi al braccio, sembrandomi di scarso rilievo clinico, veniva da me congedata con terapia antalgica e 3 giorni di riposo. Tornata dopo una settimana, lamentando ancora un ulteriore peggioramento del dolore e presentando una documentazione di precedenti consulenze ortopediche e radiografiche che non attestavano nulla di patologico, acconsentivo a farle fare altri accertamenti, che comunque a mio avviso non avrebbero segnalato alcunché di nuovo. Pochi giorni dopo è ritornata in ambulatorio con una radiografia che attestava una grave calcificazione dei tendini di tutto il braccio e l'avambraccio. Inviata allo specialista, questi mi comunicava l'estrema gravità del quadro clinico. Da allora il rapporto con la paziente, che non ha ancora recuperato la piena funzionalità del braccio, è paradossalmente migliorato".
Il gruppo, stimolato dalle osservazioni dei due conduttori, rileva l'importanza in entrambi i casi del bisogno di riparazione della colpa da parte dei curanti.
II° esempio
E' il terzo incontro, al quale hanno partecipato 4 medici (B2, D, C1 e C2). Il primo caso viene descritto da un gastroenterologo (C2) che partecipa per la prima volta al gruppo, invitato dalla collega di reparto (C1), che era già venuta ai precedenti incontri. Parla di una signora anziana che presenta una serie di lamentele somatiche con scarsa obiettività, ma per la quale a nulla valgono le sue rassicurazioni. Anche l'invio allo psichiatra non viene raccolto dalla paziente, che continua ripetutamente a chiedergli esami e interventi. C2 ammette una sua idiosincrasia per pazienti di questo tipo che, peraltro, gli capitano spesso. In seguito ai contributi del gruppo, il collega riconosce di trovarsi in una situazione analoga con la propria madre, che presenta disturbi simili. Segue l'osservazione comune dei partecipanti sul fatto che, loro malgrado, si trovano a dover fare da medici a parenti e amici, che si rivelano spesso pessimi pazienti. Nasce la riflessione sulla necessità di mantenere una giusta distanza dai propri pazienti e viceversa: se i parenti sono pessimi pazienti, così anche i medici sono pessimi medici con i loro congiunti.
Il secondo caso viene riferito da C1: si tratta di una paziente conosciuta anni fa in occasione di una gastroscopia che non rilevò nulla di patologico. Malgrado C1 abbia cercato di convincere la signora a rivolgersi a un altro specialista per risolvere i suoi disturbi "psicosomatici", ella ha continuato ad andare regolarmente da lei per dei colloqui "psicoterapeutici". Dalla successiva discussione di gruppo emerge come anche in questa situazione sembra che siano i pazienti a scegliere il proprio medico e la propria cura.
III° esempio
Riporto qui solo un breve stralcio del quarto incontro al quale hanno partecipato B2,B3, D, A e una pneumologa (E).
All'inizio A riprende il caso che aveva portato nel I° incontro. La discussione si organizza attorno al rifiuto del suo paziente tumorale di dipendere dall'aiuto dei familiari piuttosto che dalla équipe ospedaliera, anche dopo la dimissione. Si tratta, secondo il collega, di un problema di comunicazione interna/esterna tra il reparto di Oncologia (che fa parte dell'Azienda Ospedaliera) e l'ADI - assistenza domiciliare integrata - (che fa parte dell'ASL).
A: "Il paziente oncologico, in genere, o non vuole dipendere e appoggiarsi ai figli o questi ultimi non vogliono prendersi cura di lui. Ciò rappresenta una situazione estremamente pesante, faticosa e penosa per i medici che se ne occupano. Anche i Comuni non offrono neppure assistenza a quei pazienti bisognosi di aiuto per le faccende domestiche". Il gruppo rileva che in effetti sembra esserci una maggiore disponibilità verso le persone da riabilitare piuttosto che verso i pazienti oncologici. Forse ciò è dovuto al fatto che questi ultimi suscitano una paura maggiore. C'è angoscia, perché in questa patologia si arriva a essere completamente dipendenti dagli altri.
IV° esempio
Si tratta del quinto incontro, al quale hanno partecipato B2, B3, A, C1,C2.
L'assenza di un collega ammalato dà spunto ai partecipanti per parlare delle reazioni dei pazienti di fronte a un medico malato: "Ah, ma allora anche i dottori si ammalano!".
B2: "I pazienti pensano che i medici siano immuni dalle malattie. A volte la gente si rivolge al medico di base anche se questi è a casa ammalato, perché non si fidano di nessun altro medico".
Secondo alcuni colleghi, i pazienti approfittano della disponibilità che il medico offre loro, convinti di poterlo contattare in qualunque momento. Si parla dell'urgenza del ricorso al medico, urgenza che in caso di malattia diventa anche urgenza "psicologica", bisogno immediato di aiuto. Questa osservazione conduce il gruppo a interrogarsi sulla difficoltà di alcuni medici a dire di no a un paziente.
Sorgono così le seguenti considerazioni: la relazione medico-paziente è unica e privilegiata; di fronte a un nuovo medico il malato si sente a disagio; la professione del medico è considerata una missione, per cui ci si attende da lui comprensione, disponibilità e attenzione al paziente come persona; l'immagine popolare del medico è caratterizzata dall'idea della sua onnipotenza; questa immagine mitica può giocare un ruolo importante nella scelta professionale; in caso di acuzie è importante fornire una continuità della cura e della gestione del paziente da parte dello stesso medico, perché questo rassicura il paziente.
V° esempio
E' l'ultimo incontro (l'ottavo) prima dell'interruzione estiva. I partecipanti sono B2, B3, A, D.
D espone al gruppo una difficoltà che ha incontrato nel momento in cui, durante una visita odontoiatrica, si è accorta che un suo paziente necessitava di svolgere indagini più approfondite per sospetta patologia neoplastica. D riferisce che il suo lavoro di dentista raramente la espone a comunicazioni del genere. Il gruppo pensa che una situazione di questo tipo genera spesso ansia nel medico che deve comunicare al paziente una possibile malattia grave. D rivela che in quel caso si è trovata a pensare a come il paziente avrebbe reagito alla sua comunicazione. Il gruppo riconosce in ciò una forte identificazione con il malato. Interviene A che dice che ai medici che lavorano in oncologia non mette ansia il dover comunicare al paziente che bisogna fare, per esempio, una TAC per approfondire un sospetto diagnostico. A distingue anche tra paziente e paziente: gli anziani accetterebbero qualunque notizia senza fare troppe domande. E' lui piuttosto che si sente in dovere di dare una quantità di spiegazioni a volte addirittura eccessiva. I partecipanti convengono che spesso i pazienti non chiedono per "riverenza" e i medici, da parte loro, hanno paura di generare ansia o di farsi scappare in modo inadeguato informazioni ansiogene non necessarie.
A accenna a questo proposito a quanto gli sta accadendo in famiglia: "Sto vivendo una situazione simile con mio nipote. Mio fratello è andato dalla pediatra del bambino, che è un po' confusionaria e poco chiara, e invece di chiedere a lei, si è limitato ad ascoltare per poi porre a me tutte le domande ".
La psicologa conduttrice GG interviene dicendo che dal modo in cui il medico parla e dall'atteggiamento con il quale si pone al paziente si capisce se vi è disponibilità al dialogo. Questo fa sì che i pazienti finiscano per rivolgere le loro domande sempre agli stessi dottori, anche quando è un altro collega che si sta occupando di loro. Deve appartenere alla professionalità del medico la capacità di comunicare. Si può essere scorbutici nella vita privata, ma quando si è di fronte a un paziente bisogna essere in grado di ascoltare e comunicare.
A: "Sarebbe necessario però che questa 'capacità' ci venisse insegnata all'università, altrimenti tutto è lasciato alla libera scelta". Il gruppo si confronta su questo problema e conviene che la capacità di comunicare non può essere insegnata. Durante la discussione emerge comunque che nella specializzazione in oncologia viene insegnato come comunicare con i pazienti, a differenza che in altre specializzazioni.
Lo psichiatra G sottolinea il fatto che D, in quanto dentista, è forse meno preparata a dare notizie come quella di accertamento per una malattia tumorale, potenzialmente mortale. Non esisterebbe una tecnica per le "cattive comunicazioni" perché, a volte, la difficoltà è del medico in quanto persona, che può essere in ansia lui stesso per la notizia che deve dare. GG sottolinea che D ha scelto una professione che ha poco a che fare con la morte. D parla di come anche la scelta di fare il medico implichi l'idea di poter controllare la sofferenza, il dolore, la morte nostra e dei nostri cari. G mette l'accento sul fatto che quando si dà una "cattiva notizia" si aggiunge sempre qualcosa che riguarda se stessi, qualche proprio "fantasma" rispetto alla morte e alla malattia.
A racconta che sulle cartelle cliniche di un suo collega non compare quasi mai la parola "cancro", ma piuttosto "k", "neoplasia","tumore". B2 rammenta che anche i neurologi per fare la diagnosi di cancro utilizzano talvolta il termine "discariocinesi".
G ricorda al riguardo una frase di Laing che diceva che la cosa più difficile è stare di fronte al paziente senza fare niente, cioè stare lì con lui.
Alla fine dell'incontro i medici presenti esprimono la loro opinione sull'esperienza fin qui fatta nel gruppo Balint.
D: "Per me è stata un'esperienza positiva che mi ha portato a riflettere di più, anche mentre lavoro, sul rapporto con i pazienti e con me stessa, le mie ansie e le mie emozioni".
A: "Quello che ho trovato più utile è stato il feedback degli altri e conoscere e confrontarmi con i loro diversi punti di vista".
B2: "E' stato utile lo scambio di esperienza con medici di altre specializzazioni".
B3: "Sapere di potermi confrontare con colleghi mi aiuta a sentirmi meno solo con i miei pazienti".
Per chi ha frequentato il gruppo è stato utile sentire e constatare come gli altri percepiscono la situazione in oggetto e pensare come si comporterebbero loro. Il gruppo è stato vissuto come uno strumento di analisi e di crescita. A aggiunge che è stato contento di aver partecipato, ma che non se la sentirebbe di dare di più, nel senso che non avrebbe più tempo per leggere o studiare.
VI° esempio
E' il nono incontro, il primo dopo l'estate. Vi partecipano B2, B4, B5, A, D, C2.
A spiega alle due nuove dottoresse (B4, B5) come è nato questo gruppo e quali argomenti sono stati affrontati negli incontri precedenti.
C2 (gastroenterologo in ospedale ma per lunghi anni medico di base e ancora con alcuni pazienti ambulatoriali), arrivato con mezz'ora di ritardo all'incontro, dice: "Sempre per la serie 'non so dire di no'" e racconta di un paziente con una grave malattia dovuta a un aneurisma e a una tromboflebite profonda all'arto inferiore: "Oggi mi sono recato a casa di questo paziente. Sia lui che la moglie sono molto antipatici, sono degli arricchiti che si sentono superiori agli altri. Il paziente è appena stato dimesso dall'ospedale. Questa sera ha chiamato perché aveva un gran dolore ai piedi. Quando sono arrivato a casa sua ho constatato che era finita la morfina. Ho prescritto il farmaco, ma nessuno sembrava poter andare in farmacia a prenderlo. Alla fine sono andato io, cercando anche la farmacia di turno".
Si discute del problema riguardante il limite entro cui il medico deve farsi carico del paziente. Il paziente si lega al medico che lo ha preso in cura (per esempio in ospedale) e continua a fare di lui il proprio referente, anche se una volta a casa dovrebbe rivolgersi al medico di base. C2 oggi si è detto: "Io non ho confini!".
G racconta un aneddoto su Freud che aveva dato da mangiare a un paziente affamato che era venuto da lui in analisi. In quel caso Freud era il medico o un amico? Vi è una differenza tra atto medico e bisogno dell'altro come persona. A volte va presa in seria considerazione l'idea della responsabilità che si ha nel fare un'azione. "Mi sono trovato anch'io una notte a ricoverare una paziente che era stata condotta in pronto soccorso dal 118. Questa signora, che appariva estremamente agitata, in realtà da due giorni vagava per la città senza mangiare. Una volta accolta in reparto, l'unico intervento è stato farle preparare un panino, dopodiché si è coricata senza bisogno di alcuna terapia".
Un medico di base, B4, parla di un suo paziente, affetto da quattro tumori, deceduto la settimana precedente, "per fortuna!", dice. "Qualche tempo fa aveva chiamato ma si era rifiutato di farsi ricoverare. La famiglia chiedeva il ricovero, non si sentiva in grado in quel momento di gestire il parente. Io non ho potuto obbligarlo. Sono rimasta da lui per tre ore, poi sono andata a casa, ma dopo poco ho deciso di tornare per vedere come stava. Arrivata là, ho trovato un uomo che non era più in grado di rispondere alle domande, era disorientato e confuso. Ho chiamato nuovamente il 118 per farlo portare in ospedale, ma è stato tutto inutile perché questa volta si sono rifiutati di intervenire". B5: "Non si poteva rispettare la sua volontà di morire?".
Altre difficoltà si riscontrano anche nel rapporto con i familiari. Secondo A il malato deve essere al centro dell'attenzione, ma bisogna considerare anche la relazione tra il paziente e la sua famiglia. B2 parla di un altro caso disperato nel quale il medico si sentiva obbligato a motivare sempre le proprie scelte alla famiglia del paziente.
VII° esempio
Si tratta di parte del resoconto del decimo incontro, cui hanno partecipato tre medici di base (B2, B4, B5), D, un fisiatra (F).
La dentista D inizia a raccontare un caso in cui il rapporto con un suo paziente ha subito la forte interferenza della moglie che lo ha accompagnato in studio. Si tratta di un signore che qualche mese prima aveva avuto un ictus, dal quale, però, si era ripreso bene. La moglie da subito si mostra molto apprensiva e cerca ripetutamente di entrare nella stanza dove D sta visitando il marito. La signora continua ad andare avanti e indietro. Dopo un po' D, accortasi di quanto stava avvenendo, invita la signora a entrare per stare accanto al marito. La signora si preoccupa della possibile sofferenza del coniuge e gli chiede ripetutamente: "Ti fa male? Ti fa male?" e l'uomo risponde di no. Tuttavia la signora continua a temere che il marito senta dolore. D a quel punto cerca inutilmente di rassicurare la signora, che continua a mostrarsi inquieta e lamentosa. D ricorda che pochi giorni prima anche la donna si era sottoposta a un trattamento odontoiatrico simile a quello del marito e che aveva temuto per il possibile dolore, pur avendo poi detto di non aver sentito alcun male.
Interviene B4 dicendo: "Spesso è la moglie che prende le decisioni per tutta la famiglia". Inizia così a parlare di una sua paziente che interviene sempre per tutti i suoi famigliari. La signora, un giorno in cui una delle due figlie, che è affetta da depressione, stava particolarmente male, ha chiamato l'ex genero, che non sentiva da quattro anni, affinché consolasse la malata. "Sembra non esserci modo di far zittire questa signora e impedire che intervenga in tutto ciò che avviene intorno a lei. La donna viene tutte le settimane da me per parlare dei suoi problemi di salute, dovuti al diabete, ma soprattutto parla della sua famiglia, della figlia, dell'ex marito di quest'ultima".
G sottolinea che bisogna capire se queste persone vogliono sentirsi dare delle risposte o se vengono "solamente per parlare. Forse stare lì ad ascoltarle può essere già molto importante".
B4: "E' che dopo 18 anni che ascolti le solite cose non ne puoi più! Preferisco che la signora mi chiami per andare a casa sua, piuttosto che riceverla nel mio studio, perché almeno posso dire <Mi dispiace, ma devo andare>. Potrebbe andare a sfogarsi con il vicino di casa! ". B2: "Ma ti sei chiesta perché viene proprio da te?". B4: "Perché nessun altro le va bene!".
G ricorda il caso riferito da C1 in un incontro precedente riguardante una paziente che aveva scelto lei, gastroenterologa, come "psicoterapeuta".
(...) B5 e B4: "Diventa difficile scindere i due aspetti, quello medico-fisico e quello psicologico". G: "Il rapporto col medico, se diventa stretto, implica il comprendere anche questi due aspetti". Sembra comunque che B4 sia, tutto sommato, contenta di assistere questa paziente, che non considera solo una persona pesante da sopportare.
B5 parla poi del caso di una giovane paziente che ha avuto un rapporto sessuale non protetto ed è venuta da lei a chiedere consiglio. Il medico di base da una parte la rassicura sulla scarsa probabilità di gravidanza e la invita ad attendere l'esito degli accertamenti che farà, dall'altra la rimanda a una scelta personale da condividere con il partner. Secondo i partecipanti la paziente strumentalizza il problema medico per trovare un consigliere, qualcuno che riesca a contenere la sua ansia. Se il medico si sente obbligato a dare risposte per tutto, finisce per essere lui ad andare in ansia. Il medico deve quindi trovare il limite alla propria assunzione di responsabilità.
B4: "Una mia paziente mi accusava di aver prescritto il Viagra al marito e poi un giorno mi ha detto: "Con me non ha rapporti da un anno e mezzo. Con chi l'ha usato questo Viagra?". Emerge poi che la paziente, che aveva trovato negli indumenti del marito uno scontrino fiscale con l'importo esatto del costo del farmaco, chiedeva la presenza del medico di base in tribunale come testimone per la sentenza di divorzio. Anche in questo caso il rapporto medico-paziente è stato utilizzato per un problema privato che esula dal ruolo del curante.
B2 racconta di una giovane coppia. Entrambi si sono rivolti contemporaneamente al medico di base: lui per una patologia cardiologica, lei invece presenta un problema diverso: è stata operata per un tumore al seno e ha scelto di essere seguita privatamente da un immunologo dal quale va, a detta del collega, senza una reale necessità, ogni 20 giorni, "altrimenti non starebbe bene". Sembra essere divenuta dipendente da questo medico. Secondo alcuni partecipanti al gruppo dovrebbe essere il medico a impedire che si instaurino relazioni di questo tipo. B2 condivide la preoccupazione del marito della paziente, che vorrebbe evitare che la moglie continui ad andare - anche inutilmente - agli appuntamenti con l'immunologo. Viene suggerito al medico di base di contattare lo specialista.
G avanza delle ipotesi sul fatto che questa coppia abbia anche altri problemi. Il marito potrebbe essere preoccupato per questo "medico speciale" e potrebbe temere di perdere la moglie, in quanto escluso dalle sue cure. Chiede quindi l'intervento del medico di base, che potrebbe pure sentirsi esautorato dal proprio ruolo di curante.
B2: "Il medico di base deve avere un certo distacco. Il paziente deve essere lasciato libero perché possa effettuare una scelta".
VIII° esempio
Uno stralcio dell'ultimo incontro dell'anno, al quale hanno partecipato D, F, B2, B4, B6.
D racconta il seguito del caso del giovane paziente cui ella doveva comunicare la necessità di sottoporsi a una TAC. Il giovane aveva perso da pochi mesi la madre, morta per tumore, e già da tempo avrebbe dovuto iniziare cure dentali, ma non si decideva mai. Quando D legge sul referto della panoramica che il radiologo consigliava di effettuare una TAC, si preoccupa sul cosa dire e come dirlo. Ne aveva parlato al gruppo e aveva poi deciso di parlare al ragazzo. Quando ne ha parlato con lui (che fra l'altro è ipocondriaco), questi avrebbe reagito negativamente. Da quel giorno D non l'ha più sentito né visto per lungo tempo. Circa un mese fa il ragazzo l'ha chiamata per scusarsi del fatto di non essersi fatto più sentire e le ha detto che aveva fatto la TAC, dalla quale non era emerso nulla di preoccupante. Nel frattempo ha ripreso la cura dentale e D ha notato che il rapporto con questo ragazzo è notevolmente migliorato.
D si chiede poi come mai con alcuni pazienti riesce a impostare un lavoro e portarlo a termine, mentre altri pazienti dopo solo una visita o due spariscono nel nulla. "Io non riesco a discriminare questi tipi di pazienti, anche se ormai ne ho visti molti!". GG: "Forse potrebbe essere positivo riuscire a creare una relazione in cui il dentista è vissuto come colui che aiuta a mantenere la salute, invece che come colui che guarisce la malattia!".


Conclusioni
Trattandosi di un'esperienza tutt'ora in sviluppo, è possibile fare solo alcune osservazioni preliminari.
Innanzitutto, la partecipazione aperta, volontaria, discontinua, con frequenti entrate e uscite di medici di diversa provenienza, gli incontri con intervalli piuttosto lunghi (circa un mese), se da un lato rappresentano al momento l'unica modalità di lavoro comune e di sopravvivenza di un gruppo come questo, dall'altro non consentono di fare riflessioni sulle dinamiche interne allo stesso, che richiederebbero un gruppo chiuso, con un setting più definito. Non è stato sempre possibile seguire l'evoluzione nel tempo delle diverse situazioni presentate durante gli incontri, proprio per la discontinuità dei partecipanti. Per molti, anche per i meno assidui, è stato tuttavia possibile vivere un'esperienza nuova che andava incontro a un'inespressa, ma quanto mai forte esigenza di confronto e dialogo. Per alcuni, addirittura, si è trattato di una vera e propria scoperta di una modalità di lavoro del tutto ignorata durante gli anni di formazione universitaria e di pratica professionale e che ha consentito di osservare con nuovi occhi l'esperienza di ogni giorno e di scoprire che vi sono processi che nel rapporto medico-paziente (gli indesiderabili e indesiderati effetti secondari del "farmaco medico") provocano ai medici un inutile disagio e ai loro pazienti irritazioni e sofferenza altrettanto inutili.
Durante l'esperienza dei diversi incontri c'è stato spesso uno spostamento dell'attenzione dal rapporto tra il singolo medico con il singolo paziente alle difficoltà incontrate dal medico all'interno del suo ambiente di lavoro, quindi nei confronti dei colleghi o di altri operatori. Questo può essere in parte legato al fatto che nel gruppo partecipano non solo medici di base ma anche ospedalieri. E' quindi più sentito il problema del malessere istituzionale o della difficoltà di lavorare all'interno di una équipe. Anche alcune situazioni riportate da medici di base comunque hanno mostrato la necessità di allargare il problema a un contesto più ampio che non sia quello tra paziente e medico, ad esempio considerando anche il rapporto con le famiglie dei pazienti e la gestione di situazioni che richiedono anche l'intervento di terzi (chiamata del 118 in una situazione acuta, coordinamento con l'ADI per la gestione extra ospedaliera di un paziente cronico, rapporto con gli specialisti).
E' emersa chiaramente la difficoltà di aggiungere il tempo del Balint a un lavoro già impegnativo e faticoso, ma, come non smetteva di sottolineare lo stesso Balint, il gruppo dovrebbe proprio consentire a chi vi partecipa di "risparmiare tempo nel tempo". Per raggiungere questo risultato è però necessaria una frequenza continua e duratura.
Rimane l'interrogativo se sia possibile o meno sperimentare all'interno dell'Istituzione una formazione di questo tipo, che potrebbe consentire forse una partecipazione più ampia e assidua, in uno spazio condiviso dove, per dirla con Gargani, non ci si trovi di fronte "alla tragedia della spiegazione conclusiva".

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GARGANI A. G.: l'organizzazione condivisa, Guerini e Associati, 1997



* Giancarlo Stoccoro
Medico chirurgo, specialista in psichiatria, psicoterapeuta
Via Salvo D'Acquisto 14 - 26010 Pianengo (Cr)
g.stoccoro@libero.it

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