Farmacoterapia e etnicitádi Emilio VercilloAbstract Since the introduction of first psychotropic drugs, several differences in dosages and side effects profiles were noticed in different countries. The widespread usage of psychopharmacological agents all over the world led to new knowledge on this issue, so that we can stress today that ethnic and cultural differences involve important differences in pharmacological effect. However, little is known about the mechanism involved in such different profiles. Biological and non-biological factors were considered, according to substances' pharmacokinetic and pharmacodynamic ethnic characteristics, as well as to cultural and social differences in different countries, normally included in the 'placebo effect'. In recent years European countries became multi-ethnic societies, and psychiatric facilities have to treat patients from many different origins, so that what is known as 'ethno-psychopharmacology' is becoming more and more important for psychiatrist. This paper is a review that outlines the state of research on this field, and tries to show the areas for future research. Introduzione Una serie di motivi ci spingono ad occuparci di questo tema, alcuni pratici, altri più tipicamente teorici, ma essenziali per fornire risposte ad alcune domande della nostra disciplina. 1) Quelli pratici derivano dalla effettiva necessità nella nostra attività clinica di scegliere, effettuata la corretta diagnosi, la terapia psicofarmacologica giusta nella scelta del farmaco, nel suo dosaggio minimo utile, nella previsione e riduzione degli effetti collaterali, nella previsione degli effetti terapeutici attesi, e dei loro tempi di comparsa; motivi pratici resisi urgenti in Italia con la rapida trasformazione, dovuta alla immigrazione o semplicemente alla maggiore facilità di spostamento, della popolazione dei nostri pazienti, divenuta variata e multietnica. 2) Quelli più teorici hanno a che fare con le domande sui fattori terapeutici in psichiatria, sulle loro interazioni sui substrati biologici, sulla cosiddetta 'psicologia della farmacologia' (Gutheil 1982), sul concetto troppo vasto di effetto placebo, su quanto di suggestivo o altro vi sia in ciò che biologico non è nella pratica farmaco-terapeutica; il tutto accentuato, e favorito quindi in qualche modo allo sguardo del ricercatore, da differenti culture, diversi concetti di malattia, di cura, di terapia, disuguali modi di fornirla, a volte dissonanti fra domanda e risposta quando le culture diverse si incontrano, come accade spesso nel caso della farmacoterapia. Eppure per certo nessun altro tipo di terapia non solo ha aspirato alla universalità della concezione e della applicazione, ma ha di fatto potuto diffondersi per tutte le società del globo, sicuramente non solo perché prodotto e portato dalla cultura occidentale dominante (altri prodotti come la psicoanalisi non hanno goduto per motivi i più vari della stessa sorte).
Che i farmaci psichiatrici non avessero una omogeneità di utilizzo ed efficacia in tutto il mondo fu chiaro subito, appena che, dopo la loro scoperta negli anni '50, nel decennio successivo fu possibile osservare le differenze tra le due sponde dell'oceano, in Europa e negli Stati Uniti, differenze nei dosaggi e negli effetti collaterali conseguenti, registrate nella letteratura di allora, che ancora oggi in qualche modo sussistono sia pure con notevoli attenuazioni, e che di fatto non si sa se attribuire a differenze biologiche tra le differenti popolazioni, o a differenze culturali riflesse nelle aspettative e nelle scelte delle differenti psichiatrie nazionali. Comunque una prima review dei lavori sul problema si deve a Murphy (1969, 1972), a cui si deve la sistematizzazione in un numero di meccanismi o fattori 'biologici' e 'non biologici' delle differenze riscontrate nell'utilizzo e nell'efficacia, mentre la sistematizzazione più recente, soprattutto per quanto attiene ai fattori psicobiologici, è contenuta in Psychopharmacology and psychobiology of ethnicity 1993, curata da Keh-Ming Lin, che si è particolarmente interessato proprio di etnopsicofarmacologia, insieme a Poland e Nakasaki. In Italia è stato il gruppo del prof. Frighi di Roma, forte della sua esperienza clinica in ambito romano sugli immigrati, ad occuparsi del problema sin dal 1993, come testimoniato in diversi convegni e congressi.
Cominceremo la disamina dei fattori implicati nelle variazioni riscontrate, partendo da quelli meno studiati da un punto di vista scientifico, più soggetti ad essere riportati in lavori aneddotici e speculativi, ma più centrati sugli aspetti culturali. Procederemo da quelli più in qualche modo 'esterni', verso l'interno della interazione farmaco-organismo.
Un ruolo può essere giocato dalle differenti modalità prescrittive in uso nei vari paesi, come detto, con disparità di dosaggi e di tipo di farmaci utilizzati, ma un altro fattore è costituito dalle diverse aspettative sulle terapie e sul decorso delle forme patologiche da parte dei curanti. Oppure ancora da pregiudizi diagnostici nei confronti di gruppi etnici, cui consegue una determinata prescrizione passibile di differente efficacia. Sarebbe il caso, per esempio, se diagnosticassimo, forti della conoscenza della letteratura, buona parte delle forme psicotiche che ci si presentano in persone immigrate dall'Africa come reazioni psicotiche brevi, o reazioni acute da transculturazione, e ci aspettassimo una rapida risoluzione del quadro con l'aiuto di leggere dosi di NL, o anche senza, per poi scoprire che esistono anche forme schizofreniche o maniacali in Africa, che richiedono ben altra terapia.
Sotto questo termine vengono classificati nei trial clinici tutti quegli effetti positivi in genere, non attribuibili alla diretta azione farmacologica del farmaco. Che il termine designi una categoria troppo ampia e confondente di fattori i più diversi è stato largamente affermato, ma di fatto al di là di sofisticati metodi statistici per considerarne il peso -notevole- nelle ricerche farmacologiche, e per escluderlo, seri studi per esaminarne le diverse componenti non sono stati effettuati, soprattutto per quanto attiene gli studi transetnici e transculturali. Fa eccezione ad esempio uno studio condotto sul valore simbolico dei colori delle pillole in differenti popolazioni (Buckalew e Coffield 1982), che si inserisce nel vasto numero di studi sulla percezione differente dei colori nelle varie culture; così, le pillole bianche sono viste da bianchi come analgesici e dai neri come stimolanti, laddove l'opposto avviene per pillole di colore nero. Sono invece presenti studi che confrontano il differente peso che l'effetto placebo ha nelle stesse terapie su gruppi etnici diversi, per esempio le fenotiazine su bianchi e afroamericani nel 1966 (Goldberg et al.), o di alcuni AD su colombiani rispetto a nordamericani (Escobar e Tuason 1980), entrambi mostranti una maggiore rilevanza nei neri e nei latini dell'effetto placebo. Si ritiene che questo campo sia meritevole di maggiore approfondimento nelle future ricerche.
Non bisogna sottovalutare l'azione di farmaci tradizionali nelle differenti culture nella interazione con le terapie prescritte. Molti dei prodotti erbacei anche delle nostre erboristerie sono tutt'altro che neutri, e possono interferire con tutti gli altri farmaci a livello sia farmacocinetico (assorbimento, metabolismo, trasporto plasmatico e proteico, escrezione), che farmacodinamico (agendo in competizione o sinergismo sugli stessi o differenti siti recettoriali). Rimando per questo alla letteratura competente.
E' stato dimostrato come differenti livelli di stress sociale, così come l'influenza di differenti stili familiari anche allargati sulla rete di supporto al malato mentale, svolgano un effettivo ruolo sulla frequenza di ricadute, sulla prognosi e gli esiti, sulla compliance alle terapie, ed anche sul dosaggio di farmaci necessario per l'efficacia. Dobbiamo a Lieberman e a Faloon aver dimostrato con rilevazioni epidemiologiche questa ipotesi nelle terapie con ortotimici nei bipolari, e con neurolettici negli schizofrenici, nonché l'averlo concettualizzato nella teoria delle Emozioni Espresse. Alcuni studi successivi hanno confrontato famiglie Nordamericane e Britanniche, o Nordamericane e Ispaniche in rapporto a questo fattore, (riassumibile grossolanamente come tendenza alla ostilità, alla critica frequente e puntigliosa, all'ipercoinvolgimento emotivo), trovando notevoli differenze nelle culture esaminate. E' probabilmente questo il fattore maggiormente implicato nelle differenze di decorso che gli studi epidemiologici su scala mondiale hanno mostrato nei diversi paesi, come riassunto nella relazione del prof. Jilek al 1997 International Symposium on Cultural Psychiatry della WPA, Roma.
E' esperienza psichiatrica comune, ed è -più importante- documentato scientificamente, che i tratti personologici individuali costituiscono una variabile importante nella farmacoterapia, laddove venga considerata la singola prescrizione. In fondo il modello del trial randomizzato in doppio cieco sorge per escludere queste componenti, che invece sussistono nella pratica clinica. E' inevitabile che le modificazioni psicologiche indotte dal farmaco interagiscano con la particolare psicologia dell'individuo, dando origine a variabili esiti tra quelli possibili previsti del farmaco. Esistono una serie di studi che correlano ad esempio una maggiore probabilità di effetti 'paradossi' in presenza di tratti, individuali e di gruppo, caratterizzati da tendenza all'individualismo, all'affermazione personale, all'indipendenza, di contro all'attesa di effetti più ortodossi in presenza di aspetti legati ad una cultura fondata sulla interdipendenza, sull'adattamento sociale e sulla fiducia reciproca dei membri: si potrebbe dire che più una cultura è caratterizzata da aspetti paranoidei, più facilmente ci si può attendere una minore risposta o una reazione paradossale al farmaco, ai dosaggi abituali. Ovviamente, come per i tratti individuali di personalità, è possibile che aspetti psicobiologici, insieme a quelli culturali, siano sottesi a tali differenze di gruppo, magari evoluzionisticamente selezionate.
Sono stati maggiormente studiati, sebbene molte aree rimangano ancora inesplorate, soprattutto nel campo della farmacodinamica. Infatti possiamo suddividere questi fattori nelle due categorie della farmacocinetica e della farmacodinamica, integrando nel primo termine quanto attiene all'assorbimento, distribuzione, metabolismo e escrezione, e nel secondo quanto dipende dall'azione del farmaco sull'organismo. Una larga messe di ricerche hanno dato origine all'interessante e relativamente nuovo campo della farmacogenetica (Kalow 1992, 1993), che studia le differenze etniche nel metabolismo dei farmaci, geneticamente fondate. Differenze e deficit nei numerosi enzimi implicati nel processo metabolico sono state così riconosciute nelle varie popolazioni, tanto da giustificare effetti difformi dei farmaci somministrati. I sistemi più studiati sono quello dell'acetaldeide-deidrogenasi, deficitario in popolazioni cinesi, vietnamita, e giapponese, responsabile di una flushing-sindrome, simile a quella secondaria all'azione di Antabuse, negli orientali assuntori di una quantità anche minima di alcool, e più recentemente il sistema del citocromo P450, implicato nel metabolismo ossidativo di una larga congerie di sostanze, tra cui quelle di interesse farmacologico; questo sistema ha una distribuzione caratteristica in differenti popolazioni, e si pensa si sia isolato in una forma particolare in seguito all'azione pressoria evoluzionistica di diete particolari e altri fattori ambientali.
L'azione di componenti della dieta non si limita a favorire l'evoluzione di particolari enzimi, ma comprende la possibilità di interferire con l'espressione genica, e con la diretta attività enzimatica, rendendo così ragione di differenti pattern metabolici di farmaci come l'antipirina in gruppi etnici uguali, ma residenti in luoghi diversi, come Indiani in Gran Bretagna (Fraser e coll. 1979), o sudanesi di nuovo in G. Bretagna (Branch et al 1978), o ancora tra asiatici e ispanici viventi a S.Francisco, rispetto ai rispettivi connazionali non immigrati. Non è conosciuto quanto influenze similari agiscano su farmaci psicotropi a variarne la farmacocinetica.
Laddove studi centrati sulla differente farmacocinetica delle fenotiazine hanno mostrato risultati discordi (Midha e coll. 1988, Jann et al. 1993), differenze sono state registrate per quanto attiene l'aloperidolo. Specificamente sono stati replicati studi dimostranti una diversa distribuzione dei livelli ematici di aloperidolo, maggiore di circa il 50%, in Asiatici rispetto a Caucasici, con una sovrapposizione dei livelli intermedi, per uguali dosi assunte; questo sia in pazienti schizofrenici che in soggetti normali (Potkin et al. 1984, Lin et al. 1988). In quest'ultimo lavoro viene mostrato anche che, pur correggendo per i valori plasmatici, esisteva una maggiore risposta prolattinergica all'aloperidolo nei soggetti asiatici, facendo pensare quindi ad una importanza di fattori farmacodinamici anche nella aumentata sensibilità all'aloperidolo dei pazienti schizofrenici di origine asiatica (Lin et al.1989, Jibiki et al 1993). Invece sulle popolazioni afroamericane, fatti salvi alcuni risultati sulle abitudini prescrittive, i risultati scientificamente fondati sono incerti: uno studio di Strickland e coll. 1991 focalizza proprio sui probabili difetti nel disegno sperimentale di molta parte degli studi esistente in letteratura.
Risultati contraddittori emergono da studi di farmacocinetica comparata dei TCA, sebbene quelli più recenti tendono a non mostrare differenze significative, tranne forse per la desipramina, tra caucasici, asiatici, neri e ispanici (Lin et al 1995). Invece sono gli studi di farmacodinamica che ci mostrano la maggiore sensibilità farmacodinamica a TCA da parte di pazienti asiatici, rispetto a quelli caucasici, rispondendo terapeuticamente a livelli plasmatici inferiori. Per quanto riguarda gli effetti collaterali, è stato riportato che le popolazioni afroamericane soffrirebbero maggiormente di complicanze neurologiche centrali da TCA (Livingston et al 1983).
Per quanto attiene al litio, oltre alle considerazione di ordine farmacinetico riportate sopra per le popolazioni afroamericane (maggiore concentrazione intracellulare), una larga messe di lavori hanno mostrato che in pazienti asiatici, a dispetto di una farmacocinetica sovrapponibile a quella dei caucasici, risulterebbero necessari livelli di litiemia inferiori a quelli consigliati all'epoca per le popolazioni bianche (0,8-1,2). In effetti al momento i livelli utili consigliati sono andati modificandosi anche in occidente, così che non si sa quanto riportato appartenga effettivamente a differenze nella farmacodinamica del farmaco.
Infine alcune notazioni sulle benzodiazepine. Sono stati riportati varie volte, come dati aneddotici, le diverse risposte, e la maggiore presenza di effetti collaterali, alle benzodiazepine delle popolazioni asiatiche, e talora anche degli afroamericani. Di fatto però non sono molti gli studi sperimentali che affrontano il problema (Lin et al.1993); per quanto riguarda gli asiatici le ricerche condotte, in genere sul diazepam, ma una sull'alprazolam, risultano concordi nel concludere per un metabolismo rallentato delle benzodiazepine in soggetti asiatici, viventi in zone differenti del globo, così da escludere fattori ambientali, e rimandare a fattori genetici. Invece una ricerca sul dinazolam, una benzodiazepina non presente in Italia, su soggetti afroamericani mostra un processo di ossidazione epatico accelerato nei neri, ma un maggiore effetto sul piano psicomotorio, dovuto alla maggiore presenza del metabolita ossidativo N-desmetil-dinazolam, ritenuto responsabile di tali effetti collaterali, e non ulteriormente metabolizzabile, ma direttamente escreto per via renale (Fleishaker e coll. 1992).
Le differenze riscontrate nella pratica clinica negli effetti dei farmaci psicotropi nelle varie etnie riposano su molteplici fattori, di ordine farmacocinetico e farmacodinamico, che, partendo da fattori genetici, includono fattori ambientali fisici e culturali. Questa molteplicità di elementi, che comincia ad essere ricercata specificamente, getta una nuova luce su un atto apparentemente semplice come la prescrizione di un farmaco, e richiede ormai dal clinico pratico la conoscenza della complessità in cui i molteplici fattori implicati vanno a organizzarsi. Il buon psicofarmacologo non solo dovrà conoscere le varianti biologiche di pazienti di varia etnia con cui sempre più si troverà a lavorare, ma anche essere un buon psichiatra transculturale, se non vorrà trascurare una serie di fattori altrettanto determinanti sull'esito della terapia intrapresa. Bibliografia:
Branch RA et al. (1978) Racial differences in drug metabolizing ability: A study with antipyrine in the Sudan. Clinical Pharmacology & Therapeutics, 24, 283-286
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