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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: MODELLI E RICERCA IN PSICHIATRIA

Area: Psicodiagnosi e Clinica




Epidemiologia dei disturbi psicotici e modelli di malattia

Giacinto Buscaglia, Panfilo Ciancaglini


RIASSUNTO

Gli autori descrivono il quadro classico dell’epidemiologia della schizofrenia e dei disturbi bipolari che emerge dalle ricerche che si basano su criteri categoriali. Sottolineano quindi i nuovi sviluppi e le modifiche sostanziali che l'uso di criteri dimensionali ha comportato nell'interpretazione di questi disturbi, con la creazione di un nuovo paradigma, che mette in discussione l'esistenza di entità nosologiche distinte, il ruolo dei trattamenti psicofarmacologici e rilancia l'importanza dei fattori socio-ambientali.

Epidemiologia della schizofrenia

Fino agli anni settanta del secolo scorso, la schizofrenia era ritenuta una malattia “processuale” con esito invariabilmente peggiorativo e invalidante. Le osservazioni si basavano quasi esclusivamente su popolazioni di pazienti manicomiali o di dimessi dagli ospedali psichiatrici. D’altronde fino alle pionieristiche ricerche di Shepherd nulla si sapeva dei disturbi psichici e delle malattie mentali nella popolazione.

Grazie ad alcuni grandi studi internazionali, i cui risultati furono pubblicati negli anni ottanta (tra cui Jablensky 1980 e 1989, Ciompi 1980 e 1989, Zubin 1983, Harding 1988) si poté stabilire che l’esito della malattia non era necessariamente negativo e che gli elementi di contesto influenzavano l’efficacia delle cure. Queste acquisizioni sono tuttora valide ma altre conclusioni derivate dalle stesse ricerche si sono rivelate erronee per una serie di motivi che cercheremo di sottolineare in seguito.

Una prima questione riguarda l’incidenza.

In una ricerca del 1986 della Organizzazione Mondiale della Sanità, che aveva lo scopo di identificare l'incidenza della schizofrenia in 8 località in 7 nazioni, l'incidenza annuale si collocava in un range da 16 a 42 x 100.000 abitanti. Utilizzando criteri più restrittivi il range si riduceva da 7 a 14 x 100.000 abitanti. Gli autori commentavano: “i risultati forniscono un forte sostegno all’ipotesi che la malattia schizofrenica si manifesti con una frequenza simile in popolazioni differenti” (Sartorius et al., 1986).

Le evidenze portano alla singolare conclusione che, al contrario di quasi tutte le altre condizioni, l’incidenza della schizofrenia è indipendente dall’ambiente ed è una caratteristica delle popolazioni umane” (T. J. Crow, 2000).

Da questa, come da altre descrizioni, derivava il profilo di un disturbo di origine biologica con una componente ereditaria di gran lunga prevalente sui fattori socio ambientali.

Le ricerche svolte negli anni 2000, condotte utilizzando criteri differenti, hanno fornito un quadro del disturbo molto diverso dal precedente.

Nel 2006 J.J. McGrath, in un articolo il cui titolo era piuttosto esplicito “Variazioni nell’incidenza della schizofrenia: dati versus dogmi”, compie un’ampia revisione dell’argomento, che viene confermata anche da dati successivi.

Sintetizzando per punti:

L’incidenza della schizofrenia varia in modo significativo nelle diverse aree geografiche

Valore mediano: 15,2 per 100.000 all’anno.

Range da 7,7 a 43,00 (80% centrali della distribuzione cumulativa).

L’incidenza della schizofrenia ha significative variazioni per sesso

Risk ratio maschi/femmine 1,4.

L’età media di insorgenza è di 22-23 anni, con un ritardo delle femmine di 3-4 anni.

L’esordio è più precoce nei maschi, con un’eccedenza che in età infantile può arrivare fino a 2,5/1.

Al contrario, le forme ad esordio tardivo, oltre i 40 anni sono quasi esclusivamente femminili.

Il decorso nei maschi è più sfavorevole, anche se la prevalenza non presenta differenze specifiche per genere.

L’incidenza della schizofrenia ha significative variazioni relative al contesto di vita

Chi nasce in città ha un rischio doppio rispetto a chi nasce in zone rurali. Il trasferimento in età infantile dalla città alla campagna costituisce un fattore protettivo. Questi dati consentono una diversa interpretazione dell’eccesso di casi nei centri urbani rispetto alla teoria della deriva sociale, focalizzando l’urbanizzazione come vero e proprio fattore causale.

L’incidenza della schizofrenia ha variazioni significative per lo stato di migrante

Risk ratio da 1/3 a 1/5

Il dato varia in funzione della proporzione tra comunità immigrata e popolazione generale: il rischio diminuisce con l’aumentare del numero dei migranti. Il fattore implicato sarebbe quello dell’esclusione e della marginalizzazione sociale.

L’incidenza della schizofrenia varia nei diversi periodi dell’anno

Nascere in inverno e primavera aumenta il rischio di ammalare.

L’incidenza della schizofrenia varia a seconda dei periodi storici.

Studi condotti nella zona sud-est di Londra tra il 1965 e il 1997 mostrano un raddoppio dei tassi negli ultimi decenni. Al contrario, una sistematica review della letteratura evidenzia dati di incidenza minore negli studi più recenti rispetto a quelli precedenti. Queste contraddizioni potrebbero dipendere dalla difficoltà di selezionare campioni identici per esposizione ai fattori di rischio.

La prevalenza della schizofrenia varia ampiamente nelle diverse aree geografiche

Il dato più significativo è quello di una notevole variabilità con oscillazioni tra 160 e 1200 casi per 100.000 abitanti con media 400.

Si è notato che la prevalenza della schizofrenia nei paesi sviluppati è significativamente più alta rispetto ai paesi in via di sviluppo. Anche l'esito è diverso (migliore nei paesi in via di sviluppo), nonostante nei paesi “poveri” la quota dei pazienti psicotici trattati non supera il 30%, mentre nei paesi industrializzati è ben oltre l’80%.

La schizofrenia è responsabile dell’1,1% del totale di anni di vita persi a causa della disabilità (DALYs, Disability Adjusted Life Years) e del 2,8% complessivo di anni vissuti in condizioni di disabilità.

Il fatto che una malattia con incidenza relativamente bassa abbia una prevalenza alta e un forte impatto di disabilità significa che molte delle persone che ammalano rimangono a lungo in trattamento e che lo stesso è poco efficace, almeno per ciò che riguarda le competenze relazionali e sociali.


Epidemiologia dei disturbi bipolari

Una ricerca condotta su 61392 adulti in 11 paesi in America, Europa e Asia (Merikangas et al., 2011) ci fornisce i seguenti dati di prevalenza lifetime:

0.6% disturbo bipolare di tipo I

0.4% disturbo bipolare di tipo II

1.4% disturbo bipolare sotto soglia

2.4% disturbo dello spettro bipolare

Vengono, poi, sottolineati i seguenti punti:

  • il 2.4% della popolazione mondiale ha sofferto di disturbo bipolare (in una delle sue forme)

  • il DB è responsabile di una percentuale maggiore del cancro, dell’epilessia e della malattia di Alzheimer a causa dell’età di insorgenza giovanile e della tendenza a produrre disabilità

  • gli USA hanno con il 4.4% la prevalenza lifetime più elevata, mentre l’India con lo 0,1% ha la più bassa

  • In media solo il 50% dei pazienti affetti da disturbo bipolare riceve un trattamento nel corso della vita (nei paesi a reddito più basso il 25.2%)

  • tre quarti dei pazienti hanno una comorbilità: disturbi d’ansia (la più frequente) 62.9%, disturbi del comportamento (44.8%), disturbi da uso di sostanze (36.6%).

  • Nel 50% dei casi: i sintomi esordiscono nell’adolescenza (ciò sottolinea l’importanza della diagnosi precoce e del trattamento tempestivo)

Sulle differenze tra i tassi di prevalenza vengono formulate tre ipotesi

  • nei paesi più poveri lo stigma è maggiore e i pazienti tendono a nascondersi

  • gli stessi paesi hanno strutture sociali tradizionali più forti

  • gli USA attraggono persone che aspirano ad avere un miglioramento della loro qualità di vita, spesso con caratteristiche di grandiosità e di impulsività, caratteristiche compatibili con lo spettro bipolare

Questa terza ipotesi fa pensare ad una certa sintonia del disturbo bipolare con caratteristiche della società moderna (consumismo, spettacolarizzazione, esagerazione di ogni aspetto della vita... sentimenti, emozioni, avvenimenti). L’osservazione empirica, del resto, ci ha portato ad osservare come nelle popolazioni giovanili la depressione sia più stigmatizzata del DB e del panico.

I dati sull’incidenza sono di più difficile stima in quanto richiedono una valutazione longitudinale. Essi mostrano ampie variazioni (da 2.6 a 20.0 per 100 000 per anno), (Lloyd & Jones, 2002). Queste variazioni sono dovute in parte alle differenze metodologiche e in parte alla disomogeneità diagnostica.


Modelli categoriali e modelli dimensionali

Nel 1993 esce nelle sale un film (MR. JONES) interpretato da Richard Gere e Anne Bancroft. E' la storia di un paziente a cui viene diagnosticato un disturbo schizofrenico paranoide (i sintomi in effetti sono deliri, allucinazioni...). Una psichiatra che comincia ad occuparsi del caso, si accorge dell’errore diagnostico e lo cura correttamente per un disturbo bipolare.

Il film sposa la logica del modello categoriale, che orienta tuttora la psichiatria.

L’osservazione dei pazienti in contesti di vita reale, come i servizi psichiatrici di comunità, evidenzia i limiti di questa impostazione. Molti di loro sono difficilmente inquadrabili nelle categorie diagnostiche del DSM salvo utilizzare solo quelle molto generali.

Come ebbe a notare Jablensky già negli anni 90 “...l’introduzione di una nosologia categoriale dei disturbi psichiatrici alla fine del XIX secolo ha rappresentato un avanzamento notevole... Kraepelin ha allineato la psichiatria al resto della medicina e ha reso possibile la ricerca sulla natura e sulle cause dei disturbi mentali…Sfortunatamente questo sistema nosologico è diventato troppo facilmente reificato e istituzionalizzato”.

I sistemi di classificazione categoriali in effetti falliscono su diversi fronti:

  • I clinici spesso sono frustrati dal riduzionismo e dalla rigidità del DSM

  • Non è basato sull’eziologia e non ci sono marker biologici che dimostrino la validità delle categorie

  • Non c’è una stretta corrispondenza tra le categorie e le linee guida per il trattamento farmacologico.

Nella preparazione dell’ormai imminente DSM V si è dibattuta l’ipotesi di introdurre un criterio dimensionale che si affianchi a quello categoriale, perpetuando la dialettica tra lumpers (coloro che ammassano e sono più attenti alle analogie) e splitters (coloro che dividono e privilegiano le differenze).

Altro punto sensibile è quello della medicalizzazione. Recentemente su internet è comparso questo appello: “i clienti e il pubblico sono negativamente colpiti dalla continua medicalizzazione delle risposte naturali e normali alle loro esperienze; risposte che hanno senza dubbio conseguenze dolorose che richiedono forme di aiuto, ma che non significano malattia così come non sono malattia le normali differenze individuali”.1

Il modello categoriale è fonte di problemi anche nella ricerca epidemiologica, in teoria il terreno che dovrebbe essergli più congeniale. E' questo l'aspetto che ci preme sottolineare, in quanto alla base di bias che sono risultati fuorvianti e hanno rallentato l'evoluzione della comprensione dell'epidemiologia dei disturbi psicotici.

Gli errori più evidenti possono essere così riassunti:

1) la schizofrenia e' una malattia neurobiologica che ha cause organiche e si manifesta in modo simile in tutti i paesi, indipendentemente dai fattori socioambientali

2) schizofrenia e disturbo bipolare esistono come entità nosologiche distinte

Secondo diversi autori, al contrario, l’unità nosografica della schizofrenia e del disturbo bipolare è un artefatto.

In effetti schizofrenia e disturbo bipolare presentano aspetti comuni: molti pazienti schizofrenici soffrono, nel corso del loro disturbo, di sintomi maniformi o depressivi e, d’altro canto, pazienti bipolari in diversi casi diventano deliranti.

Dal punto di vista epidemiologico notiamo:

  • prevalenza lifetime simile

  • variazioni minime nell’incidenza

  • distribuzione tra i sessi e per età di esordio simile

  • i due disturbi sono rari prima dell’adolescenza e dopo i 40 anni

  • entrambi esordiscono prima dei 25-30 anni di età

  • il decorso si caratterizza in entrambi i casi per l’alternanza di remissioni e recidive

  • comportano un forte consumo di risorse sanitarie

  • il rischio suicidario è simile

Anche i fattori di rischio sono largamente sovrapponibili:

  • complicazioni ostetriche

  • allargamento dei ventricoli cerebrali (più nella schizofrenia)

  • nascita nei mesi invernali (alcuni studi evidenziano un dato analogo, anche se di entità minore, nei disturbi affettivi psicotici (soprattutto nella mania)

Schizofrenia e disturbo bipolare presentano deficit cognitivi simili, sebbene questi deficit siano più severi nella schizofrenia (Schretlen, 2007).

Infine, per ciò che concerne la suscettibilità genetica, esiste un’area di sovrapposizione:

  • i parenti di primo grado di pazienti schizofrenici hanno un rischio maggiore non solo per la schizofrenia, ma anche per il resto dei disturbi psicotici e per il disturbo bipolare (il rischio per il disturbo bipolare è del 2.4%, mentre il rischio nel gruppo di controllo è dello 0.3%).

  • i parenti di primo grado di pazienti bipolari hanno un rischio maggiore di sviluppare il disturbo bipolare, ma anche la schizofrenia (in rischio per la schizofrenia oscilla tra il 2.5% al 4.8%)


Un nuovo paradigma

L’approccio dimensionale ha consentito di estendere la ricerca alla popolazione generale.

A nostro avviso la applicazione più coerente del criterio dimensionale è quella del ricercatore olandese Jim Van Os, che ha potuto individuare gruppi di persone che presentano costellazioni variabili di sintomi di quella che chiama la “sindrome psicotica multidimensionale complessa”, caratterizzata da quattro tipi di sintomi:

  • Psicosi (deliri e allucinazioni)

  • Deficit motivazionali (avolizione, amotivazione)

  • Sregolazione affettiva (depressione, mania)

  • Alterazione dei processi di informazione (deficit cognitivo)

Si tratta di una parte della popolazione che non ha mai ricevuto diagnosi di psicosi.

Secondo J. Van Os e H. Verdoux “un numero sempre più corposo di evidenze suggerisce che esperienze deliranti e allucinatorie sono più frequenti nella popolazione generale rispetto alla prevalenza di casi di disturbi psicotici, facendo supporre l'esistenza di un continuum sintomatologico tra soggetti della popolazione generale e casi clinici di psicosi”.

Per gli stessi autori “esplorare i fattori di rischio che modulano l'espressività dei sintomi psicotici in popolazioni non cliniche può contribuire meglio a chiarire l'eziologia della psicosi piuttosto che ricerche ristrette a pazienti al punto estremo della distribuzione della dimensione psicotica”.

In questa prospettiva i disturbi psicotici possono essere visti come disturbi dell'adattamento al contesto sociale. Rimane dimostrata una componente ereditaria, ma la comparsa del disturbo è strettamente correlata a fattori ambientali. L'ipotesi è che l'esposizione a questi fattori abbia un impatto sullo sviluppo del cervello "sociale" durante periodi considerati sensibili.

La schizofrenia può essere considerata l’esito più sfavorevole, che colpisce lo 0.5-1% della popolazione nel corso della vita, della sindrome psicotica multidimensionale complessa, presente nel 2-3% della popolazione ed evoluzione, a sua volta, di una vulnerabilità che caratterizza il 10-20% delle persone.

Il profilo della vulnerabilità prevede bassa intensità dei disturbi, la loro appartenenza ad una sola delle quattro aree della sindrome (Psicosi, Deficit motivazionali, Sregolazione affettiva, Alterazione dei processi di informazione) e livelli moderatamente alti di ereditarietà.

Interazioni gene-ambiente fanno crescere i livelli dell'espressione fenotipica, con una più alta correlazione delle quattro dimensioni, fino a superare il filtro dei servizi psichiatrici.

Nei disturbi affettivi e psicotici la soglia dei servizi è superata per la necessità di chiedere un aiuto (più frequente nelle femmine), mentre nei deficit motivazionali e nei disturbi cognitivi per una progressiva riduzione della competenza sociale (più frequente nei maschi).

A questo punto si arriva alla diagnosi clinica e il ruolo dell'ereditarietà è più alto, arrivando fino all’80-90%.

I fattori ambientali maggiormente implicati nella genesi della schizofrenia sono:

  • traumi dello sviluppo, sia in senso dell'abuso che dell'abbandono

  • appartenenza ad un gruppo etnico minoritario

  • crescere in un contesto urbano

  • uso di cannabis

  • traumi perinatali: stress prenatale e deficit nutrizionale della madre, livelli materni serici di piombo e omocisteina, incompatibilità Rh, bassi o alti livelli neonatali di vitamina D, toxoplasmosi prenatale, infezioni virali o batteriche, complicazioni varie in gravidanza e alla nascita

La sensibilità ai fattori di rischio è modulata geneticamente e produce i suoi effetti secondo una tempistica dello sviluppo cerebrale che inizia col concepimento e arriva intorno ai 25 anni.

L'importanza dei fattori ambientali si coglie solo se si costruiscono sottogruppi maggiormente vulnerabili. Ad esempio un sottogruppo a rischio genetico e il gruppo di controllo presentano una chiara differenza nella sensibilità all'urbanizzazione e all'uso di cannabis nello sviluppo della psicosi.

Van Os considera l'impatto di fattori ambientali associati alla sindrome psicotica, tenendo conto del periodo dello sviluppo del cervello umano durante il quale i processi si verificano.


Diverse ricerche hanno mostrato una correlazione tra esperienze psicotiche e sintomi affettivi:

  • Recenti ricerche in Grecia e Olanda hanno mostrato un alto grado di sovrapposizione tra esperienze psicotiche e sintomi affettivi sotto soglia.

  • Holt ha ipotizzato che pazienti schizofrenici che hanno avuto esperienze deliranti tendono ad assegnare significati affettivi (negativi) a stimoli neutri più di pazienti psicotici non deliranti.

Lo studio prospettico su 10 anni EDPS (The early Developmental Stages of Psicopathology), svolto a Monaco di Baviera su un campione di quasi 5000 adolescenti e giovani adulti dai 14 ai 24 anni, ha analizzato l’associazione tra sregolazione affettiva e distorsione della realtà.

I risultati suggeriscono che le esperienze psicotiche nella popolazione generale sono associate alla sregolazione affettiva (sintomi depressivi e/o ipomania), in una modalità bidirezionale dose-risposta: maggiore è il livello di sregolazione affettiva e più sono persistenti le esperienze psicotiche e la comparsa di deterioramento.

La sregolazione affettiva e la distorsione della realtà potrebbero rappresentare l’espressione comportamentale del rischio per stati psicotici più severi, inclusi la schizofrenia e il disturbo bipolare.

In una ricerca svolta a Dunedin, in Nuova Zelanda, su più di 1000 adolescenti nati all’inizio degli anni 70, è stato dimostrato che, all’età di 13 anni, coloro che avrebbero sviluppato un disturbo schizofreniforme, presentavano deficit neuropsicologici (nella sfera della motricità e dell’attenzione) che non erano, invece, presenti in coloro che non avrebbero sviluppato disturbi o che avrebbero sviluppato disturbi affettivi e/o d’ansia.


Questi dati sottolineano l’importanza della ricerca sulle interazioni gene-ambiente e sulla possibilità di individuare endofenotipi (marker biochimici, neuroanatomici, neuropsicologici) predittivi delle patologie. La loro affidabilità si lega al fatto di essere ereditabili e stabili nel tempo.

La ricerca genetica si inserisce in un modello di stress-vulnerabilità secondo il quale il disturbo psicotico emerge da un’interazione sinergica tra geni e ambiente (una commistione di “nature” e “nurture”).


Categorie e dimensioni nell’utilizzo dei farmaci

Con la dizione “disease mongering” (mercificazione della malattia) si intende il tentativo, a fini commerciali, di estendere l’area di un disturbo per trattare farmacologicamente un numero maggiore di persone (David Healy, 2006).

Nel campo dei disturbi bipolari i concetti più “a rischio” in questo senso sono quelli di spettro bipolare e di disturbo sottosoglia.

Tornando a Mr Jones, il film è del 1993 e coglie un tema che in quel momento era di forte impatto sull’opinione pubblica e sulla comunità scientifica. L’interesse per il disturbo bipolare aveva anche modificato la stima dei tassi di prevalenza dallo 0,1% al 5% (includendo il disturbo bipolare di tipo II, il disturbo bipolare NAS e la ciclotimia).

Dal 1995 il termine “stabilizzatori dell’umore” ha cominciato a comparire in modo sempre più frequente negli articoli scientifici e, poco tempo dopo, le aziende farmaceutiche hanno proposto gli antipsicotici di seconda generazione per questa indicazione.

Le informazioni che venivano diffuse erano di questo tipo:

Il disturbo bipolare è spesso una malattia che dura tutta la vita, che necessita di un trattamento per tutta la vita; i sintomi vanno e vengono, ma la malattia rimane; le persone si sentono meglio perché i farmaci funzionano; pressoché tutti coloro che interrompono il trattamento recidivano e questo renderà più difficile il trattamento”.

Pur riconoscendo che gli stabilizzatori dell’umore hanno potenziato gli strumenti farmacologici a disposizione degli psichiatri, non si possono ignorare alcuni dati:

  • non esistono studi controllati randomizzati che dimostrino (ad eccezione del litio nel disturbo bipolare di tipo I) che i pazienti che assumono farmaci psicotropi stiano meglio a lungo termine rispetto ai pazienti non trattati

  • un consistente numero di evidenze indica che il trattamento regolare con antipsicotici per tempi lunghi aumenta la mortalità

  • una ricerca nel nord della Scozia ha rilevato che prima dell’avvento della moderna farmacoterapia i pazienti affetti da disturbo bipolare di tipo I avevano in media 4 ricoveri ospedalieri in 10 anni. I pazienti bipolari trattati con i più moderni farmaci psicotropi mostravano un aumento di quattro volte nella prevalenza delle ammissioni in ospedale.

  • I pazienti bipolari non trattati non mostrano un rischio maggiore di suicidio rispetto ai pazienti trattati.

  • In una ricerca condotta in Olanda, Storosum e al. hanno paragonato il rischio di suicidio in pazienti trattati con placebo con pazienti in trattamento attivo con stabilizzatori dell’umore dal 1997 al 2003. I farmaci attivi sono associati ad un rischio maggiore di 2.22 volte di atti suicidi rispetto a pazienti che assumono il placebo.

Questi dati ci fanno vedere come sia difficile prendere decisioni fondate eticamente e scientificamente. Ci può aiutare tenere presenti alcune considerazioni:

  • esistono evidenze relative al fatto che l’assunzione di terapia farmacologica comporti benefici soprattutto nelle situazioni di acuzie

  • per quanto riguarda il trattamento a lungo termine i dati che stanno emergendo da ricerche libere da interessi commerciali sollevano contraddizioni e forti dubbi sulla sua efficacia

  • di questa complessità gli psichiatri tengono conto solo parzialmente

  • l’approccio dimensionale potrebbe aumentare la loro sensibilità su questo tema

  • la produzione di articoli scientifici sui trattamenti farmacologici è enormemente superiore a quella sui trattamenti psicosociali

  • solo una piccola parte delle ricerche sui farmaci è sostenuta da finanziamenti indipendenti

Secondo Withaker “negli ultimi venticinque anni la psichiatria ha profondamente rimodellato la nostra società. Attraverso il DSM la psichiatria traccia una linea tra ciò che è normale e ciò che non lo è. La comprensione della nostra società della mente umana, che nel passato nasceva dalla commistione di diverse fonti (grandi opere letterarie, investigazioni scientifiche, scritti filosofici e religiosi) ora è filtrata dal DSM”.


Conclusioni

Le conoscenze sull’origine e lo sviluppo dei disturbi psichici si sono enormemente accresciute negli ultimi decenni. Il libro di Goldberg e Goodyer uscito nel 2005 e tradotto in italiano nel 2009 ne offre una sintesi esemplare, mettendo a disposizione dei clinici utili informazioni non solo per il trattamento ma anche per la prevenzione. Il passaggio dai modelli categoriali a quelli dimensionali costituisce il presupposto per un corretto approccio ai concetti di vulnerabilità, interazione gene-ambiente, trauma e fattori di rischio.

Gli studi più recenti ci consentono di ipotizzare che non solo i disturbi depressivi, d’ansia, da abuso di sostanze e di personalità rientrino nell’ormai classico modello dei cinque livelli e quattro filtri (Goldberg e Huxley 1980, Goldberg e Goodyer 2005), ma anche quelli psicotici.

I sintomi psicotici, i deficit motivazionali, la sregolazione affettiva e i deficit cognitivi sono presenti nel 10-20% della popolazione come espressione fenomenica di una vulnerabilità che, ricordiamo, non va mai disgiunta dalla resilienza che rappresenta la seconda, non meno importante, componente della predisposizione.

Questo approccio ci aiuta a progettare servizi orientati alla prevenzione, a considerare in modo critico le evidenze basate solo su modelli categoriali e a problematizzare l’uso dei farmaci sul lungo periodo.


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Giacinto Buscaglia*, Panfilo Ciancaglini°

* Psichiatra, Dipartimento Salute Mentale ASL 2 Savona
° Psichiatra, Gruppo Redancia


1
Petizione della Society for Humanistic Psychology e di altre 43 associazioni scientifiche americane e di altri paesi alla Task Force DSM-5 contro il rischio di medicalizzazione di condizioni fisiologiche



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