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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: MODELLI E RICERCA IN PSICHIATRIA

Area: Psicopatologia

Affetti e delirio

di Arnaldo Ballerini e Andrea Ballerini



La storia della psichiatria può essere vista come la lotta, mai terminata del tutto, scriveva Jaspers (1913-59), fra i sostenitori di una psicosi “unica” di cui le varie forme cliniche psicotiche sono solo tappe o fasi e i sostenitori dell’esistenza di forme psicotiche fra loro naturalmente diverse. Quest’ultima linea di pensiero è stata quella apparentemente vincente, da E. Kraepelin (1904) in poi, anche se il “fantasma nosografico” della psicosi unica continua a riaffacciarsi sotto forme sempre diverse.
Fra le varie dicotomie nella nosografia psichiatrica fondamentale è stata quella fra campo del delirio e campo dei disturbi dell’umore. Infatti essi rinviano per la clinica psichiatrica a due grandi gruppi sindromici: le psicosi schizofreniche e le psicosi affettive. Dicotomia che aveva il suo punto di origine nelle considerazioni di E. Kraepelin sui decorsi delle malattie mentali, attribuendo a ciò che indichiamo come psicosi schizofrenica e che non a caso E. Kraepelin chiamava Demenza Precoce, una fatale tendenza verso la cronicità ed il deterioramento della persona, e alle psicosi affettive una spontanea tendenza alla guarigione ed al decorso ciclico.
Se il sistema linneano della psichiatria di Kraepelin divideva in “enti di natura” le malattie mentali prevalentemente sulla base degli esiti e assai poco sulla analisi dei sintomi, già prima dell’esordio della psicopatologia fenomenologica, E. Bleuler (1911) aveva vigorosamente rivalutato la analisi psicologica dei sintomi del disturbo per il quale in maniera significativa coniò il termine schizofrenia al posto della “demenza precoce” kraepeliniana.
La nascita della psicopatologia ha poi significato l’affermazione metodologica della radicale priorità dello studio delle esperienze interne del malato per la conoscenza delle psicosi, rispetto ad indicatori tratti dai comportamenti, dal decorso e dagli esiti. Indicatori oggi ormai largamente superati e poco attendibili, in specie essendo stata dimostrata la estrema variabilità dei decorsi e degli esiti della sindrome schizofrenica. Tuttavia la dicotomia fra delirio e disturbo affettivo, intesi come campi psicopatologici del vissuto fra di loro non compatibili, è stata assunta anche dal paradigma psicopatologico, prevalentemente sulla base di una analisi delle esperienze deliranti.
Infatti la tensione della psicopatologia fenomenologica nei confronti del delirio è stata quella di "cogliere il decorso dell’esperienza vissuta piuttosto che il suo prodotto" (K. Schneider, G. Huber, 1975), conducendo un’analisi esemplare delle modalità di pensiero che caratterizzano il delirio, indipendentemente dal criterio grossolano di verità-falsità e da qualsiasi riferimento al tema del delirio.
In un celebre passo K. Jaspers (1959) scriveva: "Diamo il nome di “idee deliranti vere” solo a quelle idee deliranti che hanno all’origine una esperienza patologica primaria [...] al contrario chiamiamo idee deliroidi quelle che risultano in modo comprensibile da altri processi psichici, che quindi possiamo ricondurre psicologicamente alle emozioni, alle pulsioni ai desideri e ai timori". Ove per esperienza patologica primaria si intende “ultima”, nel senso che risalendo indietro lungo il fluire delle esperienze interne ideo-affettive della persona al di là della esperienza delirante non si trova nessun stato psichico cosciente dal quale derivare in maniera comprensibile, per un osservatore partecipe, il convincimento delirante.
Il vero delirio si stacca così, proprio per le sue caratteristiche formali che lo definiscono, dal contesto situazionale del delirante, dalla sua personalità e dal suo stato affettivo. Quindi delirio propriamente detto (altra cosa è formalmente il “deliroide” melanconico) e disturbo affettivo sono stati considerati diagnosticamente incompatibili, nel senso che la comparsa del primo determinava la perdita di senso nosografico del secondo. Da questo punto di vista delirio e depressione sono apparsi i due principi organizzatori della clinica psichiatrica come naturalmente antitetici.
Del resto la psicopatologia di K. Jaspers, anche se in genere non concede molto alle preoccupazioni nosografiche, stabilendo il noto “principio gerarchico”, sottolineava la inconciliabilità dei piani sui quali si può porre il delirio o il disturbo dell’umore. Infatti dal punto di vista diagnostico il grande filone di pensiero psicopatologico che va da K. Jaspers a K. Schneider (1950) stabiliva come fondamentale per la definizione del singolo paziente prendere in esame con valenza radicalmente prioritaria ciò che veniva considerato il livello più grave raggiunto dal disturbo. In questa gerarchia si considera la distorsione del reale espressa dal delirio come il disturbo più profondo, e pertanto definitorio per la diagnosi, rispetto a qualsiasi alterazione patologica dell’umore.
Una sorta, quindi, di priorità del pensiero e delle sue distorsioni rispetto a qualsiasi affetto e i suoi turbamenti, in armonia con una visione razionalistico-illuministica che considera il pensiero l’espressione più rappresentativa dell’uomo e della sua individualità.
L’impatto del principio-diagnostico-gerarchico di K. Jaspers nella teoresi e nella prassi psichiatrica è stato enorme: tutti gli psichiatri ne hanno fatto un uso definitorio e discriminante fondamentale, consapevolmente o inconsapevolmente, e nel rapporto con il paziente il cogliere il delirare equivale spesso al passaggio ad una dimensione diversa. In effetti ci si può per lungo tratto illudere di comprendere e condividere il dolore melanconico, sottovalutando la grave distorsione del mondo ed in definitiva la chiusura idiosincrasica dell’essere nella melanconia, mentre il delirio sembra passare direttamente ad un’altra forma di pensiero dichiarando la sua alienità. Troppo spesso le potenzialità empatiche si infrangono sulle secche del delirio.
La posizione del “comprendere” è più facilmente mantenibile verso la patologia affettiva anche perché può essere non facile percepire la differenza fra, ad esempio, la tristezza reattiva ad un evento od anche quella esistenziale, legata alle angosce fondamentali dell’esistere, come tutti possiamo sperimentarle, e la depressione endogeno-vitale caratteristica della melanconia, cogliendo "lo scacco nella donazione di senso nella psicosi melanconica" (B. Callieri, 1995). Mentre un simile movimento empatico identificatorio è operazione difficile nei confronti dei modi e delle forme di un vero delirio.
Del resto ogni comprendere in psichiatria è essenzialmente un autocomprendersi e l’illusione di autocomprendersi ha largo spazio di fronte alla tristezza anche la più patologica; ne ha pochissimo, invece, di fronte alla distorsione del pensiero che sovverte, come nel delirio, la ovvietà dei significati del mondo condiviso.
Ciò nonostante ideazione delirante e disturbo dell’umore non solo mostrano chiari passaggi nella clinica, per chi non voglia assumere le dicotomie nosologiche come reificazioni definitive, ma la stessa storia della melanconia ha visto alternativamente prevalere interpretazioni incentrate sull’umore ad altre incentrate sull’ideazione.
In effetti le sindromi depressive di entità maggiore comportano sempre una distorsione della concezione di sé e del mondo, e il problema storico non è stato solo quello dell’attribuzione di un ruolo più o meno centrale a questi aspetti, ma anche quello della individuazione di modi formali nella distorsione cognitiva che separino il campo dei disturbi dell’umore dal campo delirante.
Si pone qui il problema classico in psicopatologia della differenza fra delirio propriamente detto e deliroide. In definitiva lo spartiacque è stato fornito dalla coppia concettuale, che ha radici nello storicismo di Dilthey, “comprensibile versus incomprensibile”, e su questa polarità si è largamente fondata la distinzione fra “derivabile ed inderivabile”.
Con una asserzione radicale e sfumatamente tautologica la psicopatologia tradizionale asserisce che il vero delirio è siglato dalla incomprensibilità da parte dell’osservatore e là dove vi è comprensibilità e derivabilità dallo sfondo emozionale o dal contesto situazionale non vi è vero delirio. In queste ultime condizioni si può parlare di errore deliroide ma non di delirio. Vale a dire la distorsione cognitiva derivabile e comprensibile dal contesto emozionale incrocia ancora il piano dell’errore e verità, piano che il vero delirio non incrocia affatto. Ovviamente si è sempre insistito sul fatto che mentre l’errare del deliroide si incentra prevalentemente sui temi e i contenuti, la incomprensibilità del delirio si basa sulle forme ed i modelli di pensiero all’opera nella costruzione del delirio.
Si massimalizza in questo modo la importanza della comprensibilità “statica” delle singole esperienze interne vissute dal soggetto, ponendo in ombra la possibilità del comprendere “genetico”, cioè la opportunità di cogliere da parte dell’osservatore il possibile passaggio fra uno stato d’animo ed un altro, fra un pensiero ed un altro, fra una situazione di esistenza ed un’altra lungo la storia interiore e la biografia di una persona.
Ma ci sembra palese che la comprensibilità di un vissuto patologico tende a variare a seconda del tipo e della durata del rapporto fra paziente e terapeuta e se ciò probabilmente non azzererà la incomprensibilità di alcune esperienze patologiche, tenderà tuttavia a spostare i limiti del comprendere attraverso una sorta di “familiarizzazione del contesto”. é evidente che questo spostamento e relativizzazione della soglia della comprensibilità trascina alla deriva i concetti di primario ed inderivabile attribuiti al delirio, anche se è sembrato possibile sul piano antropologico ritrovare la inderivabilità del delirio propriamente detto nella sua struttura di “rivelazione” opposta alla connotazione della “conferma”, che sembra inerire al deliroide melanconico. Ma questo significa passare dal piano della psicopatologia clinica a quello dei costrutti antropologici, con i rischi che questa contaminazione comporta.
Da questo punto di vista, la distorsione cognitiva anche profonda della melanconia richiama il problema della menzogna, dell’autoinganno che traspare nell’asserzione deliroide melanconica di aver sempre mentito, di aver sempre presentato una falsa immagine di sé, e che mostrerebbe il rapporto fra delirio melanconico e personalità pre-melanconica (A. Kraus, 1994).
D’altronde tutti sappiamo che severi disturbi affettivi possono comportare anche esperienze deliranti francamente persecutorie (mood incongruent), ed è talora sottile il confine fra vissuti di punizione e vissuti di persecuzione nella melanconia. Anche se noi vediamo non solo la ovvia necessità di distinguere le due posizioni, ma la possibilità di una loro consequenzialità che approda alla fine a mondi diversi.
Queste possibilità di percorsi psicopatologici diversi sono probabilmente modulate dalla struttura di personalità su cui si impianta il disturbo affettivo e dalla sua intrinseca possibilità di esperimentare accanto al dolore ed all’euforia la rabbia (disforia). Ciò significa aderire al modello di autori come P. Wiener (1983) che propongono di considerare la patologia affettiva quale un “processo” che può impiantarsi su “strutture” personologiche diverse e che risulterà da esse modulato. In questa direzione è di rilievo una lettura dei fatti clinici avente come sfondo la ipotesi psicopatologica ed antropologica che considera le sindromi psichiatriche come la risultante del rapporto fra “persona” e “disturbo”, visti come due assi semi-indipendenti la cui reciproca interferenza o “proporzione”, nel senso di L. Binswanger (1955), struttura e direziona il percorso psicopatologico.
Esistono, allora, caratteristiche legate alla persona, o ai modi ed alla intensità degli affetti patologici, che si costituiscano come legami di senso significativi nell’eventuale passaggio al delirio propriamente detto al di là dell’ambito del deliroide (di colpa, rovina e malattia) che esprime la coscienza melanconica, e al di là dei lampi di grandiosità dereistica talora espressi nella maniacalità?
Possono i deliri che esprimono la essenziale internalizzazione della colpa e quelli che esprimono la sua esternalizzazione negli altri, essere posti su un continuo o sono incorrelabili come modi di esistenza?
I complessi rapporti e le variegate possibilità che la clinica ci mostra fra patologia dell’umore e tipi di delirio ci sembrano più rappresentare dei percorsi possibili che non delle associazioni sindromiche rigide. Il concetto di percorso, a differenza di una visione nosografica, valorizza al massimo le possibilità di cambiamento ed evoluzione nella fenomenica psichiatrica che sono sotto gli occhi di tutti, ma che sono percettibili soltanto all’interno di una relazione col paziente tesa alla ricerca di senso. Si possono così intravedere personali sentieri tortuosi che possono alla fine sfociare in panorami anomali, o così considerati da una visione strettamente nosografica.
Anomale sono le persone che con profondi sentimenti depressivi delirano tuttavia di persecuzione; anomali sono i passaggi fra persecuzione come “punizione” e persecuzione vissuta come assolutamente immeritata; anomali sono quei sentimenti di colpa che tuttavia possono ancora ribaltarsi in vissuti persecutori; anomale sono le persone che continuano ad oscillare fra questi mondi diversi.
é certamente possibile cortocircuitare tutti questi problemi usando quella sorta di “parassita delle classificazioni nosologiche” (H.M. van Praag, 1993) che è il concetto di “comorbidità”, per il quale è possibile dire che una persona soffre di disturbo dell’umore e di disturbo delirante, e con ciò ritenere sul piano descrittivo risolto il problema, in realtà comportandosi come può avvenire verso ogni anomalia, che, come l’epistemologo Khun ha avvertito, può essere risolta anche riconducendola, a forza, dentro un paradigma prestabilito.
Anche i distinguo formali stabiliti dalla psicopatologia classica possono entrare in crisi di fronte a queste anomalie.
L’esperienza clinica ad esempio mostra che allorquando un deliroide di colpa ed indegnità si trasforma o sfocia in un delirio persecutorio possono emergere figure formali, quali la percezione delirante o anche particolari esperienze allucinatorie, del tutto assenti nel deliroide dei disturbi affettivi, e con esso categorialmente incompatibili secondo la psicopatologia classica.
Tuttavia la psicopatologia non solo è stata sempre consapevole di essere una “riserva” di anomalie, e K. Jaspers avvertiva che proprio i casi di difficile inquadramento diagnostico sono i più ricchi di insegnamento allorché si tolleri di non seppellire precocemente sotto una etichetta diagnostica il caos dei fenomeni, ma anche usa consapevolmente il concetto di “costrutto”, così lontano da stabilire le diverse malattie psichiatriche come enti di natura. Inoltre ci sembra che gli sviluppi degli ultimi anni del pensiero psicopatologico siano andati più nella direzione di una visione prototipico-dimensionale che qualitativo-categoriale, più attenta ai passaggi ed alle transizioni fra esperienze patologiche diverse che non ad una loro rigida separazione.
Del resto esiste nella storia delle conoscenze psichiatriche almeno un esempio illuminante la coniugazione clinica fra campo delle emozioni e degli affetti e campo del delirio, rappresentato dal contributo e dalle tesi di E. Kretschmer (1918, 1954) che abbiamo tentato recentemente di sottrarre ad una inspiegabile rimozione nel pensiero psichiatrico (A. Ballerini, M. Rossi Monti, 1990).
Nel suo lungo e magistrale lavoro Kretschmer ha individuato un percorso clinico all’interno del quale un delirio persecutorio è lo sbocco di profonde emozioni di angoscia-vergogna-rabbia che si articolano nel contesto di personalità che definì “sensitive”. L’Autore attraverso un rapporto psicoterapeutico continuativo ricostruiva con intelligenza ed amore le tappe che conducono dalla personalità e dalla biografia alla fatale svolta di emozioni tradotte poi nel delirio. Nella prefazione alla quarta edizione di Der sensitive beziehungswahn Kretschmer scrive: "Lo sforzo [...] fu un significativo segnale e un avanzamento per due tendenze di base della moderna psichiatria: 1) per il compito della psicoterapia [...] nel campo dei disturbi deliranti risalendo verso il confine delle psicosi schizofreniche; 2) per il passaggio ad una diagnostica multidimensionale".
L’attenzione di Kretschmer, la sua continua donazione di senso alle esperienze deliranti, si incentra su una valutazione massima delle emozioni dei suoi deliranti e sullo strumento del comprendere genetico rispetto alla comprensibilità statica: vale a dire che l’articolazione di senso si impianta sulla sequenza affetti-delirio e sulla relazione Io-mondo espressa nelle situazioni, più che sulla rivivibilità da parte dell’osservatore di singoli fenomeni del delirio, che pur continuano ad esprimere modi di pensiero altamente patologici.
Dall’insegnamento di Kretschmer nasce un modello delle sindromi deliranti che va ben al di là della categoria del “delirio in personalità sensitive” e che si rivolge a tutti i collegamenti coglibili, anche in maniera frammentaria, fra affetti e delirio e fra questi e situazioni di esistenza.
Ci sembra che di fronte al problema delle relazioni fra area dei disturbi affettivi e del delirio esistono due possibilità, ambedue conoscitivamente valide, quasi due declinazioni della psicopatologia: l’una che valorizza al massimo la ricezione e l’analisi formale delle singole esperienze interne della persona; l’altra che valorizza al massimo il fluire della storia interiore e la globalità della persona. é evidente che queste due modalità sono sottese da due diversi contesti di approccio, e la seconda comporta un sistematico e prolungato rapporto psicoterapico.
La inconciliabilità categoriale fra disturbo affettivo e delirio (propriamente detto) si mantiene come identificazione di campi del vissuto formalmente diversi, ma si eclissa come fondante una “nosologia naturale” in un approccio che lasci emergere la storia emozionale del soggetto ed intravedere i rapporti fra di essa e la distorsione del reale espressa nel delirio.

Bibliografia:

BALLERINI, A., ROSSI MONTI, M., La vergogna e il delirio, Bollati Boringhieri, Torino, 1990.
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JASPERS, K., Psicopatologia generale (1913, 1959), trad. it., Il Pensiero Scientifico, Roma, 1964.
KRAEPELIN, E., Trattato di psichiatria (1904), trad. it., Vallardi, Milano, 1907.
KRAUS, A., Le motif du mensogne et la dépersonalisation dans la mélancolie, in "L’Evolution Psychiatrique", 59, 4, 1994, pp. 649-657.
KRETSCHMER, E., Der sensitive Beziehungswahn, Springer, Berlin, 1918, 1954.
PRAAG, VAN H.M., Make-Believes in Psychiatry or the Perils of Progres, Brunner-Mazel, New York, 1993.
SCHNEIDER, K., Psicopatologia Clinica (1950), trad. it., Sansoni, Firenze, 1954.
Ñ, HUBER, G., Deliri, in Enciclopedia Medica Italiana, U.S.E.S., Firenze, 1973.
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