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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: MODELLI E RICERCA IN PSICHIATRIA

Area: Psicopatologia



Il prossimo numero di ATQUE Materiali tra filosofia e psicoterapia (numero 22, dicembre 2000 - maggio 2001, la cui uscita è prevista per autunno) sarà dedicato alla attualità del pensiero di Karl Jaspers in psicopatologia e in filosofia: Il pensare e il fare: Karl Jaspers tra psichiatria e filosofia. Il fascicolo ripropone un testo di Jaspers (L'approccio fenomenologico in psichiatria) ed un lavoro di Franco Basaglia dedicato al problema: Deliri primari e deliri secondari e problemi fenomenologici di inquadramento. Accanto a questi sono previsti contributi di Arnaldo Ballerini, Antonella Di Ceglie, Mauro Fornaro, Umberto Galimberti, Alberto Gaston, Maria Ilena Marozza, Fausto Petrella, Paolo Francesco Pieri, Fabio Polidori, Fausto Petrella, Mario Rossi Monti e Mario Trevi.
Riproduciamo qui di seguito il testo del contributo di Arnaldo Ballerini. che comparirà nel fascicolo. Un sentito ringraziamento all'autore e al direttore della rivista, Paolo Francesco Pieri.

Mario Rossi Monti
Antonella Di Ceglie



La incompresa "incomprensibilità" di Karl Jaspers

di Arnaldo Ballerini



Karl Jaspers è lo studioso che ha fondato la psicopatologia fenomenologica (il suo testo principe, la Psicopatologia Generale, è del 1913, via via rielaborato e riedito fino al 1959) sottraendo la psichiatria al mito positivistico di una sua esaustiva risoluzione nell’ambito della patologia cerebrale e ad una sua totale sudditanza alle scienze neuropatologiche, aprendo così la strada per un approccio più propriamente antropologico nello studio delle malattie mentali. "Il fatto che le malattie mentali siano fondamentalmente umane ci obbliga a non vederle come un fenomeno naturale generale, ma come un fenomeno specificamente umano" (1).
Per un singolare destino Jaspers, proprio per aver posto la soggettività del malato al centro della psicopatologia, fu accusato, dal punto di vista di una scienza oggettivante l’uomo, di “nichilismo”; mentre per il suo sforzo di definire le esperienze psicotiche mediante il criterio della “incomprensibilità” (formale, si badi, non perchè schegge tematiche senza senso; non perchè non delineano una particolare visione del mondo) ha ricevuto in epoca di anti-psichiatria l’accusa di “razzismo”. Verrebbe voglia di mettere assieme le due contrastanti critiche e mandarle a spasso assieme, come il Manzoni pensava di fare di obiezioni opposte rivolte al suo modo di procedere nella scrittura dei Promessi Sposi.
Quella di Jaspers, al di là dei dati messi in luce, è stata essenzialmente una lezione metodologica. Considerando la psicopatologia come inerente alle scienze umane, egli indicò essere di primo piano, esattamente dal punto di vista epistemico, lo studio del mondo interno, dell’interno esperire del folle, rispetto alla osservazione di "sintomi dell’espressione", quali il comportamento. l’efficacia delle prestazioni. etc. Egli mise risolutamente in guardia la psicopatologia verso la insidie insite nella separazione soggetto-oggetto, da cui la oggettivazione discende.
Si trattò, nella prassi della psichiatria, di eleggere l’udito ad organo privilegiato dello psicopatologo, invece che la vista. Da allora, qualsiasi tentativo di cortocircuitare la soggettività del malato nella ricerca di sintomi obbiettivi sconta una disastrosa carenza di ascolto.
La psichiatria piuttosto che catalogo di bizzarrie e stravaganze comportamentali, come in gran parte era in antico, dopo Jaspers diviene uno studio dei modi di essere espressi nei singoli vissuti della persona, accolti senza inferenze interpretativo-teoriche, ma quali appunto “fenomeni” da studiare nella loro concretezza vissuta. "L’oggetto della psicopatologia è l’accadere psichico reale e cosciente. Noi vogliamo sapere che cosa provano gli esseri umani nelle loro esperienze e come le vivono" (2). E’ questo il manifesto fenomenologico della psicopatologia. Alcuni concetti fondamentali di Jaspers, precursori della sua vocazione a filosofo dell’esistenza, e in parte derivati da Dilthey, sono stati: la distinzione fra "comprendere " in sede psichica e "spiegare" in sede naturalistica; il valore essenziale della “forma” assunta dalla vita mentale come assai più importante degli individuali contenuti per definire i disturbi psicotici; la metodica di avvicinarsi ai vissuti dell’altro con uno sforzo di immedesimazione costante e consapevole; il valore dello strumento “empatico” per poter rivivere in noi l’esperire altrui. "Deve esserci in lui [nello psicopatologo] come una immedesimazione nell’altro [....] Lo psicopatologo è legato alla propria capacità di vedere, di sperimentare interiormente e alla propria ampiezza di orizzonti, all’apertura verso nuovi problemi e alla propria ricchezza spirituale" (3). L’unico strumento che lo psicopatologo può usare è se stesso in rapporto alla soggettività dell’altro, attraverso "il palpitare della propria anima all’unisono con le vicende altrui" (4). Si può irridere l’empatia considerandola una trappola per lo psichiatra, come se essa fosse un ingenuo “vogliamoci bene” che non tiene conto della quota di distruttività insita in ogni relazione umana. In realtà, da Husserl alla Stein, l’empatia è per la riduzione fenomenologica la possibilità che abbiamo di riconoscere l’altro come soggetto, come sorgente autonoma di desideri, bisogni, emozioni. In una parola di fondare la costituzione del mondo intersoggettivo nel quale tutti viviamo, e nel quale la costituzione dell’Altro è co-costitutiva della stessa ipseità. Le parole di Jaspers non sono quindi un precetto etico, per quanto siano anche questo, ma una via epistemica alla studio della vita mentale.
Nei confronti del mondo della follia, che l’umanità ha da sempre riconosciuto come tale, le scelte sono o negarne maniacalmente l’esistenza o farne una ipotetica lineare ricaduta di danni organici o cercare di definirlo ed illuminarlo sul piano dei vissuti interni che lo connotano. E’ questo atteggiamento che ha aperto la strada ad approcci antropofenomenologici che, pur basandosi su fenomenologie diverse da quella utilizzata da Jaspers e che si ispirano essenzialmente ad Heidegger, hanno tuttavia preso le mosse dalla centralità del mondo vissuto che Jaspers pose risolutamente al centro dello studio della follia.
Nei quasi cento anni trascorsi dall’opera di Jaspers, la psicopatologia non si è certo fermata ai confini da lui accettati, in uno sforzo di oltrepassamento verso l’essenza dell’essere folle (e basterebbe citare Ludwig Binswanger o Minkowski o contemporanei come Blankenburg e molti altri studiosi) ma senza la sua opera fondatrice, che può essere certo superata ma non ignorata, si è corso il rischio di ridurci ad una psichiatria mindless, ove il disturbo ricade nella insignificanza di un corpo che non ha senso o di una società oppressiva ed aliena, e così scompare la possibilità di avvicinarci al mondo psicotico come appunto un modo di essere e un progetto di mondo, per sventurati e fallimentari che siano. E ciò non significherebbe solo una disumanizzazione della follia, ma esattamente una perdita di conoscenza nei confronti di essa.
Di fronte al compito di definire ciò che si indica come “psicosi” le opzioni correnti hanno tutte come sovraordinato il concetto di “perdita di contatto con la realtà” : questo è un concetto che esprime la condizione psicotica ma nello stesso tempo la interpreta. Ma questa sostituzione di una realtà personale, idiosincrasica, alla realtà condivisa, in quali modi dell’esperire si manifesta? Stando, secondo l’assioma fenomenologico, “ai fatti stessi” della vita mentale cosciente, cosa è che connota alcuni modi dell’esperire come “psicotici”? Se il segreto della vita psichica è il segreto della forma, quali forme sono da dire psicotiche? Quale è la caratteristica non dei sintomi ma dei “fenomeni” della follia? Queste sono alcune delle domande alle quali la riflessione di Jaspers tentò di rispondere.
Ne sono derivate, come si sa, ineccepibili analisi dei vissuti psicotici che, come conseguenza del metodo adottato, si sono rivolte tradizionalmente ai cosiddetti sintomi “produttivi” delle psicosi e soprattutto al delirio.
Io non penso sia necessario sottolineare la centralità del fenomeno “delirio”, in quanto crisi del modo di proprietà delle proprie idee, nella concettualizzazione stessa della malattia mentale, anche se oggi è evidente che il delirio non può funzionare come strumento per dissezioni e delimitazioni nosografiche. E tuttavia ci dibattiamo tuttora in discrete imprecisioni o vaghezze definitorie del delirio, la cui essenza la psicopatologia japersiana ha invece cercato di cogliere mediante gli strumenti conoscitivi che si rifanno alle nozioni di “incomprensibilità” e di “processo”.
I due termini "incomprensibile" e "processo" rimandano l'uno all'altro in una circolarità semantica nella quale il concetto di processo è l'esplicazione nominalistica della incomprensibilità del fenomeno osservato. In un celebre passo della Psicopatologia Generale Karl Jaspers scriveva: "Diamo il nome di vere idee deliranti solamente a quelle idee deliranti che hanno la radice in una esperienza patologica primaria...mentre chiamiamo idee deliroidi quelle che sorgono, comprensibilmente...e che possono quindi psicologicamente essere derivate dalle emozioni, dalle pulsioni, dai desideri e dalle paure" (5). Queste poche righe di Jaspers si riferiscono alle constatazioni fenomeniche ed elaborazioni concettuali che hanno avuto come risultato di fondare la categoria del delirio sulla incomprensibilità della esperienza delirante per se.
"Comprendere" , o la sua controfaccia in negativo, sono divenute quindi parole-chiave della psicopatologia clinica. Il problema è tuttavia comprendere cosa comprendere vuol dire, vista la polisemia del verbo comprendere, che. per esempio, va da frasi del tipo “non comprendo questo teorema” a “mia moglie non mi comprende”. Fra i diversi possibili modelli ermeneutici del "comprendere" la tradizione psicopatologica si basa su un comprendere che cerca di ritrovare il mondo vissuto nella individuale esperienza, specialmente nella forma dell'esperienza, che può essere avvicinata sulla strada della identificazione con l’altro. Ed io preciso “sulla strada” perchè ogni identificazione completa è fenomenologicamente un mito: noi possiamo rivivere gli aspetti formali dell’attività mentale dell’altro, ma i contenuti ci resteranno sempre estranei in quanto irriducibilmente altrui. Ogni comprendere è quindi alla base un auto-comprendersi.
La tradizione psicopatologica porta il merito e la responsabilità di aver posto la doppia dicotomia comprendere vs. spiegare e comprensibilità vs. incomprensibilità proprio nel cuore della psichiatria; e con ciò continuiamo a dover fare i conti. Lo scacco del comprendere la forma nella quale si manifesta quel particolare modo del credere che è il delirio, resta un strumento euristico tuttora indispensabile per definirlo.
Questa impossibilità a comprendere dell’osservatore-partecipe ha valore conoscitivo se è un limite toccato continuando peraltro a cercare di comprendere. Il comprendere utilizzato dallo psicopatologo non si arresta quindi tanto presto, ed ha altri presupposti che il comune comprendere naif.
Kant scriveva che la sola caratteristica generale della follia è la perdita del senso comune e l’emergere di una eccentricità logica (sensus privatus). E così delineava la costruzione di un proprio mondo della dis-ragione, che a me ricorda l’idios kosmos illuminato dalla antropofenomenologia.
Dal punto di vista intersoggettivo ognuno di noi ha provato la improvvisa e dolorosa esperienza disgiuntiva che emerge in presenza del delirio: è una esperienza più netta che quella della irrazionalità ad esempio espressa in comportamenti stravaganti o enigmatici ritiri, dietro i quali uno può sempre sperare o illudersi di ritrovare motivi comprensibili. Ma chi soffre di delirio esplicitamente ci parla della sua alienità, utilizzando le parole e ciò radicalizza il nostro scacco. Il ricevente del messaggio delirante non può accogliere la comunicazione; se lo esamina dal punto di vista strutturale, ne scopre le modalità di pensiero estremamente individuali che sono alla base del convincimento delirante, quale la abnorme risonanza dei significati fisiognomico-simbolici degli oggetti, che eclissano i significati quotidiani e manipolabili degli oggetti. Quello che distingue il delirio dalla ossessività, nella quale pure può esservi una grande pregnanza dei significati simbolici, per cui ad esempio un coltello non è tanto uno strumento per tagliare il pane ma sulla sua lama brilla la aggressività, è , come si sa, la diversa posizione della persona nei confronti del proprio esperire.
Nonostante siano state da taluno contestate le ispirazioni husserliane della Psicopatologia Generale, Jaspers come Husserl è sul piano generale poco interessato al contenuto del delirio, perchè ogni registrazione del contenuto è solo uno strumento per la analisi fenomenologica delle caratteristiche formali e intenzionali che sono ubiquitariamente valide. L’elemento essenziale del delirio è in effetti non semplicemente un nuovo significato, ma un completamente diverso esperire. Gruhle (6) probabilmente ha fornito la formula più icastica per descrivere il delirio, dicendo che esso è la espressione di un rapporto di significato senza motivo. Dove “senza motivo” sottolinea la incomprensibilità.
Piuttosto che considerare il delirio quale una patologia dei significati o come speciale ed incomprensibile significato appoggiato su percezioni banali, come nella classica figura della “percezione delirante” mirabilmente analizzata da Schneider (7), noi possiamo cambiare la nostra prospettiva e considerarlo come una condizione basata su modificazioni gestaltiche della percezione stessa, per le quali "il significato abnorme è percettivamente incontrato quale parte integrale dell’oggetto", scriveva Matussek (8). Il delirio può anche esser visto come fondato su una modificazione atmosferica dell’incontro, sottesa dalla crisi dell’evidenza naturale, quale oscura coscienza del cambiamento del Sè, o dalla sproporzione fra impressionabilità e capacità di assimilazione, sproporzione che è per Blankenburg (9) presente nella percezione delirante, cosicchè ogni delirio diviene un enunciato sullo stato della mente. Ma, attraverso questi cambiamenti di prospettiva, non si supera, ma, forse, si rinforza la barriera del “primario”, dell’ “inderivabile” e dell’ “incomprensibile”.
Il delirio non può essere in alcun modo identificato attraverso la opposizione vero/falso del suo contenuto, non più che attraverso la troppo enfatizzata tenacia del convincimento. Tuttavia ci è sembrato (10) che i criteri per definirlo siano storicamente quasi inseparabili da quelli impiegati nella tradizione filosofica per definire la nozione di verità. La definizione che sostiene che la verità è una completa corrispondenza fra la rappresentazione e l’oggetto (veritas est adaequatio rei et intellectus) è la stessa che presiede alla intenibile definizione del delirio basata sul suo contenuto. La idea invece di verità come improvvisa rivelazione di un’essenza è collegabile, senza poter esser completamente riconducibile ad essa, alla definizione del delirio fondata sui suoi aspetti modali e sul concetto di esperienza delirante primaria. Queste definizioni e nozioni sono ben sostenute nella psicopatologia fenomenologica. Anche la descrizione della verità quale accordo intersoggettivo può essere rintracciata nelle psicopatologia antropologica, che considera il vero come dipendente dalla esistenza di un fondamento comune nella esperienza del mondo, o piuttosto dalla esperienza di un mondo in comune: all’opposto il delirio sigla la crisi del co-essere e sigilla il soggetto in un mondo suo proprio.
Ma infine la verità può anche esser definita, con Husserl (11), come funzione del modo con il quale essa è raggiunta, secondo cioè la costituzione fondante il suo significato. Ciò equivale a dire: la verità come funzione dell’atteggiamento epistemico del soggetto, un indice del quale può essere la possibilità della consapevolezza del soggetto di essere l’autore del suo orizzonte di verità. Il criterio valutativo è allora il livello di esperienza di attività dell’Io che può essere evocato nella costruzione dei significati sul Sè e sul Mondo. All’opposto, nel delirio noi constatiamo un oggettivo prevalere della passività, che può culminare in una sorta di Diktat del significato promanante dagli oggetti: cioè la irrecusabilità dei significati, la loro tendenza invasiva e la loro direzione, vale a dire il luogo esperito dal soggetto come l’origine dei significati. Tutto ciò caratterizza l’esperienza delirante, nella quale io non vado verso i significati, ma essi vengono verso di me. Noi troviamo cioè un prevalere della modalità passivo-rivelatoria nei confronti di una attiva costruzione, così rompendosi l’equilibrio dialettico fra l’ambito attivo della attribuzione dei significati e che cosa l’oggetto sembra dirci di se stesso. In altre parole, vi è nella normalità una tensione fra la maniera di appropriazione dei significati del mondo e la maniera di ricevere gli stessi. Ma, nella normalità, anche nella esperienza pre-riflessiva di recettività ai significati, la funzione costitutiva dell’Ego è nascosta ma tuttavia, nello stesso tempo, presente ed evocabile. E’ questo che da familiarità all’incontro con il mondo quotidiano e che mi permette di chiamare come mio lo stesso mondo.
L’aspetto fondante di questo incontro (variamente indicato, secondo il profilo studiato, come "coscienza di attività dell’Io" (Jaspers,1913-1959) o come "appartenenza all’Io (Meinhaftigkeit di Schneider,1965), o come "intimità dell’Io" (12), che fa sì che ogni processo psichico sembri essere una emanazione del soggetto e avere la caratteristica del “mio”, del personale e dell’inviolabile, non è gravemente in crisi soltanto nelle esperienze di influenzamento, ma può funzionare come un cursore che segnala le vicissitudini antropologiche fra prendere il mondo ed essere presi dal mondo. Fra, da un lato, l’assetto epistemico dell’evocabile coscienza di essere l’autore dei significati e, dall’altro, l’ambito del delirio che è anche esso la evanescenza della coscienza di attività dell’Io, segnando lo svanire della capacità dell’individuo di sentire i suoi convincimenti come propri.
Questa capacità di essere speculator sui sembra annientata nel delirante in quanto egli non può guardare al suo pensiero da un angolatura diversa, nè può collocarsi fuori di se stesso per domandarsi come questi pensieri sono costruiti e riferirli indietro a se stesso. Questo indica che non abbiamo a che fare con una posizione che egli può aver preso, ma più propriamente con una "rivelazione" (13). Una rivelazione non è qualcosa che io ho pensato, ma piuttosto una nuova ed essenziale verità che mi trafigge. Riproponendo il fondamentale concetto di Binswanger di "sproporzione antropologica" fra l’”altezza” della esperienza soggettiva (l’appello, contenuto in ogni esperienza delirante per un cambiamento della propria esistenza) e la “larghezza” della base della persona (14), a seconda che la persona sia in grado o no di afferrare, assimilare ed elaborare il vissuto di appello al cambiamento che si trova in ogni rivelazione. Da questo punto di vista il delirio mi appare essenzialmente come una chiamata alla quale il soggetto non è in grado di rispondere.
In ogni caso, i concetti di primarietà ed inderivabilità del delirio possono essere mantenuti sulla base della sua modalità rivelatoria, che se invece essi sono affidati al concetto della incomprensibilità, essi tendono a scivolare con lo slittare dei limiti del “comprendere”, spesso a seconda della consistenza, profondità e durata del rapporto con la persona del delirante. Una questione fondamentale è invero come ci rivolgiamo ad un testo che vogliamo comprendere; il tipo e la continuità della relazione modula il livello di comprensione. Mi sembra certo che ad un primo momento nel quale riceviamo le esperienze deliranti segue un movimento di distanziamento che ci permette di definire queste esperienze in base alle loro modalità formali o alla sfere di esistenza in senso ontologico. Ma se la relazione dura e il legame reciproco tiene, è inevitabile che si passi dal piano strutturale al piano esistenziale, spostando l’attenzione alla interiore ed esterna storia di vita. E’ sotto questa luce che la distinzione di Jaspers fra "comprendere statico" e "genetico" è essenziale.
Infatti, una cosa e analizzare la altrui modalità di esperire nell’ hic et nunc , un’altra è delineare e sentire il legame fra queste esperienze e il fluire dell’interiore percorso della persona; la ricerca, cioè, di un sentiero di personale significato al di là del senso impersonale. E’ evidente che il criterio della incomprensibilità è massimalizzato nella prima situazione, e che invece il tipo e continuità del rapporto emerge nella seconda come una variabile fondamentale.
E’ del resto su questo piano che si pose la analisi epocale di Kretschmer (15) sul "delirio sensitivo", analisi che ci è sembrata (16) più delineare un possibile modello di approccio al delirio che identificarne una variante nosografica.
La possibile, impossibile, o parzialmente possibile coniugazione fra sequenze di esperienza e specifiche modalità dell’esperire, può essere considerata, con Minkowski, come il problema centrale della psicopatologia del delirio.
La dialettica fra comprendere “statico” e “genetico” era presente fin dall’inizio della psicopatologia jaspersiana, e questa dialettica, che mi appare come un segnale di vitalità culturale, fa essere la linea del comprendere più simile ad uno spazio da praticare che ad un confine netto.
Dobbiamo concludere che l’opposizione comprensibile versus incomprensibile è in via di scomparire dall’orizzonte del delirio? Io non lo penso. Penso piuttosto che la articolazione fra questi due criteri è in psicopatologia assai più complessa di una semplice dicotomia. Essi sono in definitiva strumenti mentali dello psichiatra, e se non vogliamo perdere il contatto con la concretezza del delirante, il comprensibile e l’incomprensibile debbano esser posti più su di un piano dimensionale che categoriale.
Può darsi che la nota di rassegnata indolenza che è sembrata colorare il criterio della incomprensibilità abbia talora intralciato la possibilità di contattare le isole di comprensibilità nel rapporto con il delirante. Tuttavia il fatto di non riconoscere e soffrire i limiti impostici da esperienze formalmente incomprensibili ci può far scivolare verso un "come se" comprendere, che sovente è solo uno spiegare, che tende a minimizzare la dimensione tragica che sempre appartiene al delirio.
Il tema della "incomprensibilità" che Jaspers pose quale unica identificabile caratteristica della forma delle esperienze psicotiche, e principalmente degli autentici fenomeni deliranti resta nell’ambito della psicopatologia clinica un parametro che non si può eludere, con il quale dobbiamo fare i conti. Non si può ignorarlo ma si può, e forse si deve, elaborarlo facendo progredire l’indagine su altri piani. Uno di questi è prefigurato dallo stesso Jaspers nel “comprendere genetico”, nella attenzione cioè al fluire dei vissuti nella biografia interna ed esterna della persona. Ciò non farà scomparire la impossibilità di rivivere come nostra una “forma” dell’esperire psicotico, ma metterà questo punto fra parentesi, di sfondo, rispetto alla comprensione che investe i temi che sostanziano la visione del mondo psicotica e le situazioni attraverso le quali quella esistenza è trascorsa, intendendo le situazioni non tanto come accumulo di eventi, ma come una continua tranche del mutevole rapporto Io-Mondo.
Oppure si può abbandonare deliberatamente il piano dell’esperienza naturale a favore di una illuminazione eidetica rivolta al " “chi è”, il “come è” il “mondo in cui è” (si progetta) un dato essente" (17). Con ciò però consapevolmente lasciando l’area clinica della psichiatria, ed inevitabilmente adottando non una trama filosofico-epistemica di riferimento (che è sempre presente, che il ricercatore ne sia consapevole o no), ma una teoresi sulla globalità dell’essere umano. "La coscienza metodologica - scrive Jaspers (18) - ci tiene pronti di fronte ad una realtà sempre nuova che dobbiamo cogliere. La dogmatica dell’essere ci chiuderebbe in un sapere che si pone come un velo avanti alle nuove esperienze". Per Jaspers la totalità dell’essere umano non può costituire l’oggetto di una conoscenza scientifica (19), nè la patologia ricondotta a uno o pochi aspetti (ad esempio, la “temporalità” o la “spazialità”). L’uomo ammalato è sempre di più e di altro della più accurata analisi psicopatologica. Il grande respiro spirituale di Jaspers è anche in questa consapevolezza sistematica dei limiti del conoscere, della provvisorietà dell’orizzonte di verità della psicopatologia, sempre superata e superabile, per cui, nonostante il metodo psicopatologico sia teso a fondare una scienza “oggettiva” (nel senso della comunicabilità e trasmissibilità) del “soggettivo”, lo psichiatra formato alla sua lezione non sarà liberato dallo stupore e di fronte al singolo malato si ritroverà sempre nella posizione dell’”eterno debuttante”, come Husserl indicava per il fenomenologo.



NOTE

(1) Jaspers K. (1913 - 1959) Psicopatologia Generale. Il Pensiero Scientifico, Roma 1965, p.8

(2) Ivi, p.2

(3) Ivi, p.23

(4) Ivi, p. 24

(5) Ivi, p.115

(6) Gruhle H.W., Jung R., Mayer-Gross W., Müller M. (a cura di) Psychiatrie der Gegenwart. Luxusausgaben Rekord, Vaduz 1969

(7) Schneider K. (1965) Psicopatologia Clinica. Città Nuova, Roma 1983

(8) Matussek P. Untersuchungen uber die Wahnwahrnehmung. pt.1, Mitteilung, Arch. Psychiat. Nervenk. 189, 279-319, 1952

(9) Blankenburg W. (1965) Phenomenologie différentielle de la perception délirante. L’Art du Comprendre, 3, 47-83, 1995.

(10) Stanghellini G., Ballerini A. Ossesione e Rivelazione. Bollati Boringhieri, Torino 1992; Ballerini A., Stanghellini G. Obsession et révélation. L’Evolution Psychiatrique 58, 4, 743-756, 1993.

(11) Husserl E. (1901) Ricerche logiche. Il Saggiatore, Milano 1968

(12) Minkowski E. (1968) Trattato di psicopatologia. Feltrinelli, Milano 1973

(13) Kraus A. Schizo-Affective Psychoses from a Phenomenological-Anthropological Point of View. Psychiat. Clin. , 16, 265-274, 1983

(14) Cfr. Binswanger L. (1956) Tre forme di esistenza mancata. Il Saggiatore, Milano 1964.

(15) Kretschmer E. Der sensitive Beziehungswahn. Springer, Berlin,1918

(16) Ballerini A., Rossi Monti M. La vergogna e il delirio. Bollati Boringhieri, Torino, 1990.

(17) Cargnello D. Alterità e Alienità. Feltrinelli, Milano 1966

(18) Jaspers (1913-1959), p. 45, op.cit.

(19) Ivi, p.586


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